📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

Capitolo L – I monaci che lavorano lontano o sono in viaggio

1 I fratelli, che lavorano molto lontano e non possono essere presenti in coro nell’ora fissata per l’Ufficio divino, 2 se l’impossibilità in cui si trovano è stata effettivamente accettata dall’abate, 3 recitino pure l’Ufficio divino sul posto di lavoro, mettendosi in ginocchio per la reverenza dovuta a Dio. 4 Così pure quelli, che sono mandati in viaggio, non lascino passare le ore stabilite per l’Ufficio, ma lo recitino come meglio possono e non trascurino l’adempimento del dovere inerente al loro sacro servizio.

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Approfondimenti

La veritas horarum delle celebrazioni liturgiche L'Ufficio divino si celebrava normalmente nell'oratorio e alle ore stabilite, aderendo al senso storico e mistico che ogni ora possiede (quello che dopo la riforma liturgica si chiama la “verità delle ore liturgiche”). Ora, poteva succedere a volte – o forse con frequenza – che alcuni monaci non potevano per lontananza trovarsi in coro tutte le volte che la comunità si radunava.

1-3: I fratelli che lavorano lontano Il primo caso che la RB contempla è quello del lavoro. È vero che SB vuole che abitualmente i lavori dei monaci si svolgano dentro la cinta del monastero (RB 66,6-7), ma a volte per vari motivi – sopratutto si pensi al lavoro dei campi – si poteva essere abbastanza distanti per accorrere alle varie Ore canoniche. Secondo la RM bastavano 50 passi di distanza per essere dispensati dall'andare in coro (RM 55,2), il che pare un po' ridicolo. SB lascia all'abate di giudicare se i monaci possono o no venire in coro. In caso negativo, questi “celebrino l'Opera di Dio dove lavorano, inginocchiandosi con santo timore” (v. 3). Che cosa significa quest'ultima frase? Vuole forse dire che il fatto di celebrare l'Ufficio fuori dell'oratorio non dispensa dal prostrarsi per l'orazione silenziosa che c'era dopo il canto di ogni salmo? Il luogo parallelo della RM 55,4 potrebbe far propendere per tale interpretazione. Oppure significa semplicemente di seguire le stesse rubriche che si seguono in coro; o ancora un avvertimento ai monaci di non prendersela alla leggera e alla sbrigativa, ma fare tutto con precisione e riverenza? Notiamo che SB dà per scontato che ogni monaco – non esisteva la distinzione tra chierico e non-chierico, tra professo semplice e professo solenne – ha l'obbligo dell'Ufficio divino.

4: I monaci in viaggio Il secondo caso di assenza riguarda i fratelli in viaggio. Per questi SB dimostra un'assennata mitigazione e riserva: quando si viaggia, non sempre le circostanze permettono di seguire il completo cerimoniale o il perfetto orario; perciò i fratelli facciano come meglio possono. Nell'ultima frase c'è l'espressione servitutis pensum (debito del loro servizio, v 4.) per indicare la preghiera liturgica; in RB 49,5 la stessa espressione indica le varie osservanze del monaco. È la stessa idea di tutta la vita del monaco come “servizio”, “milizia di servizio” (RB 2,20) e di questo servizio l'espressione più alta è appunto la lode di Dio. Né deve meravigliare l'idea di “debito”: a volte la preghiera comune può essere pesante e costituire un vero sacrificio! Notiamo che oggi, nelle odierne condizioni del lavoro monastico può essere più frequente l'assenza di qualcuno. E in più si permette (nello spirito anche di mitigazione che SB mette in questo capitolo: “come meglio possono”, v. 4) la congiunzione di alcune Ore canoniche. Dobbiamo però tendere con ogni sforzo alla “verità delle Ore” e al ritmo della lode di Dio nei vari momenti della giornata.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XLIX – La quaresima dei monaci

1 Anche se è vero che la vita del monaco deve avere sempre un carattere quaresimale, 2 visto che questa virtù è soltanto di pochi, insistiamo particolarmente perché almeno durante la Quaresima ognuno vigili con gran fervore sulla purezza della propria vita, 3 profittando di quei santi giorni per cancellare tutte le negligenze degli altri periodi dell’anno. 4 E questo si realizza degnamente, astenendosi da ogni peccato e dedicandosi con impegno alla preghiera accompagnata da lacrime di pentimento, allo studio della parola di Dio, alla compunzione del cuore e al digiuno. 5 Perciò durante la Quaresima aggiungiamo un supplemento al dovere ordinario del nostro servizio, come, per es., preghiere particolari, astinenza nel mangiare o nel bere, 6 in modo che ognuno di noi possa di propria iniziativa offrire a Dio «con la gioia dello Spirito Santo» qualche cosa di più di quanto deve già per la sua professione monastica; 7 si privi cioè di un po’ di cibo, di vino o di sonno, mortifichi la propria inclinazione alle chiacchiere e allo scherzo e attenda la santa Pasqua con l’animo fremente di gioioso desiderio. 8 Ma anche ciò che ciascuno vuole offrire personalmente a Dio dev’essere prima sottoposto umilmente all’abate e poi compiuto con la sua benedizione e approvazione, 9 perché tutto quello che si fa senza il permesso dell’abate sarà considerato come presunzione e vanità, anziché come merito. 10 Perciò si deve far tutto con l’autorizzazione dell’abate.

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Approfondimenti

Nel determinare l'orario, SB ha tenuto conto del particolare carattere della quaresima (RB 48,14-16; 41,6-7). L'importanza data a tale periodo lo induce a scrivere un capitolo a parte sulla quaresima, quale tempo forte dell'anno liturgico per il quale senza dubbio egli aveva particolare devozione e che considerava come molto adatto per il rinnovamento spirituale dei monaci. Cassiano, da idealista impenitente, applicando la sua esegesi allegorica, dice che la quaresima è come la “decima”, il tributo che i cristiani nel mondo debbono pagare annualmente al Signore; immischiati come sono nelle cose della terra, negli affari e nei piaceri, si fa loro obbligo di consacrare al servizio di Dio almeno questi giorni. I monaci sono esenti dal pagare tale decima, perché hanno fatto a Dio donazione della loro vita intera con tutto quanto possiedono, e vivono tutto l'anno con il regime che i laici conducono in quaresima, obbligati dalla legge. La quaresima fu istituita solo per gli imperfetti: difatti non esisteva fin quando si mantenne la perfezione della Chiesa primitiva degli Atti. Così Cassiano, in Coll. 21,24-30. Uomo pratico secondo Gesù Cristo, SB pensa che anche per i monaci – uomini che aspirano alla santità, ma sempre uomini dalla testa ai piedi! – capita molto a proposito questo periodo di rinnovamento e di intensificazione della vita cristiana che ogni anno prepara i catecumeni al battesimo e tutti i fedeli a una degna celebrazione della Pasqua. È stato notato che, ad eccezione dei vv. 8-10 che sono come una appendice e di carattere chiaramente cenobitico, il capitolo dipende, tanto nelle idee quanto nelle espressioni, dai “Discorsi sulla quaresima” di S. Leone Magno, soprattutto i primi quattro (sono dodici). Così il contrasto iniziale tra la vita da tenersi in quaresima e quella più leggera da tenersi nel resto dell'anno; così il “tale virtù è di pochi” (v. 2) a proposito di una vita sempre a un livello spirituale molto alto; soprattutto l'idea della “purezza di vita”, di purificazione, di espiazione in quaresima delle colpe di tutto l'anno sono il 'leit-motiv' della predicazione di S. Leone. Appare chiaro che SB ha assimilato la dottrina quaresimale del vescovo di Roma, è impregnato del suo vocabolario e ripete spontaneamente le sue espressioni senza che si preoccupi di citarle letteralmente. Quello che S. Leone predicava a tutti i cristiani, SB lo scrive per i monaci; è una ulteriore prova che la vita monastica è un modo di realizzare la vita cristiana e che la dottrina della perfezione evangelica predicata dai Padri della Chiesa è ugualmente valida per il cristiano che vive nel mondo e per quello che, seguendo la sua vocazione, vive in monastero. SB quindi in questo capitolo è più preoccupato di sottolineare l'importanza della quaresima e lo spirito che deve animare la vita in tale periodo, che di fare precise pratiche penitenziali alla comunità o determinare in che cosa deve consistere l'intensificarsi della vita di preghiera, come invece fa la RM (cf. RM. 51 e 53). Dobbiamo perciò classificare il capitolo 49 della RB più tra la parte ascetica e spirituale che tra la parte propriamente legislativa e disciplinare.

1-3: Lo spirito che deve animare la quaresima “La vita del monaco dovrebbe essere una continua quaresima”, quasi a dire: tale sarebbe l'ideale, magari fosse così! Qual'e` il significato esatto di queste parole? Non dobbiamo credere che SB pensi a un carattere eccessivamente severo e melanconico della vita monastica; per lui la quaresima – come appare in seguito – non ha un volto triste, ma significa anzitutto un tempo in cui si vive con purezza (v. 2) e integrità la vita cristiana, o per lo meno si cerca. Uomo pratico e realista, SB sa che sono pochi quelli dotati di tanta virtù e fortezza di spirito da mantenersi completamente fedeli al Vangelo durante tutto l'anno. Allora durante la quaresima sforziamoci non solo di vivere come monaci autentici, ma anche di fare qualcosa in più, quasi a compensare e cancellare le negligenze degli altri periodi. Questo è insomma l'ideale quaresimale per i monaci: vivere perfettamente come tali e riparare con pratiche supererogatorie alle infedeltà della “quaresima” precedente. (Per i paralleli con S. Leone Magno, cf. “Discorsi sulla quaresima”, I,2; IV,1; V,2.6).

2: Custodire la propria vita con somma purezza “Puritas” qui è nel senso più ampio: la mondezza di mente e di cuore, per cui si è spogli da ogni attacco che distragga da Dio. La bellissima sentenza richiama il 48° strumento delle buone opere: Actus vitae suae omni hora custodire (vigilare continuamente sulle azioni della propria vita), RB 4,48; è la vigilanza assidua di chi ama seriamente Dio e vuole che nessuno dei suoi atti possa ostacolare l'unione con Lui; è praticamente il primo gradino dell'umiltà, con la famosa “memoria Dei” (cf. RB 7,10-30).

4-7: Pratiche quaresimali SB scende al particolare. Anzitutto astenersi da ogni peccato: è la prima e più necessaria astinenza (cf. S. Leone M., Discorso IV,6); la lotta contro i vizi – estirpandoli dalle radici, se è possibile – è uno dei fini dell'ascetismo cristiano. Poi dedicarsi con speciale impegno a certe pratiche. SB ne segnala quattro: tre di carattere spirituale, una di carattere corporale.

  1. Preghiere con lacrime, si tratta dell'orazione privata, in unione alle lacrime e alla compunzione del cuore, suggerita spesso da SB (cf. RB 4,56-57; 20,3; 52,4);
  2. Lectio divina, appunto perciò ha prescritto la consegna di un libro a ciascun monaco all'inizio della quaresima (RB 48,15-16) e ha unificato le ore di “lectio”, circa tre ore di seguito: “dal mattino fino a tutta l'ora terza” (RB 48,14).
  3. Compunzione del cuore, è lo spirito di compunzione, cioè il chiedere perdono a Dio dei propri peccati con lacrime e gemiti, come ha già detto nel 57° strumento delle buone opere (RB 4,57), evidentemente con maggiore frequenza e intensità che negli altri periodi.
  4. Astinenza, è l'astinenza corporale, come specificherà meglio nei versetti seguenti.

5: Aggiungiamo qualcosa... “Aggiungiamo qualcosa al consueto debito del nostro servizio” (v. 5). C'è un debito, una “tassa” stabilita, delle prestazioni normali – diciamo così – nel servizio di Cristo, che è la vita monastica; durante la quaresima, aggiungiamo qualcosa alla tariffa ordinaria. E abbiamo qui altri due elenchi (oltre a quello del v. 4) nel v. 5 e nel v. 7. L'idea di aggiungere qualcosa è continua pure in S. Leone Magno (cf. Discorsi, II,1). Tutte le cose elencate si ritrovano negli strumenti delle buone opere (RB. 4).

7: Sottraiamo qualcosa... Nel terzo elenco (v. 7) si parla di sottrarre qualcosa alla loquacità e alla scurrilità o leggerezza. Ma non aveva SB completamente condannato queste cose nel c. 6 sull'amore al silenzio? (RB 6,8). Come mai ora si suggerisce di reprimerle “un poco” aliquid durante la quaresima? Una cosa è la teoria, un'altra è la pratica. Qui pare affacciarsi sorridente il volto paterno di SB. La vita dovette insegnare al santo – sempre grave e solenne, ma anche molto umano – che ci sono dei tipi per natura leggeri e portati allo scherzo e alla buffoneria, e privarli del tutto di queste cose equivarrebbe a reprimerli. Basta che si moderino un po', almeno in quaresima!

Due caratteristiche dell'impegno quaresimale * Il senso della gioia nell'impegno quaresimale e nell'attesa della Pasqua. “Col gaudio dello Spirito Santo” (v. 6): citazione da 1Ts 1,6. Anche a proposito dell'obbedienza SB ha ricordato (RB 5,16) che “Dio ama chi dona con gioia” (2Cor 9,7). Questa nota di letizia, frutto della sincera generosità ispirata dallo Spirito Santo, rende più profumato l'atto di offerta. Si ricordi, poi, a proposito del digiuno, l'insegnamento di Gesù: “Tu invece, quando digiuni, profumati...” (Mt 6,17). Al v. 7 la frase “con gioia di soprannaturale desiderio aspetti la santa Pasqua” ricorda alcune espressioni liturgiche. L'attesa della Risurrezione di Cristo dona a tutta l'osservanza quaresimale l'abito della gioia; preparato dall'impegno e dalle osservanze della quaresima, il monaco giungerà maturo a godere pienamente la S. Pasqua. * Il carattere individuale e volontario è l'altra caratteristica di questi versetti. Le pratiche quaresimali non sono imposte obbligatoriamente a tutti i monaci dall'autorità della Regola o dall'abate. A differenza dalla RM, in cui si prescrivono orazioni e astinenze comunitarie, la RB non ha un programma preciso e obbligatorio per la comunità intera (a parte quanto detto nell'orario, RB 48,14-16). Si tratta di opere supererogatorie che ciascuno unusquisque offre a Dio volontariamente propria voluntate e col gaudio dello Spirito Santo cum gaudio Sancti Spiritus; non sono un peso supplementare imposto dalla legge, ma un segno della generosità con cui ciascun monaco, con cuore largo e gioioso, intende darsi a Cristo Signore a compensazione delle deficienze nel servizio santo che ha professato.

8-10: Appendice sul ruolo dell'abate “Cum spiritalis desiderii gaudio sanctum Pascha expectet.” Aspetti la santa Pasqua nella gioia del desiderio spirituale (v. 7). Con queste magnifiche parole si chiudeva probabilmente il capitolo nella sua prima redazione. SB in seguito vi aggiunse un'appendice. Chissà, forse alcuni monaci, approfittando della libertà di scelta, si davano a delle pratiche ascetiche o a penitenze eccessive. (Ricordiamo quello che vide Macario tra i monaci di Tabennisi durante la quaresima, cf. Palladio, Storia Lausiaca, c. 18,14-15). La Regola, pur lasciando quella libertà individuale di cui sopra, guida il monaco per i sentieri dell'obbedienza: le piccole mortificazioni individuali siano sottoposte al permesso e alla benedizione dell'abate (si evita così il pericolo di illusione e di esagerazione) e siano accompagnate dalla sua preghiera. È questa un'idea propria del monachesimo antico: il discepolo attribuiva alla preghiera del “padre spirituale”, richiesta al medesimo prima di iniziare qualche opera, la riuscita dell'opera stessa. SB si mantiene nella linea della tradizione autentica. E termina con un principio di carattere generale: tutto deve compiersi con il consenso dell'abate (v. 10; cf. anche RB 67,7).

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XLVIII – Il lavoro quotidiano

1 L’ozio è nemico dell’anima, perciò i monaci devono dedicarsi al lavoro in determinate ore e in altre, pure prestabilite, allo studio della parola di Dio. 2 Quindi pensiamo di regolare gli orari di queste due attività fondamentali nel modo seguente: 3 da Pasqua fino al 14 settembre, al mattino verso le 5 quando escono da Prima, lavorino secondo le varie necessità fino alle 9; 4 dalle 9 fino all’ora di Sesta si dedichino allo studio della parola di Dio. 5 Dopo l’ufficio di Sesta e il pranzo, quando si alzano da tavola, riposino nei rispettivi letti in assoluto silenzio e, se eventualmente qualcuno volesse leggere per proprio conto, lo faccia in modo da non disturbare gli altri. 6 Si celebri Nona con un po’ di anticipo, verso le 14, e poi tutti riprendano il lavoro assegnato dall’obbedienza fino all’ora di Vespro. 7 Ma se le esigenze locali o la povertà richiedono che essi si occupino personalmente della raccolta dei prodotti agricoli, non se ne lamentino, 8 perché i monaci sono veramente tali, quando vivono del lavoro delle proprie mani come i nostri padri e gli Apostoli. 9 Tutto però si svolga con discrezione, in considerazione dei più deboli. 10 Dal 14 settembre, poi, fino al principio della Quaresima, si applichino allo studio fino alle 9, 11 quando celebreranno l’ora di Terza, dopo la quale tutti saranno impegnati nei rispettivi lavori fino a Nona, e cioè alle 14. 12 Al primo segnale di Nona, ciascuno interrompa il proprio lavoro per essere pronto al suono del secondo segnale. 13 Dopo il pranzo si dedichino alla lettura personale o allo studio dei salmi. 14 Durante la Quaresima leggano dall’alba fino alle 9 inoltrate e poi lavorino in conformità agli ordini ricevuti fino verso le 4 pomeridiane. 15 In quei giorni di Quaresima ciascuno riceva un libro dalla biblioteca e lo legga ordinatamente da cima a fondo. 16 I suddetti libri devono essere distribuiti all’inizio della Quaresima. 17 E per prima cosa bisognerà incaricare uno o due monaci anziani di fare il giro del monastero nelle ore in cui i fratelli sono occupati nello studio, 18 per vedere se per caso ci sia qualche monaco indolente, che, invece di dedicarsi allo studio, perda, tempo oziando e chiacchierando e quindi, oltre a essere improduttivo per sé, distragga anche gli altri. 19 Se si trovasse – non sia mai! – un fratello che si comporta in questo modo, sia rimproverato una prima e una seconda volta, 20 ma se non si corregge, gli si infligga una punizione prevista dalla Regola, in modo da incutere anche negli altri un salutare timore. 21 Non è neppure permesso che un monaco si trovi con un altro fuori del tempo stabilito. 22 Anche alla domenica si dedichino tutti allo studio della parola di Dio, a eccezione di quelli destinati ai vari servizi. 23 Ma se ci fosse qualcuno tanto negligente e fannullone da non volere o poter studiare o leggere, gli si dia qualche lavoro da fare, perché non rimanga in ozio. 24 Infine ai monaci infermi o cagionevoli si assegni un lavoro o un’attività che non li lasci nell’inazione e nello stesso tempo non li sfinisca per l’eccessiva fatica, spingendoli ad andarsene, 25 poiché l’abate ha il dovere di tener conto della loro debolezza.

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Approfondimenti

L'Opus Dei è l'occupazione principale del monaco, però non è l'unica. Il rimanente tempo va distribuito tra lavoro manuale e lectio divina. Quindi il titolo non abbraccia tutto il contenuto del capitolo. In realtà in queste pagine abbiamo tutto l'orario della giornata, con la saggia distribuzione del tempo tra OPUS DEI, LECTIO DIVINA, LAVORO MANUALE, i tre grandi cardini della vita monastica.

RB 48 corrisponde a RM 50. In quest'ultima l'orario è visto soprattutto alla luce dell'Ufficio divino: si tratta di occupare il tempo tra un ufficio e l'altro; nella RB ha uno scopo eminentemente pratico: interessandogli l'ordinamento delle occupazioni dei monaci tra lavoro e lectio, SB non teme neanche di spostare alcune ore dell'Ufficio divino (terza, sesta e nona), cosa che altrove era soltanto eccezionale. RB considera piuttosto il ritmo della vita umana con le sue alternanze di sforzo e di riposo, di lavoro spirituale e di lavoro materiale.

La struttura del capitolo è logica:

  • un principio generale (v.1);
  • orario da Pasqua a ottobre (vv.2-6) e norme in caso di lavori eccezionali (vv.7-9);
  • orario da ottobre a quaresima (vv.10-13);
  • orario di quaresima (vv.14-16);
  • la lectio quaresimale, che riveste particolare importanza, fa aggiungere a SB delle norme per la scrupolosa osservanza del tempo ad essa dedicato (vv.17-21);
  • chiudono il capitolo alcune direttive sul lavoro e la lettura in casi speciali: uno temporale (la domenica, vv.22-23), l'altro personale (infermi vv.24-25).

1: Principio generale: necessità del lavoro Apre il capitolo un assioma fondamentale: la necessità e l'obbligo del lavoro. La sentenza “l'ozio è nemico dell'anima” si trova nella Regola di S. Basilio stampata nella versione latina di Rufino (Reg.192) e viene citata come un detto di Salomone, ma non si trova nella Scrittura e non si legge nell'opera originale in greco di S. Basilio (Reg. 37). La Bibbia ha frasi simili: “l'ozio insegna molte cattiverie” (Sir 32,21; cf. Prv 26,13-14; Sir 22,1-2). Si noti che nel testo della RB, per “ozio” c'è la parola latina otiositas e non otium, perché è l'“otium” latino non corrisponde al nostro “ozio”, ma significa “essere libero per dedicarsi ad attività di carattere spirituale” (quali lo studio, la contemplazione, ecc.; da qui l'espressione “otia monastica” “ozi monastici” come tempo per la lectio divina, la riflessione, ecc.). Attenzione quindi a non equivocare. “Perciò i fratelli in determinate ore...”: la frase richiama un passo di Agostino (De opere monachorum, 37). SB vuole distribuire bene il tempo: tutte le ore non impiegate nell'Ufficio divino devono avere un ben determinato uso: o lavoro manuale o lectio divina.

2-6: Orario estivo : da Pasqua a Ottobre Scendendo al concreto, SB stabilisce l'orario per i vari tempi dell'anno. Nei mesi di primavera estate, dopo Pasqua (verso le 5) i monaci andavano al lavoro. Non si fa menzione dell'Ufficio di Terza, che probabilmente veniva celebrato sul luogo stesso del lavoro (cf. RB 50), oppure si celebrava al termine del lavoro verso le 10. (Sarà bene ricordare, a proposito di ore e di orario, che si tratta di computo romano, con l'ora variabile secondo le stagioni in funzione della luce solare. Dall'ora quarta (verso le 10) fino a sesta (verso mezzogiorno) i monaci si dedicavano alla lectio. Si noti la discrezione di SB che d'estate fa lavorare i monaci nelle prime ore del giorno quando non è troppo caldo. Dopo sesta, i monaci mangiavano e poi avevano la siesta, per compensare qualcosa alle meno ore di sonno durante le brevi notti dell'estate. SB non tiene conto qui del mercoledì e venerdì, in cui non si mangiava fino a nona (RB 41,2-4) per ragione del digiuno; sembra però che la siesta nel periodo estivo ci fosse tutti i giorni, digiuno o non digiuno, come appare dal parallelo RM 50,56-60. Quelli a cui non piaceva dormire o che amavano astenersene per ascetismo, erano autorizzati a leggere presso il proprio letto, ma non a voce alta: la raccomandazione non è superflua, perché gli antichi erano soliti leggere, anche privatamente, pronunziando le parole. Da questo testo deduciamo che tutti i monaci, dormissero o leggessero, dovevano rimanere nel dormitorio comune (come appare anche da RM 44,12-19). La siesta durava fino a nona, ma detta ora canonica si anticipava un pò e poi i monaci tornavano al lavoro fino a vespro.

7-9: Norme in caso di lavori eccezionali SB aggiunge una parentesi di singolare importanza: contempla il caso di lavoro eccezionale, come la raccolta delle messi e dei frutti. I monaci di quel tempo non si occupavano direttamente dei lavori dei campi, che invece affidavano ad operai prezzolati (i monaci si limitavano al lavoro dell'orto, del giardino...). Ora, le circostanze in cui si trovava l'Italia – la guerra tra Goti e Bizantini, la povertà, la mancanza di mano d'opera o l'impossibilità di pagarla – potevano costringere i monaci a fare da se stessi la mietitura, la trebbiatura, la vendemmia, ecc. Quindi, malgrado le riserve dell'ambiente monastico italiano, SB si vede costretto a introdurre il lavoro agricolo e riscopre nel suo tempo la grande legge del monachesimo primitivo di sostenersi con il proprio lavoro: allora sono veri monaci, quando... (v. 8). La necessità del lavoro inculcata prima come una massima negativa – evitare l'ozio, nemico dell'anima (v. 1) – si basa ora su un principio positivo: attendere alla propria sussistenza, conforme all'esempio dei “nostri Padri e degli Apostoli” (v. 8). Quindi il lavoro manuale dei monaci non consisterà solo nelle diverse occupazioni domestiche (in cucina, nel forno, nel mulino); o nei diversi incarichi in monastero (ospiti, ammalati); o nella semplice coltivazione dell'orto sufficiente per le verdure per la mensa comune; o ancora nell'esercizio di un'arte: tutti lavori, questi, che non davano un'entrata al monastero (anche gli stessi artigiani, cf. RB 57,4-7); si tratta anche di coprire le necessità del monastero con il prodotto del proprio lavoro, di provvedere al proprio sostentamento con fatica, secondo la grande legge del lavoro. In tal caso, dice SB, i monaci si dedichino a tali lavori pesanti non soltanto senza mormorare, ma col santo orgoglio di sentirsi veri monaci (vv. 7-8); però non si ecceda, e si pensi ai meno dotati di vigore fisico o morale (v. 9).

10-13: Orario invernale: da ottobre a quaresima In autunno-inverno si ha un altro ordinamento. I monaci dedicavano le prime ore della mattinata alla lettura, dalle lodi fino alla fine dell'ora seconda, che, calcolando il solstizio invernale con la levata del sole molto più tardi, dovrebbe corrispondere alle nostre ore 8:30-9. Poi si celebrava terza e quindi c'era un lungo orario di lavoro fino a nona, verso le 14:30-15. Si parla solo qui di due segnali per l'Ufficio divino, però si può supporre che erano sempre due i segnali per chiamare alla preghiera i monaci quando stavano lavorando. Come già si è visto, (RB 41,6), in questo periodo i monaci mangiavano solo dopo nona, e non c'era la siesta; perciò dopo il pasto si riprendeva la lettura o lo studio dei salmi: vacent psalmis significa “mandare a memoria il salterio” a forza di recitarlo (SB a questo scopo ha già stabilito il tempo tra l'Ufficio notturno e le lodi in inverno, cf. RB 8,3). La lettura durava certamente fino a vespro; dopo vespro, breve intervallo, quindi riunione dei monaci con la lettura delle Collazioni e compieta (cf. RB 42,5).

14-16: Orario durante la quaresima Come si vede, l'orario invernale era più austero che quello estivo. In quaresima questo carattere severo si accentua: la quaresima è un tempo penitenziale. La refezione era dopo il vespro, che però veniva un pò anticipato (cf. RB 41,7-8). L'orario così è meno spezzettato: lettura tutta di seguito fin verso le 9; poi lavoro continuo fino alle 16 (interrotto solo dagli Uffici di sesta e nona recitati probabilmente sul posto di lavoro); seguiva il vespro, la refezione, quindi la lettura comune e compieta. Ciascuno dei giorni di penitenza preparatori alla Pasqua (eccettuata la domenica) costituiva una dura giornata di lettura e di lavoro sopportata a digiuno fino a vespro.

Bibliotheca: interpretazione controversa I vv.15-16 hanno un'interpretazione controversa. “All'inizio della quaresima – dice la RB – ciascuno riceva un libro della biblioteca da leggere di seguito e per intero”. Il testo è perfettamente chiaro. La disputa è intorno alla parola biblioteca. Si è interpretato fino a qualche anno fa sul senso originario e comune di biblioteca del monastero. Alcuni studi fanno pendere per un'altra interpretazione. Si dice che se la parola “bibliotheca” nella letteratura classica indica la biblioteca nel senso nostro, cioè deposito di libri, nella letteratura cristiana significa l'insieme dei libri sacri, cioè la Bibbia. Nei testi cristiani dal VI al IX secolo, cioè durante il periodo patristico e il primo medio evo, questo significato è più frequente che non l'altro. In tutta la Regola non si parla mai di biblioteca del monastero, quasi sicuramente perché non esisteva (al tempo do SB i monasteri più grandi avevano in genere un centinaio di codici. Si pensi però a Cassiodoro e alla sua fondazione). Inoltre i cataloghi medioevale di libri non chiamano quasi mai “bibliotheca” l'insieme dei codici che elencano, mentre usano la parola nel senso di Bibbia e citano difatti Bibliotheca integra (=l'intera Bibbia), Bibliotheca II (=il secondo volume), ecc. Si dice ancora che interpretare in questa frase della RB la parola “bibliotheca” come deposito di libri non ha senso, in quanto risulta evidente da tutta la tradizione cenobitica (Pacomio, Agostino, Ordo Monasterii, Isidoro...), che i libri venivano distribuiti tutti i giorni, perché i monaci leggevano sempre; che significato ha una sola distribuzione all'inizio di quaresima? E negli altri periodo dove leggevano? Invece con la nuova interpretazione di Bibliotheca = Bibbia, tutto apparirebbe più logico. Prima e dopo SB, la Scrittura soleva dividersi in nove codici (SB ne cita alcuni: “Eptaticum” = i 7 primi libri; “Regum” = 1Re; cf. RB 42,4, oltre al “Psalterium”). Orbene se ne dava uno a ciascun monaco all'inizio di quaresima, perché la Scrittura costituiva il suo alimento spirituale più che negli altri tempi dell'anno; e così in capo a nove anni si era letta la Bibbia completa, un “codice” per quaresima, seguendo un certo ordine, come è indicato dalle parole per ordine e per intero del v.16. Anche S. Cesario invitava a leggere la Scrittura specialmente durante la quaresima. Tuttavia l'interpretazione della parola rimane discutibile.

17-21: Vigilanza durante la lettura Dedicarsi per tre ore al giorno (e in quaresima per tre ore di seguito) alla lectio divina implicava un certo sforzo per molti monaci, specialmente in quei tempi in cui la cultura e la lettura non erano alla portata di tutti. SB delega uno o più anziani a vigilare perché i monaci facciano la lectio (forse... bisognerebbe rimettere questa norma nei nostri monasteri!!!). La disposizione – che vale evidentemente per tutto l'anno e non solo per la quaresima – prova che non si leggeva in un luogo comune, ma ciascuno prendeva il suo libro e si ritirava dove voleva. Nei secoli posteriori, poi, si usò studiare e leggere insieme nel chiostro o in una sala apposita. Al tempo di SB sarebbe stato impossibile, anche perché si usava in genere pronunciare a voce alta le parole che si leggevano: ecco perché era più facile che uno approfittasse dell'occasione e si metteva bellamente a chiacchierare.

Il fratello accidioso SB qualifica un tale fratello come accidioso, cioè vittima dell'accidia. È l'unica volta che tale parola appare nella Regola; ed è strano, dato l'enorme uso della parola e del concetto negli ambienti monastici. La parola “accidia” (akedia in greco, acedia in latino) letteralmente significa “mancanza di cura”, “incuria”, e divenne un termine tecnico presso i monaci. Si trova nella famosa classificazione di Evagrio Pontico, trasmessa da Cassiano sotto il titolo “Gli otto vizi principali o capitali”, ed ha un posto di molto rilievo: si tratta di una passione o infermità dello spirito composta di inquietudine, tedio, vuoto interiore, instabilità, torpore, ecc.; si potrebbe pensare alla moderna “noia” (quando uno non ha voglia di fare nulla, è arido e vuoto spiritualmente). Evagrio e Cassiano la analizzano con precisione clinica. Per gli antichi era la tentazione per eccellenza degli anacoreti, il cosiddetto “demonio meridiano”. Ai cenobiti poteva (e può) venire soprattutto durante la lectio, quando essi sono più soli con se stessi, più simili agli anacoreti. Cassiano ugualmente nota che la “acedia” non permette di dedicarsi alla lettura (Inst. 10,2). SB vuole che un tale fratello, “inutile a se stesso e dannoso agli altri” (un “frate-mosca” lo chiamava S. Francesco), sia punito in modo esemplare, sì “da far timore anche agli altri” (v.20); l'espressione ricorda 1Tm 5,20.

21: parlare in ore non competenti Al v. 21 segue un principio generale: che i monaci non comunichino tra di loro in ore non competenti, tanto meno durante il tempo della lettura, che deve essere dedicato a parlare con Dio, ad ascoltare e approfondire la sua parola.

22-25: Lavoro e lettura in casi particolari Due casi particolari, al termine del capitolo. La domenica è dedicata interamente al Signore. S. Girolamo scriveva ai monaci d'Egitto: “Nei giorni di domenica attendono solo all'orazione e alla lettura” (Epist. 22,35). SB segue questa pratica; naturalmente alcuni dei fratelli dovevano attendere ad uffici necessari: cellerario, infermiere, cuoco, ecc. Però, nel caso di qualche fratello molto svogliato o anche poco incline a leggere per disposizione naturale (pensiamo che forse alcuni sapevano appena appena leggere), SB prescrive un lavoretto qualsiasi, anche di domenica, tanta era la paura della “otiositas”. Ricordiamo che “meditare” (v. 23) non significa tanto meditare nel senso nostro, ma piuttosto “esercitarsi nello studio dei salmi”, “ripetere per imparare a memoria”. Tale è il senso del v. 23 e probabilmente di RB 58,5 a proposito dei novizi. Quanto agli infermi e ai fratelli di salute fragile, bisogna provvedere un lavoro che mentre fa evitare l'ozio (di nuovo la paura della “otiositas”!), non li opprima o schiacci (v.24). Il capitolo termina con una nota di umanità: l'abate deve considerare la loro debolezza (v.25).

Conclusione Se si paragona ad altre Regole monastiche, l'orario di SB appare molto più complicato; ma questo non è un difetto, rivela una grande discrezione nell'autore, che fissa tanti particolari, anche minuziosi, tenendo conto dei tempi e delle circostanze. Per SB vale il principio “Nulla si anteponga all'Opera di Dio” (RB 43,3); però non teme di spostare alcune ore dell'Ufficio (terza, sesta, nona e anche vespro) per meglio inquadrare le altre due occupazioni principali del monaco, secondo tutta la tradizione monastica: lectio e lavoro.

RB si preoccupa molto della lectio divina. Ad essa assegna il tempo migliore in durata e qualità; d'inverno le sono dedicate le prime ore della giornata (senza contare il tempo tra l'Ufficio notturno e le lodi, cf. RB 8,3) e un'altra ora circa tra nona e vespro; d'estate le ultime ore della mattinata e, chi vuole, il tempo della siesta. Complessivamente sono tre ore al giorno (in quaresima di più e la domenica tutto il tempo libero). SB vuole evitare una durata eccessiva in continuità e quindi fa in modo che la lectio sia spezzettata. Sarebbe inutile cercare nella RB una dottrina sulla lectio divina: era una cosa naturale conosciuta da tutti i monaci (e dai cristiani), era la maniera della Chiesa di accostarsi al testo sacro in vista non tanto dell'intelletto, quanto piuttosto della preghiera.

RB, poi, si preoccupa che i monaci lavorino: il lavoro dura circa sette ore in inverno e in quaresima, sei ore e mezzo in estate ed è più intervallato a causa del clima estivo. Non si specifica quale era il lavoro manuale che i monaci facevano. SB non ne assegna uno esclusivo: oltre a quello necessario per i servizi del monastero (forno, cucina, ecc.), poteva essere quello dei vari artefici (cf. RB. 57) e certamente – in certe occasioni o per circostanze storiche – quello dei campi.; è considerato comunque eccezionale quello estivo della raccolta. Nel corso dei secoli i monaci hanno intrapreso i più vari generi di lavoro manuale e intellettuale.

Nell'orario fissato con tanti particolari da SB non figura la messa quotidiana nei giorni feriali, nemmeno in quaresima. Nel monastero al tempo di SB la messa conventuale e solenne si celebrava solo la domenica e le feste. Questo non deve sorprendere. Solo posteriormente a SB si andò estendendo l'uso della messa quotidiana (cominciando dall'Africa e dalla Spagna). Naturalmente, oggi la messa conventuale è il centro della giornata monastica.

Nell'orario di SB manca pure ogni accenno ad un tempo per la cosiddetta ricreazione per allentare un pò l'arco teso di preghiera-lectio-lavoro e per aumentare i rapporti fraterni. Certamente non esisteva di orario. Però sarà bene ricordare che SB non interdice affatto l'uso della parola, ma ammonisce solo per l'uso saggio, discreto e assennato della parola (cf. RB 6; 4,51-54; 7,56-61 e relativo commento). Inoltre le “ore non competenti” di RB 48,21 fanno spia che dovevano esserci anche delle “ore competenti” in cui i monaci potevano avvicinarsi, parlare, trattare insieme. Con l'andare del tempo, la tradizione monastica ha fissato un particolare “tempo competente” scritto anche nei nostri orari come “tempo libero” o “sollievo”, per scaricare un pò la tensione della preghiera e del lavoro e per trascorrere qualche momento in fraterna conversazione.

Per la ricostruzione di una giornata monastica nel monastero benedettino del medioevo, si può vedere il libro (molto breve e di facile lettura) di: L.MOULIN, La vita quotidiana secondo S,Benedetto, Jaca Book, Milano 1980.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XLVII – Il segnale per l’ufficio divino

1 Bisogna che l’abate si assuma personalmente il compito di dare il segnale per l’Ufficio divino, oppure lo affidi a un monaco diligente in modo che tutto avvenga regolarmente nelle ore fissate. 2 L’intonazione dei salmi e delle antifone, secondo l’ordine prestabilito, spetta, dopo l’abate, ai monaci appositamente designati. 3 E nessuno si permetta di cantare o di leggere all’infuori di chi è capace di farlo in maniera da edificare i suoi ascoltatori; 4 inoltre questo compito dev’essere svolto con umiltà, gravità e reverenza e solo dietro incarico dell’abate.

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Approfondimenti

1: Il segnale per l'Ufficio divino Il titolo si riferisce solo alla prima parte del testo (v. 1). SB aggiunge poi altre precisazioni che riguardano la disciplina in coro durante la celebrazione. Si dice anzitutto che la responsabilità della puntuale celebrazione liturgica, di notte e di giorno, ricade sopratutto sull'abate, il quale o prende l'incarico lui stesso o lo affida a qualche fratello “molto attento”. In un'epoca in cui le ore variavano da un giorno all'altro e in cui i procedimenti per calcolare il tempo erano piuttosto rudimentali, tale incarico era più difficile di quanto sembri a prima vista. Il modo di dare il segnale era vario presso gli antichi monaci. Nei monasteri pacomiani si chiamava con la voce o si batteva uno strumento qualsiasi; le vergini di Santa Paola erano chiamate al canto dell'alleluia (S. Girolamo, Epistola 108,19); Cassiano riferisce che si bussava alle porte (Inst. 4,12). Può darsi che SB pensi alla percussione di lamine di metallo o di tavolette. Il fascetto di verghe posto da qualche pittore in mano al santo, più che uno strumento penale, indica forse uno strumento destinato alla sveglia; nel caso, sarebbe stato il patriarca stesso – come dice qui il testo – a svegliare i monaci.

2-4: Disciplina del coro Spetta ugualmente all'abate designare chi deve cantare o leggere. Il buon ordine della celebrazione e l'edificazione dell'assemblea esigono che facciano i solisti solo coloro che sono in grado di farlo, e ciò si riferisce tanto alla precisione materiale quanto alle disposizioni spirituali: umiltà, gravità e grande riverenza (v.4). Notiamo che il verbo imponere (v.2), più che “intonare” un salmo, significa qui recitarlo integralmente. Tuttavia ciò risulta più facile che “leggere” (v. 3) per il fatto che i salmi si recitavano a memoria, mentre leggere nei manoscritti dell'epoca era un'impresa più complicata e certamente non erano molti i monaci che potevano farlo con competenza e soddisfazione di tutti.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XLVI – La riparazione per le altre mancanze

1 Se, mentre è impegnato in un qualsiasi lavoro in cucina, in dispensa, nel proprio servizio, nel forno, nell’orto, in qualche attività o si trova in un altro luogo qualunque, un monaco commette uno sbaglio, 2 rompe o perde un oggetto o incorre comunque in una mancanza 3 e non si presenta subito all’abate e alla comunità per riparare spontaneamente e confessare la propria colpa, 4 sarà sottoposto a una punizione più severa, quando il fatto verrà reso noto da altri. 5 Ma se il movente segreto del peccato fosse nascosto nell’intimo della coscienza, lo manifesti solo all’abate o a qualche monaco anziano, 6 che sappia curare le miserie proprie e altrui senza svelarle e renderle di pubblico dominio.

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Approfondimenti

1-4: Colpe esterne in qualunque luogo del monastero Quest'ultimo capitolo della sezione disciplinare considera tutte le altre colpe e negligenze che possano commettersi in qualunque parte del monastero. Il castigo per i falli esterni qui previsti – rompere qualche oggetto o perderlo – non costituisce nessuna novità per la legislazione monastica: Pacomio (Reg. 13-17,131) e Cassiano Inst. 4,16) lo menzionano. Ciò che è nuovo è l'esigenza di spontaneità e l'immediatezza della soddisfazione (non previste in Cassiano e in RM). SB prevede due gradi: il primo è la soddisfazione immediata; il secondo, nel caso della non soddisfazione, è la scomunica. SB si ispira a S. Agostino (Epistola 211,11) che prevede, per il monaco che riceve regali di nascosto, tutti e due i casi: se lo confessa spontaneamente, verrà perdonato; se si viene a sapere da altri (per esempio da un decano o da qualche altro fratello, sarà punito più severamente. Tuttavia, mentre Agostino parla di una colpa abbastanza grave (doni ricevuti di nascosto da una donna), SB applica la norma a casi più banali ed estende il suo campo di applicazione. Ricordiamo che nella vita del S. Patriarca, abbiamo un esempio di ambedue i casi: la confessione spontanea del buon goto, che venne subito confortato da SN (II Dial. 6) e il monaco che aveva ricevuto dei fazzoletti e non disse nulla e ne ebbe una solenne lavata di capo (II Dial. 19).

5-6: Colpe interne o peccati occulti Il monaco deve dunque confessare spontaneamente le proprie mancanze, anche le più materiali, e soddisfare per esse. Se invece si tratta di “peccati occulti” commessi nel segreto della propria coscienza, non devono essere pubblicati. Bisogna, sì, confessarli, ma solo all'abate o ai “padri spirituali”. Non è facile stabilire precisamente ciò che si intende per “peccati occulti”. Si può fare riferimento a RM. 15 (pensieri cattivi) e a Cassiano (Coll. 2,11.13: furto, pensieri impuri). In RM la confessione si fa all'abate, ed è preparata dai preposti (decani); in RB si fa all'abate e ai “seniori spirituali”: questi possono essere i decani, ma non solo loro. “Anziani spirituali” nella tradizione monastica (trasmessa soprattutto da Cassiano), sono quei monaci molto avanti nella vita spirituale, alla fine del cammino della scala dell'umiltà, quindi oggetto di una particolare ispirazione dello Spirito Santo. Non si tratta dei sacerdoti del monastero (RB. 62), né si parla qui della confessione sacramentale, ma di vera direzione spirituale che, secondo la Regola, non è solo monopolio dell'abate. La manifestazione dei pensieri cattivi e dei peccati occulti è ricordata altre volte nella RB: in uno strumento delle buone opere (RB 4,50) e nel 5° gradino dell'umiltà (RB 7,44-45).

Tutta questa finale del c. 46 si ispira in qualche modo a RM. 15 (e a S. Agostino, soprattutto per la spontaneità dell'accusa), ma è originale nella distinzione netta tra la confessione pubblica per le mancanze esterne e la confessione privata per i peccati interni. Quando SB dice: “sappia curare le piaghe proprie e altrui”, include in tale scienza la nozione della Scrittura (come RM), ma soprattutto la capacità di tacere sulla confessione ricevuta, e in più ricorda all'abate e al “seniore spirituale” la propria fragilità: anche loro sono peccatori come gli altri.

CONCLUSIONE SUL CODICE PENITENZIALE (RB23-30 e 43-46) Concludendo, richiamiamo alcuni valori fondamentali del codice penitenziale benedettino:

  • Importanza della persona. Più volte nel codice penale – come anche nel capitolo sull'abate (cf. RB 2,23-25.27.28-31) – SB ritorna sul fatto che la punizione deve essere adeguata all'indole di ciascuno, proprio perché non si tratta di vendetta, ma di un modo per aiutare e curare il fratello che sbaglia. Perciò SB, a malincuore e dopo numerosi tentativi, si decide ad espellere il monaco colpevole e solo per timore che altri si perdano a causa sua (RB 28,6-8); e in seguito, se quegli si pente, è disposto a riprenderlo in comunità anche più volte. (RB 29,1-3).

  • Dimensione comunitaria. Un fatto emerge dal codice penitenziale, al di là delle forme e delle consuetudini dovute alla società del tempo: ogni trasgressione alla Regola, ogni mancanza grande o piccola commessa in monastero, è un attentato alla vita della comunità e come tale deve essere corretta e riparata; è sulle condizioni e sui modi di appartenenza alla comunità che scatta la scomunica, la cui pena è proprio l'esclusione dalla vita di comunione nei suoi gesti principali: preghiera e mensa.

Che cosa rimane oggi? Che cosa possiamo e dobbiamo ritenere oggi di tutto il codice penitenziale della RB? Certo, la presenza stessa di un codice penale nella Regola può risultare sgradevole alla nostra mentalità odierna; e di fatto l'accentuazione dell'aspetto giuridico e casuistico ha portato ad immagini di monastero troppo distanti dallo spirito del Vangelo e del monachesimo: monasteri quasi caserme o scuole nel senso peggiore (la storia ce ne fornisce degli esempi) e non comunità di volontari, aggregazione libera per seguire Cristo.

Tuttavia ci sono alcuni valori nel codice penitenziale che non dovrebbero andare perduti. Poniamo delle riflessioni in forma di questioni:

  1. La pratica della scomunica implicava delle regole molto strette e precise di appartenenza alla comunità. Il fatto di aver abolito ogni penalità non potrebbe indicare che questi criteri di appartenenza sono divenuti molto labili? che, cioè, si tende a vivere in modo individualistico?

  2. Con le punizioni e le penitenze, la Regola intende dare soprattutto un aiuto al monaco perché egli possa prendere coscienza dei propri difetti e correggersi (aspetto medicinale della pena). Abbiamo trovato, oggi, altri modi concreti di aiuto? O ciascuno è lasciato “libero” (cioè solo) con i propri limiti e il desiderio di superarli?

  3. Nella RB pena e penitenza hanno un carattere pubblico, come detto sopra. Abolite, per la mentalità dei tempi, tutte le pratiche della Regola, non c'è pericolo che vi sia una mancanza di sensibilità riguardo al confronto e alla correzione fraterna? O, peggio, dato che ci si conosce molto bene, non ci riduciamo forse soltanto a fare mormorazione e critica “privata”? Dobbiamo – credo – educarci di più al senso della responsabilità reciproca: la comunità intera come organismo deve salvare i suoi membri deboli e infermi, non con un malinteso senso di pietà o peggio con una colpevole solidarietà con i vizi, ma con una carità genuina che comprende la correzione fraterna – la “verità nella carità”, cf. Ef 4,15) – con una preghiera insistente e con un supplemento di santità. Dio ci ha riuniti insieme perché lo cerchiamo nella preghiera, nel lavoro, nella vita comune. Ognuno deve sentirsi ormai inseparabile dai suoi confratelli e solidale con essi per sempre. Bisogna dunque che egli lavori, preghi, si sacrifichi non solo per raggiungere la propria santificazione personale, ma anche per aiutare quella degli altri.

Possiamo ritenere almeno queste riflessioni dall'esame dei dodici capitoli del codice penitenziale della RB.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XLV – La riparazione per gli errori commessi in coro

1 Se un monaco commette un errore mentre recita un salmo, un responsorio, un’antifona o una lezione e non si umilia davanti a tutti con una penitenza, sia sottoposto a una punizione più severa, 2 perché non ha voluto correggersi umilmente dell’errore commesso per negligenza. 3 Nel caso dei ragazzi, invece, per una colpa di questo genere si ricorra al castigo corporale.

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Approfondimenti

1-3: Sbagli durante la preghiera comune Non si tratta più di mancanze provocate da cattiva disposizione, ma da disattenzione o negligenza. Secondo Cassiano (Inst. 4,16), costituivano una colpa lieve da ripararsi subito mediante pubblica penitenza. Anche SB esige una riparazione pubblica per quegli “sbagli commessi per negligenza” (v. 2), ma non dice in che cosa essa consista; probabilmente in una prostrazione a terra. Ancor oggi nei monasteri si conserva l'uso di questo atto di umiltà per gli errori durante l'Ufficio: si porta la mano al petto o si genuflette al proprio posto... Sono, oltre che espressioni di umiltà, atti di riverenza verso la santità di Dio (cf. RB 19 e 20). Chi non voleva sottoporsi a questa umiliazione e riparazione veniva punito più severamente, a giudizio dell'abate (forse come la soddisfazione degli scomunicati).

3: I fanciulli, per mancanze di questo genere, siano battuti Bisogna intendere per gli sbagli in coro, oppure per non essersi umiliati dopo gli sbagli? Sembrerebbe più probabile la seconda ipotesi: anche i ragazzi hanno il loro amor proprio. Ma bisogna anche ammettere che SB possa aver inteso infliggere le battiture ai ragazzi per gli sbagli durante la recitazione. Si pensi che l'uso della verga era normale per gli alunni, è rimasta celebre la verga con cui S. Gregorio correggeva gli irrequieti fanciulli che formava al canto sacro (cf. anche la famosa esperienza di S. Romualdo). E, del resto, fino a non molti anni fa', sulla cattedra del maestro elementare faceva bella mostra la bacchetta e qualcuno degli ancora viventi potrà ricordare di aver imparato le declinazioni latine a forza di bacchettate!

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XLIV – La riparazione degli scomunicati

1 Il monaco che per colpe gravi è stato escluso dal coro e della mensa comune, al termine dell’Ufficio divino si prostri in silenzio davanti alla porta del coro, 2 rimanendo lì disteso con la faccia a terra dinanzi a tutti quelli che escono 3 e continui a fare in questo modo fino a quando l’abate non giudichi che ha sufficientemente riparato. 4 Quando poi sarà chiamato dall’abate, si getti ai piedi di lui e di tutti i fratelli per chiedere le loro preghiere. 5 Allora, se l’abate vorrà, potrà essere riammesso in coro al suo posto o a quello designato dallo stesso abate, 6 senza permettersi, però, di recitare un salmo, una lezione o altro, a meno che l’abate glielo ordini. 7 Inoltre al termine di tutte le Ore dell’Ufficio divino, si prostri a terra lì dove si trova 8 e faccia così la sua riparazione, finché l’abate non metterà fine a questa penitenza. 9 Quelli, invece, che per colpe più leggere sono stati esclusi solo dalla mensa, facciano penitenza in coro per il tempo stabilito dall’abate 10 e la ripetano fin tanto che questi li benedica e dica: Basta!

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Approfondimenti

Il capitolo parla della soddisfazione e riconciliazione dei monaci scomunicati. Cassiano prevede un rito molto semplice: una semplice prostrazione alla fine dell'Ufficio e l'ordine dell'abate di alzarsi (Inst. 4,16). RM 14 è più complicata: prostrazione alla porta durante l'Ufficio, preghiera della comunità all'abate, rimprovero al penitente e sua promessa di correggersi, preghiera della comunità, versetto “Confitemini...” (Confessatevi...), lunga preghiera, nuovo avvertimento, versetto “Erravi...” (Ho peccato...). RB in parte ritorna alla semplicità di Cassiano, in parte conserva il cerimoniale di RM.

1-8: Soddisfazione degli scomunicati: scomunica maggiore I colpiti da scomunica maggiore (RB 25) devono seguire questa procedura in quattro fasi: anzitutto la prostrazione alla porta dell'oratorio “in silenzio, con la faccia rivolta a terra, ai piedi di tutti i fratelli man mano che escono”; e non una volta sola, ma fino a quando lo giudica l'abate (vv. 1-3). Potremmo qui notare la falsariga della procedura della Chiesa per i penitenti pubblici i quali aspettavano davanti alla porta della basilica). Poi, chiamati dall'abate, si prostrano davanti a lui e a tutti per chiedere preghiere: è un rito silenzioso, non si pronuncia nessuna orazione a voce alta (a differenza della lunga orazione di RM. 14,25-73). Quindi, se l'abate lo concede, tornano al loro posto in coro. Però non potranno recitare salmo o lettura come solista in coro e alla fine di ogni ora canonica si prostrano a terra al loro posto. Questa soddisfazione durerà fin quando l'abate lo giudicherà opportuno. Così la procedura potrà essere più o meno lunga; è da notarsi l'insistenza di S. Benedetto sul giudizio personale e la responsabilità pastorale dell'abate, il quale deve essere spinto solo dal desiderio di provare la sincerità e la perseveranza del monaco penitente e assicurare meglio la sua conversione. SB si ispira alla medesima carità e al realismo dei cc.27-29; è più pedagogico rispetto a RM, perché conosce meglio la psicologia e ha esperienza diretta.

9-10: Soddisfazione degli scomunicati: scomunica minore Gli scomunicati solo dalla mensa (scomunica minore: RB 24) fanno la soddisfazione nell'oratorio fino a quando l'abate con la sua benedizione dice che basta. Consisteva nella prostrazione alla fine dell'Ufficio e probabilmente nel non intonare salmi e antifone, come nella terza e quarta fase del rituale sopra descritto (vv.6-7).

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XLIII – La puntualità nell’Ufficio divino e in refettorio

1 All’ora dell’Ufficio divino, appena si sente il segnale, lasciato tutto quello che si ha tra le mani, si accorra con la massima sollecitudine, 2 ma nello stesso tempo con gravità, per non dare adito alla leggerezza. 3 In altre parole non si anteponga nulla all’opera di Dio». 4 Se qualcuno arriva all’Ufficio notturno dopo il Gloria del salmo 94, che proprio per questo motivo vogliamo sia cantato molto lentamente e con pause, non occupi il proprio posto nel coro, 5 ma si metta all’ultimo o in quella parte che l’abate avrà destinato per questi negligenti, perché siano veduti da lui e da tutti, 6 e vi rimanga fino a quando, al termine del l’Ufficio divino, avrà riparato dinanzi a tutta la comunità con una penitenza. 7 Abbiamo ritenuto opportuno far rimanere questi ritardatari all’ultimo posto o in un canto, perché si correggano almeno per la vergogna di essere visti da tutti. 8 Se, infatti, rimanessero fuori del coro, ci potrebbe essere qualcuno che ritorna a dormire o si siede fuori o si mette a chiacchierare, dando così occasione al demonio; 9 è bene invece che entrino, in modo da non perdere tutto l’Ufficio e correggersi per l’avvenire. 10 Nelle Ore del giorno, invece, il monaco che arriva all’Ufficio divino dopo il versetto o il Gloria del primo salmo, che segue lo stesso versetto, si metta all’ultimo posto, secondo la norma precedente, 11 e non si permetta di unirsi al coro dei fratelli che salmeggiano, fino a che non avrà riparato, a meno che l’abate gliene dia il permesso con il suo perdono; 12 ma anche in questo caso il ritardatario dovrà riparare la sua mancanza. 13 Per quanto riguarda il refettorio, chi non arriva prima del versetto in modo che tutti uniti dicano il versetto stesso, preghino e poi siedano insieme a mensa, 14 se la mancanza è dovuta a negligenza o cattiva volontà, sia rimproverato fino a due volte. 15 Ma se ancora non si corregge, sia escluso dalla mensa comune 16 e mangi da solo, separato dalla comunità e senza la sua razione di vino, fino a che non abbia riparato e si sia corretto. 17 Lo stesso castigo sia inflitto al monaco che non si trovi presente al versetto che si recita dopo il pranzo. 18 Nessuno poi si permetta di mangiare o di bere qualcosa prima dell’ora stabilita. 19 Ma il monaco che non avesse accettato ciò che gli era stato offerto dal superiore, quando desidererà quello che ha rifiutato in precedenza o altro, non ottenga assolutamente nulla fino a che non dimostri di essersi debitamente corretto.

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Approfondimenti

Il significato della soddisfazione per le colpe commesse Com'è proprio dell'uomo sbagliare, così è proprio del monaco riconoscere umilmente i suoi errori e le sue deficienze davanti a Dio e davanti ai fratelli. Perciò il significato della soddisfazione è quello di riparare pubblicamente le colpe, gravi o leggere, commesse pubblicamente a detrimento della pace, della concordia, dell'ordine della comunità; chiedere perdono a Dio delle irriverenze commesse contro di lui o contro le cose a lui consacrate. Il c. 43 parla della soddisfazione di chi arriva tardi alla preghiera comune o alla mensa. Ha il parallelo in RM 73.

1-3: Sollecitudine ad intervenire all'Ufficio divino La puntualità costituisce un elemento fondamentale per l'ordine. Essa va usata soprattutto per la preghiera. Qualunque sia l'occupazione del monaco, al segnale dell'Ufficio divino, bisogna lasciarla subito perché la dignità della preghiera comune è superiore a tutte le altre cose. Per inculcare la più scrupolosa puntualità, SB dice di “correre con somma sollecitudine” (v,1), ma sempre con la gravità caratteristica del monaco, ricordata molte volte nella Regola (cf.RB 6,3; 7,60; 22,6; 42,11; 47,4). Nulla perciò si anteponga all'Opera di Dio Ergo nihil Operi Dei praeponatur (v. 3): la celebre massima benedettina si trova in questo capitolo. Per il monaco la preghiera liturgica comunitaria ha un primato indiscutibile e il monaco è, e deve tendere ad essere, essenzialmente un uomo di preghiera. L'espressione “Nihil Operi Dei...”, e soprattutto il concetto stesso, erano tradizionali nel monachesimo. Nella II. Reg. Patrum, 31 si legge: “Niente si deve anteporre all'orazione”; l'orazione qui denota l'Ufficio divino. “Non anteporre nulla all'orazione in tutto il giorno” è una massima dell'abate Porcario di Lerins.

4-9: I ritardatari all'Ufficio notturno Nonostante tutte le avvertenze e la solidità del principio generale, è inevitabile per la natura umana che ci siano delle mancanze. SB si mostra comprensivo e indulgente e vuole anche all'Ufficio notturno il salmo 94 (l'Invitatorio) si reciti molto lentamente per dar modo ai sonnolenti di giungere prima del Gloria. Chi arriva più tardi si metterà all'ultimo posto o in un luogo speciale a ciò destinato dall'abate e dia soddisfazione al termine dell'Ufficio (vv.5-6). SB si mostra qui innovatore: secondo l'uso di molti monasteri attestato da Cassiano (Inst. 3,7), i ritardatari (dopo il secondo salmo) erano costretti a rimanere fuori e a unirsi solo da lontano alla preghiera e a prostrarsi ai piedi di tutti quando uscivano. SB li pone in un posto particolare perché per la vergogna di vedersi così notati siano portati a correggersi (v,7); altrimenti, se rimangono fuori, ci sarà chi se ne torna beatamente a letto, oppure si sdraia lì per terra godendosi, d'estate, il fresco della notte o chiacchierando con qualche altro del suo stampo (v.8). Il S .Patriarca è veramente un pittore arguto in questa scenetta: conosce l'uomo; la sua esperienza, la sua fine penetrazione psicologica gli hanno insegnato molte cose: “Che entrino, invece, perché non perdano tutto” (v.9).

10-12: I ritardatari all'Ufficio diurno Per gli Uffici diurni SB è più severo, perché i monaci sono allora meno scusabili, essendo già tutti in piedi; non solo si riduce il margine per il ritardo (il Gloria del primo salmo), mentre di notte c'era il salmo 3 di attesa e il salmo 94 cantato lentamente), ma si proibisce ai ritardatari di associarsi al coro dei fratelli salmodianti (v.11), a meno che l'abate, per ragioni particolari, non lo concede; rimane comunque l'obbligo della soddisfazione (v.12).

13-17: I ritardatari alla mensa Anche la mensa comune è uno degli atti più importanti per la società cenobitica. Chi arriva tardi, dopo la preghiera, o esce prima della preghiera di ringraziamento, mangerà da solo e senza vino; però tale punizione si applica soltanto dopo due ammonizioni (v.14).

18-19: Disciplina nel prendere il cibo Approfittando dell'occasione, SB aggiunge una nota (per sè non c'entra con il tema del capitolo): che nessuno ardisca mangiare o bere fuori dagli orai regolari. Anche Cassiano parla di monaci che osservavano così rigorosamente tale norma da non toccare neppure i frutti caduti a terra (Inst. 4,18). S. Basilio dice: “Attento a non incorrere nel peccato di mangiare clandestinamente: (Reg. 15). Fa eccezione il caso in cui il superiore offre qualcosa, per esempio per un lavoro straordinario o per altro motivo: sarebbe allora orgoglio e superbia non accettare e si sarebbe passibili di punizione.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XLII – Il silenzio dopo compieta

1 I monaci devono custodire sempre il silenzio con amore, ma soprattutto durante la notte. 2 Perciò in ogni periodo dell’anno, sia di digiuno oppure no, si procederà nel modo seguente: 3 se non si digiuna, appena alzati da cena, i monaci si riuniscano tutti insieme e uno di loro legga le Conferenze o le Vite dei Padri o qualche altra opera di edificazione, 4 ma non i primi sette libri della Bibbia e neppure quelli dei Re, perché ai temperamenti impressionabili non fa bene ascoltare a quell’ora i suddetti testi scritturistici, che però si dovranno leggere in altri momenti; 5 se invece fosse giorno di digiuno, dopo la celebrazione dei Vespri e un breve intervallo, vadano direttamente alla lettura di cui abbiamo parlato 6 e leggano quattro o cinque pagine o quanto è consentito dal tempo a disposizione, 7 perché durante questo intervallo della lettura possano radunarsi tutti, compresi quelli che fossero eventualmente stati occupati in qualche incombenza. 8 Quando saranno tutti riuniti, dicano insieme Compieta, all’uscita dalla quale non sia più permesso ad alcuno di pronunciare una parola. 9 Chiunque sia colto a trasgredire questa regola del silenzio venga severamente punito, 10 eccetto il caso in cui sopraggiungano degli ospiti o l’abate abbia dato un ordine a un monaco; 11 ma anche in questa eventualità bisogna procedere con la massima gravità e il debito riserbo.

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Approfondimenti

RB 42 corrisponde a RM 30. Ambedue le Regole stabiliscono un legame tra i pasti e il silenzio notturno (in RB 41 si parla dell'orario dei pasti). Il titolo accenna solo al silenzio, ma il capitolo parla più a lungo della lettura che precede compieta.

1: Osservanza del silenzio Il capitolo inizia con una massima generale cara a SB (come il c. 19 e il c. 49). La Regola ha già parlato dell'amore al silenzio (la “tacitirnitas”) nel c.6; ora ribadisce il principio: il monaco deve aver cura del silenzio in tutti i tempi, ma una posizione di privilegio va riservata al tempo della notte. Si noti che qui c'è la parola “silentium” (non “taciturnitas”), che ha un senso più energico e assoluto.

2-7: Lettura prima di compieta e riunione di tutta la comunità Dopo il v.1 viene lasciato il tema del silenzio per trattare di due cosa legate fra loro: la lettura prima di compieta e la riunione di tutta la comunità. RM 30,1-11 prevede a questo punto la lavanda dei piedi e la comunicazione tra i fratelli di cose necessarie, prima del silenzio rigoroso. RB insiste di più sulla riunione di tutta la comunità che sul silenzio a cui prepara compieta. Questa insistenza sembra giustificata dal fatto che SB introduce l'uso della lettura prima di compieta, uso sconosciuto a RM.

A volte si è interpretata la lettura in comune solo come un modo di approfittare del tempo mentre i fratelli erano occupati in qualche ufficio; ma non sembra troppo esatto vedere la cosa solo così. SB dà un'importanza evidente a questa lettura vespertina fatta in comune. Indica alcune opere: le “Collazioni” di Cassiano e le “Vitae Patrum”, testi tipicamente monastici o “altre opere di edificazione” (v. 3). Lettura pubblica ed edificazione di chi ascolta vanno sempre di pari passo nella Regola (RB 38,12; 47,3; 53,9), tanto che SB si preoccupa di non far leggere in quell'ora più propizia alla tentazione niente meno che alcuni libri della S. Scrittura: l'Eptateuco (i primi sette libri della Bibbia: Pentateuco + Giosuè + Giudici) e i libri dei Re (1-2 Samuele e 1-2 Re); non si considera dannosa la lettura dei libri sacri (difatti bisogna leggerli in altri momenti (v. 4) perché sono parola di Dio), ma si pensa che alcune storie scabrose lì riferite potevano suscitare a quell'ora immagini sconvenienti alla fantasia delle “menti deboli” (v. 4). SB pensa quindi alla parte spiritualmente debole della comunità. Anche Cassiano notava che tali letture dell'AT non erano adatte agli “spiriti deboli e infermi” (Coll. 19,16).

Significato della lettura La lettura vespertina ha un valore proprio, di preparazione non tanto per compieta quanto per la notte. La notte da una parte è segno del male, delle tenebre spirituali e piena di misteriosi pericoli per lo spirito; dall'altra parte è propizia, come nessun altro tempo, alla riflessione e alla preghiera. SB dice di leggere “quattro o cinque fogli” (v. 6) – era molto, sopratutto in quell'epoca – e nel frattempo devono arrivare tutti i fratelli.

Importanza della presenza di tutti i fratelli Che tutti si ritrovino sembra molto importante per SB; tre volte in questo capitolo si trovano espressioni che richiamano questo fatto: “seggano tutti insieme” (v. 3); “si radunino tutti” (v. 7); “tutti insieme” (v. 8). Perché questo far arrivare tutti? per assicurare l'osservanza del silenzio notturno? perché tutti ascoltino (almeno un po') la lettura preparatoria per la notte? per concludere tutti insieme la giornata al canto di compieta? Impossibile determinarlo con certezza. Certo è che SB vuole tutti insieme i membri del monastero nel momento conclusivo della giornata.

8: Compieta e silenzio notturno Quando tutti i monaci sono presenti si dice compieta e poi “a nessuno sia permesso proferire parola” (v. 8). La comunità intera si immerge nel gran silenzio della notte. Disciplina cenobitica antichissima: risale a Pacomio (“Nessuno parli a un altro di notte”, Reg. Pachomii 94) e da lui passa in tutte le altre Regole (Cassiano ha: “Nessuno dei monaci ardisca di attardarsi per un po` a scambiare parola con un altro”, Inst. 2,15); oltre alla salvaguardia del silenzio, si tende a premunire la castità (si suppone la dormizione in celle separate). Comunque RM e RB sembrano indipendenti da Pacomio, almeno nella motivazione. RM porta una motivazione liturgica: difatti il silenzio rigoroso iniziava con il versetto: “Poni, Signore una custodia alla mia bocca...” (Sal 140,3) e terminava con il versetto: “Signore, apri le mie labbra...” (Sal 50,17) (RM 30,12-16). RB (e anche RM) tende a favorire il riposo di tutti. E questo si spiega con il passaggio dalla cella al dormitorio comune: stando insieme i monaci debbono stare attenti a non disturbarsi nel sonno (cf. RB 48,5) e nella preghiera (cf. RB 52,2-3), cose che prima i monaci compivano nella loro cella. Quindi il silenzio notturno ormai ha una caratteristica di sensibilità fraterna più che di protezione contro i pericoli della castità.

9-11: Penalità ed eccezioni Conclude il capitolo una prescrizione severa contro i trasgressori del silenzio notturno (v. 9) e il caso di due eccezioni: l'arrivo di ospiti e un eventuale ordine dell'abate (v. 10), per terminare con un'osservazione circa la gravita` e la delicatezza nell'uso della parola in tali occasioni eccezionali.

Nota per i monaci di oggi Forse i monaci di oggi devono rieducarsi a riscoprire il “grande silenzio” della notte. Certo, SB vede quanto sia necessario il silenzio notturno per salvaguardare il riposo di dieci o venti monaci che dormivano nello stesso luogo. Ma è anche certo che pensa alla “spiritualità” – per così dire – della notte. La notte è, infatti il tempo delle grandi rivelazioni di Dio nell'antica e nella nuova alleanza: nel silenzio della notte il Verbo incarnato è apparso per la prima volta tra noi (cf. la liturgia del Natale); nel silenzio della notte il nostro Redentore è risorto dal sepolcro; nel silenzio della notte, Cristo si intratteneva a colloquio col Padre. Il monaco dovrebbe, in questo grande silenzio, prolungare la sua preghiera personale che nasce dalla liturgia e delle liturgia è luce e alimento. Oggi nei monasteri si dovrebbe tornare a riflettere con maggiore scrupolosità su questo capitolo e su questo aspetto della spiritualità monastica.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XLI – L’orario dei pasti

1 Dalla santa Pasqua fino a Pentecoste i fratelli pranzino all’ora di Sesta, cioè a mezzogiorno, e cenino la sera. 2 Invece da Pentecoste in poi, per tutta l’estate, se non sono impegnati nei lavori agricoli o sfibrati dalla calura estiva, al mercoledì e al venerdì digiunino sino all’ora di Nona, cioè fin dopo le 14:30 e negli altri giorni pranzino all’ora di Sesta. 4 Ma nel caso che abbiano da lavorare nei campi o che il caldo sia eccessivo, potranno pranzare tutti i giorni alle 12:00, secondo quanto stabilirà paternamente l’abate. 5 Così questi regoli e disponga tutto in modo che le anime si salvino e i monaci possano compiere il proprio dovere senza un motivo fondato di mormorazione. 6 Dal 14 settembre fino all’inizio della Quaresima pranzino sempre all’ora di Nona. 7 Durante la Quaresima, poi, fino a Pasqua pranzino all’ora di Vespro: 8 questo ufficio però dev’essere celebrato a un’ora tale da non aver bisogno di accendere il lume durante il pranzo e poter terminare mentre è ancora giorno. 9 Anzi, in ogni stagione, sia l’ora del pranzo che quella della cena devono essere fissate in maniera che tutto si possa fare con la luce del sole.

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Approfondimenti

La sezione dell'alimentazione si chiude con un capitolo sull'orario dei pasti e sui tempi del digiuno. È parallelo a RM 28, ma con notevoli varianti: SB mitiga molto la legge dei digiuni. Per l'orario dei pasti, RB segue un ordine cronologico, distinguendo quattro periodi.

1: Primo periodo: da Pasqua a Pentecoste Il tempo pasquale, per il carattere di particolare letizia, esclude il digiuno; perciò SB prescrive il pasto principale a sesta e la cena alla sera. Per i romani il pasto principale era la sera; ma i monaci subito dopo la refezione serale, avevano la lettura e compieta, e quindi il riposo; perciò l'inversione dei due pasti era anche una buona norma igienica. Riguardo ai monaci primitivi (Egitto), S. Girolamo dice che “da Pasqua a Pentecoste le cene si cambino in pranzi”, cioè l'ora veniva anticipata da nona a sesta (Epist. 22); così anche Cassiano (Coll. 21,23). Anche RM prevede il pranzo a sesta nel tempo pasquale e concede la cena, ma solo giovedì e domenica (RM 28,37-40). SB è più largo: pranzo e cena per tutto il tempo pasquale.

2-5: Secondo Periodo: da Pentecoste al 13 (o 14) settembre (estate) Il periodo estivo ha il pranzo a sesta ed ha, in via ordinaria, il digiuno che anche i semplici fedeli osservavano ogni settimana, cioè il mercoledì e il venerdì, digiuno che consisteva nel fare il pasto a nona e non avere la cena. Mentre i giudei digiunavano il lunedì e il giovedì, i cristiani, fin dai primi tempi, digiunavano il mercoledì e il venerdì, e questa usanza fu tenuta in grande onore presso i monaci; per la chiesa romana e alcune altre anche il sabato (così anche RM). Ma anche questo digiuno mitigato ha per SB delle deroghe: mercoledì e venerdì si digiuni (nel senso detto sopra), purché i lavori campestri e la calura estiva non richiedano una dispensa; l'abate consideri la cosa. Si noti il v. 5 che intende dire: se è vero che i monaci non devono mai mormorare (RB 34,6; 40,8-9), è anche bene che l'abate disponga le cose in modo da evitare ogni motivo fondato di mormorazione.

6: Terso Periodo: dal 13 (o 14) settembre a quaresima (inverno) In inverno RB prevede il digiuno continuo (cioè pranzo a nona e senza la cena), esclusa la domenica (in RM anche il giovedì). Questo periodo si suole chiamare “quaresima monastica”. Nel testo, le “idi di settembre” possono intendersi il “13 settembre”, come è più ovvio, ma anche considerare le “idi chiuse”, cioè terminate, e quindi supporre l'inizio di tale periodo di digiuno il “14 settembre”, pratica comunissima nei monasteri, anche perché legata alla festa della S. Croce.

7-9: Quarto periodo: Quaresima In quaresima l'unico pasto si prendeva dopo vespro. Era l'ora comune per tutti i cristiani: si tratta della “quaresima ecclesiastica”, in cui si celebrava il sacrificio eucaristico nel tardo pomeriggio, e quindi si faceva a vespro l'unica refezione del giorno. SB aggiunge che la cena si faccia con la luce del sole e che il vespro, perciò, venga anticipato (v. 8); anzi mette come norma generale che tutto si faccia con la luce del giorno luce fiant omnia. È una disposizione che eccita la nostra curiosità. Perché? Anche se non si escludono ragioni di ordine economico (risparmiare olio) o anche il motivo di abbreviare un po' il tempo del digiuno che doveva essere pesante per gente che faceva lavori manuali, pare che il motivo principale sia di tipo morale: la convinzione che la notte non è un tempo adatto per mangiare, come per parlare (RB 42,8-11); SB ha in mente probabilmente molte frasi di S. Paolo (cf. Rom 13,12-13; Ef 5,8-14; 1Tess 5,5-8) sulla notte come simbolo di tutti i peccati: in particolare di quelli della bocca.

Riassumendo: i monaci avevano:

  1. giorni senza digiuno con pranzo e cena: in tutte le domeniche e le feste; nel periodo pasquale; in tutta l'estate (cioè da Pentecoste al 13 o 14 settembre, eccetto il mercoledì e il venerdì.

  2. giorni di digiuno moderato con un'unica refezione a nona: nei mercoledì e venerdì da Pentecoste al 13 o 14 settembre (purché non ci fosse lavoro eccezionale nei campi o molta calura); in tutti i giorni feriali dal 13 o 14 settembre fino a quaresima.

  3. giorni di digiuno stretto con unica refezione a vespro, in tutte le ferie di quaresima.

Nell'insieme dobbiamo dire che il sistema dei digiuni in RB è molto attenuato rispetto a RM, mentre è più severo per cibi e bevande. Nei tre capitoli sui pasti, troviamo tre volte l'accenno a dispense: RB 39,6-9 (aggiunta di cibo); 40,5-7 (aggiunta di vino); 41,4-5 (dispensa dal digiuno in estate). Il motivo della dispensa è il lavoro, perché RB prevede il lavoro di agricoltura (mentre RM limita il lavoro dei monaci all'artigianato o al giardinaggio). RB 41,4-5 raccomanda all'abate molta discrezione (cf. anche RB 64,17-19), perché i monaci evitino la mormorazione e perché i deboli non si scoraggino.

Certo, ciò che SB concede al cibo e alla bevanda avrebbe scandalizzato i Padri del deserto. L'ideale del S. Patriarca, però, non è una santità riservata a pochi, ma accessibile anche agli infermi di corpo e ai deboli di animo. Nel suo programma di perfezione ascetica non entrano di proposito rigorose macerazioni del corpo ed eroici digiuni. I suoi monaci devono poter attendere alla preghiera corale, alla lettura e al lavoro senza eccessivo peso. Certo, il prolungamento del digiuno fino a nona per parecchi mesi dell'anno e la qualità stessa dei cibi differenziavano abbastanza i monaci dai laici; ma per la quantità del vitto come del sonno, SB in definitiva non richiede molto di più di quanto si esigeva allora dai buoni cristiani.

Il regime di SB potrà forse apparire severo oggi; ma si pensi che l'astensione perpetua dalle carni, come l'unico pasto a nona (e in quaresima a vespro) non erano allora ritenuti così duri come adesso. La tendenza di SB a concedere attenuazioni ed eccezioni indica il sapiente adattamento alle condizioni fisiche e morali dell'occidente. La discrezione consigliata già da Basilio (Reg. 19) e dall'abate Mosè in Cassiano (Coll. 2,16) fà in SB un ulteriore passo in avanti. Nello stesso spirito i monaci di oggi tengono conto, anche per il vitto, del regime alimentare medio del luogo in cui si vivono, delle mutate condizioni di tempra fisica, delle necessità dei fratelli più deboli, ecc., in modo da non avere una visione angelicata o manicheista della vita monastica. Ma forse non e` nemmeno inopportuno il richiamo ad una certa austerità, evitando di indulgere a una continua e ordinaria sovrabbondanza, o peggio ad uno spreco di evidente matrice consumistica moderna, per serbare sempre fede alla temperanza e alla frugalità dello stato monastico, pensando anche a quanti nel mondo soffrono oggi la fame. La riflessione su questi capitoli della Regola può essere una sfida per la vita quotidiana in monastero.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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