Casa Giulia Grignani

Scrivo romanzi gialli, poesie, fiabe... disegno e faccio fotografie. Mi trovate su tutti i social come Giulia Grignani o Casa Giulia Grignani.

Giulia Grignani OMICIDIO AL MANIERO La seconda indagine di Giada Rubino Pontecorvo Romanzo Giallo Amazon.it

PROLOGO

Albese, 274 d.C.

Aveva lasciato il contingente di cui faceva parte in Gallia, in quell’estremo baluardo di frontiera lui e i suoi compagni, quasi tutti veterani, avevano combattuto contro le orde barbariche che avevano osato sfidare l’impero, certo non avevano partecipato a imprese memorabili, ma si erano comportati valorosamente sconfiggendo i nemici permettendo così l’espansione dei confini. Aurelio Proculo, soldato di Roma della I legione Minerva, durante una di quelle sanguinose battaglie era stato gravemente ferito al fianco. Non potendo più essere utile in combattimento aveva preso congedo dall’esercito e ora stava tornando a casa. Prima però doveva portare a termine un’ultima missione, avrebbe tenuto fede alla promessa che era stato costretto a fare. Quella notte la luna era parzialmente coperta dalle nubi e si vedeva a mala pena, ma Aurelio doveva finire quello che aveva cominciato, perciò colpì forte con il coltello più e più volte, fortunatamente il terreno era abbastanza friabile. Continuò a scavare aiutandosi anche con le mani, la buca doveva essere abbastanza profonda per poter nascondere il sacchetto di monete che l’uomo, trovato agonizzante sulla strada, gli aveva affidato. Qualche giorno prima percorrendo a cavallo un sentiero poco battuto che si snodava attraverso la boscaglia, indicatogli come via più veloce per raggiungere il fiume Adda, s’imbatté in un gruppo di persone. Fermatosi a una certa distanza per non farsi scorgere scese da cavallo e si nascose dietro la folta vegetazione. Non riuscendo a capire che cosa stesse succedendo avanzò silenziosamente sempre attento a non farsi scoprire. Un uomo cercava, con scarso successo, di trattenere per le briglie un cavallo recalcitrante, vicino a lui il compare sporco di sangue continuava a inveire contro l’amico e la bestia. I due presi a domare il destriero, che si agitava inquieto, non si accorsero della presenza del soldato romano. Aurelio si avvicinò ulteriormente e quando vide l’uomo riverso a terra estrasse la spada dal fodero. Non ci pensò due volte a intervenire lanciandosi all’attacco con la lama sguainata. Combatté contro uno degli assalitori poiché l’altro era impegnato a trattenere l’animale. Fu facile per il soldato avere la meglio e con un ultimo affondo riuscì a ferirlo in modo non grave a un braccio. L’altro malintenzionato, visto ciò che stava succedendo, pensò bene di darsela a gambe, saltò in groppa al cavallo e scappò in preda al panico nel fitto della vegetazione; Aurelio, in quegli attimi concitati e frenetici e distratto dalla mossa del secondo nemico, non si avvide che quello che aveva ferito, approfittando della situazione, si stava allontanando in tutta fretta nella direzione opposta. Aurelio lo inseguì per un breve tratto, ma l’intricata boscaglia e soprattutto la ferita al fianco, non ancora del tutto guarita, ebbero la meglio e a lui non restò che desistere. Tornò indietro per prestare soccorso alla vittima dell’aggressione, avvicinandosi si rese conto della gravità in cui versava l’uomo: respirava a fatica, era chiaro che stava morendo, non restava altro da fare che rimanergli accanto in quegli ultimi momenti d’agonia. Osservandolo notò che indossava abiti di ricercata fattura, probabilmente si trattava di un ricco mercante; nelle vicinanze però non c’era neanche l’ombra di un servitore, il soldato pensò che forse il vile se la fosse data a gambe al primo accenno di pericolo. Reputò poco saggia la decisione dell’uomo di viaggiare da solo, se avesse avuto più buon senso si sarebbe aggregato a qualche convoglio per evitare il rischio di essere derubato. Il carro, fermo poco distante, era desolatamente vuoto, nella migliore delle ipotesi il mercante era riuscito a fare una buona vendita, ma in quel caso la fortuna non gli aveva di certo arriso.
Riportò l’attenzione sull’uomo morente, aveva i capelli grigi, parecchie rughe sul viso ed era abbastanza vecchio da poter essere suo padre. A un tratto il mercante aprì lentamente gli occhi e a fatica cercò di parlare, Aurelio gli prese la mano per trasmettergli un po’ di conforto, l’uomo dopo qualche tentativo e facendo uno sforzo immane flebilmente riuscì a dire «…mi chiamo Valerio Metronio… porta questo sacchetto alla mia famiglia…» poi la voce si fece poco più di un sussurro «…passa il fiume… dieci giorni di cammino…» infine in un rantolo aggiunse «…ti prego» dopodiché spirò. «Lo farò» disse il soldato romano non sentendosi di rifiutare quell’ultima richiesta. Gli chiuse gli occhi e sebbene non avesse attrezzi per scavare una fossa trascinò il corpo nella boscaglia cercando comunque di dargli degna sepoltura. Lo tumulò ricoprendolo di pietre per evitare che le bestie selvatiche potessero sbranarlo, poi pregò gli dei che l’accogliessero nei Campi Elisi. Terminato il triste compito aprì il sacchetto di pelle che aveva recuperato dal cadavere e vide che era pieno di monete, ne contò più di mille, erano tutte d’argento e di rame; le sue supposizioni trovarono così conferma. Per questo Aurelio stava scavando a mani nude nel terreno, per tenere fede alla parola data. Era sempre più convinto che fosse stato il fato a farli incontrare, probabilmente faceva tutto parte di un disegno molto più grande a lui incomprensibile. Quello stesso giorno era arrivato in un villaggio vicino alla riva dell’Adda costituito da case e conglomerati di capanne, purtroppo la ferita al fianco aveva ricominciato a dolere e aveva bisogno di cure, perciò aveva deciso di fermarsi a riposare. Fortunatamente aveva trovato posto per dormire in una locanda. Osservando gli avventori del locale e sapendo che la campagna si trovava in territorio ostile, dove le scorrerie di feroci e disperati uomini dediti al saccheggio erano all’ordine del giorno, decise di cercare un luogo isolato dove nascondere il tesoro che gli era stato affidato: la rupe e il fiume sarebbero state le coordinate ideali e necessarie per poterlo recuperare in seguito. Mise il sacchetto di pelle nel terreno e ricoprì la buca. Prima di tornare alla locanda scese verso l’argine del fiume per dare un’occhiata, doveva accertarsi che esistessero punti d’approdo per poterlo attraversare. Se voleva raggiungere il villaggio della famiglia di Valerio Metronio avrebbe dovuto proseguire per la strada che si snodava oltre il fiume e ci sarebbero voluti dieci giorni di cammino, stando a quello che gli aveva detto l’uomo negli ultimi momenti d’agonia. Completata la missione sarebbe tornato in quel villaggio; il posto non era male e la figlia dei proprietari della locanda gli piaceva parecchio, era una donna giovane, graziosa e soprattutto procace, l’avrebbe chiesta in moglie così finalmente avrebbe messo su famiglia. Certo che quei mille denari d’argento e di rame gli avrebbero fatto proprio comodo, purtroppo la misera paga da soldato non gli aveva permesso di mettere via molto e la tentazione d’appropriarsene era forte, ma lui era un uomo di parola e di sicuro non era un ladro. Si avventurò lungo la sponda verdeggiante d’arbusti proprio dove il fiume faceva un’insenatura, proseguì addentrandosi nella boscaglia tra la fitta e intricata vegetazione. C’era parecchia umidità in quel luogo e una leggera foschia si alzava dall’acqua lungo l’argine. Da lontano sentì il grido di una civetta, lo considerò come un presagio di morte, forse il destino stava per presentargli il conto, il solo pensiero lo fece rabbrividire. Continuò a procedere facendosi largo tra gli arbusti spinosi nonostante i rovi che gli graffiavano i polpacci, i calzari chiodati da soldato, decisamente utili in battaglia, non lo proteggevano affatto. Si fermò, in quel momento sentì un rumore di rami spezzati e un frusciare di foglie… non era solo. Tre figure sbucarono dal buio sbarrandogli il passo, a quell’ora della notte potevano essere solo briganti, Alemanni forse, la loro superiorità numerica era un grave svantaggio, tenuto conto che era anche ferito. Quello era proprio il posto ideale per un’imboscata e lui era stato tanto stupido da non averci pensato. «Dove credi di andare?» l’apostrofò l’uomo con la cicatrice sul volto. Non rispose, non scappò, un soldato romano non indietreggiava, non fuggiva di fronte al nemico. Con i sensi allertati, la spada nella mano destra e il pugnale nella sinistra era pronto a sferrare l’attacco. Li scrutò con attenzione per capire da che parte potesse venire il maggiore pericolo. «Non lo sai che c’è un pedaggio da pagare se si vuole attraversare il fiume?» lo minacciò uno dei tre mettendo mano al pugnale. «Non ho denaro con me.» «Questo lo vedremo.» «Sono un soldato di Roma.» «Soldato, se cercavi rogne le hai trovate» disse il brigante senza una mano. Aurelio fece un passo avanti brandendo la spada, gli aggressori indietreggiarono, prese fiducia pensando che forse avevano timore per ciò che lui rappresentava, purtroppo però non si avvide dell’uomo che gli era sopraggiunto silenziosamente alle spalle mentre gli altri compari avevano il compito di distrarlo. Il quarto assalitore lo colpì violentemente sul capo con un bastone, il soldato sentì un forte dolore, all’improvviso tutto si fece buio, crollò a terra con un gemito mentre la vita l’abbandonava. Il colpo mortale, inferto con violenza, gli aveva fratturato il cranio. L’infausto presagio si era avverato. Il brigante che l’aveva ammazzato lo girò e cominciò a frugarlo in cerca di monete, ne trovò alcune. Un magro bottino per una vita spezzata. All’improvviso sentirono dei rumori. «Presto sbrigatevi, sta arrivando qualcuno.» Uno dei complici prese la spada che Aurelio teneva ancora nella mano. «Il coltello, aveva anche un coltello, ma dove è finito?» «Dai scappiamo, non c’è più tempo.» Lo lasciarono sul terreno privo di vita. Il corpo nascosto tra i rovi, il coltello, che era caduto lì vicino, rimase sotto a un cespuglio e un paio di monete dimenticate dagli assalitori finirono poco distante tra la vegetazione. Un cane si avvicinò ad annusarlo, poi più nessuno si curò di lui.

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BENVENUTI AL GETSÈMANI

“L’anima mia è addolorata a morte: trattenetevi qui e vegliate.” (Marco, XIV – 32)

Il sipario lentamente s’apre sull’incontaminata natura che ignara non s’avvede dell’uomo che cammina tra gli ulivi. Sospira e prega. È Gesù. I rami contorti degli alberi gli ostruiscono la visuale, forse incespica tra le radici, ma si risolleva, raggiunge uno spiazzo senz’alberi e si ferma, contempla per un’ultima volta la bellezza creata. Una mano al volto per asciugare una lacrima solitaria che rotolando solca l’angoscia e le preoccupazioni. Dove volge lo sguardo nella notte? Osserva il cielo fatto di stelle? Orione, Sirio, Cassiopea… La luna illumina l’imponenza del Tempio di Gerusalemme… quanto dispiacere Gesù porta nell’animo a causa del dio denaro simulacro d’estrema cupidigia. Fatto qualche passo, in quel posto che ben conosce, trova un masso e sedutosi si mette ad ascoltare. Sente lo scorrere impetuoso del torrente Cedron, in quel luogo dove tutto il resto tace. Un ribollir che rimbomba al ritmo accelerato del suo cuore. Solo l’aria è immota e fremente nell’attesa carica del peso dell’esistere che ammanta l’animo d’enorme dolore. Ecco la scenografia è pronta, la natura indifferente ha svolto il suo preciso compito tra la quiete che fa da sfondo all’addormentato Orto degli Ulivi fulcro dell’importante snodo, crocevia del libero arbitrio, di una scelta che vede i principali attori: Nostro Signore e l’Apostolo Giuda, muoversi sull’inaspettato, decisivo proscenio affinché ogni cosa possa compiersi. Terminata la Cena, l’Ultima purtroppo, Gesù si è recato in questo podere che è di proprietà di un amico, com’è solito fare per ritirarsi in preghiera seguito dagli amati Discepoli. Con il passare delle ore i compagni pian piano si sono addormentati, cullati dalla tranquillità del luogo e dal fascino scontroso della notte, ignari di quel che sta per accadere. Nostro Signore è qui, nel Getsèmani, e così lo immagino: la pelle ambrata bruciata dal sole, i capelli corvini lunghi e ondulati, con la barba, gli occhi intensi e scuri a far lo sguardo serio e severo su un volto decisamente affilato e duro. Brusco nei modi e nella parola, determinato, concentrato nel riflettere, rassegnato nella fine, all’elevato sacrificio che lo attende. È un uomo e ha paura. Paura di un destino che si deve compiere, per forza e purtroppo, perché il Padre così ha deciso, ha stabilito che Suo Figlio dovrà morire, un estremo sacrificio che dev’essere compiuto anche per il bene di chi non se lo merita. Un Figlio, un uomo diverso dagli altri proprio per la sua bontà. Triste, disperato in quelle ore d’abbandono, d’angoscia e d’agonia. Solo, solo tra la gente che non l’ha compreso, solo nella disperazione di giorni bui, solo nella desolazione di una vita fatta di discorsi che portano bontà inconcepibile però all’umana gente. Povero tra i poveri, ultimo tra gli ultimi, scartato da chi, perso tra egoismi fratricidi e accecato da insormontabili cattiverie, bieche meschinità e latenti avidità, non gli ha permesso di continuare a insegnare l’amore. È sempre stato tra loro, le parole inascoltate, travisate. Un uomo di carne e sangue, ma non l’hanno voluto vedere, miopi, ciechi di fronte all’Altissimo, all’Alfa e all’Omega, all’inizio e alla fine di tutte le cose. Sono gli ultimi momenti di libertà, ora si è inginocchiato vicino a quella pietra, prostrato nel buio con gli occhi lucidi, lo sguardo perso e con la paura che gli attanaglia il cuore, prega, prega Suo Padre che sembra proprio averlo abbandonato. Non gli resta che un’unica cosa da fare: accettare la Passione. Ci vuole coraggio, un’incredibile forza d’animo, sospira e con voce che par quasi un sussurro dice:

“…Padre, è giunta l’ora…” (Giovanni, XVII – 1)

Da dietro le quinte, dal buio che ammanta la notte arriva l’Apostolo designato: Giuda, non è solo, un manipolo di soldati è con lui, le armature e le spade mandano bagliori alla luce della luna. Giuda gli si fa vicino, lo bacia sulla guancia ispida, è il culmine della scena, l’atto conclusivo, è il segno del tradimento. L’Iscariota dal volto arcigno segnato dal destino e dalla bramosia profonda si fa menzognero tra le ombre che a fatica e controvoglia nascondono il vil gesto. Preso da quel voler per sé ciò che è profondamente indegno abbassa infine lo sguardo sui trenta miseri denari che lo fan schiavo condannandolo per sempre all’ignominia. Quale sguardo si scambiano? Sicuramente intenso, carico di significati, occhi negli occhi, in quelle pozze nere e profonde. Che cosa vedono? Giuda che cosa comprende? La decisione è dettata dall’avidità o sa d’esser stato scelto per mandare a morte il Figlio di Dio perché tutto si possa avverare? Gesù prende definitivamente atto del suo atroce destino? Riesce a vedere la cattiveria, la cupidigia negli occhi dell’Apostolo oppure vede la tristezza per essere costretto a sacrificare l’Agnello di Dio all’umano bene? In quel Getsèmani, che si fa teatro di un dramma, i due uomini si sono capiti e perdonati? Questo mi chiedo dopo tanto riflettere. La risposta è sì, credo proprio di sì, perché il bene portato è ciò che fa da sfondo alla triste, inumana e ingiusta storia. Ed è così che il sipario si chiude sul fulcro delle scelte facendosi snodo tra le fronde nodose degli ulivi, su una vicenda che si perde nella notte dei tempi, ma che al contempo si fa vita d’ogni giorno ricordando che l’amore è un dono e a volte purtroppo anche sacrificio. E quel teatro è lì, è lì che aspetta, accessibile a chiunque, ciascuno può aprire il sipario e ognuno può riscrivere e ripensare a ciò che nel Getsèmani è avvenuto, può sentirlo nel proprio animo perché è una scelta, si tratta sempre di una scelta.

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IL MONACO

Il monaco passeggiando nell’ampio chiostro tra scorci di silenzio e attimi di tranquillità calpestava con estrema reverenza le sacre pietre posate per i religiosi calzari succedutisi nel tempo. L’elevarsi a Dio della solenne architettura s’imponeva nella storia d’antiche vicende.
Il cistercense, vestito di saio e incenso, raccolto il rosario nelle mani e con ai piedi semplici calzari, sacrificava la sua devota esistenza fatta di povertà e di preghiere alla gloria dell’Altissimo. La solitudine di vita contemplativa e le lente e cantilenanti litanie a scandire il tempo erano le compagne in dono ricevute dalla chiamata celeste. Camminava il frate con lo sguardo puntato al turchino cielo perdendosi tra guglie lavorate e pregiate colonnine con il solo pensiero fisso nella mente di poter raggiungere in un dì d’eternità cherubini e serafini tra ovattate nuvole di candido biancore; il chiostro, inondato da raggi di sole a illuminare tanta beltade, permetteva a lui, nello spirituale raccoglimento, di rendere gloria all’Onnipotente. Il monaco, con il passo leggero nella mente, al suono della campana nel battere dell’ora nona, si riscosse. Sopraggiunta la chiamata di dovere a rischiarare di redenzione la spirituale vita, che di solenni riti fa devozione, accelerò il passo e recatosi nella chiesa di gran fretta s’inginocchiò davanti all’altare mettendosi in preghiera.

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Giulia Grignani IL PICCO DEL DIAVOLO La terza indagine di Giada Rubino Pontecorvo Romanzo giallo Amazon.it

PROLOGO

Ponteselva, ottobre 2019

La luna alta nel cielo, l’impervia salita, il rumore tumultuoso del torrente a fondo valle e il salmodiare incomprensibile e minaccioso lo stavano accompagnando verso la morte. L’uomo continuava a camminare, spesso incespicava sul terreno roccioso e irregolare, faticava a distinguere il sentiero, inoltre ci vedeva a malapena a causa delle lacrime che gli riempivano gli occhi. Numerosi diavoli dal feroce ghigno satanico vorticavano attorno a lui in un turbinio di ali e orrende e malefiche streghe cercavano d’irretirlo con i loro abominevoli sortilegi. Quello era un incubo terribile dal quale sperava di svegliarsi al più presto. Il mondo era come impazzito, tutto era assurdo e irreale; non poteva credere che stesse capitando proprio a lui. Non voleva morire, non in quel modo comunque. Non riusciva a pensare con lucidità, aveva l’affanno e il respiro corto e batteva i denti per la paura. Aveva una vita intera da vivere e ancora tanto da fare: studi, ricerche, posti da vedere, non poteva andarsene così. Non aveva dato ascolto alla ragione, la sua mancanza di prudenza, la sua superficialità, la sua sete di conoscenza lo avevano portato a quel fatale momento, non c’era più speranza. Gli era stato detto che il sacrificio doveva essere compiuto, lui era la vittima. Quelle parole gli avevano fatto gelare il sangue nelle vene, la sua condanna a morte era stata firmata, non restava che attendere la fine tremenda che l’aspettava; l’atto sacrilego e blasfemo alla fine sarebbe stato compiuto, che lui lo volesse o meno. Cose terribili stavano accadendo, cose inenarrabili; gli sembrava di trovarsi in uno dei gironi dell’inferno dantesco dove le anime dannate bruciavano per l’eternità. La punizione divina avrebbe dovuto abbattersi su quel luogo di perdizione; il Picco del Diavolo insieme con l’Abbazia di Ponteselva, avrebbero dovuto essere cancellate per sempre dalla faccia della terra dalla possente mano di Dio. Nel frattempo però qualcuno avrebbe dovuto fermare quell’orrore, quel delirio, quella pazzia. Forse non tutto era perduto, forse c’era ancora una speranza, una persona sulla quale fare affidamento, un vecchio amico dei tempi dell’università, ma era solo un’illusione. Giorgio Rubino avrebbe letto i suoi appunti? Che cosa avrebbe pensato: che fosse impazzito? Che quell’oscuro segreto che aveva celato tra le pagine dei suoi scritti era solo il frutto di una mente malata? Che si era inventato tutto pur di attirare l’attenzione su di sé? Per dare risalto al suo nome? Per vendere più libri? Chissà se avrebbero ritrovato il suo corpo? Qualcuno avrebbe creduto a quella assurda verità troppo difficile da raccontare, figuriamoci d’accettare? Arrivato sulla sommità del Picco del Diavolo, davanti a quella che gli sembrò essere la porta degli inferi, il cantilenante salmodiare cessò, poi un silenzio carico di morte aleggiò nell’aria, l’uomo tremava per il freddo e per la paura, chiese perdono e l’assoluzione per i peccati commessi, infine venne spinto con forza verso il baratro, i piedi persero la presa sul terreno e precipitò nel vuoto. Un urlo disumano accompagnò la caduta, quando si sentì il rumore sordo dello schianto del corpo sulle rocce e i lenti rintocchi della campana dell’abbazia situata lì vicino suonare a morto, la lamentosa litania riprese fino a perdersi nella notte. Le acque gelide e tempestose del torrente Bondone lavarono via il sangue dell’estremo sacrificio; l’ira del dio funesto finalmente era stata placata, tutto era ormai compiuto e l’oscuro segreto sarebbe rimasto custodito per sempre...

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ANGELI

Angeli, creature celesti dalle impalpabili ali delicati come farfalle. Esseri soprannaturali fatti di luce, prisma di colori presi a prestito dall’arcobaleno. Essenza di bontà, compassione e gentilezza. Spiriti gioiosi che danzano volteggiando al suono dell’infinito universo rincorrendosi fra le selle. Voci argentine in armonia di suoni, soavi melodie che si diffondono nell’immensa volta celeste, sublime incanto ed estasi dei sensi. Dolci sorrisi che scaldano il cuore, avvolgenti abbracci che proteggono, un amore sconfinato che rincuora perché non chiede nulla in cambio. Un sogno, un’idea, un’impressione che accompagna lungo il percorso dell’esistenza, che fa bene all’anima, che allevia il cuore e che dona serenità allo spirito. Questo immagino siate voi Angeli Celesti.

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IL PORTALE

Un giorno come tanti, un giorno buono per portare a spasso la vita, per trascorrere momenti senza dare adito a pensieri, mi ritrovo immersa in secoli di storia; decido di fermarmi. Davanti a me si stagliano nella loro magnificenza sedici bianche colonne, dedicate a San Lorenzo, vestigia d’antico splendore e dal fascino millenario al tempo di Mediolanum capitale. Alzo gli occhi al cielo per incontrare quella maestosità sentendomi piccola nella mia umana imperfezione, insignificante al solo pensiero di chi fondò le civiltà del mondo. Osservo il colonnato prendendomi il mio tempo con la calma che permette alla mente di capire e agli occhi di vedere. Al centro delle colonne c’è una sorta d’apertura, in quel preciso momento si fa luogo d’entrata verso qualcosa che non dovrebbe essere, sembra un passar di porta che forse al nulla conduce. Mi avvicino, appare come un deforme specchio, mi guardo attorno per vedere se qualcun altro se n’è accorto, ma la gente passeggia incurante, ignara di quel che sta accadendo. Stranamente nessuno fa caso a me e a quella cosa apparsa immantinente. Solo io la vedo? Possibile? Sono forse quegli strani sogni a occhi aperti, oppure quelli soliti concessi da Morfeo? O potrebbe forse essere un’evasione inventata dalla mente a destare preoccupazione? Non so che cosa fare, vorrei chiedere aiuto, ma il coraggio mi viene meno, perciò rimango lì ferma, immobile allo sguardo, indecisa sul da farsi in balia d’incontrollabili eventi. Tergiverso basita nel timor panico che inspiegabilmente dilaga attratta comunque da ciò che mi si è parato innanzi. Ma che cos’è? Non capisco, sembra quasi un portale spazio-tempo. Le certezze vengono meno se di fiducia in se stessi si tratta. Decido di fare un respiro profondo che immancabilmente non dà alcun frutto, certe idee si sa, se non sono supportate da un credo, non danno risultato alcuno, perciò, con tutta la tensione di cui sono capace faccio qualche passo e mi avvicino alla strana apparizione. Tendo la mano con l’intenzione di toccare quel che a parere mio ha l’apparenza di un informe vetro, la superficie, un po’ opaca e un poco trasparente, è mutevole di forma, sembra inquieta, mi viene quasi da pensare che non sia soddisfatta di sé. Mi specchio deformandomi, inseguendo visioni distorte che per niente appagano il mio stato. Decido di toccare. Nell’esatto punto del tocco immediatamente s’allargano innumerevoli cerchi concentrici come goccia che cade nell’acqua e d’imperitura forza ondeggiando avanza. Incantata, incredula e alquanto impressionata rimango in silenzio e osservo. Al tatto non ho sentito nulla. Come spiegarlo? Com’è fatta questa cosa che all’apparenza sembra impalpabile niente? Perché apparire proprio davanti a me? Lo specchio sembra chiamarmi, mi attrae, ancora una volta non mi tiro indietro, mi faccio coraggio e varco il passo. Il senso del perdersi nell’aria immota, quasi lattiginosa, mi destabilizza sgretolando rimasugli d’esigue certezze. È un salto nel buio, nel consapevole timore del non tornare, ma con la speranza e il desiderio di sapere, di poter vedere l’ingombrante e scomodo passato troppo spesso opportunamente dimenticato. Un dono dunque. Cerco risposte alle mille e più domande sul creato e sul privilegio dell’esistere. Spero di poter osservare il tempo nel suo evolversi e nel costante dipanarsi. Strano questo retrocedere lento che pare quasi immoto, osservo il ritorno delle lancette dell’ora e quelle dei minuti, non lo percepisco questo ripensamento dell’incedere. Dimentica d’impossibilità preconcette grata accolgo il diverso e inusuale che mi attende e che cede il passo all’eccezione portando in palmo di mano il seducente e inquieto ignoto. Com’è strana la misurazione di stelle e giri di pianeti, del battere e levare del cielo e degli astri che fan di vita l’uomo. Tempo, entità astratta priva di materia, ma credibile metamorfosi che in vecchiaia avanza. Così ritorno all’antico, al tempo lontano, che pare quasi battito di ciglia, tempo che si fa tempo. Il mio sguardo da attonito muta attento, da timoroso diventa audace, la mente trepida nel vuoto che ovatta nell’attesa d’esistenza aspettando ciò che potrà essere in corsi e ricorsi rincorrendo eventi. Il nulla sembra nulla, ma in un modo che colma e in un silenzio che pare lontananza. Sa d’abbandono questo spazio-tempo. Mutevole l’opaca trasparenza risulta ancora impalpabile, m’impressionano i prismi di colore, i bagliori di luce e le oscure ombre che inquiete avanzano facendosi tormento. La realtà travalica la ragion d’essere del mutevole tempo ordinario. Interessante questa smaterializzazione di confini in un evadere che sa d’infinito silente e d’ignoto deforme. Vacillo nell’attimo stesso di un ripensamento, poi però la brama di sapere si fa pressante invadendo cuore e ragione facendosi esistenza che già mi appartiene. Procedo in timorosi passi, lasciandomi levitare in leggerezza, come in etereo sogno dimentico me stessa in un rilassamento di corpo e mente. Improvvisamente tutto si dipana come impalpabile nebbia che si scioglie scomponendosi e disvelando immagini che si fanno storie di passato. Un muro di basse case intonacate in bianco appare dal nulla e mi ritrovo fuori dallo spazio-tempo in una stretta via di pietra lastricata. Dove andare? Osservo inquieta, forse a mano manca? All’improvviso da quella parte uno scalpitare di zoccoli avanza vorticosamente rimbombando feroce sul selciato. Un uomo a cavallo lanciato arramba senza intenzione alcuna di fermarsi. Faccio un passo indietro cercando di sottrarmi al furore del galoppo, percepisco l’intento dell’uomo di travolgermi nell’implacabile indifferenza della vita umana. I miei passi retrocedono nella paura in cerca di salvezza ed ecco sono di nuovo nel portale, inghiottita nell’ignoto senza possibilità alcuna di sapere, di conoscere ciò che è stato. Fortunatamente nella nebbia ritrovo l’equilibrio evitando di cadere. Palpita ancora il cuore nella gola, mi faccio forza avanzando di alcuni passi, mi perdo, per un attimo, ma già sono fuori nel mio tempo, quello familiare. Osservo le colonne che fanno da spalla al traffico di una città in veloce mutamento, nessuno sembra accorgersi di nulla, nessuno mi guarda. Ritorno in me. Sollievo, delusione e rimpianto d’occasioni perse s’affacciano sul mio animo al triste evaporare di un sogno. Mi volgo a osservare nuovamente il portale per cogliere un’altra occasione, non c’è più tempo, scomparso, dissolto come neve al sole ben attento a non lasciare traccia! Non saprò mai se fu onirico sogno o desiderio d’evasione o forse più semplicemente un’opportunità che nel bel mezzo della vita non ho saputo, potuto, voluto cogliere.

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LA VIA DELLA SETA (…e di tutti i miei vorrei)

Vorrei viaggiare verso luoghi lontani, esotici, attraversare regioni e territori inesplorati. Vorrei percorrere le rotte carovaniere della Via della Seta e della Via dell’Incenso; antiche rotte commerciali: punti d’incontro di civiltà, mescolanze di lingue, usanze, tradizioni e religioni. Vorrei vedere ciò che resta delle antiche città di Petra e Palmira: vestigia di un lontano passato ormai dimentico, un viaggio a ritroso nel tempo per ritrovare posti d’indiscutibile fascino e d’incredibile varietà culturale. Vorrei sentire sotto i piedi la sabbia del deserto e sulla pelle il caldo torrido del sole. Trovare sollievo dall’arsura presso un’oasi, dissetarmi alla fresca acqua di un pozzo e godere dell’amabile ospitalità dei beduini. Vorrei camminare seguendo le orme del grande esploratore Marco Polo, attraversare il Medio Oriente e l’Asia Centrale, raggiungere la Cina, passare la Grande Muraglia, arrivare a Pechino, la Città Proibita, che porta su di sé il peso di secoli di storia. Vorrei seguire le rotte marittime aperte dagli esploratori portoghesi, come l’indimenticabile Vasco de Gama, navigare facendo rotta verso il golfo del Bengala, lo Stretto della Malacca e veleggiare fino a raggiungere le rinomate Isole delle Spezie. Sentire il profumo dei chiodi di garofano, della noce moscata, della cannella, della mirra e dell’incenso. Vorrei percorrere la tratta carovaniera attraverso il Mediterraneo e vedere l’Oman e lo Yemen, le vie che hanno favorito la diffusione dei tesori d’Oriente, che hanno permesso la divulgazione d’idee e conoscenze e che hanno contribuito a creare la civiltà permettendo a noi d’essere quello che oggi siamo.

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IL PASSO

Osservai stupita la nuova via che mi si parava innanzi e che in un tripudio di colori s’apriva all’orizzonte. Feci un passo timorosa. D’acciottolato rivestita la strada m’invitava su un terreno accidentato, sconnesso come l’animo che appresso mi portavo. Arrivò il passo più sicuro, la forza mi rinvenne e la testa alzò lo sguardo. Un arco in pietra scura prometteva nuova vita, guardando nell’altrove verdeggiando si stagliava solitario l’albero che rigoglioso e d’ampia chioma orgogliosamente si mostrava. Torreggiava nell’azzurro e ritrovandomi inondata da quella luce così eterea finalmente respirai. Inteso avevo allora che un dono m’aspettava perché la SPERANZA di verde è rivestita e di LIBERTÀ n’è pieno il cielo.

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LA SIRENA

Sole perché ti nascondi alla preziosa incantevole luna avvampando d’amore dietro a soffici nuvole? Luna perché volgi lo sguardo incapace di nascondere ancora il rossore alle numerose stelle? Dolce e inconsapevole la sensuale danza, allegoria di un amore che nasce destreggiandosi giocoso nell’infinito mare del cielo che ondeggiando incanta. Così si compie ciò che è scritto nel destino, così ogni cosa trova attuazione nella sostanza di un sentimento del bene che porta all’abbraccio che si fa casa. …e così la sirena si tramuta in donna intonando il meraviglioso canto d’amore e nel supremo idillio la voce si fa silente permettendo all’anima di danzare.

Giulia Grignani ©

IL RICORDO DI ULISSE

Vagar per desolate lande ricercando l’ignoto sperduto tra pensieri e ameni luoghi, quieto lo smarrirsi. Viaggiare, osservare per poi scoprire e nel profondo abisso riconoscersi. Nostalgia a scandire il ricordo, chimere d’antichi fasti ormai sbiaditi, consunte immagini cullate tra nuvole e mare. Il presente scomponendosi memore stato d’abbandono lento scorre e come sabbia scivola tra le dita. Ammaliator si fa il canto tra caparbie onde. Chi sei, soave fanciulla che irretisci i sensi? Perché travolgi i cuor degli uomini? La mente inganna opache parole di pensieri contorti nell’oblio della ragione, disperato l’invoco del ritorno …lontano il perdersi, flebile il sentire lacrime che dilavano a inondar stagioni, nell’assordante silenzio il non detto dell’anima.

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MEMORIALE DI UN GENOCIDIO BINARIO 21 – STAZIONE CENTRALE DI MILANO

La banalità del male mi annienta in un ricordo doloroso che non ho vissuto stretto tra oscurità e indifferenza. Mi opprime questa fabbrica di morte senza senso, di campi di sterminio e d’ideologia dell’odio tra pagine di vergogna e grida di dolore che come monito qui giacciono. Pezzi disumanizzati caricati a forza su convogli d’ignoto massacro in veloci rantoli, urla e strepiti affogati con violenza nel terrore. Sono serrati al petto gli affetti rimasti tra bieche grida d’assassini e latrati di cani. Percosse su inermi corpi, sassi come macigni scagliati su silenzi d’orrore e d’imperitura infamia inesorabilmente dilaniano il mio cuore. Posso solo immaginare gli agghiacciati, impauriti sguardi, le implorazioni al cielo e lo sferragliare imperterrito di un treno che senza requie famelico divora la sua strada. Non c’è ritorno, non c’è speranza, solo certezza di un’immancabile fine, inutile supplicare chi di pietra ha il cuore, poiché l’odio fomenta l’odio in bramoso divorare d’anime. Come si guarda in faccia la morte? Con la consumata vigliaccheria dei carnefici, con l’indifferenza o l’ignominia di chi soggiace al brutale potere oppure con la racimolata dignità di sei milioni di vittime? Auschwitz, Birkenau, Mathausen, Treblinka, Buchenwald, Dachau… la stretta al petto si serra ogni volta che pronuncio un luogo di barbarie, fatico a continuare. Dove sono i nomi di chi non c’è più? Misericordiosamente li declamo in dolce e sofferta preghiera che si fa ricordo e monito, compassione e sofferenza, luce che si fa strada nelle tenebre a reclamare l’eterno perdono.

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