GRIDO muto (podcast)

ArtritePsoriasica

🔥💥🤒 Sono solo un asociale o sono le mie patologie a rendermi così? 🤕💔🚫

“Non è facile vivere da invisibili. Non c'è niente che si possa programmare davvero, perché non possiamo sapere quante sono le nostre energie. O meglio, sappiamo che saranno poche, ma quanto poche lo scopriremo vivendo di giorno in giorno, di ora in ora. E questo diventa un problema sia nel gruppo sociale in cui lavoriamo che, come nel mio caso, nel gruppo dei familiari di sangue.”

In questo episodio ti racconto il mio rapporto con gli altri, in particolare i gruppi di persone con cui ho avuto a che fare nella vita e come la malattia abbia cambiato questi rapporti.

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Se preferisci ascoltare questo episodio (il n. 7), anziché leggerlo, puoi farlo qui:

Come esseri umani, tutti facciamo parte di un gruppo di persone: l'umanità, appunto, ma anche altri gruppi, anzi parecchi gruppi. Siamo animali sociali che spesso esprimono il meglio di sé quando fanno parte di un insieme di persone che hanno lo stesso scopo.

Che bello quando si sente di poter creare qualcosa con altri, creare qualcosa di più grande della semplice somma delle parti! Si prova una sensazione magnifica di inclusione, di potenza, di fratellanza, persino.

Oggi, da malato invisibile, mi è molto difficile sentirmi a mio agio come membro di un gruppo qualsiasi; uno di lavoro, ad esempio. Mi manca la sicurezza di poter dare il meglio di me.

Ma non è sempre stato così.

Nel 1990, ad esempio, vivevo ancora nel paese fra le montagne, a cavallo fra Toscana e Emilia, e avevo proposto ai miei pochi amici di suonare insieme. Era stato tutto molto spontaneo. Io avevo creato qualche motivetto con i pochi accordi che sapevo fare e Danilo, uno degli amici storici che frequentavo molto all'epoca, mi aveva dato una mano a sistemarli e a suonarli, facendomi nel frattempo ascoltare i suoi. Danilo aveva una voce squillante, a differenza della mia, e anche lui aveva una chitarra da suonare. Te l'ho dett; era il momento storico migliore per i chitarristi. Molti ragazzini volevano suonare quello strumento: erano gli anni degli AC⚡DC, dei Nirvana e dei Pearl Jam.

Ci divertivamo moltissimo, anche se io ero una schiappa con i testi. C'era un nostro amico, però, a Pontremoli, che era molto più in gamba di noi nell'arte di emozionare con le parole. Si trattava di Marco, e possedeva la chitarra acustica fantastica che avevo visto qualche settimana prima. Sapevo che gli piaceva scrivere poesie, oltre che strimpellare, e nel giro di poco tempo anche lui era entrato nel gruppo in maniera fisiologica e naturale. I testi che scriveva e cantava con la sua voce bassa e profonda ci avevano dato una grossa spinta a continuare.

Le canzoni fiorivano. Ora eravamo in tre, con tante possibilità in più di imparare l'uno dall'altro, di scambiarci suggerimenti di ascolto per scoprire nuova musica, aspirazioni e idee.

Dopo poco insistetti così tanto con i miei genitori che mi regalarono pure una chitarra acustica. Non li ho mai ringraziati abbastanza e quindi lo faccio adesso: grazie di cuore!

Se il dolore ai polpastrelli che avevo provato con la chitarra classica era già forte, quello provato con le corde in metallo della chitarra acustica era stato qualcosa di fuori scala. Erano più sottili e più tese; erano più vicine tra loro, quelle corde, e ci volle un bel po' ad abituarsi ad essere ancora più precisi, ancora più forti, ancora più determinati ad ignorare il dolore e andare avanti (una cosa che più tardi mi sarebbe stata davvero molto utile nella vita), ma era troppo importante per mollare. Dovevo andare avanti.

Ti racconto tutto questo per farti capire cosa potessero fare le mie mani e quanto era importante per me il suono della mia nuova chitarra. Mi piaceva tantissimo: potevo fare molte più cose e le mie dita diventavano sempre più forti, sempre più in grado di dosare la giusta quantità di forza in un punto piccolissimo per stringere le corde dove serviva e poi spostarsi velocemente sulla nota successiva. Un lavoro, insomma, di grande precisione che avrei continuato a fare ancora per molti anni.

Per la promozione in terza media, i miei cedettero di nuovo alle mie suppliche per avere una chitarra elettrica. Gliel'avevo chiesta fino allo sfinimento. Era ora di fare il salto di qualità, ma allora non mi rendevo conto che nel bilancio familiare una spesa di 650.000 lire era una grossa somma. Oggi me ne vergogno un po', ma in quegli anni questo fervore musicale mi stava dando un po' la testa. Mi sentivo sempre più importante, persino troppo, vista la situazione, e così mi sentivo in diritto di chiedere tutto, di avere tutto.

La mia nuova chitarra elettrica, tutta bianca, la comprammo a Parma in un pomeriggio di luglio del 1991. Senza sapere troppo di chitarre, avevo preso quella che mi piaceva di più esteticamente, pur restando nel budget. Ovviamente, con il suo piccolo amplificatore al seguito o sarebbe stata inutile per le mie mani. All'improvviso, si era aperto un nuovo universo di possibilità.

Questo strumento era un po' più facile da suonare; serviva meno forza per suonarlo, ma molta, moltissima precisione in più. I suoni distorti, infatti, se non sono suonati con una precisione maniacale, provocano soltanto un gran rumore, ma niente musica.

Anche per il nostro piccolo gruppo musicale si aprirono nuove prospettive, nuove possibilità di incastrare il suono di uno strumento con quello dell'altro. In breve tempo fu tutto un fiorire di chitarre. Anche Danilo ne prese una, una stupenda chitarra elettrica blu metallizzata, marca Fender. Ci divertivamo sempre di più suonando insieme a Marco, che continuava a sfornare testi su testi; insieme funzionavano bene. Dopo qualche mese, anche Lorenzo, un altro grande amico che viveva a Milano, si prese una chitarra elettrica. Era l'imitazione di uno strumento degli anni '60, con un suono fantastico quanto il suo colore rosso fuoco e un grande amplificatore adatto anche al rock pesante. Anche lui aveva scritto qualche canzone, guarda un po', e così lo inglobammo nel gruppo immediatamente.

Ognuno di noi aveva un'anima musicale diversa: chi amava la musica leggera italiana, chi il rock inglese e il pop, chi quello americano, chi il country e le ballate. Ciascuno portava un contributo e un punto di vista diverso al gruppo, e quello che nasceva era davvero qualcosa di più della somma delle parti: un genere unico. Eravamo al settimo cielo.

La prima crisi del gruppo arrivò qualche tempo dopo, quando ero già alle scuole superiori. Ci eravamo resi conto che c'erano davvero troppe chitarre e troppe voci nel gruppo, ma nessuno, giustamente, voleva fare un passo indietro. In particolare, io insistevo molto per fare un salto di qualità. Mi sentivo sempre più sicuro sullo strumento, stavo facendo progressi suonando i pezzi dei Nirvana, dei Deep Purple e naturalmente anche dei Pink Floyd. Essere in grado di suonare le canzoni dei miei idoli, che adoravo, mi dava tanta arroganza e sicurezza. Una cosa che ho notato solo a distanza di anni. Con i miei amici insistevo molto anche perché fossero d'accordo con me e per qualche ora siamo stati davvero a un passo dallo scioglimento. Non riuscivamo a trovare una soluzione. In quegli anni non c'era internet e WhatsApp, e le nostre discussioni duravano settimane, visto che ci vedevamo solo di sabato e di domenica. Per fortuna, la nostra amicizia non ne risentì, visto che poi facevamo anche molte altre cose insieme che stemperavano i toni. Si andava al fiume, a giocare a pallone, a fare le grigliate insieme nei boschi quando era stagione. Noi, in fondo, eravamo i “Crackers”, quel gruppo musicale così particolare che faceva tanti generi in uno. Finite le discussioni, si tornava più amici di prima, perché in tutti noi c'era la consapevolezza che potevano esserci dei dissapori, ma si doveva trovare una soluzione.

Mi piacerebbe poter dire la stessa cosa oggi, da adulto e ammalato invisibile.

Quanti gruppi ho incontrato nella mia vita! Ho cambiato lavoro un sacco di volte: nuovi gruppi, nuove regole e nuove consuetudini da cambiare tutte le volte e, in questo caso, obiettivi che non sempre sono condivisi da tutti i membri del gruppo. I gruppi dell'età adulta spesso sono spietati: tolleranza zero, pressioni e manipolazioni varie: o sei come noi, o non sei uno di noi.

Avrei potuto fare parte di tanti gruppi musicali, come poi è stato, ma nessuno di questi mi avrebbe mai preparato abbastanza ai gruppi sociali dell'età adulta. Anzi, avere sperimentato l'unione intima dei gruppi musicali è qualcosa che ti porta nella direzione diametralmente opposta: a fidarti completamente, cosa che nei gruppi di persone che frequento oggi non posso fare fino in fondo.

Sì, perché da malato invisibile c'è sempre una certa tendenza degli altri ad ignorare chi sono. Sarebbe bello poter dire che la malattia non è ciò che ci definisce, ma nella società della produzione, purtroppo, è esattamente quello che accade: o sei produttivo, o fai quello che il gruppo si aspetta da te e come il gruppo se lo aspetta da te, oppure sei un problema e non c'è spazio né per la creatività né per il rispetto delle difficoltà di chi è ammalato.

Anche i gruppi sociali convenzionali sono un problema. Faccio fatica a partecipare a tutte le attività proposte dagli amici, dai conoscenti e anche dai parenti più o meno stretti. “Ma perché non ci vediamo martedì alle 7 di sera? Dai, una pizza...”

Come faccio a spiegare per l'ennesima volta che le mie energie finiscono già alle 5 del pomeriggio, quando va bene? Altro che martedì sera!

“Ma perché non ci vieni a trovare? Prendi la macchina, parti e via. Ah, io, alla tua età... Sapessi cosa facevo!”

Eh, se solo potessi guidare più di un'ora senza mal di schiena e senza addormentarmi, forse lo farei. Forse tu alla mia età non avevi l'artrite, la fibromialgia e la psoriasi.

Non è facile vivere da invisibili. Non c'è niente che si possa programmare davvero, perché non possiamo sapere quante sono le nostre energie. O meglio, sappiamo che saranno poche, ma quanto poche lo scopriremo vivendo di giorno in giorno, di ora in ora. E questo diventa un problema sia nel gruppo sociale in cui lavoriamo che, come nel mio caso, nel gruppo dei familiari di sangue. Al gruppo che non ci capisce può sembrare che siamo sfaticati, che non ci interessi davvero quello che facciamo o che non siamo portati per farlo. So che tanti di noi, malati invisibili, hanno subito pesanti conseguenze sul lavoro a causa di questa enorme difficoltà di comprensione. Alla fine, noi malati invisibili sappiamo di essere soli anche in gruppo, anzi, spesso proprio in gruppo.

C'è una cosa che non sono ancora in grado di fare, nemmeno dopo tanti anni di vita: non generalizzare. È vero che noi malati invisibili facciamo fatica ad essere capiti e accettati in diversi tipi di gruppi, ma non dobbiamo neanche perdere la speranza. In fondo ci sono gruppi di persone davvero meravigliosi. Il gruppo musicale dei Def Leppard, ad esempio. Erano famosi negli anni '90. Il loro batterista perse un braccio in un incidente stradale, ma gli altri membri della band decisero di non sostituirlo. Attesero che si riprendesse e che imparasse a suonare quasi da zero una batteria modificata per essere suonata con un braccio solo. Wow! E se esistono gruppi come quello, allora c'è speranza che ne esistano di simili che possano capirci. Non dobbiamo perdere la speranza.

Nel frattempo dobbiamo fare un certo lavoro di pulizia, se mi passi il termine. Se un gruppo di persone non ci capisce, allora è inutile insistere: meglio abbandonarlo. Se possiamo, se ci è possibile, smettiamo di frequentare quel gruppo: continuare ci farebbe stare ancora peggio. E se non ci tuteliamo noi da soli, chi lo farà? Un consiglio che mi sento di darti è di non pensarci troppo, a costo di sembrare freddo, superficiale e maleducato.

Non abbiamo energie da perdere. Spostiamoci altrove. Nuove persone arriveranno, nuovi gruppi ci accoglieranno. Ci sarà sempre una nuova possibilità. Le persone che ci possono capire sono una su un milione, ma ci sono. Non smettiamo mai di cercarle, o la malattia ci avrà già sconfitti; ci trasformerà nei mostri che non siamo e che non dovremmo essere mai. E poi noi siamo tanti, tantissimi. Siamo in ogni gruppo. Siamo un gruppo. Troviamoci almeno fra di noi, nei commenti di questo podcast, nella pagina Facebook che trovi nella descrizione di questo episodio https://www.facebook.com/GridoMutoPodcast). Restiamo aperti a riconoscerci tra tanti invisibili, ma uniti, in qualsiasi gruppo sociale.

Ci sentiamo martedì, stammi bene!

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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✨ Le mie mani hanno una data di scadenza. Come farò dopo? 🤔

“Ti fermi mai a pensare quante cose fai con le mani durante il giorno? In fondo, le nostre mani sono ciò che ci distingue da tutti gli altri esseri del pianeta. Tramite le mani possiamo fare di più e meglio, una cosa che solo noi possiamo fare a questo livello: creare. Certo, possiamo anche distruggere con le mani, ma io voglio pensare che le mani servano per creare.”

Se preferisci ascoltare questo episodio (il n. 6), anziché leggerlo, puoi farlo qui:

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Sono passati tanti anni da quando ho perso il senso del tatto. Soltanto di recente sono riuscito a recuperarlo in parte, ma non ho più trovato niente che sia bello da toccare tanto quanto la prima chitarra che ho avuto fra le mani. Riesco ancora a sentirne l'odore, quell'odore della colla mista a quello del legno di abete di cui era fatta. Fantastico! Spesso mi avvicinavo al foro centrale della chitarra, quello sotto le corde, per aspirarne il profumo a pieni polmoni.

A cavallo tra gli anni '80 e '90, la chitarra era ancora all'apice della sua gloria e ci sarebbe rimasta ancora per un po'. Il rock e l'heavy metal erano sempre più famosi in tutto il mondo e la chitarra elettrica era uno dei simboli più forti di quei generi musicali. Di conseguenza, anche i chitarristi di fama mondiale si moltiplicavano. Era normale che tra i ragazzi della mia età quello strumento esercitasse un fascino irresistibile. Di fatto, chi non voleva fare il cantante di una rock band voleva fare il chitarrista. Per me, questa attrazione magnetica si era concretizzata proprio nello strumento che stringevo, prestato da una cugina che non finirò mai di ringraziare, anche se ora non c'è più.

Avevo visto la chitarra in mano ai grandi del rock e ora finalmente potevo suonarla, o almeno provarci. Suonare era una parola un po' grossa all'epoca. Come mi diceva qualcuno, più che suonarla, la “facevo suonare”. Con il tempo ho imparato quale fosse la differenza enorme tra queste due cose, ma in quel momento la gioia di ascoltare questi suoni nuovi e sapere che ero io a produrli, a decidere quando farli iniziare e quando farli finire, era qualcosa di elettrizzante. Io ero il regista di quei suoni e nessun altro. Non era certo la chitarra elettrica dei Pink Floyd, d'accordo, ma era pur sempre una chitarra e passavo ore e ore chino sopra di lei, con il libro di scuola davanti, a cercare di imparare quei tre o quattro accordi che c'erano in quelle pagine. Alcuni di questi accordi, che si chiamavano barré, non riuscivo proprio a farli. Il Fa maggiore, ad esempio; bisognava mettere il dito totalmente disteso in verticale e stringere ben sei corde insieme. Si usava il lato destro dell'indice della mano sinistra. Ci voleva troppa forza e le sei corde di nylon della chitarra facevano così male che non riuscivo a premerle come si doveva per eseguire l'accordo correttamente. Ne uscivano dei suoni muti o gracchianti e mi chiedevo se ce l'avrei mai fatta.

Riuscivo a fare altre cose, però. Con quello che avevo imparato nelle lezioni di musica a scuola, imparai a suonare da solo le melodie di alcuni brani di Pink Floyd. Mentre eseguivo la prima nota della melodia, il mio cervello calcolava al volo la distanza della nota successiva sul manico della chitarra e, le volte successive, usavo semplicemente la memoria. Oggi mi rendo conto che questo non fosse il metodo migliore per imparare a suonare uno strumento, ma allora l'importante era il risultato. Ricordavo dove avevo messo le dita per suonare quella canzone, tutto lì. Ero al settimo cielo. La mia memoria e il mio orecchio musicale mi aiutavano moltissimo e riuscivo così a ripercorrere i passi dei grandi della musica.

Parlando con il professore di musica a scuola, riuscii a ottenere il permesso di suonare la chitarra al posto del flauto. Ero l'unico ragazzino che aveva uno strumento diverso dal flauto e gli occhi degli altri erano puntati su di me. Stavo in qualche modo cominciando a realizzare il mio sogno?

Mi sentivo diverso dagli altri, osservato, e questa volta non era per la vergogna di grattarmi in classe. Alcuni dei miei compagni erano un po' invidiosi e questo mi dava soddisfazione. Devo ammetterlo.

Sapendo che non riuscivo a fare i barré, il professore aveva scarabocchiato su un foglio a quadretti i punti in cui avrei dovuto mettere le dita per fare altri accordi. Si trattava di accordi nuovi, quelli che sul libro non c'erano e che mi sarebbero serviti per accompagnare le canzoni che i miei compagni suonavano col flauto.

Il prezzo da pagare per tutto questo era abbastanza alto per la mia età. La chitarra classica, con la sua custodia di plastica rigida e spessa, era uno strumento pesante e ingombrante, quasi quanto lo zaino pieno di libri. E portare tutto questo peso, avanti e indietro da scuola a casa e viceversa, su e giù per gli autobus e nei tragitti a piedi, era un po' faticoso, ma non mi importava perché mi stava rendendo più forte, sia nell'animo che nel fisico.

In quel periodo riuscii anche a partecipare a corsi di atletica nella mia scuola. Sono sempre stato una schiappa nelle gare di velocità, ma in quelle di forza lì riuscivo benissimo. Fui uno dei pochi in tutta la scuola a partecipare alle gare provinciali di salto in alto e in lungo e, in seguito, riuscii ad arrivare terzo alle competizioni provinciali e a piazzarmi bene anche alle regionali, pur gareggiando con ragazzi molto più alti di me. Anche questo, e sentirmi sempre più forte fisicamente, mi dava un senso di grande sicurezza. Mi faceva sentire migliore degli altri. Da lì a sviluppare una certa arroganza, anche in casa, il passo fu davvero breve. Mi sentivo sempre più importante.

L'inverno e le sue giornate buie e nevose passarono molto più rapidamente quell'anno. Dopo avere ricevuto per Natale una chitarra classica tutta mia, mi ritrovai velocemente alla primavera del ’90. Le mie mani diventavano sempre più forti a forza di esercizi, lezioni di musica e canzoni. Passavo tutto il tempo che potevo sullo strumento a suonare canzoni che conoscevo, o almeno le loro melodie, e un giorno, con grandissima sorpresa, riuscii a produrre un accordo decente di fa maggiore: uno di quelli che prevede il faticoso dito indice che blocca tutte le corde. Non riuscivo a contenere la gioia; ero così contento che al centro del petto sentii una bella sensazione che si allargava con il respiro fino a raggiungere le mie mani.

Era la forza creativa che mi spingeva a suonare accordi simili, provare a farli in altri punti del manico dello strumento e vedere che effetto si otteneva; cambiare il movimento della mano destra e vedere cosa sarebbe cambiato di conseguenza: il ritmo della canzone o l'effetto sull'accordo, perché non era la stessa cosa suonare le corde con la mano destra in un verso piuttosto che nell'altro.

Comprai un grande poster da appendere in camera su cui c'erano tutti gli accordi che si potessero desiderare, raggruppati per tonalità. Era in inglese, ma non era un problema. In breve tempo avrei imparato anche la terminologia musicale anglosassone, diversa dalla nostra. Non c'era più niente che potesse fermarmi, a quel punto, tranne una chitarra acustica che vidi per la prima volta dal vivo a casa di uno dei miei amici, Marco.

Era tutta nera con finiture rosso acceso ed emetteva un suono divino per le mie orecchie, molto più brillante e definito rispetto alla mia chitarra classica. Gli accordi eseguiti su quello strumento sembravano un coro di angeli rispetto a quelli della chitarra classica. Era incredibile come suonasse. Il mio orecchio comprese subito che tutti i musicisti che avevo amato fino a quel momento usavano chitarre acustiche nei loro dischi, oltre a quelle elettriche. Per le chitarre classiche non c'era posto, esattamente come nella società di oggi non c'è posto per i malati invisibili. La mia nuova chitarra classica, all'improvviso, mi sembrava già vecchia.

Da quel momento, iniziai ad ascoltare e riprodurre in testa le canzoni di diversi artisti che avevano fatto della chitarra acustica il loro segno distintivo. Tracy Chapman, ad esempio, o Neil Young, Bob Dylan, Suzanne Vega. Un nuovo vaso di Pandora si era aperto per il mio orecchio musicale. Nel frattempo, avevo in mente un po' di cose che io e il mio amico potevamo fare: suonare insieme, ad esempio. Se ci ripenso oggi mi sembra impossibile che le mie dita potessero fare tutte quelle cose e mi sembra impossibile anche la tenacia che avevo e che mi spingeva ad imparare tutto. Anzi, ad andare avanti, imparando, nonostante le dita che mi bruciavano sulle punte. Chi me lo faceva fare? In fondo, sicuramente il desiderio di spiccare in mezzo a tanti altri della mia età, ma c'era di più: amavo creare. Le dita si sarebbero adattate.

Oggi ci sono giorni in cui, con le stesse dita, non riescono ad aprire un barattolo di marmellata ed è così da tanto. E non ho neanche 50 anni. La perdita del senso del tatto, infatti, è solo uno dei problemi che affliggono le mie mani, purtroppo. Sicuramente vale per tutti il fatto che, andando avanti, le articolazioni stiano sempre peggio, ma è come se per me questo processo fosse accelerato di 10, di 20 volte. Penso al futuro, imminente, e mi chiedo come potrò fare ad essere autosufficiente.

Ti fermi mai a pensare quante cose fai con le mani durante il giorno? In fondo, le nostre mani sono ciò che ci distingue da tutti gli altri esseri del pianeta. Tramite le mani possiamo fare di più e meglio, una cosa che solo noi possiamo fare a questo livello: creare. Certo, possiamo anche distruggere con le mani, ma io voglio pensare che le mani servano per creare. Questo è quello che ho sempre fatto nella mia vita: non soltanto lavorando, ma in tutto il resto del tempo. Anzi, soprattutto nel resto del tempo. Le mie mani stanno perdendo la capacità di interagire con il mondo, di farmi interagire con il mondo. Cosa farò quando non sarò più in grado di creare? Potrò considerarmi ancora me stesso? Sembra banale, ma questi sono i miei pensieri e ci penso spesso e non ho una risposta. Forse potresti darmi tu il tuo punto di vista con un commento, ad esempio.

Spesso indugio in questi pensieri, ma mi sforzo di scacciarli via con prepotenza. Ci sono tante cose che non posso più fare, ma ce ne sono tante altre che a questo punto della mia vita non avrei immaginato di poter ancora fare, o di poter fare, in generale. Questo podcast, ad esempio, e questo mi dà conforto, perché penso a quante altre cose belle potrò fare in futuro, cose che ora nemmeno immagino e che neppure le malattie mi impediranno di fare.

Ci sentiremo presto per il seguito della mia storia; una storia che somiglia sempre di più a un lungo viaggio sulle montagne russe. Ti do appuntamento a martedì prossimo con un nuovo episodio.

A presto, e stammi bene.

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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🤲 Il Tatto: ti accorgi che è importante quando l'hai già perso ❌

In questo episodio ti racconto come la malattia ha cambiato il mio senso del tatto, un senso importantissimo che tutti noi tendiamo a sottovalutare finché non ci viene portato via.

Se vuoi ascoltare anziché leggere, puoi ascoltare o seguire qui l'episodio di questo podcast (il n. 5):

[...]

Le situazioni che possono rendere difficile la vita di un individuo sono tante; anzi, tantissime, e io non sono certo l'unico a doverle affrontare. È indubbio però che alcune siano molto conosciute, come la perdita della vista o dell'udito, mentre di altre non si parla mai.

Cosa succede, ad esempio, a una persona che perde completamente il senso del tatto? Anche questa è una situazione difficile, peggiore di quanto non sembri, e che dall'esterno non può essere percepita.

Un'altra delle esperienze impossibili da comunicare agli altri. Eppure, è un'altra delle cose che mi è capitata.

La causa di tutto questo è la psoriasi. Ne hai mai sentito parlare? Nella descrizione dell'episodio trovi un link all'Istituto Superiore di Sanità, con la definizione di cosa sia questa patologia cronica e non infettiva. Ma lascia che te la ripeta anche qui:

“La psoriasi è una malattia infiammatoria cronica della pelle che si manifesta con aree ispessite ricoperte da squame di colorito grigio-argenteo che, in alcuni casi, possono dare prurito. In genere, le placche sono localizzate a livello dei gomiti, delle ginocchia, del cuoio capelluto, del viso, delle mani e dei piedi, ma possono essere presenti anche in altre parti del corpo.”

Confermo tutto, anche la parte in cui parla delle altre parti del corpo. È una patologia che è molto più problematica di quello che sembra, anche se da molti viene considerata soltanto come un problema estetico. Quella è la punta dell'iceberg, ma c'è molto di più. Nel mio caso, si è manifestata in forma visibile quando avevo 25 anni. Soltanto pochi anni dopo, quando è arrivata sui polpastrelli delle mani e dei piedi, rendendo difficile suonare e camminare, cominciai a capire che c'era qualcosa di grosso che non andava. Oggi pagherei oro per ritornare a quel periodo.

Ma in realtà la psoriasi si era manifestata già prima di quel periodo. Ricordo perfettamente il momento in cui la notai per la prima volta, perché ora so che si trattava di psoriasi. Era l'ottobre del 1990 e frequentavo la seconda media. All'improvviso la testa cominciò a prudere alla follia durante una lezione di musica. Non sapevo più cosa fare. Le dita non bastavano a placare quel prurito. Pensai di avere i pidocchi, perché non li avevo mai avuti e non sapevo che effetto facessero. Mi vergognavo moltissimo. Temevo di passare per quello lurido, che non si lava mai. Cercavo di non farmi vedere, ma non bastò. L'insegnante stesso se ne accorse e mi chiese cosa stesse succedendo: “C'è qualche problema?”

Risposi con la prima cosa che mi venne in mente: “Professore, mi scusi, stamattina ho messo il gel e devo essere allergico.” Ma il prurito continuava. Cominciai a usare una penna per grattarmi, e dopo quella che sembrava forfora, alla fine mi ritrovai del sangue tra i capelli.

Una volta a casa, mi lavai la testa. Il prurito dopo un poco passò, e mi convinsi che quello che avevo detto al professore era la verità. In fondo, avere la forfora succede, no? E anche essere allergici a qualcosa, giusto? Non ho messo mai più il gel per capelli in vita mia, e per fortuna quel prurito non si ripresentò più durante le lezioni di musica. Per fortuna, perché io amavo quelle lezioni.

Oltre a insegnarci la teoria e farci suonare il flauto, l'insegnante ci faceva ascoltare suoni diversi da uno xilofono che teneva nascosto, e ci chiedeva quale nota fosse la più acuta o la più grave. Ci faceva ascoltare piccoli motivetti, dicendoci solo quale fosse la prima nota, e noi avremmo dovuto indovinare le altre. Sembrava un gioco, ma stavo allenando il mio orecchio a riconoscere le note, a capire se una nota era molto distante da un'altra sulla tastiera, e che l'ottava delle sette note non ha una fine. Arrivati all'ultima nota, si ricomincia con la prima, solo più acuta di prima e viceversa verso il basso. Un giorno, ci fece ascoltare dei pezzi di alcune big band, i gruppi musicali che si ispiravano allo stile del jazz anni '40. Ci insegnava quale dei suoni che ascoltavamo era la batteria, quale il basso, quale la chitarra. Io ero un po' avvantaggiato in questo giochetto, devo ammetterlo, anche grazie ai Pink Floyd e al loro ultimo disco del 1987, che avevo ascoltato fino a consumarlo. E poi, certo, anche grazie a tutti gli altri che cominciavo ad ascoltare, come i Supertramp, i Deep Purple, gli Alan Parsons Project, i Dire Straits, tutti dalla collezione di mio fratello, che non posso fare altro che ringraziare. Indovina com'erano i miei voti in musica!

In quello stesso anno, a furia di ascoltare i Deep Purple e gli assoli del chitarrista dei Pink Floyd, presi una decisione.

Al diavolo il flauto. io voglio suonare la chitarra come quello dei Pink Floyd!

Ne parlai con la mia mamma, a cui venne in mente che una nostra cugina nel paese ne aveva una che non usava. La cugina molto gentilmente me la prestò a tempo indefinito. Finalmente tra le braccia stringevo la mia prima chitarra. Anzi, a essere sinceri, la seconda, perché la prima l'avevo spaccata in testa a mio fratello quando avevo 3 anni. Mi dispiace che sia successo, perché era un bello strumento. Dai, sto scherzando; col senno di poi, mio fratello non si fece niente, ma ora mi dispiace molto.

Con la chitarra in mano, sfogliavo il libro di musica con la foga di chi sta morendo di sete e vede una bottiglia d'acqua. C'erano alcune piccole figure che facevano vedere dove mettere le dita sulla chitarra, per poterla suonare: gli accordi. Qualcosa con cui avrei avuto a che fare per molto tempo negli anni a venire. Provai subito a farne qualcuno, ma c'era un problema: le dita facevano male, anzi, malissimo. Dopo pochi minuti, la chitarra classica che avevo preso in prestito da mia cugina mi aveva già dato la prima grandissima lezione: se vuoi conquistarmi, dovrai impegnarti tanto, soffrire un po' e non stancarti mai. Ma poi sarà bellissimo. E lo sarebbe stato, in verità, almeno finché i miei polpastrelli non sarebbero stati devastati dalla psoriasi diversi anni più tardi. Ma di questo parleremo più avanti.

Oggi so che quello che all'epoca riconoscevo come prurito, mentre ero a scuola, era in realtà qualcos'altro. Lo so perché è la stessa cosa che sento ancora nei posti dove la psoriasi si è manifestata con le sue belle placche squamose e lucenti, rossastre e viola, nelle zone più strane del corpo. L'interno dell'orecchio, ad esempio, che specialmente nelle notti più calde non mi dà tregua, ma anche nelle piante dei piedi o tra le dita, sul cuoio capelluto, anche se di capelli non ne sono rimasti molti, forse uccisi proprio dalla psoriasi, o ancora sulle mani. Dove la psoriasi colpisce, la pelle non si abbronza mai più, anche quando la malattia sembrerà scomparire temporaneamente. Addio lentiggini, addio qualsiasi cosa. Restano solo aree bianche tondeggianti con delle aree dorate intorno.

Per essere più precisi, la psoriasi non dà solo prurito. Il prurito è quello che danno le zanzare o una piuma. Con la psoriasi è tutto diverso: la sensazione è quella di prurito insieme a mille spilli che ti pungono in un punto. A volte sembra quasi che ci sia uno sciame di insetti che ti sta pungendo o un animale che ti morde. Sai come si fa a dormire in queste condizioni? Non si può. E infatti, da quando questa patologia mi accompagna e si risveglia, non ho mai una notte tranquilla. Alle medie mi facevo sanguinare la testa; ora tocca alle orecchie.

La cosa peggiore di tutte, forse, è che nel mio caso si manifesta anche sui polpastrelli. Anche se non ho più i calli che avevo costruito con fatica quando suonavo, la psoriasi indurisce la pelle che si trova sulla punta delle dita. Qual è la parte delle dita che ci fa percepire maggiormente il mondo? Esatto: proprio la punta. È così che sentiamo se qualcosa è liscio o ruvido, se un tessuto è pungente sulla pelle ancora prima di indossarlo, o se qualcosa è caldo o freddo, ad esempio, o ancora, quanto è piacevole la pelle di un'altra persona quando la accarezziamo.

Ancora oggi la punta delle mie dita si ispessisce e diventa rigida. Come nelle altre zone colpite dalla psoriasi, la pelle perde elasticità fino a sgretolarsi e a spaccarsi, aprendo una piccola ferita che guarisce soltanto dopo molti mesi, se va bene. Prova a pensarci. Pensa a quante cose toccano le tue dita durante il giorno e a quante possibilità avresti di infettarle se fossero tutte aperte e sanguinanti. Se stai pensando a dei cerotti, posso dirti che non è una soluzione percorribile. Anche se non sei un musicista, pensa a che fatica potresti fare per cucinare, digitare su una tastiera o usare un cellulare con un cerotto su ogni dito.

Ultima chicca di tutta questa situazione è che con le dita in queste condizioni, che fanno male ogni volta che tocchi qualcosa, non puoi più tenere saldamente in mano gli oggetti. Come sarebbe possibile, d'altra parte? Non ti accorgi più se sono lisci e quindi devi fare più forza, oppure ruvidi, e allora ne basta meno. Sono tutte cose, piccoli movimenti involontari che il nostro cervello valuta e compie senza che noi ce ne accorgiamo, basandosi sul senso del tatto. Se questo non c'è più, la vita diventa molto più difficile. Bisogna fare attenzione a qualsiasi cosa. Eppure, quando lo racconti alle persone, ti guardano come se fossi un alieno. Alcuni pensano che esageri, ed è evidente quando gliene parli. Non ti capiscono perché loro il senso del tatto ce l'hanno, lo danno per scontato, come tutti, e non sanno cosa significhi perderlo. Spero soltanto che ascoltando questo podcast possano cambiare idea, e questo dipende anche da te. Dobbiamo raggiungere più persone possibili per far sapere al mondo come vive chi non ha più il tatto. Condividi questo episodio con quante più persone puoi. Io te ne sarò molto grato.

Allora, avevo ragione o no che perdere il senso del tatto è una disgrazia? Non sarà come perdere la vista o l'udito, ma è una cosa che peggiora molto la vita di chi la subisce, e ovviamente il mio destino non poteva farmela mancare. Più avanti ti racconterò ancora meglio quanto tutto questo sia determinante per la vita di un musicista, ma per ora voglio lasciarti con un invito a riflettere sulla perdita del tatto. Anche questo è un senso prezioso, e anche in questo caso la sua perdita è invisibile. Prova a dire a qualcuno che hai perso il senso del tatto e vedrai che non capirà al volo quello che significa. Se incontri qualcuno in questa condizione, per la psoriasi o per un altro motivo, sii gentile con lui o con lei: sta combattendo una battaglia interiore per capire come percepire di nuovo il mondo. Ti do appuntamento a martedì e, nel frattempo, stammi bene.

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.”

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La Vista 👁️: perché fibromialgia 🤕 e artrite 🦴 possono comprometterla!

In questo episodio ti parlerò della vista, di come sia difficile il mio rapporto con questo senso fondamentale e di come abbia influenzato la mia vita anche in passato.

Se vuoi ascoltare anziché leggere, puoi ascoltare o seguire qui l'episodio di questo podcast (il n. 4):

[...]

Non so tu, ma una delle applicazioni che io uso più spesso sullo smartphone si chiama lente di ingrandimento. L'applicazione non fa altro che usare la fotocamera dello smartphone per ingrandire quello che si inquadra. Sembra una piccola cosa, ma a 50 anni e con le mie patologie è una cosa fondamentale. Ho due paia d'occhiali, come tutte le talpe dei fumetti e molti dei cinquantenni: uno per vedere da vicino, che mi serve per leggere o guardare gli ingredienti di un prodotto, e l'altro per tutto il resto, incluso il mio lavoro al computer. Gli ottici insistono sempre per farmi dei progressivi, ma per il momento sono riuscito a non cedere. Mi sembrerebbe un segno di sconfitta.

Ci sono però dei giorni in cui il mio malessere è così importante da coinvolgere anche la vista, e lì non ci sono occhiali, app o progressivi che tengano. Sono stati fatti mille controlli, ma le lenti che utilizzo sono già le migliori possibili per me. Quando sto davvero male, la mia vista si offusca, le prestazioni dell'occhio calano e non riesco a leggere niente che non sia scritto molto, molto grande, neppure con gli occhiali giusti. Se dimentico a casa gli occhiali per leggere da vicino, sono menomato. In effetti, certe cose non le posso proprio fare.

All'inizio non lo capivo; non capivo perché la mia vista calasse così all'improvviso e poi, il giorno dopo, magari andasse benissimo. Pensavo che il calo fosse dovuto all'età, anche se era stato improvviso. Solo che poi la vista tornava e mi dicevo: “Ma porco cane, com'è che ci vedo di nuovo così bene? E ieri che è successo?” Ieri non riuscivo a capire quale fosse l'evento che scatenava questo calo della vista. Mi ci è voluto un po' a capire che il calo della vista coincideva con quei giorni maledetti, quelli in cui il dolore non è facilmente gestibile. E ti dirò di più: in quei giorni anche le immagini in movimento e le luci forti aumentano il mio malessere, mi danno un fastidio tremendo, come d'altra parte anche i suoni e i rumori che non cerco volontariamente. Mi ci vuole il silenzio, lo cerco come un naufrago cerca la terra.

Altre volte la vista non cala, ma all'improvviso delle fitte terribili colpiscono gli occhi, partendo dalla base del collo posteriormente e risalendo tutto il cranio, oppure come una scarica che arriva dall'interno attraverso lo zigomo. Anche il calo della vista è una forma di degrado invisibile che non riguarda soltanto me. Una delle più comuni, forse, di cui in generale si tende a non tenere conto. Paradossalmente, il calo della vista è una cosa che non si vede, non se ne tiene conto sul lavoro, ad esempio, e non si immagina che una persona con questi problemi possa impiegare più tempo per svolgere una mansione, specialmente in ufficio o in un laboratorio in cui si lavora sui piccoli dettagli. Non ne teniamo conto neanche guidando, quando l'automobile che ci sta davanti fa una velocità che non è quella che vorremmo noi. “Dai, muoviti!” Non capiamo che quell'autista può fare quella velocità per un motivo ben preciso.

La mia vista non è mai stata al top, per dire così, anche prima che i miei problemi iniziassero. Ricordo che in seconda elementare mi portarono dall'oculista perché dalla prima fila dei banchi non vedevo bene la lavagna. L'oculista mi appioppò un paio di occhiali spessi dalla montatura scura che in varie versioni porto ancora oggi: miopia e astigmatismo, non ci facciamo mancare niente. Però, dopo, era stato molto più facile leggere le parole delle canzoni.

Nel 1985 il mio nonno materno morì. Anche lui aveva avuto problemi di vista, ma gravi. La cecità lo aveva costretto su quel divano antico troppo a lungo e, alla fine, dopo tanti anni, aveva preso a muoversi sempre meno, anche per colpa delle viuzze del paesello che erano fatte interamente di sassi. Gli mettevano molta paura di cadere e così il suo corpo era andato prima del normale, non muovendosi più. Era un uomo che aveva visto la guerra da vicino (la seconda Guerra Mondiale) e ne aveva sopportate tutte le difficoltà, dopo. Con la scomparsa della sua generazione, tutti noi avevamo perso tantissimo, ma io non me ne rendevo conto allora; avevo solo 8 anni.

Questo evento tragico cambiò radicalmente anche la mia vita.

La nonna si era anche lei consumata per l'età e per aver accudito il nonno per molti anni nella sua infermità, fino a rallentare anche lei e a fermarsi senza più riprendere la sua capacità di movimento. Nel frattempo lamentava dolori in tutto il corpo. Si sa come sono i vecchi, mi dicevano un po' tutti. Più tardi avrei capito molto meglio come si sentiva la nonna.

Ora comunque non la si poteva più lasciare sola, specialmente in una casa antica che si sviluppava su tre piani, con scale strette e scalini traballanti. Mio padre pensò a come poter fare, chiese quando sarebbe potuto andare in pensione e, con nostra sorpresa, scoprì che gli mancava poco. Fu così che lasciammo la casa di Livorno nel 1986 per trasferirci nel paesino sulle montagne insieme alla nonna.

A differenza dei miei fratelli più grandi, io ero molto felice in un primo momento, perché per me quel paesello rappresentava il posto in cui potevo giocare liberamente. Nei fine settimana ci trovavo i miei amici speciali: Danilo, Marco, Lorenzo e tutti gli altri. Come me, avevano i loro nonni o altri parenti in paese e tornavano regolarmente a trovarli. L'abbandono della casa di Livorno, però, mi mise addosso comunque un senso di pesantezza. A qualche livello capivo che stavo lasciando per sempre quella casa e tutta la mia vita ne avrebbe risentito. Stava succedendo davvero, e la scelta che avevano fatto i miei genitori sarebbe stata determinante per spingermi a fondo nel mondo della musica, anche se in quel momento non potevo ancora saperlo. Sapevo però che tra tutte le cose più care che non volevo perdere, c'era il mitico mangiadischi e per fortuna lo portai con me.

Come se non fossero abbastanza il cambio di casa, di scuola, di abitudini, la vita in un piccolo paese era molto diversa da quella che conoscevo in città. Pontremoli, già piccola, era a 20 km dal paese e gli amici che conoscevo non c'erano tutti i giorni. Non era come mi ricordavo: loro non erano lì ogni volta che c'ero io. Giustamente, avevano le loro vite da un'altra parte e iniziai a rendermene conto.

Le settimane sembravano interminabili, scandite com'erano soltanto da giorni di scuola, compiti e catechismo. Aspettavo i fine settimana con ansia. A ottobre venne a vivere con noi Jacqueline, un cucciolo di pastore tedesco dai modi aristocratici, che ci avrebbe tenuto compagnia per diversi anni. I compiti e l'amore per il mio cagnolino mi tenevano occupato, ma naturalmente anche la musica. Ascoltavo quello che passava il convento, cioè ancora sigle di cartoni, fiabe registrate su cassette che avevamo portato con noi da Livorno, e tanta, tantissima radio. A volte nei programmi radio si parlava di paesi lontani, di equilibri mondiali, di cose che non capivo bene, ma su cui passavo ore e ore a fantasticare. Ricorda che internet non c'era allora e nei giorni migliori si riusciva al massimo a sintonizzarsi su Italia 1 o a telefonare a qualche amico dal telefono fisso, quello grigio, enorme e pesante, con la ghiera che ruotava per comporre tutti i numeri.

Ogni tanto passava in tv o in radio qualche programma musicale e allora era festa grande, soprattutto quando davano qualcosa degli Europe e i loro assoli di chitarra caotica e acida trattenevano la mia attenzione. Chi non ha mai ascoltato “The Final Countdown” alzi la mano! E poi c'era anche Madonna, il mio idolo pop del momento, insieme a Michael Jackson. In breve tempo, i ritmi delle sue canzoni diventarono una parte della routine quotidiana. Nella mia testa, come ti dicevo, riuscivo e riesco ancora a riprodurre con la mente qualsiasi brano che mi piaccia, e quindi televisione o no, anche Madonna era sempre con me, con i suoi testi scabrosi per l'epoca, come la canzone “Like a Virgin”. Ero ancora nell'età dell'innocenza, ma capivo benissimo che non era una canzone per bambini.

Dopo tanti vocalizzi di Madonna e un disastro di Cernobyl, mi ritrovai alla fine della quinta elementare, come per magia.

Nei giorni successivi al disastro nucleare, ero a giocare nei campi prima che la radio ci avvertisse di non farlo. Ancora oggi mi chiedo se essermi preso la pioggia radioattiva abbia influenzato in qualche modo la mia storia clinica. Ne parlammo anche durante l'esame di quinta nel tema, ma senza capire bene la portata dell'evento. Per noi bambini, era stato poco più di un momento in cui non potevamo stare all'aria aperta nei prati e in cui certe cose non si potevano mangiare, nemmeno se erano quelle dell'orto della nonna.

Fu un'estate speciale e spensierata, tra le gite al fiume e i vari giochi con gli amici, ma come diceva De André nelle sue canzoni:

Come tutte le più belle cose, durasti solo un giorno, come le rose.

Alle medie, all'inizio, tutti mi sembravano più grandi di me, anche se avevamo la medesima età e io stesso cominciavo a irrobustirmi. Non raggiungevo più le tonalità di prima e da quell'evento mi resi conto che ormai ero grandicello. Notavo con un misto di eccitazione e stupore i cambiamenti del mio corpo: diventavo più alto, più robusto, più forte. Senza avvisare, spuntarono anche i primi peli della barba e mi dava fastidio pensare che per tutta la vita avrei dovuto raderla. Per fortuna, successivamente presi la decisione di non farlo mai più.

Le medie furono un momento molto difficile, allo stesso tempo molto importante per me. Ci voleva più sforzo per fare i compiti ed ero impegnato per molto più tempo rispetto a prima. Mio fratello continuava a mettere su dischi, anche nei lunghi pomeriggi d'inverno in cui la luce del sole spariva prestissimo.

Un giorno, tra le cose che faceva passare sul giradischi, notai che c'era qualcosa di estremamente diverso da tutto quello che avevo ascoltato fino a quel momento: un gruppo che suonava quasi esclusivamente le canzoni che piacevano a me. Atmosfere sospese, tristi, minacciose, sognanti e spirituali che si intonavano benissimo con quelle che vedevo fuori, dove le giornate nebbiose e piovose si somigliavano così tanto da sembrare tutte uguali. All'inizio, quella musica era stata qualcosa di disturbante, ma con il tempo mi parve sempre più normale. Era quella che si intonava meglio ai miei pensieri.

Il chitarrista del gruppo mi sembrava qualcosa di divino e ho questa sensazione ancora oggi. Riusciva a far produrre suoni completamente diversi tra di loro. Quella chitarra la faceva sussurrare, urlare; la faceva piangere. Riusciva a farle fare il suono di un animale e a piegare il suono per fare in modo che le transizioni da una nota all'altra fossero più dolci e armoniose. Anche quando la canzone aveva un tono imponente e la chitarra doveva farsi sentire molto bene, il suo nome era David Gilmour e me lo sarei ricordato per sempre. I Pink Floyd iniziarono così a entrare prepotentemente nel flusso dei miei pensieri musicali.

A differenza degli altri gruppi, però, era molto più difficile suonare le loro canzoni, nella mia testa, solo con il mio pensiero. Avevo scoperto una musica molto più complessa, ricca, piena di suoni che non erano neanche musica, ma che inseriti in quei brani li rendevano del tutto interessanti. Non avrei mai immaginato che la musica potesse essere così e in tutto questo, il mio orecchio poté risultare ancora più allenato a riconoscere i suoni, ricordarli e a cercare di riprodurli a piacimento.

Quando ripenso a quegli anni, la musica è l'unica cosa che ricordo con passione. Mi ha letteralmente salvato dalla noia mortale di un luogo in cui l'estate durava solo due mesi e il resto era tutto inverno.

I Pink Floyd li ascolto ancora oggi, a distanza di tanto tempo. Fanno parte del mio terreno musicale, li trovo ancora attuali sia nelle musiche che hanno prodotto che nei testi brillanti e poetici che sono riusciti a trasporre in musica. Quando sono particolarmente giù, sono tra i pochi gruppi che mi piace ancora ascoltare. Le loro note sono confortanti, non tanto perché mi riportano agli anni nel paesello, ma perché mi suonano ancora dentro nell'animo.

Oggi, anzi, è ancora più facile trovarsi in sintonia con le atmosfere cupe e decadenti delle loro armonie. È così che ti senti quando la tua vita e il tuo corpo sono sempre più decadenti, e in tempi rapidi. La rabbia che trasmettono alcuni dei loro brani è del tutto appropriata al momento.

Ci si sente arrabbiati, vittima di un'ingiustizia che non ha un colpevole. Ci si chiede: “Perché a me?”, che poi è la classica domanda senza un senso. Quello che sto passando io, purtroppo, non conosce bontà o cattiveria, ricchezza o povertà. È forse l'unica cosa davvero democratica a questo mondo.

Tranne un'altra, a pensarci bene.

C'è un'altra cosa ancora che mi piacerebbe fosse democratica nel mondo di oggi: la possibilità che, se sei malato, tu possa essere visto, riconosciuto. Come dicevo, le patologie che mi affliggono non si vedono dall'esterno. Ed è proprio questo uno dei grandi problemi miei e delle persone che si trovano in una condizione simile alla mia. Ci sono tante patologie che non si vedono e per le quali la vista non è d'aiuto per riconoscerle. Oltre alle mie, di cui ti parlerò meglio più avanti, ce ne sono tante: la depressione, la cefalea a grappolo, l'endometriosi, il morbo di Crohn, la celiachia. Sono tantissime. Chi ne soffre, all'esterno, appare sanissimo perché la sua malattia non provoca segni visibili. Ed ecco perché io e altri pazienti condividiamo tutti la stessa ingiustizia. Come si fa a capire come stai se chi ti vede non può vederlo e non può capirlo al volo? Sia la vista che l'udito non sono abbastanza. Anzi, sono fuorvianti.

Una persona depressa molto spesso va al lavoro come tutte le altre, può addirittura apparire allegra. Chi soffre di cefalea a grappolo può assumere dei farmaci che attenuano il dolore e può svolgere le sue normali attività con un dolore ridotto, ma pur sempre presente. E chi lo vede non capirà che sta soffrendo. Soprattutto quello che non si può capire è che la stessa sofferenza, anche se non è estrema, lo diventa quando si protrae all'infinito.

Ecco allora uno dei perché di questo podcast che prende forma più chiaramente: noi malati invisibili dobbiamo farci sentire, dobbiamo far sapere agli altri che la nostra sofferenza è reale, perché purtroppo fanno fatica a capire e non ne hanno neanche colpa, diciamocelo. Non è per nulla facile. Però quello che dobbiamo chiedere loro è uno sforzo di immaginazione e se questo podcast può aiutare persone sane a capire come stiamo noi invisibili, beh, allora non dobbiamo perdere questa occasione. Se pensi che il mio messaggio sia importante, allora ti chiedo di condividere questo podcast, di farlo conoscere il più possibile. Facciamo in modo insieme che i miei pensieri possano diffondersi e stimolare un cambiamento di prospettiva nelle persone che ancora non sanno quanto può essere profonda la nostra sofferenza e magari potranno aiutarci a vivere meglio. Te ne sarò davvero molto grato, ed è importante questa presa di coscienza, terribilmente importante per una sana convivenza in questa strana società che ci chiede e, anzi, ci impone che tutti siamo sempre perfetti e performanti, anche se non possiamo più. E già che ci siamo, magari anche sorridenti.

Nel prossimo episodio ti racconterò le prime fasi dell'insorgenza di una delle mie patologie e di come ho iniziato a suonare uno strumento, lo scopo della mia vita. Nel frattempo, stammi bene, ci sentiamo martedì.

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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L'udito 👂: perché non basta dirci “Va tutto bene!” 🗣️❗ L'ipersensibilità uditiva.

In questo episodio ti racconterò di come la musica abbia plasmato la mia vita già da bambino e di come il mio udito eccezionale sia diventato, allo stesso tempo, una benedizione e una maledizione.

[...]

Cos'è che scatena la compassione per la sofferenza? È la consapevolezza che potremmo anche noi subire la stessa sorte di quelli che vediamo soffrire. La vista è il senso più importante con cui noi esseri umani misuriamo il mondo ed è naturale che sia anche la prima cosa che ci avverte che qualcuno molto vicino a noi sta soffrendo. Il nostro cervello si mette subito all'erta, inconsciamente, per capire se c'è un pericolo imminente che potrebbe riguardare anche noi. Però, non tutte le patologie si vedono con gli occhi, e allora in questa puntata ti parlerò di un altro senso che può farci percepire la sofferenza: l'udito.

Pensa a quante volte, magari al telefono, ti sei accorto che un tuo amico o un tuo parente non stava bene semplicemente sentendolo parlare. Oppure pensa a quando qualcuno ha un'influenza: emette dei lamenti, non sta bene, tossisce. Ti accorgi subito quando qualcuno non sta bene perché la voce è davvero uno degli specchi dell'anima, ed è difficilissimo fingere di stare bene quando non è così. Al telefono è un po' più facile nascondere la propria sofferenza. Le persone dall'altra parte ci dicono “Va tutto bene” e scegliamo di fidarci delle loro stesse parole. “Va tutto bene”, ci sentiamo dire. È una frase rassicurante, no? Specie se pronunciata con voce ferma, con convinzione.

Io ho deciso che non voglio più nascondere come mi sento. Mi sono stancato di dire che va tutto bene. Per molti anni mi sono riparato dietro questa frase, non accettavo le patologie che stavano nascendo. Anche perché, all'inizio, i sintomi erano soltanto vaghi, non mi creavano troppi problemi apparentemente. Quindi era facilissimo dire che andava tutto bene, era facilissimo non mettere in mostra quella che era ed è una mia debolezza, non farlo sapere. Avevo paura di come mi avrebbero giudicato gli altri in una società che ci vuole perfetti. È facile dire che avrei dovuto fregarmene, ma non mi è mai stato facile perché non sono fatto così. Ci sono tanti condizionamenti che subiamo sin da piccoli e che ci tiriamo dietro per tutta la vita.

In alcuni casi era davvero indispensabile nascondere la mia sofferenza. Verso i genitori, ad esempio, li avrei preoccupati inutilmente, non avrebbero potuto farci nulla. Oppure anche durante un colloquio di lavoro. Sarai d'accordo con me che è un po' strano esordire con frasi del tipo: “Sì, so perfettamente gestire l'infrastruttura informatica dell'azienda, ma non garantisco di essere ancora in grado di muovere le dita nel prossimo futuro” o anche “Sì, adoro lavorare sotto stress e con orari flessibili. E ovviamente, anche se gli straordinari non sono pagati; il burnout per me è sempre dietro l'angolo, però non si preoccupi, sono il candidato migliore per questa posizione”.

Oltre a tutto questo, non mi andava proprio di dire a chi conoscevo che le cose andavano sempre peggio. Mi sono sempre sentito in difetto per queste patologie, diverso, in qualche modo rotto, senza possibilità di essere aggiustato. Mica bello parlarne con gli altri, poi come, con quali parole? Quando ci provavo non andava mai a finire bene. Più avanti ti racconterò. Ed ecco che allora il mio “Va tutto bene” aveva uno scopo quasi liberatorio per me, sarei riuscito a non affrontare l'argomento ancora una volta. Con il passare del tempo sono diventato bravissimo a dissimulare. “È tutto a posto, va tutto bene.” Si infarcisce la frase con un sorriso e si tira avanti. A lungo andare, e con l'aggravarsi dei sintomi, mi sono accorto che questa strada è stata controproducente, sia per me stesso che per fare dire agli altri, direttamente dalla mia voce, come stavo e che cosa non potevo più fare.

L'udito non ce l'hanno solo gli altri; può essere una grande risorsa anche per noi che siamo ammalati e ci apre un mondo di possibilità per fare cose che amiamo e che ci è ancora possibile fare. L'udito per me è sempre stato importantissimo. Come ti raccontavo anche nell'episodio precedente, anche senza rendermene conto, ho sempre avuto un udito estremamente sensibile e allenato fin dagli anni '80.

Nel 1983, ad esempio, iniziavo a frequentare le scuole elementari a Livorno e le mie orecchie avevano cominciato ad avere pane per i loro denti. Cantavo le canzoncine che ci facevano imparare durante le lezioni e finalmente potevo cantare senza vergogna, sapendo che lì si poteva fare anche a squarciagola. Ovviamente continuavo ad ascoltare e canticchiare anche le canzoni dei cartoni animati dell'epoca, come Heidi o l'Apemaia. Tutto pane per i miei denti, gioia per le mie orecchie e possibilità di assorbire tutto quel mondo fantastico di note.

A Natale avevo ricevuto in regalo un giradischi portatile a batteria; gli si potevano dare in pasto soltanto i 45 giri e, a pensarci oggi, assomigliava molto a quelli che negli anni successivi sarebbero stati i lettori CD e poi i lettori MP3. Se hai vissuto gli anni '80 ti ricorderai senz'altro del famoso “mangiadischi”, oggetto del desiderio che ti faceva ascoltare la musica fuori casa, all'onestissimo peso di 1 kg. Io lo usavo molto spesso, fermandomi solo quando le batterie erano esauste, perché...sì, erano anche costose!

Io e la mia famiglia continuavamo ad andare dai miei nonni molto spesso in quegli anni, sia nei fine settimana che in estate, quando noi bambini potevamo fermarci lassù per settimane.

Fu in quella valle fresca della Lunigiana che scoprii per la prima volta la musica degli adulti.

Accadde per caso nell'estate dell'84, tra un calippo e l'altro. Mio fratello maggiore allora aveva 14 anni e tutte le sere ascoltava musica da un giradischi. Non quello portatile di cui ti parlavo prima ma uno di qualità superiore. Lui usava i 33 giri, quei grandi dischi in vinile che sono sopravvissuti al tempo e che ancora oggi possiamo trovare in commercio per gli appassionati.

Ricordo che me ne stavo sotto le coperte al buio ad ascoltare quei battiti intensi che provenivano dal piano di sopra, come se appartenessero a un cuore enorme. Sentivo tutto benissimo perché il pavimento di legno non isolava alcun suono, nel bene e nel male. In quel caso per me era un bene, e mi arrivavano i bassi intensi; i ritmi di quella musica strana, così diversa da quella che conoscevo, e soprattutto...così seria! Non ne capivo né le parole né gli argomenti, ma adoravo come mi arrivava il canto di quelle voci e i suoni erano molto più gradevoli e pieni rispetto al mio piccolo mangiadischi.

Uno dei dischi che mio fratello ascoltava più spesso si chiamava Mixage '84. Nella copertina stilizzata, una ragazza guardava fieramente verso l'alto, abbronzata e luccicante per la crema solare, con una spiaggia tropicale sullo sfondo. L'estate era scoppiata anche nelle valli degli Appennini proprio grazie alle radio e a quei dischi, con quei brani, tutti di autori diversi, tutti dello stesso genere: musica dance anni '80. Quel disco girava e girava una sera dopo l'altra, e mi addormentavo sulle note di “Movin' On” o di “Self Control” di Raf, oppure del remake improbabile di “Every Breath You Take dei Police”, e poi altri dischi con gli Alphaville, gli A-ha, Bronski Beat, Cyndi Lauper e tutti gli altri. In poco tempo, le canzoni che mi piaceva cantare erano diventate quelle, anche se non sapevo niente di inglese e biascicavo parole senza senso. Le canzoni tristi o quelle dai toni sospesi mi piacevano molto di più delle canzoni allegre, forse anche perché le canzoncine allegre le associavo alla scuola.

E poi un giorno arrivò la svolta. Mio fratello mise un disco diverso, un singolo: si chiamava “Jump” dei Van Halen.

Quella canzone mi entrò immediatamente in testa: un ritmo incalzante, una melodia che si poteva canticchiare facilmente e che mi faceva venire tanta voglia di muovermi, anche se ero già a letto. Poi, a metà canzone, accadde qualcosa di incredibile, di inaspettato, una roba mai sentita: un cambio di passo totalmente senza senso. La voce scomparve e la musica cambiò del tutto. Fece irruzione uno strumento magnetico, che nel giro di pochi secondi vomitò un mare di note nelle mie orecchie. Che cosa avevo appena sentito? Una chitarra elettrica! Wow, che suono e che potenza! A quel punto il resto della canzone passò per sempre in secondo piano. Teniamo a mente che, ancora ai giorni nostri, è un pezzo che è un po' difficile da eguagliare. Ce ne fossero di Jump! In quel momento era nata la mia passione per uno strumento che sarebbe esplosa più avanti.

La mia fame di musica continuava a crescere e così pure il mio udito. Può darsi che la mia capacità di riconoscere i suoni, di ricordarli o di avere l'udito fino che ho ancora oggi si sia sviluppata proprio in quegli anni. Oggi, avere l'udito più sviluppato della media è sì un piacere, ma anche un grande ostacolo per me. Percepisco più suoni dell'udito medio e soprattutto di notte, quando il dolore cervicale o quella sensazione che qualcuno mi stia accoltellando a un fianco non mi lasciano riposare. Allora comincio a sentire lo svolazzare di una farfalla nel buio della stanza, l'automobile o il treno che passano a mezzo chilometro di distanza o il vicino che rientra a casa due o tre appartamenti più in là. Il canto degli uccelli delle 3:30, però, è la cosa peggiore di tutte. Quelle sono note: è la fine. L'udito si concentra su quei suoni, il cervello comincia a elaborarli, a catalogarne la ripetitività, il ritmo, il timbro e le pause.

Ma va tutto bene, sorridiamo, no?

Adesso basta sorridere.

E' ora di far percepire agli altri come stiamo noi ammalati di patologie che non si vedono. Sta a noi guidarli, insistere perché si sforzino di capire. Con il “Va tutto bene” resteremo sempre le persone che eravamo, ricordiamocelo, quando in realtà non li siamo più.

Voglio lasciarti con un buon proposito per il futuro: non fare l'errore che ho fatto io, non avere paura di dire come stai. Chi ti sta intorno e ti vuole bene capirà. Sul posto di lavoro, con prudenza, cerca di fare capire quello che vivi e le tue esigenze. Non è facile, ma siamo tutti umani e troverai senz'altro chi comprenderà la situazione o un posto di lavoro dove questo sarà possibile. Fatti udire, sfrutta questa possibilità. Io ho deciso di farlo oggi tramite questo podcast e ho ancora tanto da raccontarti. Ci sentiamo tra una settimana per il prossimo episodio, in cui scoprirai un pezzettino in più della mia storia.

Nel frattempo, stammi bene!

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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Hai mai fatto la domanda sbagliata? ❓🤔🚫 Per chi soffre di #artrite e #fibromialgia, può essere pesante.

Link per l'ascolto del podcast al posto della trascrizione:

Nel mese di marzo del 2025 compirò 48 anni. E' inutile che ci giriamo intorno, ormai sono 50.

Ma non sono un cinquantenne come gli altri: a volte non mi sento come se ne avessi 50, ma come se ne avessi 100.

Nel giorno in cui sto registrando questo episodio è domenica, ma non sono rimasto a letto un po' di più come fanno in tanti. Beati loro! Non posso. Come sempre, alle 6:00 sono già ad occhi aperti, oppure anche prima delle 6:00. Spesso un'emicrania fortissima mi sveglia nel cuore della notte, oppure è qualche suono a farlo, oppure il prurito. Comincio a grattarmi ovunque e, in più, mi è molto difficile mantenere la stessa posizione per più di mezz'ora. Anche se si potrebbe pensare che dopo notti così tribolate dovrei essere quasi grato di potermi alzare, in realtà è esattamente l'opposto. Faccio comunque tanta fatica ad alzarmi. Intanto, bisogna fermare la sveglia, che è sempre un po' un'impresa, perché le mie mani non riescono più a stringere bene le cose; e appena svegli è anche peggio. Ci provo, ma la sveglia si sposta sul comodino, scivola di qua e di là senza che io riesca a fermarla. I comandi, purtroppo, sono pensati per persone sane.

Scendere dal letto poi è molto difficile, almeno per i primi 20 minuti. La testa gira, il corpo sembra fatto di legno. Provo a muovermi un po', ma le fibre e i nodi al mio interno tirano e mi fanno male. Non appena ci provo, sento dai rumori interni al mio corpo che inizio a scricchiolare come un pavimento antico o un pacchetto di patatine. Rotolo nel letto fino a trovarmi a pancia sotto e poi, piano piano, mi lascio cadere e appoggio un piede, piantando i pugni sul materasso; invece, facendo leva sul muro, alla fine riesco a mettermi seduto e metà dell'opera è fatta. Alzandomi e aggrappandomi un po' dappertutto, arrivo in cucina, dove di solito, prima che riesca a reggere un cucchiaio, me ne cadono almeno due. Le tazze, per ora, sono salve; ho imparato ad afferrarle con due mani. E poi, a quel punto, ormai il corpo comincia a rispondere un po’. E allora riesco anche a lavarmi i denti, avendo un controllo sufficiente sullo spazzolino. A volte decido di vestirmi prima di mangiare, che sembra un controsenso, ma mi aiuta a far passare il tempo e riprendere un po' il controllo sulle mani. Così, il cucchiaio non trema più e riesco a mangiare più in fretta. Cerco di muovere le mani, anche accarezzando il gatto. Nel tempo che ci metto ad uscire di casa, il mio corpo è al livello massimo di efficienza, che non è certo quello di una persona normale, ma devo farmelo bastare. Le cose continuano a cadermi di mano tutto il giorno: chiavi dell'auto, chiavi di casa, zaino, cappello, eccetera.

Ad ogni passo, i piedi mi fanno malissimo, specie se scalzi. Per capirci, addio a scogli e distese di ciottoli, ghiaia e sassolini. Mi è difficile concentrarmi davvero su qualcosa e a volte la mia vista è così tanto offuscata che non riesco più a leggere e neanche a guardare il cellulare come fanno tutti. Ci sono giorni interi in cui una pesante cappa di dolore, di malumore e tristezza mi ricopre, mi cade addosso e in un attimo posso cambiare completamente carattere: da solare come sono di solito, mi dispero, piango, divento subito nervoso per tutto, perché in quei giorni, come oggi, non c'è niente che sia facile da fare. Ogni cosa sembra ed è difficilissima. In quei giorni vorrei e potrei solo restare sdraiato ad occhi chiusi, aspettando il giorno successivo, e questi episodi sono sempre più frequenti. Ormai possiamo dire quasi continui. Se tutto questo a te non capita, ritieniti fortunato, dico davvero. Ma come ho fatto a ridurmi così? La risposta è semplice, e si potrebbe riassumere nel nome di tre stramaledette malattie che mi affliggono, da chissà quando, e che a questo punto della vita stanno cominciando a rendermi le cose veramente impossibili. E, tra l'altro, tutto è destinato a peggiorare. Ma questa risposta, in realtà, non ti direbbe niente. Non direbbe niente perché il nome di una patologia non spiega di per sé che cosa c'è dietro, non spiega che cosa ti porta via. Una parola così, da sola, senza che tu sappia chi sono e cosa mi è stato strappato dalle mani, non sarebbe abbastanza. Non farebbe capire quanto è stata dura e quanto mi è ancora difficile vivere in un mondo che non tiene delle mie necessità. È per questo che voglio raccontarti la mia storia, perché tu possa capire per bene che cosa ho perso.

Non sono sempre stato così.

Il ricordo più antico che ho risale al 1980, o giù di lì. Come tantissimi italiani, allora guardavamo la televisione dopo cena. Era una di quelle col tubo catodico che, solo a pensarci ora, mi si accappona la pelle. Ma allora era normale. Era normale cambiare canali senza telecomando, era normale vedere i programmi con tanti disturbi ed era normale anche guardare la TV tutti insieme. Me la ricordo benissimo, quella televisione. Era una Telfunken grigia e cicciona di quelle senza telecomando. Mi ricordo che ero così piccino da guardarla dal basso e a me sembrava altissima, mentre in realtà era appoggiata su un normale mobile della nostra cucina. Quindi quanto potrà mai essere stata alta?

Una sera, mentre la mia mamma mi diceva di allontanarmi, ché ero troppo vicino, vidi qualcosa di magico sullo schermo: un uomo baffuto, secondo lo stile dell'epoca, in un completo colorato e scintillante, che afferrando un microfono con tutta la foga di cui era capace, stava gridando al mondo qualcosa, qualcosa di importante evidentemente, seguendo le note di una melodia che mi aveva colpito molto. Ora non mi ricordo chi fosse, forse era a Sanremo, forse no, ma quello che è importante è che dentro di me mi immaginai subito con lo stesso abito, sicuro di me come quel cantante già adulto e con tanto di baffi, mentre cantava sul palco e tutti mi osservavano.

Pensai: “È questo che sarò, ma prima devo diventare grande.”

In quegli anni ci spostavamo spesso da Livorno per andare a trovare i miei nonni materni, che vivevano a Pontremoli, in un paesino remoto tra le valli, come tanti altri in Italia. A me quei viaggi di poche ore sembravano lunghissimi, ma erano un'occasione per scoprire il mondo al di fuori della città. Ce n'era tanto di mondo e speravo che prima o poi ne avrei visto di più. Più avanti, questo mio desiderio si sarebbe avverato, ma all'epoca non potevo saperlo. Mentre i miei due fratelli di solito sedevano nei posti lontani dal finestrino leggendo, io ero troppo piccolo per poterlo fare, e allora preferivo restare al finestrino, ad immaginarmi cavalieri o automobili che inseguivano il treno, ma soprattutto guardando in un luogo non ben definito oltre il finestrino potevo dare alla mamma e al babbo l'illusione di restarmene lì, buono buono, a guardare fuori, mentre la mia piccola mente era piena delle melodie che avevo sentito durante la settimana. Già a 4 o 5 anni, a furia di viaggi in treno, riuscivo a ricordarle perfettamente; il mio cervello era in grado, per capirci, di farle rivivere all'infinito. In quegli anni non c'erano lettori musicali personali, ma neanche mi servivano. Potevo schiacciare “play” nella mia mente e riascoltare il brano che volevo quante volte volevo. Ricordavo per filo e segno le melodie, i ritmi corretti e quasi sempre anche le parole, o almeno quelle che potevano fare parte del lessico di un bambino di 4 o 5 anni, e quelle che non riconoscevo me le inventavo. Anni dopo avrei scoperto che stavo ricordando anche le tonalità. Le volte che i miei parenti mi notavano che canticchiavo tra me continuamente, me lo facevano notare e io mi vergognavo come un ladro e smettevo subito.

In quegli anni sentivo in televisione o alla radio le canzoni di Umberto Tozzi, dei Ricchi e Poveri, di Mia Martini e, ovviamente, per me che ero piccolino, c'erano anche le canzoni dei cartoni animati. Era il periodo dei robottoni giapponesi. Hai presente? Goldrake, Mazinga Z e tutti gli altri? Ma il mio preferito restava Daitarn 3. Non tanto per la storia in sé, ma perché per me aveva la sigla migliore di tutte, quella che mi piaceva cantare e rivivere nella mia mente tante e tante volte.

Adoravo anche giocare con gli strumenti musicali dei miei fratelli, che erano più grandi di me e andavano già a scuola: flauti, pianole e la mitica diamonica, una specie di tastiera alimentata a sputazzi, cosa di cui però non mi curavao, non mi importava. L'importante era entrare in quel fantastico mondo di suoni e capire le combinazioni che si potevano fare con le note. Alcune erano belle e altre un po' meno. Altre, invece, erano proprio brutte.

Non lo sapevo allora, ma stavo iniziando a fare musica, a capirla e a muovere i primi passi in un mare in cui mi sarei immerso con gioia qualche anno più tardi e che avrebbe dato un senso alle mie giornate.

Come la maggior parte dei bambini, non me ne rendevo conto, ma in quegli anni stavo davvero bene. E quando mi chiedevano come stavo, rispondevo sempre “bene”!

Anche ai giorni nostri rispondo ancora bene, soltanto che...so di mentire quando lo dico. Lo dico solo per fare prima, per evitare tutto quello che accadrebbe dopo.

Questo è uno degli aspetti di cui voglio parlarti in questo podcast, perché è sempre nei miei pensieri. Sto parlando del rapporto delle persone comuni con le malattie degli altri. Forse tutti noi ormai usiamo le parole con troppa leggerezza e l'abitudine finisce per condizionarci anche nel pensiero.

“Come stai?” È sempre la domanda sbagliata da fare a me.

E' sbagliata perché non bisognerebbe mai chiedere a qualcuno come sta se poi non si ha davvero voglia di ascoltare la risposta. E la mia risposta, come quella di tante altre persone che soffrono, non è mai semplice; è complicata, tanto che solo dopo molti anni sono riuscito ad accettare quello che mi sta succedendo e a trovare le parole per descriverlo. Quello che hai ascoltato nella prima parte di questo episodio è soltanto la punta dell'iceberg.
Quando inizio a rispondere alla domanda sbagliata, vedo che la maggior parte delle persone le ho già perse dopo pochi secondi, cioè non mi calcolano proprio più. Non sto dicendo che siano tutti cattivi, per carità, ma credo che non siano abituati ad avere a che fare con persone che soffrono. E d'altra parte, chi è che vorrebbe mai affrontare il tema? E quindi dopo più di 10 parole capisco che non hanno più le energie per ascoltarmi. Non è che io non capisca; ognuno ha la sua durissima battaglia personale da portare avanti e non è certo una gara a chi sta peggio. Però bisogna davvero fare uno sforzo per capire che per una persona che soffre tanto è molto faticoso dover spiegare come sta e rivivere costantemente il trauma. A momenti potrebbe sembrare quasi una violenza ricevere questa domanda e capire che non si è ascoltati. E una delle cose che mi manda più in bestia è quando questa domanda me la fanno di continuo, magari dopo pochi giorni che ho già spiegato tutto. Le mie patologie non cambiano e, se cambiano, è in peggio.

Francamente, io mi sono stancato di dire sempre che va tutto bene, perché non è così. Dicendo che va tutto bene, anche se è per fare prima, continuo io per primo a dare un'idea sbagliata, e cioè che tutto sommato non va così male. Ma è falso. E spesso capita che, dopo aver cercato di spiegare come sto, l'atteggiamento di chi ha fatto la domanda non cambia, cioè continua a propormi attività, uscite a cena, nuovi compiti sul lavoro, come se io non avessi detto niente. E allora perché chiederlo? Bisogna cominciare a ragionare in un altro modo. Bisogna che sia più facile coesistere in un mondo che condividiamo tutti, sani e malati.

Chiudo questo episodio, quindi, con un buon proposito per tutti: da oggi prendiamo l'abitudine di chiedere a qualcuno come sta solo se abbiamo voglia di ascoltare davvero la risposta; altrimenti, meglio non chiederlo. Si può sempre dire “Mi fa piacere vederti” senza aspettarci che chi soffre e ha una malattia cronica possa comunque fare quello che ci aspettavamo, che si tratti di lavoro o uscite domenicali. Sii sincero. Hai mai pensato a cosa puoi scatenare con una semplice domanda? E ti è mai capitato, invece, di rispondere che stai bene, ma solo perché non hai la forza di spiegarti? Fammelo sapere! Puoi seguire questo podcast ai link che trovi in alto in questa pagina, per ascoltare il podcast vero e proprio, o venire a trovarmi sul canale Youtube “Grido Muto”. Ma anche su Mastodon, ovviamente! (@GRIDOmuto@noblogo.org)

Per ora ti lascio e ci sentiamo martedì prossimo con un altro pezzo della mia storia. Stammi bene e a presto!

Questo podcast è esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia; non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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💫 Perché un blog sull'Artrite e la Fibromialgia? 🌟💪

Sai cosa è l'artrite? È una patologia invalidante, che potenzialmente può colpire chiunque e, contrariamente a quanto si pensa, a qualunque età. Provoca un'infiammazione (dolore, gonfiore, problemi) a TUTTE le articolazioni e ai tendini e molti degli organi interni, e può portare alla totale infermità di una o di tutte le articolazioni. Chi ne soffre deve essere preparato a una vita di dolore, in cui ogni movimento è una tortura. O, almeno, a una vita più difficile, complicata e in salita.

La fibromialgia, invece, è una condizione cronica caratterizzata da dolore muscoloscheletrico diffuso, accompagnata da una serie di sintomi come affaticamento, disturbi del sonno, difficoltà cognitive e sensibilità aumentata al dolore. Sebbene la causa esatta non sia completamente compresa, si ritiene che fattori genetici, stress e anomalie nel sistema nervoso centrale possano contribuire alla sua insorgenza. La fibromialgia può avere un impatto significativo sulla qualità della vita.

Io soffro di entrambe queste patologie, sebbene una delle due non sia possibile diagnosticarla, ma c'è: eccome se c'è.

Poi c'è la psoriasi. Un'infiammazione della pelle che colpisce aree del corpo in maniera apparentemente casuale, ma più spesso si concentra su cuoio capelluto, mani (anche i palmi), piedi (anche le piante) e gomiti. Può sembrare una cosa da poco rispetto al resto, ma è proprio la psoriasi che, spesso, mi “regala” tante notti senza sonno, perché dà molto prurito. Spesso la pelle colpita dalla psoriasi si disgrega spontaneamente, e la ferita causata da questo evento impiega anche mesi a rimarginarsi. I pazienti più sfortunati hanno la psoriasi in tutto il corpo.

Ti ho dato solo un piccolo assaggio della vita che conduco. Considera che io sono uno dei pazienti che soffrono meno. Puoi immaginare gli altri?

Se stai pensando che non avevi mai sentito parlare di tutto questo, tranquillizzati: è del tutto normale. Di noi, non si parla se non in ospedale. Eppure siamo qui, intorno a te, con le nostre mille difficoltà che non sono riconosciute, né dalle autorità né nella concezione del mondo delle persone comuni.

È normale che di noi non si parli perché nella nostra società, che a me piace chiamare “società della performance”, le persone valgono qualcosa solo se possono produrre, o se sono le migliori in un certo campo, o appaiono sempre belle, sorridenti, in forma.

Per tutti gli altri, come me e tutti gli altri malati invisibili e non riconoscibili che sicuramente hai già incontrato nella tua vita, ma senza saperli riconoscere, non c'è posto. È normale quindi che di noi non si parli, ma non è giusto. La nostra condizione riguarda tutti.

È per questo motivo che ho deciso di creare un podcast: per far sapere a tutti come viviamo noi malati invisibili, per far sapere che noi esistiamo. Viviamo come tutti gli altri perché ci è imposto, anche se non avremmo le possibilità di farlo.

E poi, non meno importante, quando si capisce di avere qualcosa di grosso come queste cose che ci colpiscono, ci si sente tremendamente soli, vulnerabili. Voglio che il mio lavoro venga diffuso il più possibile, e che nessun nuovo ammalato senta di essere solo. Nel mio racconto potrà identificarsi, trovare una spalla, sapere che la sua artrite e la sua fibromialgia non colpiscono solo lei/lui.

Per tanti, troppi anni sono rimasto in silenzio di fronte a queste malattie invisibili che mi hanno cambiato profondamente. Il mio GRIDO è rimasto dentro di me, incapace di uscire, e quindi MUTO.

Solo io potevo sentirlo. Volevo urlare al mondo la mia rabbia, ma non riuscivo neanche a trovare le parole per farlo.

Mi sentivo impotente di fronte a questa esperienza incomunicabile che si è portata via i miei sogni di bambino e di adulto.

Ora ho deciso di far sentire il mio grido.

Ho creato un podcast in cui ti racconto la mia storia, la mia esperienza, cosa ho perso a causa delle patologie e cosa sto passando, le mie paure per il futuro. In ciascun episodio non mancheranno riflessioni profonde sulla nostra strana società, che non ha posto per noi che soffriamo, rendendoci invisibili. Eppure, noi esistiamo.

Il podcast si chiama “GRIDO muto – La mia vita con l'artrite”, ma puoi trovarlo sulle varie piattaforme come Spotify o Apple Podcast semplicemente ricercando “grido muto”. Esiste anche un canale youtube dove seguire le puntate del podcast, se lo preferisci, ed è anche lo spazio in cui , con il tempo, pubblicherò altri video o riflessioni sull'argomento. Ti riporto qui di seguito tutti i link per tua comodità:

In questo blog troverai le trascrizioni delle varie puntate, se preferisci leggere piuttosto che ascoltare, e ti sarò molto grato se mi farai sapere cosa ne pensi del mio progetto, di ciò che ho da dire, e di ciò che scriverò.

Spero che diffonderai il podcast o questo blog il più possibile, per fare cambiare le coscienze e aiutarmi a raggiungere il più alto numero di persone possibili.

Grazie per il tuo interesse e aiuto, che tu sia un malato invisibile oppure no.

Stammi bene!

Simone

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