📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

La corte celeste 1 Accadde, un giorno, che i figli di Dio andarono a presentarsi al Signore, e anche Satana andò in mezzo a loro a presentarsi al Signore. 2Il Signore chiese a Satana: “Da dove vieni?”. Satana rispose al Signore: “Dalla terra, che ho percorso in lungo e in largo”. 3Il Signore disse a Satana: “Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male. Egli è ancora saldo nella sua integrità; tu mi hai spinto contro di lui per rovinarlo, senza ragione”. 4Satana rispose al Signore: “Pelle per pelle; tutto quello che possiede, l'uomo è pronto a darlo per la sua vita. 5Ma stendi un poco la mano e colpiscilo nelle ossa e nella carne e vedrai come ti maledirà apertamente!“. 6Il Signore disse a Satana: “Eccolo nelle tue mani! Soltanto risparmia la sua vita”.

Malattia di Giobbe 7Satana si ritirò dalla presenza del Signore e colpì Giobbe con una piaga maligna, dalla pianta dei piedi alla cima del capo. 8Giobbe prese un coccio per grattarsi e stava seduto in mezzo alla cenere. 9Allora sua moglie disse: “Rimani ancora saldo nella tua integrità? Maledici Dio e muori!”. 10Ma egli le rispose: “Tu parli come parlerebbe una stolta! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?”. In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra.

L’arrivo dei tre amici di Giobbe 11Tre amici di Giobbe vennero a sapere di tutte le disgrazie che si erano abbattute su di lui. Partirono, ciascuno dalla sua contrada, Elifaz di Teman, Bildad di Suach e Sofar di Naamà, e si accordarono per andare a condividere il suo dolore e a consolarlo. 12Alzarono gli occhi da lontano, ma non lo riconobbero. Levarono la loro voce e si misero a piangere. Ognuno si stracciò il mantello e lanciò polvere verso il cielo sul proprio capo. 13Poi sedettero accanto a lui in terra, per sette giorni e sette notti. Nessuno gli rivolgeva una parola, perché vedevano che molto grande era il suo dolore. _________________ Note

2,4 Pelle per pelle: è un detto popolare; qui indica che Giobbe deve essere provato non solo con la privazione dei beni materiali, ma nella sua stessa persona.

2,8 seduto in mezzo alla cenere: immagine di estrema abiezione e di esclusione dalla società.

2,11 Teman, Sùach e Naamà: Teman è nella terra di Edom, ma il nome può anche indicare genericamente il sud; Sùach e Naamà sono sconosciuti. Probabilmente si vogliono indicare tre località famose per la sapienza (per Teman vedi Bar 3,22-23; Abd 8-9).

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Approfondimenti

2,1-6. La narrazione prosegue con una nuova convocazione della corte celeste. Nel dialogo, JHWH constata che Giobbe ha superato la prova dando conferma della sua integrità (v. 3). Il Satan, dal canto suo, smentito dai fatti, tace sull'accaduto e incalza nella sfida. Asserisce che la rivolta di Giobbe contro Dio si verificherà quando Giobbe sarà raggiunto, «toccato», nella sua stessa persona. È evidente come tutto l'impegno e la funzione del Satan si attua nel creare contrasti e scontri, alterando rapporti e concezioni. Inoltre, un'attenzione particolare è posta dal Satan sulle parole che si aspetta Giobbe pronunci, «ti maledirà apertamente» (2,5 come 1,11), che costituiva il peccato supremo (cfr. Es 22,27; Lv 24,15-16, così ancora in Gb 2,9). Tale enfasi sulle parole di Giobbe come criterio della sua fedeltà, più che altri suoi atti, è un elemento che prepara alla disputa successiva, lasciando, peraltro, a Giobbe un ampio spazio entro il quale formulare le sue accuse a Dio senza per questo venir meno alla sua caratterizzazione iniziale di uomo fedele. Anche tale componente va nel senso che la redazione del Prologo sia avvenuta in relazione con il corpo poetico. Dio acconsente di nuovo al progetto del Satan (v. 6), ma pone ancora dei limiti: la protezione della vita di Giobbe. E un tratto peculiare di JHWH, il Dio dei viventi, il fatto che egli operi per custodire la vita dell'uomo nella sua intenzionalità (cfr. per es. Sal 25,20; 86,2; 97,10; 121,7). Ciò che rimane in questione, nella scommessa del Satan, è sempre la fedeltà di Giobbe a Dio. Ma Giobbe continua a rimanere all'oscuro, ignaro del perdurare della prova.

v. 7. L'azione del Satan stavolta è descritta con un'estrema brevità e realizza una progressione nella dinamica della prova. La piaga (cfr. Es 9,9-10; Dt 28,27; 2Re 20,7) da cui è colpito Giobbe comportava, abitualmente, l'isolamento sociale (cfr. Lv 13,45-46), era incurabile e faceva parte delle maledizioni con cui JHWH poteva colpire Israele infedele alla brît (cfr. Dt 28,35).

vv. 8-10. Di nuovo, la reazione di Giobbe è fatta di gesti e di parole. Compare per la prima e unica volta la moglie di Giobbe (v. 9), le cui parole esprimono ormai la resa e la disperazione di chi gli sta vicino: ella si oppone a Giobbe che insiste e persevera proprio in quella integrità che Dio, invece, aveva apprezzato (2,3). Giobbe in risposta (v. 10), le rimprovera di aver parlato con la stoltezza di chi non comprende l'agire di Dio (cfr. Dt 32,5; Sal 74,18.22). Proseguendo in una confessione di fede, Giobbe dichiara che tutto proviene da Dio e pertanto l'uomo deve accettare tanto il bene che il male (cfr. Is 45,6-7; Qo 7,14). È un'affermazione razionale in cui si rivela anche il significato del comportamento di Giobbe che accoglie fino in fondo quanto gli accade. Non c'è disorientamento in Giobbe poiché per lui tutti gli avvenimenti scaturiscono da Dio. Nella tragedia egli è capace di quella suprema fedeltà a Dio che gradualmente ha costruito nel tempo. Che cosa potrà ancora accadere a Giobbe e come si concluderà la sua vicenda? Il dramma prospettato esige una soluzione che nell'antico racconto orale si presume seguisse immediatamente (ora in 42,11-17), ma non così nell'attuale libro canonico. Il narratore, a questo punto (v. 10c), conferma la valutazione su Giobbe che in tutto ciò che gli accadde non peccò. L'enfasi posta sul fatto che «non peccò con le sue labbra», si può anche comprendere come un riferimento prolettico (così come 1,11; 2,5), un'anticipazione e, insieme, una valutazione degli eventi successivi nei quali Giobbe è protagonista. Prende avvio ora, infatti, una fase nuova del la narrazione, con uno sviluppo formale inatteso e un significativo ampliamento dei contenuti e dell'intreccio.

vv. 11-13. La descrizione dell'arrivo degli amici con cui si conclude il Prologo, è di fatto destinata a introdurre il corpo poetico. La forma narrativa, qui adoperata, è quella del “sommario”, modello diffuso per la transizione fra due scene, e delinea, in sintesi, lo sfondo in cui avviene la disputa. Se i vicini si sono allontanati da Giobbe inorriditi per la maledizione che su di lui si è abbattuta, gli amici da lontano accorrono a lui per consolarlo. La descrizione si sviluppa intorno alla dimensione spaziale: gli amici lontani si fanno vicini, essi che, paradossalmente, diventeranno, nel corso del dialogo, antagonisti e avversari, e che, nell'epilogo, saranno riprovati da Dio (42,7-8). La diversa provenienza è l'unico elemento che differenzia i tre amici, come se, quali rappresentanti dei popoli dell'Oriente, noti per la sapienza, fossero convocati intorno a Giobbe. Tuttavia, giunti accanto a lui, tacciono, sconcertati e in attesa.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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PROLOGO (1,1-2,13)

Felicità e rettitudine di Giobbe 1 Viveva nella terra di Us un uomo chiamato Giobbe, integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male. 2Gli erano nati sette figli e tre figlie; 3possedeva settemila pecore e tremila cammelli, cinquecento paia di buoi e cinquecento asine, e una servitù molto numerosa. Quest'uomo era il più grande fra tutti i figli d'oriente. 4I suoi figli solevano andare a fare banchetti in casa di uno di loro, ciascuno nel suo giorno, e mandavano a invitare le loro tre sorelle per mangiare e bere insieme. 5Quando avevano compiuto il turno dei giorni del banchetto, Giobbe li mandava a chiamare per purificarli; si alzava di buon mattino e offriva olocausti per ognuno di loro. Giobbe infatti pensava: “Forse i miei figli hanno peccato e hanno maledetto Dio nel loro cuore”. Così era solito fare Giobbe ogni volta.

Giobbe viene messo alla prova 6Ora, un giorno, i figli di Dio andarono a presentarsi al Signore e anche Satana andò in mezzo a loro. 7Il Signore chiese a Satana: “Da dove vieni?”. Satana rispose al Signore: “Dalla terra, che ho percorso in lungo e in largo”. 8Il Signore disse a Satana: “Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male”. 9Satana rispose al Signore: “Forse che Giobbe teme Dio per nulla? 10Non sei forse tu che hai messo una siepe intorno a lui e alla sua casa e a tutto quello che è suo? Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani e i suoi possedimenti si espandono sulla terra. 11Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha, e vedrai come ti maledirà apertamente!“. 12Il Signore disse a Satana: “Ecco, quanto possiede è in tuo potere, ma non stendere la mano su di lui”. Satana si ritirò dalla presenza del Signore. 13Un giorno accadde che, mentre i suoi figli e le sue figlie stavano mangiando e bevendo vino in casa del fratello maggiore, 14un messaggero venne da Giobbe e gli disse: “I buoi stavano arando e le asine pascolando vicino ad essi. 15I Sabei hanno fatto irruzione, li hanno portati via e hanno passato a fil di spada i guardiani. Sono scampato soltanto io per raccontartelo”. 16Mentre egli ancora parlava, entrò un altro e disse: “Un fuoco divino è caduto dal cielo: si è appiccato alle pecore e ai guardiani e li ha divorati. Sono scampato soltanto io per raccontartelo”. 17Mentre egli ancora parlava, entrò un altro e disse: “I Caldei hanno formato tre bande: sono piombati sopra i cammelli e li hanno portati via e hanno passato a fil di spada i guardiani. Sono scampato soltanto io per raccontartelo”. 18Mentre egli ancora parlava, entrò un altro e disse: “I tuoi figli e le tue figlie stavano mangiando e bevendo vino in casa del loro fratello maggiore, 19quand'ecco un vento impetuoso si è scatenato da oltre il deserto: ha investito i quattro lati della casa, che è rovinata sui giovani e sono morti. Sono scampato soltanto io per raccontartelo”. 20Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello; si rase il capo, cadde a terra, si prostrò 21e disse: “Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!“.

22In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di ingiusto. _________________ Note

1,1 La terra di Us probabilmente è da collocare a est della terra di Canaan, nell’Idumea, fuori dal territorio di Israele. Giobbe non è ebreo, ma adora il Dio di Abramo.

1,6 I figli di Dio sono i membri della corte divina, gli angeli (vedi anche 38,7). Satana (“avversario”, “accusatore”) è l’accusatore di Giobbe, il suo nemico.

1,15 Sabei e Caldei: sono nomi di popolazioni nomadi, e sono utilizzati qui come sinonimi di predatori.

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Approfondimenti

Nel prologo al libro di Giobbe, S. Gerolamo constata che rendere dall’ebraico un testo simile «è come tentare di tenere fra le mani un’anguilla: più forte si preme, e più sfugge di mano». Questa frase famosa rende bene l’idea della complessità di questo scritto sapienziale, redatto quando la comunità di Israele sta vivendo il difficile rientro dall’esperienza traumatica dell’esilio (letteratura di crisi). Il rapporto con Dio si è incrinato e stenta a ripartire; e tale incrinatura è da attribuire anche alla crisi – all’apparenza senza soluzione – della dottrina tradizionale della retribuzione.

Il prologo in prosa, articolato in sei brevi scene distribuite tra cielo e terra, ha come tema la sofferenza considerata come prova della fede, e quindi in modo positivo, nella linea della più pura tradizione biblica.

Il motivo della sofferenza e il suo mistero rappresentano un tema piuttosto comune nella riflessione Antico Vicino Oriente. Diverse sfaccettature della sua trattazione:

  • sofferenza come conseguenza di una colpa (dottrina della retribuzione);
  • sofferenza come parte integrante della natura umana, come conseguenza della sua creaturalità;
  • sofferenza come forma di educazione e di disciplina divina nei confronti dell’uomo;
  • sofferenza come dato inspiegabile – l’impossibilità di tenere insieme la teologia di un Dio creatore buono con la constatazione della sofferenza del giusto.

La caratterizzazione di Giobbe come saggio non-israelita (originario della terra di Uz), e i riferimenti molteplici presenti nel libro a elementi culturali non israeliti: tutto ciò conferma l’impressione di uno scritto “al confine”, posto cioè in dialogo stringente con l’ambiente circostante... e su un tema delicatissimo come quello della sofferenza (presunta) innocente.

«Giobbe è un uomo misterioso, contemporaneo mio e tuo, perché si è fatto le stesse domande che ci facciamo noi... domande attuali, a cui non riusciamo a dare rispondere, come noi ci è riuscito lui. Chi è Giobbe? Insomma non si sa» (Wiesel).

«La sofferenza del giusto e la retribuzione sono tematiche rilevanti nel libro di Giobbe, ma il problema di fondo è questo: Può l’uomo essere più retto di Dio, o il mortale più puro del suo creatore (Gb 4,17)? Come può l’uomo porre condizioni al suo creatore o chiamarlo a rendergli ragione del proprio operato? Dio è totalmente al di fuori dell’orizzonte e della portata dell’uomo, eppure egli parla sia attraverso la sofferenza, sia attraverso le opere della creazione» (Lorenzin).

Tratto da: MASSIMILIANO SCANDROGLIO, PROFETI E SCRITTI: INTRODUZIONE E LETTURE – SCHEDE INFORMATIVE (SECONDA PARTE), Dispense ad uso degli studenti, Milano, 2021-2022


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=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●= CAPITOLO XII

VISITATORE, CAPPELLANO, CARDINALE PROTETTORE

1 Il nostro Visitatore sia sempre dell’ordine dei frati minori secondo la volontà ed il comando del nostro cardinale. 2 E sia tale della cui onestà e costumi si abbia piena conoscenza. 3 L’ufficio suo sarà di correggere, tanto nel capo come nelle membra, i difetti contro la forma della nostra professione. 4 Resti in un luogo pubblico, per poter esser visto da tutti e gli sia lecito parlare a gruppi o alle singole di ciò che riguarda la visita, come gli sembrerà più conveniente. 5 Anche il cappellano con un suo compagno chierico di buona fama, di prudente discrezione, e due fratelli laici di santa conversazione e amanti dell’onestà, 6 in aiuto alla nostra povertà, come sempre abbiamo avuto dal medesimo ordine dei frati minori, 7 in vista della pietà di Dio e del beato Francesco, noi chiediamo come grazia dall’ordine stesso. 8 Al cappellano non sia lecito entrare in monastero senza il compagno. 9 Quando entrano, restino in un luogo aperto, da potersi vedere tra loro e dagli altri. 10 Per la confessione delle malate che non potessero andare al parlatorio, per distribuire ad esse la comunione, per la estrema unzione e per la raccomandazione dell’anima delle stesse, sia permesso loro di entrare. 11 Per le esequie e per le messe solenni delle defunte, per scavare e aprire le sepolture, o per sistemarle, possano entrare individui capaci ed idonei, a discrezione dell’abbadessa. 12 Inoltre le suore siano fermamente tenute ad avere sempre per nostro governatore, protettore e correttore quel cardinale della santa Chiesa romana, che dal signor papa sarà stato stabilito per i frati minori: 13 perché sempre suddite e soggette ai piedi della stessa santa Chiesa, «stabili nella fede cattolica» (cf. Col 1,23), osserviamo la povertà e l’umiltà del Signore nostro Gesù Cristo e della sua santissima madre ed il santo Vangelo, come fermamente abbiamo promesso. Amen.

Epilogo

14 *Dato a Perugia, il 16 settembre, nell’anno decimo [1252] del pontificato del signor papa Innocenzo IV. 15 A nessuno assolutamente sia lecito menomare o contraddire temerariamente questa nostra bolla di conferma. 16 Se qualcuno poi presumerà di tentarlo, sappia d’incorrere nell’indignazione di Dio onnipotente e dei beati suoi apostoli Pietro e Paolo.

17 **Dato ad Assisi, il 9 agosto, anno decimoprimo [1253] del nostro pontificato. ___________________ Note all'Epilogo *La concessione della Regola da parte del card. protettore Rainaldo (Perugia, 16 settembre 1252), avviene poco dopo la sua visita a Chiara gravemente malata (LCla 26,12-17: FC 529).

**La bolla di approvazione da parte di Innocenzo IV (Assisi, 9 agosto 1253), avviene dopo la sua seconda visita a Chiara morente (PCan 3,107-109: FC 235).

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CAPITOLO XI

CUSTODIA DELLA CLAUSURA

1 La portinaia sia matura nei costumi e discreta, di età conveniente, e di giorno resti nella stanza aperta, senza porta. 2 Le sia assegnata un’altra socia idonea, che all’occasione la sostituisca in tutto. 3 La porta sia munita di due diverse serrature di ferro, con due battenti e spranghe; 4 perché soprattutto di notte sia serrata con due chiavi, di cui una sia tenuta dalla portinaia e l’altra dall’abbadessa. 5 Di giorno non sia mai lasciata senza custodia, serrata sempre con una chiave. 6 Guardino bene con diligenza e procurino che la porta non resti mai aperta, eccetto il minimo che vorrà la convenienza. 7 Né assolutamente si apra a chi vuol entrare, se non gli fosse stato concesso dal sommo Pontefice, ovvero dal nostro signor cardinale. 8 Né permettano ad alcuno di entrare in monastero prima di giorno, né dopo il tramonto di rimanervi, eccetto in caso di necessità manifesta, ragionevole ed inevitabile. 9 Se in occasione della benedizione dell’abbadessa o per la consacrazione di qualche suora, o per motivo simile, sarà concesso a qualche vescovo di celebrar messa all’interno, egli si contenti di soci e ministri in minor numero possibile e i più onesti. 10 Se poi fosse necessario ad alcuni di entrare in monastero per lavori, l’abbadessa stabilisca con sollecitudine la persona conveniente alla porta, 11 che apra soltanto a quelli addetti al mestiere e non ad altri. 12 Le suore poi si guardino bene dal farsi vedere da quelli che entrano.

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CAPITOLO X

AMMONIZIONE E CORREZIONE DELLE SUORE

1 L’abbadessa ammonisca e visiti le sue suore, ed umilmente e caritativamente le corregga, non comandando loro alcunché contro l’anima loro e la nostra forma di professione. 2 Ma le suore suddite ricordino di aver rinnegato la volontà propria per Iddio. 3 Siano dunque tenute fermamente ad obbedire alle proprie abbadesse in quanto hanno promesso al Signore di osservare, e non è contro l’anima propria e la nostra professione. 4 L’abbadessa dimostri poi tanta familiarità ad esse, che possano dire e fare con lei come le padrone con la propria serva. 5 Così infatti deve essere, che l’abbadessa sia la serva di tutte le suore. 6 Perciò ammonisco ed esorto nel Signore Gesù Cristo, che le suore «si guardino da ogni» superbia, vanagloria, invidia, «avarizia, cura e sollecitudine di questo mondo» (cf. Mt 13,22; Lc 12,15; 21,34), detrazione e mormorazione, dissenso e divisione. 7 Siano invece sollecite vicendevolmente di conservare sempre l’unità della mutua dilezione, che «è vincolo di perfezione» (cf. Ef 4,3; Col 3,14). 8 Coloro che non sanno di lettere, non si curino di apprenderle, 9 ma attendano a ciò che sopra ogni altra cosa debbono desiderare: avere lo spirito del Signore e la sua santa operazione, 10 pregarlo sempre con cuore puro e avere umiltà e pazienza nella tribolazione e nella malattia, 11 e amare quelli che ci perseguitano, riprendono e criticano; 12 poiché il Signore dice: «Beati quelli che soffrono per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. 13 Chi poi avrà perseverato sino alla fine, questi sarà salvo» (Mt 5,10; 10,22).

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CAPITOLO IX

PENITENZA DA IMPORSI ALLE SUORE CHE PECCANO; LE SUORE SERVIGIANE FUORI DEL MONASTERO

1 Se qualche suora, per istigazione del nemico, avrà peccato mortalmente contro la forma della nostra professione, dopo essere stata ammonita dall’abbadessa o da altre suore due o tre volte, 2 se non si sarà emendata, mangi pane e acqua in terra al refettorio davanti a tutte le suore tanti giorni quanti sarà restata contumace; 3 e sia sottoposta a pena maggiore, se l’abbadessa crederà. 4 Mentre resta contumace, si preghi perché il Signore illumini il suo cuore a penitenza. 5 Ma l’abbadessa e le sue suore debbono guardarsi dall’adirarsi o turbarsi per il peccato di qualcuna; 6 poiché l’ira e il turbamento impediscono la carità in sé e negli altri. 7 Se accadesse, Dio ne guardi, che sorgesse tra una suora e l’altra, a parole o a fatti, un’occasione di turbamento o di scandalo, 8 subito prima di «presentare al Signore l’offerta» (cf. Mt 5,23) della sua preghiera, non solo si prostri umilmente a terra ai piedi dell’altra, chiedendo perdono; 9 ma le chieda anche con semplicità che interceda per lei presso il Signore perché sia perdonata. 10 L’altra poi, memore della parola del Signore: «Se non perdonerete di cuore, nemmeno il Padre vostro» celeste «perdonerà a voi» (Mt 6,15; 18,35), 11 con liberalità perdoni alla propria sorella qualsiasi offesa fattale. 12 Le suore che servono non restino a lungo fuori del monastero, se non lo richieda una causa di manifesta necessità. 13 Debbono agire onestamente e parlar poco, per poter edificare chi le vede. 14 E si guardino con fermezza di avere sospetti incontri o convegni con uomini. 15 Né possono essere madrine di uomini o di donne, affinché per questa occasione non sorga mormorazione e turbamento. 16 Né abbiano la presunzione di riportare in monastero i pettegolezzi del mondo. 17 Fermamente siano tenute di non riferire fuori alcunché di quanto si dice e si fa in monastero, che possa ingenerare qualche scandalo. 18 Se qualcuna avesse per semplicità mancato in queste due cose, a disposizione dell’abbadessa, le sia imposta con misericordia la penitenza. 19 Se poi ne avesse la viziosa consuetudine, l’abbadessa le imponga una penitenza secondo la qualità della colpa, con il consiglio delle discrete. _________________ Note al CAP. IX 9,1-4: Quanto Francesco aveva dovuto eliminare dalla I Regola, per renderla più agevole e più strettamente giuridica, è qui conservato con valore ascetico.

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CAPITOLO VIII

LE SUORE NON SI APPROPRINO DI NULLA; VENGA CHIESTA L’ELEMOSINA; LE SUORE INFERME

1 Le suore non si approprino di nulla, né casa, né luogo, né cosa alcuna; 2 e «come pellegrine e forestiere» (Sal 38,13; 1Pt 2,11; Eb 11,13) in questo mondo, servendo al Signore in povertà e umiltà, mandino con confidenza per l’elemosina; 3 né debbono vergognarsene, poiché il Signore si fece per noi «povero» (2Cor 8,9) in questo mondo. 4 Questo è quel vertice di «povertà altissima» (2Cor 8,2), che rese voi, mie carissime sorelle, eredi e regine del «regno dei cieli» (Mt 5,3; Lc 6,20), vi ha rese povere di sostanze, ma vi ha sublimato di virtù. 5 Questa sia la vostra «porzione» che conduce alla «terra dei viventi (cf. Sal 141,6), 6 a cui, dilettissime sorelle, restando totalmente unite, nient’altro cercate sotto il cielo per sempre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo e della sua Madre santissima. 7 Non sia lecito a nessuna suora d’inviare lettere, o ricevere qualcosa, o darla fuori del monastero, senza permesso dell’abbadessa. 8 Né sia lecito ritenere qualcosa che l’abbadessa non abbia dato o permesso. 9 Se dai parenti o da altri sia dato qualcosa a qualcuna, glielo faccia dare l’abbadessa. 10 Se ne avrà bisogno l’interessata lo possa usare, altrimenti sia dato caritatevolmente a qualche altra suora che ne ha bisogno. 11 Se le fosse inviata un’offerta pecuniaria, l’abbadessa la faccia provvedere nelle cose di cui ha bisogno, con il consiglio delle discrete. 12 L’abbadessa sia fermamente obbligata sollecitamente di persona e per altre a provvedere, nei consigli, nei cibi e in quanto altro servisse nell’infermità alle suore malate, 13 e a provvedere caritatevolmente e con misericordia secondo le possibilità del luogo. 14 Poiché tutte sono tenute a provvedere e servire alle proprie sorelle inferme, come vorrebbero essere servite esse stesse nell’infermità. 15 Con fiducia l’una manifesti all’altra la propria necessità. 16 E se una madre ama e nutre la propria figlia carnale, con quanto maggiore diligenza una suora deve amare e nutrire la propria sorella spirituale! 17 Le inferme riposino su sacconi di paglia ed abbiano dei cuscini di piume; 18 e chi ne ha bisogno possa usare pantofole e calze di lana. 19 Le suddette malate, quando sono visitate da chi visita il monastero, possano ognuna rispondere brevemente qualche buona parola a chi le interroga. 20 Le altre suore non abbiano il permesso di parlare a coloro che entrano in monastero, se non presenti e ascoltanti due suore discrete, assegnate dall’abbadessa o dalla vicaria. 21 Questo sistema di parlare sia obbligatorio anche per l’abbadessa e la vicaria. _________________ Note al CAP. VIII 8,2-3: Mandino per l’elemosina è un’espressione ripresa dalla Regola bollata di Francesco, in cui il santo prescrive di andare per l’elemosina (vadant); qui, però, Chiara utilizza il termine mandino (mittant). Si tratta di due verbi diversi che fanno comprendere la diversità di stile nella comune vocazione: i frati seguono il Signore andando per il mondo (ReBu 3,1.11), le sorelle stanno con il Signore mandando per l’elemosina, perchè sono sedentarie come Maria di Betania.

8,7-11: I dettagli di queste norme di povertà e di distacco – tenendo presente la psicologia femminile – sono veramente eroici.

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Approfondimenti

Il capitolo 8 è l’altro passaggio/forza della Forma vitae in cui Chiara – continuando ad affiancare i temi della Regola bollata – traduce l’intuizione di Francesco sull’espropriazione, cuore della Christi vivendi forma, nello stile di vita della sua comunità penitenziale-claustrale. E come in Rb 6, al sine proprio segue, strettamente legato, il tema della fraternità, della cura vicendevole a cui le sorelle sono chiamate, con quella predilezione verso le sorelle inferme che potremmo dire parallela a quella di Francesco per i fratelli lebbrosi: è la forma di vita delle «sorelle povere», veramente, dove povertà e carità sono l’una sorgente dell’altra.

Mentre Rb 6 continua congiungendo con un et la santa povertà al suo frutto primo che è la carità, la familiarità tra i frati, fino a concludere con l’esortazione ad amare e servire i frati infermi, Chiara passa ora a un altro aspetto del sine proprio, quello personale. Per i versetti 8,7-11 la fonte principale di riferimento è qui la Regola di Benedetto, a cui la santa attinge i concetti di fondo cambiandone però i termini con grande libertà e talora distanziandosene decisamente. Si tratta del mandare lettere all’esterno o del ricevere qualcosa in dono: ed emerge, dalle operazioni che Chiara fa sul testo parallelo della Regola di Benedetto, ciò che per lei conta veramente:

  • il sine proprio che si traduce in trasparenza e stretto legame di obbedienza, per cui nessuna può ritenere “proprio” qualcosa e farne ciò che vuole. L’accento sembra posto non tanto sul ricevere quanto sul mandare, e il problema di fondo, confermato da tutto il contesto del capitolo, è più quello della povertà che non quello di una limitazione nelle relazioni epistolari. Scrivere una lettera era un avvenimento straordinario, per la difficoltà che comportava ed anche per il suo costo;
  • il senso di responsabilità ed il respiro della carità vicendevole all’interno della comunità: nel v. 9, in cui si tratta dei doni ricevuti da una singola sorella, Chiara si distanzia dal metodo benedettino, mettendo in secondo piano il principio ascetico – «E se l’abate glielo consente, sarà poi in sua facoltà decidere a chi destinare la cosa. Il fratello cui il dono era inviato, in tal caso non si rattristi, per non dare occasione al diavolo» (RBen 54,3-4) – per fermarsi sul senso di responsabilità della sorella che può giudicare da sola l’opportunità o meno di tenere il dono ricevuto, il suo reale bisogno, la sua distanza dal bisogno; e soprattutto lo sguardo di Chiara si allarga a desiderare che la sorella sia attenta alle altre, si accorga del possibile bisogno di un’altra: è il suo primo desiderio che l’amore sia il cuore delle relazioni tra le sue figlie e sorelle.

Il v.11, tutto scritto dalla mano di Chiara, in brevi parole affronta un tema molto problematico in un’epoca storica di grandi cambiamenti come la prima metà del Duecento, quello del rapporto col denaro. Francesco l’aveva rifiutato categoricamente in ogni sua forma: per lui, da ex-mercante, denaro era sinonimo di accumulo, reinvestimento, tesaurizzazione, potere. La Forma vitae prevede invece che ad una sorella possa essere inviato un dono in pecunia (ovvero: non denaro ma qualsiasi cosa che viene accettata in una compravendita che avviene col “baratto”). Chiara, che aveva alle spalle l’esperienza di una famiglia nobile, vedeva nell’avidità dei possedimenti terrieri il pericolo di venir meno alla stretta povertà, non certo in una piccola elemosina in denaro, che poteva essere utilizzata per le necessità di una singola sorella, senza con questo diventare fonte di sicurezza e di sostentamento per la comunità. Neppure lei tuttavia tratta questo argomento come cosa facile e scontata: il fatto che qui chieda all’abbadessa di ricorrere al consiglio delle discrete dimostra che lo considera un avvenimento rilevante e di delicato discernimento. Ciò che conta anche in questo caso è la discrezione e la provvidenza della madre verso la necessità di ogni sorella: di fronte a questo anche la paura di toccare e ricevere denaro sembra sbiadire.

Tratto da: Federazione S. Chiara di Assisi ● La Regola di Chiara di Assisi: il Vangelo come forma di vita


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CAPITOLO VII

MODO DI LAVORARE

1 Le suore alle quali il Signore ha dato la grazia di lavorare, dopo l’ora di terza lavorino, in un lavoro onesto e di utilità comune, con fedeltà e devozione, 2 in modo che, allontanato l’ozio, nemico dell’anima, «non spengano lo spirito» (1Ts 5,19) della santa orazione e di devozione, a cui tutte le altre cose temporali devono servire. 3 E l’abbadessa o la sua vicaria sia tenuta ad assegnare in capitolo davanti a tutte ciò che ognuna dovrà fare con le sue mani. 4 Altrettanto si faccia se fosse inviata da qualcuno qualche elemosina per necessità delle suore, perché in comune ne venga fatta memoria. 5 E queste cose siano distribuite dall’abbadessa o dalla vicaria per utilità comune, con il consiglio delle discrete.

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Approfondimenti

Lavorare con le proprie mani, manibus suis, ha nella forma di vita clariana una dimensione vocazionale, nel contesto di quella “conversione alla povertà” anche dal punto di vista sociale che caratterizzò il movimento evangelico nei secoli XII-XIV. Il lavoro manuale, anche quello più faticoso nei campi e nei boschi, era il sostentamento dei primi monasteri femminili affiliati all’Ordine cisterciense, ed è ben noto che il rapporto povertà-lavoro caratterizzò fin dagli inizi il movimento degli Umiliati. Questo tema è centrale nello svolgimento della Forma vitae e non a caso segue direttamente il capitolo 6, poiché della scelta di povertà il lavoro manuale è conseguenza diretta e importante. Una tematica difficile, al centro di gravi controversie nella vita dell’Ordine francescano mentre questo testo viene redatto: lavorare «con le proprie mani» era una parola di Francesco, uno dei distintivi delle origini, ed era per tutti i frati, senza distinzione. «E quelli che non sanno, imparino»: le parole del Testamento sono eco di un travaglio in atto e di una volontà precisa di Francesco. Con la Quo elongati di Gregorio IX, di fatto il Testamento veniva dichiarato non vincolante per i Frati minori e ritenuto un ostacolo alla crescita dell’Ordine. Ebbene, in questo clima, quando deve dire la sua parola sul lavoro, Chiara riprende quasi del tutto il testo parallelo della Regola bollata, ma nei punti più decisivi inserisce proprio le parole del Testamento. Dalla Regola bollata riprende la definizione del lavoro come “grazia”, che apre un orizzonte più vasto rispetto alla concezione tradizionale che vedeva il lavoro solo quale mezzo di sostentamento o impegno ascetico; a questo Chiara aggiunge l’orario del tempo di lavoro, necessario in una struttura monastica come la sua: post horam tertiae, dopo l’ora di terza. La fonte con cui è d’obbligo un confronto è il capitolo 48 della Regola di Benedetto: la Forma vitae clariana tralascia le numerose specificazioni dell’ora della fine del lavoro, dei vari tempi dell’anno liturgico in cui gli orari dei monaci cambiavano, e si distingue per l’assenza completa del tempo dedicato alla lectio divina, così importante nel testo benedettino. L’impressione è che Chiara si appoggi sulla struttura monastica esistente per costruirvi la sua forma, la lineare forma della sua vita povera. Ciò su cui si ferma con molta precisione è invece la descrizione della qualità, del modo di lavorare: il lavoro è grazia, prima di tutto, capacità, forza e salute sono dono gratuito di Dio.

Coscienza della grazia, honestas, comune utilità, fedeltà e devozione: questi gli atteggiamenti che Chiara ritiene importanti nell’andare incontro al quotidiano impegno del lavoro. E tra questi, emerge la sua tenacia nell’affermare che anche in questo campo lei è d’accordo con la posizione di Francesco: già dal tempo della composizione della Regola non bollata esistevano nell’Ordine tre categorie di frati, predicatores, laboratores, oratores, che via via porterà alla distinzione più netta tra chierici e laici, e il lavoro manuale non era più per tutti, dato che i frati stavano cominciando ad affrontare le esigenze della pastorale determinate dal Concilio Lateranense IV. Nel ribadire, nel Testamento, l’esigenza del lavoro manuale per tutti Francesco si mostrava contrario alla strada presa dai suoi frati, e Chiara, che con molta facilità poteva riconoscersi – all’interno della tripartizione della società medioevale in oratores, bellatores e laboratores – nella categoria degli oratores, con questo appropriarsi dell’espressione del Testamento si mette decisamente in linea col gruppo delle origini, in quelle intuizioni radicali. Non si tratta di nostalgia, ma di una scelta ben concreta di identità: lei sta dalla parte della minorità, questo è al cuore della sua vocazione e non ci sono motivi o mutamenti storici che possano farla deviare da essa, perché così era per Francesco, per il quale tutto ciò che allontanava da questa condizione di minori, soggetti ad ogni creatura (il guadagno, i ruoli, gli incarichi), non era conforme alla vocazione ricevuta. Importante anche l’aggiunta communem, communem utilitatem: nessuna sorella operi come fosse da sola, né per se stessa, ma all’interno del corpo della comunità e per la sua edificazione. È una parola fondante, che scorrendo il testo della Regola riemerge continuamente: l’appartenenza reciproca e quindi la responsabilità di ognuna nei confronti della comunità.

A San Damiano si praticava il lavoro della filatura, il più comune per le donne dell’epoca, largamente impiegate nell’industria tessile, e anche quello della tessitura, per lo più riservato alla manodopera maschile. Una piccola produzione artigianale finalizzata in parte alla carità verso le chiese povere, in parte – lo possiamo pensare – al sostentamento della comunità, che veniva completato dalla coltivazione dell’orto e dalle elemosine spontanee dei benefattori e di chi si affidava alla preghiera delle sorelle. Una scelta, quella del lavoro manuale, che le immetteva nella realtà quotidiana di tanta gente, di tante donne povere “involontarie”, la cui vita quotidiana ben conosceva sia la fatica di un lavoro scarsamente retribuito, sia l’umiliazione della mendicità. Tutto questo senza che le sorelle entrassero in quella forma di commercio in cui si trovarono coinvolti gli Umiliati e, in campo agricolo, i Cisterciensi, o in quella specializzazione che rese famosi i tessuti confezionati dalle beghine delle Fiandre. Il fine era sostentarsi, da povere, guardandosi da ogni forma di guadagno o di accumulo di beni: una scelta controcorrente sia nei confronti della nobiltà, a cui la gran parte delle sorelle di San Damiano proveniva, sia nei confronti della borghesia in crescente ascesa, per la quale l’economia era sempre più in funzione del massimo guadagno e dell’accumulo illimitato di denaro.

Tratto da: Federazione S. Chiara di Assisi ● La Regola di Chiara di Assisi: il Vangelo come forma di vita


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CAPITOLO VI

LE PROMESSE DEL BEATO FRANCESCO E IL RIFIUTO DEI POSSEDIMENTI

1 Dopo che l’altissimo Padre celeste si degnò per sua grazia di illuminare il mio cuore, perché facessi penitenza dietro l’esempio e l’ammaestramento del beatissimo padre nostro san Francesco, poco dopo la mia conversione, io promisi a lui obbedienza volontariamente insieme alle mie sorelle. 2 Il beato padre, constatando che non temevamo alcuna povertà, lavoro, tribolazione, viltà e disprezzo del mondo, e anzi che tutto ciò ritenevamo come grande delizia, mosso a pietà scrisse per noi questa forma di vita: 3 «Poiché per ispirazione divina vi siete rese figlie ed ancelle dell’altissimo sommo Re, Padre celeste, e vi siete sposate allo Spirito Santo, eleggendo di vivere secondo la perfezione del Vangelo*, 4 voglio e prometto personalmente e con i miei frati di avere per voi cura diligente e speciale sollecitudine come per loro»; 5 cosa che mantenne diligentemente finché visse e volle che fosse mantenuto dai suoi frati. 6 Perché mai ci allontanassimo dalla santissima povertà che avevamo iniziato, né noi né le successive suore, poco prima della sua morte ci scrisse la sua ultima volontà, dicendo: 7 «Io piccolo frate Francesco voglio seguire la vita e la povertà dell’altissimo Signore nostro Gesù Cristo e della sua santissima Madre, ed in essa perseverare sino alla fine. 8 E supplico voi, mie signore, e ve ne dò consiglio, di vivere sempre in questa santissima vita e povertà. 9 E guardatevi bene di non allontanarvene in alcun modo, per la dottrina o il consiglio di chicchessia**». 10 Come io fui sempre sollecita di custodire con le mie suore la santa povertà che promettemmo al Signore Iddio e al beato Francesco: 11 così le abbadesse che mi succederanno nel governo e tutte le suore siano tenute ad osservarla inviolabilmente sino alla fine: 12 non ricevendo né ritenendo possessioni o proprietà né personalmente né per mezzo di altri, 13 e nemmeno quanto ragionevolmente può esser detto proprietà, 14 se non quel poco di terra sufficiente per l’onestà e l’isolamento del monastero; 15 né quella terra venga lavorata, se non come orto per loro necessità. _________________ Note al CAP. VI In questo capitolo si avverte una preoccupazione di san Francesco: considerare il Secondo Ordine come parte essenziale di un unico impegno di vita evangelica; l’impegno di Chiara sarà quello di rispondere a tale vocazione.

*Questo versetto contiene il programma di vita dato da Francesco a Chiara e alla sorelle (Da notare che il Santo di Assisi quando parla – qui e altrove – lo fa al plurale, perché si rivolge all’intero gruppo delle Damianite; Chiara, poi, non è mai nominata col termine “sorella”, ma con espressioni di tono biblico, quali “cristiana”, “domina” o “poverella”): si tratta di un programma, detto “forma vivendi”, che Chiara considera la base e il nucleo spirituale della sua famiglia religiosa; tutto il suo cammino, dall’inizio alla morte, è segnato dal desiderio di realizzare la “forma vivendi”. I termini “figlie ed ancelle”, “fatte spose”, “Padre celeste”, “Spirito Santo”, “Santo Vangelo = Gesù Cristo”, sono gli stessi usati da Francesco per invocare Maria vergine, sedici volte al giorno, come riportato nell’antifona dell’Ufficio della Passione. Anche Chiara si specchierà sul volto della Vergine. L’unica differenza da lei apportata sta in questo: la proposta di Francesco è trinitaria, la realizzazione vissuta da Chiara è cristocentrica.

**La richiesta di Francesco di non dare ascolto a chi consiglia di abbandonare la povertà, viene ripetuta, dodici anni dopo, da Chiara nei confronti di Agnese di Praga (2ECla 15-17: FC 17). Viene ripresa, in qualche modo, anche da papa Gregorio IX, sebbene in senso contrario (6Gre: Angelis Gaudium: BF, I, p. 243, col. II, B).

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Approfondimenti

Accanto alla dimensione della fraternità, la forma di altissima povertà, personale e comunitaria, è la principale conseguenza della scelta evangelica che caratterizza la comunità di Chiara all’interno del panorama monastico femminile medievale. Nel capitolo 6, dalla memoria della primitiva forma vivendi di Francesco, Chiara passa a quella di un testo carismatico di non minore importanza. Nella cosiddetta ultima volontà Francesco, riconfermando fino alla morte la sua scelta di seguire Gesù povero, consegna alle sorelle di San Damiano la sua più profonda ed essenziale esperienza di vita. L’ultima volontà per se stesso è anche l’ultima volontà per Chiara e le sorelle. Vedendo quale evoluzione stava avendo la sua fraternitas, Francesco sembra affidare alle sorelle l’eredità della sua intuizione. A più di vent’anni dalla ultima voluntas e dalla morte di Francesco, Chiara si sente investita della sua “eredità difficile”. Chiara su questo punto è inflessibile: le abbadesse e le sorelle future sono tenute a osservare la povertà inviolabiliter, avverbio usato solo per un altro legame imprescindibile per le Sorelle povere, quello dell’obbedienza ai successori di Francesco (RsC 1,4).

I versetti 12-15, introdotti da videlicet, sono esplicativi di 10-11: in modo assai dettagliato precisano in che cosa consiste concretamente «la santa povertà promessa a Dio e al beato Francesco», segnano i confini entro i quali un monastero potrà dirsi di Sorelle povere oppure no. Per Chiara la povertà materiale è la “forma” esterna del suo vivere il vangelo, il banco di prova umile e quotidiano della fede nel Padre celeste.

Rispetto alle Regole di Francesco varia il contenuto della povertà: non è il divieto di ricevere denaro, che la Forma vitae legittima per il sostentamento, ma il divieto di avere proprietà terriere. I passi paralleli del Testamento (53-55) sono a questo riguardo molto espliciti. Non siamo nel contesto di una fraternità apostolica e itinerante, ma in quello di una comunità penitenziale-monastica che per molti anni si è trovata inserita, suo malgrado, nell’alveo tradizionale con la professione della Regola benedettina. È la mancanza di proprietà terriere che qualifica l’identità clariana all’interno dell’istituzione monastica. Tuttavia il divieto non è assoluto: Chiara ammette che si possieda quel tanto di terra necessario per l’honestas e la remotio del monastero. Bellissimo l’equilibrio di questa donna, davvero cristiana, che non si fa un idolo neppure della povertà, che è per la sequela di Cristo, non fine a se stessa. Un monastero di stretta reclusione, come quello di San Damiano, ha bisogno di uno spazio vitale che garantisca il silenzio, l’equilibrio interno delle persone e della fraternità. E qui le due correnti, francescana e monastica, le due anime della Forma vitae si incontrano e si scontrano in ciò che hanno di apparentemente inconciliabile. Il sine proprio, il nihil habere sub caelo con il quantum terrae necessitas requirit, l’itineranza di Francesco con la stabilitas di Benedetto, l’insicurezza per la sequela con la sicurezza per la contemplazione... Chiara accorda queste antinomie con la sapienza del cuore che la caratterizza, ma siamo sul filo del rasoio: la precisione nel definire i termini della questione mostra che lei stessa si avvedeva di quanto fosse fragile quest’equilibrio, di quanto fosse insidiosa la tentazione di omologarsi agli altri monasteri. E San Damiano, negli anni 1250-53, si trovava sempre più solo a vivere questa follia della fede nella parola del vangelo.

Notiamo a questo proposito una differenza tra Forma vitae e Testamento: la Regola permette solo un terreno intorno al monastero con la duplice funzione di isolamento e di orto; il Testamento prevede la possibilità che oltre all’orto le sorelle abbiano un pezzo di terra per l’isolamento del monastero fuori dei confini dell’orto, terra che deve rimanere incolta. Il discernimento sulla reale necessitas è lasciato all’abbadessa e alle sorelle, responsabili in prima persona del carisma: extrema necessitas ribadisce per due volte il Testamento. Tra le righe Chiara mette in guardia le sorelle dall’avidità di possedere terre che facilmente, anche per fini legittimi, si poteva insinuare nel loro cuore. Oltre alle vicende dell’ordo sancti Damiani, aveva forse davanti agli occhi uno dei più eloquenti esempi della storia monastica, quello dei Cisterciensi, che poco dopo la morte di Bernardo di Chiaravalle (1153) si era progressivamente allontanato dai principi di stretta povertà su cui era fondato: a forza di acquistare terre intorno ai monasteri, per quel morbus aquirendi rilevato dai Capitoli generali, e di produrre in sovrappiù grazie alla manodopera gratuita dei conversi, i Cisterciensi si erano buttati nell’economia di profitto, divenendo una vera potenza rurale, ben maggiore di quella che contestavano alle abbazie benedettine tradizionali da cui, almeno nelle intenzioni originarie, avevano voluto discostarsi per un’osservanza più stretta della Regola.

Tratto da: Federazione S. Chiara di Assisi ● La Regola di Chiara di Assisi: il Vangelo come forma di vita


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CAPITOLO V

IL SILENZIO, IL PARLATORIO, LE GRATE

1 Dall’ora di compieta fino a terza, le suore osservino il silenzio, eccetto le inservienti fuori del monastero. 2 Sempre in silenzio restino in chiesa, nel dormitorio, nel refettorio quando mangiano; 3 ma non nell’infermeria, dove sia lecito parlare con discrezione, per la ricreazione ed il servizio delle suore inferme. 4 Possano tuttavia sempre e dovunque scambiarsi sottovoce e brevemente quanto è necessario. 5 Al parlatorio e alla grata non sia lecito alle suore parlare se non con il permesso dell’abbadessa o della vicaria. 6 Inviate al parlatorio, non osino parlare se non in presenza di due suore che ascoltino. 7 Né presumano di accedere alla grata, se non alla presenza di almeno tre delle otto discrete assegnate dall’abbadessa o dalla vicaria, elette da tutte le suore per consigliare l’abbadessa. 8 Questa disposizione valga anche per l’abbadessa e per la vicaria. 9 La grata si usi raramente. Alla porta poi non si vada mai. 10 Alla grata si aggiunga dall’interno una tenda, che non sia tolta se non durante qualche conferenza spirituale o quando qualcuna parla ad altri. 11 Ci sia anche la porta con due diverse serrature di ferro, ben munita di due battenti e spranghe: 12 perché soprattutto di notte sia serrata con due chiavi, di cui una sia tenuta dall’abbadessa e l’altra dalla sacrestana; 13 e resti sempre chiusa, eccetto quando si ascolta l’ufficio divino e per le ragioni dette sopra. 14 Nessuna può per nessuna ragione parlare alla grata prima della levata o dopo il tramonto del sole. 15 Al parlatorio resti sempre una tenda interna, che non deve essere rimossa. 16 Nella quaresima di san Martino e nella quaresima maggiore, nessuna acceda al parlatorio, 17 se non per il sacerdote a causa di confessione o per altra manifesta necessità, che viene riservata alla disposizione dell’abbadessa o della sua vicaria.

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Approfondimenti

La Forma vitae clariana_ coniuga assenza totale di possedimenti e stretta clausura, resa possibile dall’assistenza dei frati che risiedono accanto al monastero. La sua scelta religiosa evangelico-penitenziale da questo punto di vista va inquadrata nel più ampio fenomeno del “ritorno al deserto” che si diffuse in Europa dal secolo XI e che portò sia a nuove forme di vita regolare – come Camaldoli, Citeaux, la Chartreuse – sia a svariate espressioni di eremitismo e di reclusione maschile e soprattutto femminile nei pressi delle città. È una sete di solitudine, di silenzio, di penitenza, di libertà profonda per cercare Dio che anima queste forme di vita, tra cui quella delle sorelle di San Damiano, sebbene le sue origini strettamente legate alla fraternitas di Francesco le abbiano conferito un’impronta del tutto singolare rispetto agli altri insediamenti centro-italici delle pauperes moniales inclusae.

Nel capitolo 5 la triplice modalità di rapporti con l’esterno – apertura per parlare, grata della chiesa, porta – è affrontata da Chiara sempre in forma negativa. È sua la precauzione che le sorelle presenti ai colloqui alla grata siano tre discrete, come pure la limitazione di tempo_ «Nessuna può per nessuna ragione parlare alla grata prima della levata o dopo il tramonto del sole» (5,14) e la normativa sulle due chiavi, che di notte vanno custodite una dall’abbadessa e l’altra dalla sacrestana, come avviene per le chiavi della porta d’ingresso. Così come del tutto suo sarà il divieto che alcun estraneo entri in monastero prima della levata del sole o vi rimanga dopo il tramonto (11,8). Perché queste norme di tono restrittivo? Si può parlare anche in questo caso di inserzioni negative venute a rispondere a delle problematiche che nel corso degli anni si sono presentate a San Damiano? È difficile dirlo. Anche altrove nella Forma vitae vediamo Chiara assai diffidente verso tutto ciò che può mettere in pericolo l’honestas delle sorelle, la loro bona fama, l’integrità della loro consacrazione a Cristo.

Ci sono al contrario delle differenze di segno opposto, che mostrano come per Chiara le norme sulla clausura non sono mai esasperate, ma sono situate all’interno di una gerarchia di valori. Due di queste differenze riguardano la grata della chiesa, che doveva avere un rilievo particolare nella struttura del monastero, se le sono dedicati ben sette versetti. Mentre al _locutorium-– il panno che ricopre la lamina perforata non viene mai rimosso, alla grata la Forma vitae, diversamente dalle regole papali, ammette due eccezioni: per la predicazione della parola di Dio e quando una sorella parla a qualcuno (5,10), due motivazioni in se stesse così diverse, ma accomunate dalla “parola”. Nessun accenno esplicito, per il secondo caso, all’uso di coprirsi il volto, aggiunto da Innocenzo alle norme sulla grata della forma vivendi date dal cardinale Ugolino. Questa possibilità di contatto più diretto rispetto al parlatorio dove non c’era la minima visibilità può spiegare la serie di precauzioni notate sopra nei confronti dei colloqui alla grata – rarissimi del resto, come dice Chiara stessa più avanti – e forse nella maggioranza dei casi riguardanti gli incontri con i parenti. Un’altra differenza con le regole papali è l’omissione del motivo per cui l’abbadessa è tenuta ad osservare il modo di parlare pubblicamente richiesto a tutte le altre sorelle (notiamo qui il colpo di penna di Chiara, più che significativo di un modo di comprendere la realtà: legem loquendi è diventato formam loquendi). In Chiara la questione si pone su un altro piano: ciò che conta non è tanto l’evitare motivi di detrazione, ma la condivisione della vita comune, senza eccezioni neppure per l’abbadessa.

Il capitolo 5 si chiude con una di quelle delicatezze che fanno di Chiara la mater provida et discreta che lei stessa così bene descrive nel Testamento (TestsC 63). Al divieto di accedere al parlatorio durante le due quaresime, non previsto dalle regole papali, la madre può fare delle eccezioni. Il discernimento della necessità è affidato alla providentia dell’abbadessa o della sua vicaria. E qui la nuova trascrizione della Solet annuere ci ha restituito una sfumatura clariana tra le più belle: providentia al posto di prudentia come in 9,17. Provideo: videre pro. È un prendere coscienza delle situazioni, delle necessità in favore degli altri, discernendo dentro ad ogni situazione concreta, valutando ciò che è meglio per ogni persona.

Tratto da: Federazione S. Chiara di Assisi ● La Regola di Chiara di Assisi: il Vangelo come forma di vita


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