📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

RISPOSTA DI GIOBBE A SOFAR 1Giobbe prese a dire: 2“Certo, voi rappresentate un popolo; con voi morirà la sapienza! 3Anch'io però ho senno come voi, e non sono da meno di voi; chi non sa cose simili? 4Sono diventato il sarcasmo dei miei amici, io che grido a Dio perché mi risponda; sarcasmo, io che sono il giusto, l'integro! 5“Allo sventurato spetta il disprezzo”, pensa la gente nella prosperità, “spinte a colui che ha il piede tremante”. 6Le tende dei ladri sono tranquille, c'è sicurezza per chi provoca Dio, per chi riduce Dio in suo potere. 7Interroga pure le bestie e ti insegneranno, gli uccelli del cielo e ti informeranno; 8i rettili della terra e ti istruiranno, i pesci del mare e ti racconteranno. 9Chi non sa, fra tutti costoro, che la mano del Signore ha fatto questo? 10Egli ha in mano l'anima di ogni vivente e il soffio di ogni essere umano. 11L'orecchio non distingue forse le parole e il palato non assapora i cibi? 12Nei canuti sta la saggezza e in chi ha vita lunga la prudenza. 13In lui risiedono sapienza e forza, a lui appartengono consiglio e prudenza! 14Ecco, se egli demolisce, non si può ricostruire, se imprigiona qualcuno, non c'è chi possa liberarlo. 15Se trattiene le acque, vi è siccità, se le lascia andare, devastano la terra. 16In lui risiedono potenza e sagacia, da lui dipendono l'ingannato e l'ingannatore. 17Fa andare scalzi i consiglieri della terra, rende stolti i giudici; 18slaccia la cintura dei re e cinge i loro fianchi d'una corda. 19Fa andare scalzi i sacerdoti e rovescia i potenti. 20Toglie la parola a chi si crede sicuro e priva del senno i vegliardi. 21Sui potenti getta il disprezzo e allenta la cintura dei forti. 22Strappa dalle tenebre i segreti e porta alla luce le ombre della morte. 23Rende grandi i popoli e li fa perire, fa largo ad altri popoli e li guida. 24Toglie la ragione ai capi di un paese e li fa vagare nel vuoto, senza strade, 25vanno a tastoni in un buio senza luce, e barcollano come ubriachi. _________________ Note

12,7-8 interroga pure le bestie: nella letteratura sapienziale spesso affiora il riferimento agli animali, ritenuti capaci di insegnare all’uomo.

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Approfondimenti

RISPOSTA DI GIOBBE A SOFAR (12,1-14,22) In questo lungo discorso di Giobbe sono presenti tutti gli interlocutori: gli amici (12,1-13,19), con un riferimento particolare a Sofar (12,7-8), e soprattutto Dio anticipato dall'inno (12,13-24). A Dio, poi, Giobbe si rivolge direttamente (13,20-14,22), come suo interlocutore privilegiato, dal quale attende una risposta.

vv. 12,2-6. Giobbe, a sua volta, deride la conoscenza degli amici, e sostiene che la sapienza che essi ostentano finirà con loro. Peraltro Giobbe rivendica per sé la stessa attitudine alla conoscenza (v. 2; cfr. 13,2). Essa non gli impedisce di prendere atto di essere diventato oggetto di disprezzo (v. 4; cfr. 30,1; Ger 20,7; Lam 3,14) per gli amici. Inoltre, mentre egli grida a Dio perché si volga a lui, prospera la dimora degli empi, benché provochino Dio con l'idolatria e il disimpegno etico (cfr. Dt 31,29; 2Re 17,11...). Dalle parole di Giobbe emerge la denuncia che Dio non interviene, non gli risponde, lo tiene prigioniero dei terrori, ma, pure, che Dio non si occupa degli empi e, pertanto, in tal modo, li favorisce (cfr. 9,24; 10,3; 24). L'accusa di Giobbe a Dio, così, non solo continua, ma cresce.

vv. 7-12. Ora Giobbe si rivolge a Sofar (vv. 7-8), e controbatte alla pretesa di una sapienza elitaria da parte degli amici con l'evidenza di una conoscenza a cui partecipano tutte le creature. Il contenuto di tale conoscenza consiste nel fatto che il soffio di vita, in ogni essere vivente, è un dono di Dio, del Signore (ricorre qui infatti JHWH, cfr. 12,9). Tutte le creature conoscono il loro creatore (cfr. Sal 148). E la conservazione stessa della vita, del soffio vitale, dipende pure dal rinnovato dono di Dio (cfr. Sal 104,29-30). Pertanto, poiché la vita deriva da Dio, l'argomentazione di Giobbe tende a mettere in rilievo che Dio, in tal modo, tiene in pugno tutte le creature (v. 10). Se questo è tanto evidente, perché gli amici, ai quali ora Giobbe si indirizza indirettamente, che si reputano saggi, appaiono così restii a intendere? (vv. 11-12).

vv. 13-25. Con questo inno alla potenza e sapienza di Dio (cfr. 9,4), ancora una volta Giobbe sottolinea che solo Dio è sovrano nell'agire, solo a Dio appartiene l'iniziativa e l'intervento sulla natura, sull'uomo, sui potenti e sulle nazioni. Infatti l'azione che tutti manifestano è solo una conseguenza dell'iniziale intervento di Dio, al quale non ci si può opporre, e che non si può mutare (cfr. 9,12; 23,13). Sempre da Dio deriva il positivo é il negativo nella natura, nella società, nella storia, e l'uomo ne coglie soltanto il risultato senza poter accedere alle ragioni di Dio. L'uomo non comprende la sapienza di Dio. Giobbe sembra mettere in rilievo l'azione di Dio come espressione della sua onnipotenza che opera con assoluta discrezionalità, al punto che l'uomo può esserne irrimediabilmente danneggiato, come nel suo caso. Non si deve dimenticare che le riflessioni e gli interrogativi di Giobbe scaturiscono dall'interno della tragedia che egli vive, e non rappresentano una rilettura dell'azione salvifica di Dio in una situazione in cui la precarietà è ormai superata (cfr. Sal 107). Inoltre, questo inno su Dio (si parla di Dio in terza persona), nel contesto dell'ampia sezione (12,1-13,19) in cui Giobbe si rivolge agli amici, funziona come monito per essi, che vanno tanto fieri della loro sapienza. Giobbe li avverte che Dio può indurli in errore.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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PRIMO DISCORSO DI SOFAR 1Sofar di Naamà prese a dire: 2“A tante parole non si dovrà forse dare risposta? O il loquace dovrà avere ragione? 3I tuoi sproloqui faranno tacere la gente? Ti farai beffe, senza che alcuno ti svergogni? 4Tu dici: “Pura è la mia condotta, io sono irreprensibile agli occhi tuoi”. 5Tuttavia, volesse Dio parlare e aprire le labbra contro di te, 6per manifestarti i segreti della sapienza, che sono così difficili all'intelletto, allora sapresti che Dio ti condona parte della tua colpa. 7Credi tu di poter scrutare l'intimo di Dio o penetrare la perfezione dell'Onnipotente? 8È più alta del cielo: che cosa puoi fare? È più profonda del regno dei morti: che cosa ne sai? 9Più lunga della terra ne è la dimensione, più vasta del mare. 10Se egli assale e imprigiona e chiama in giudizio, chi glielo può impedire? 11Egli conosce gli uomini fallaci; quando scorge l'iniquità, non dovrebbe tenerne conto? 12L'uomo stolto diventerà giudizioso? E un puledro di asino selvatico sarà generato uomo? 13Ora, se tu a Dio dirigerai il cuore e tenderai a lui le tue palme, 14se allontanerai l'iniquità che è nella tua mano e non farai abitare l'ingiustizia nelle tue tende, 15allora potrai alzare il capo senza macchia, sarai saldo e non avrai timori, 16perché dimenticherai l'affanno e te ne ricorderai come di acqua passata. 17Più del sole meridiano splenderà la tua vita, l'oscurità sarà per te come l'aurora. 18Avrai fiducia perché c'è speranza e, guardandoti attorno, riposerai tranquillo. 19Ti coricherai e nessuno ti metterà paura; anzi, molti cercheranno i tuoi favori. 20Ma gli occhi dei malvagi languiranno, ogni scampo è loro precluso, unica loro speranza è l'ultimo respiro!“. =●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti

PRIMO DISCORSO DI SOFAR (11,1-20) Zofar è il terzo degli amici a prendere la parola. Il suo è anche il discorso più breve. Egli deride il parlare di Giobbe e il suo dichiararsi innocente (vv. 2-4). Solo se Dio parlasse, con la sua sapienza lo metterebbe a tacere, Infatti la grandezza di Dio non può essere investigata; inoltre, pur vedendo la colpa dell'uomo, Dio non ne tiene conto, non la considera (vv. 5-12). A Giobbe non rimane che supplicare Dio ed espiare la sua colpa così che venga reintegrato nella vita, mentre gli empi vedranno la distruzione (vv. 13-20). La supplica a Dio e il pentimento appaiono la garanzia per una rinnovata speranza. Benché l'argomento di Zofar sia la sapienza imperscrutabile di Dio, la soluzione che egli prospetta a Giobbe fa leva sullo sforzo dell'uomo e trae sicurezza dal proprio pentimento. Egli dunque si avvicina alla posizione di Elifaz e Bildad.

11,2-4. Zofar deride il discorrere e l'argomentare di Giobbe con una serie di domande retoriche (vv. 2-3). L'abilità nel parlare è insolenza che non può trovare risposta o che fa tacere gli altri. Zofar contesta a Giobbe la sua rivendicazione di rettitudine riguardo alla sua dottrina, alla sua conoscenza, alla irreprensibilità della sua persona (cfr. 8, 6; 16, 17; 33, 9) e mette in questione la dottrina di Giobbe, cioè la sua concezione, la sua conoscenza che continua ad esprimere nei discorsi. Il conflitto e la disputa si evidenziano, quindi, proprio in relazione al sistema concettuale che gli intervenuti propongono. Una significativa differenza è data dal fatto che, mentre per Giobbe gli interrogativi che scaturiscono dalla sua situazione esigono delle risposte nuove di una nuova conoscenza aperta su Dio e sull'uomo, non così è per gli amici i quali ripropongono l'insegnamento tradizionale, peraltro irrigidito.

vv. 5-12. Zofar introduce il suo argomento: la conoscenza della sapienza di Dio, non fondata su visioni (Elifaz), né sulla tradizione (Bildad), ma sulla rivelazione diretta di Dio, nel parlare di Dio a Giobbe, così come lui chiede. In tal modo Dio gli annuncerebbe i segreti della sapienza, la quale ha un duplice aspetto. Questo carattere duplice della sapienza divina (v. 6) riteniamo che possa essere inteso con una pluralità di accezioni. Intanto se si riferisce a Dio, può alludere alla polarità (cfr. Sal 113,6; 33,13-15) come espressione della conoscenza completa, totale, da parte di Dio. Se invece si riferisce alla conoscenza che l'uomo ha dell'intervento di Dio, allora può indicare la comprensione molteplice che gli uomini hanno di Dio, ciascuno secondo la propria capacità e in diversi modi nel corso della vita (cfr. Sal 62,12). Ma il carattere duplice può riferirsi anche alla torah donata da Dio, che contiene comandi positivi (“fai!”: cfr. per es. Es 20,8.12) e negativi (“non fare!”: cfr. per es. Es 20,13-17). Zofar ritiene che Giobbe, da una tale rivelazione, saprebbe che Dio già ha perdonato una parte della sua colpa (la stessa idea si trova anche in Am 8,7; Is 43,25; 64,8; Sal 25,7). Così, per Zofar, le sofferenze di Giobbe sono inferiori alla gravità della sua colpa. Il discorso prosegue (vv. 7-12) sull'insondabilità delle profondità di Dio e la conseguente, incolmabile, distanza di Giobbe, dell'uomo, da Dio. Dinanzi a tutto questo, che cos'è dunque la conoscenza e la presunta ragione di Giobbe? La sezione è conclusa da un proverbio che manifesta il pessimismo nei confronti dell'uomo, il quale è vuoto ed è come un asino selvatico. Solo considerando la grandezza insondabile di Dio l'uomo acquisterà un lēb, la capacità di comprendere, rinascendo veramente uomo.

vv. 13-20. Nell'ultima parte del discorso, Zofar, come i primi due amici, espone a Giobbe le condizioni per uscire dalla sua attuale angoscia e le conseguenze positive che ne seguiranno. Le condizioni sono: la disposizione interiore e la supplica (v. 13; cfr. Es 9,33; 1Re 8,22.38; Is 1,15), unite all'impegno etico, espresso dal rifiuto della malvagità e della menzogna (v. 14). A tali condizioni corrisponde la promessa del ritorno della prosperità e dell'onore per Giobbe che ritroverà la speranza (v. 18). Zofar non si allontana dalle posizioni di Elifaz e Bildad. Le sofferenze di Giobbe sono in relazione alla sua colpa, che peraltro Dio in parte ha perdonato. Così anche la prosperità del malvagio costituisce per Zofar un'espressione della compassione di Dio, che non distrugge completamente le sue creature a motivo del loro peccato.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Giobbe si sente colpito da Dio senza motivo 1 Io sono stanco della mia vita! Darò libero sfogo al mio lamento, parlerò nell'amarezza del mio cuore. 2Dirò a Dio: “Non condannarmi! Fammi sapere di che cosa mi accusi. 3È forse bene per te opprimermi, disprezzare l'opera delle tue mani e favorire i progetti dei malvagi? 4Hai tu forse occhi di carne o anche tu vedi come vede l'uomo? 5Sono forse i tuoi giorni come quelli di un uomo, i tuoi anni come quelli di un mortale, 6perché tu debba scrutare la mia colpa ed esaminare il mio peccato, 7pur sapendo che io non sono colpevole e che nessuno mi può liberare dalla tua mano?

8Le tue mani mi hanno plasmato e mi hanno fatto integro in ogni parte: e ora vorresti distruggermi? 9Ricòrdati che come argilla mi hai plasmato; alla polvere vorresti farmi tornare? 10Non mi hai colato come latte e fatto cagliare come formaggio? 11Di pelle e di carne mi hai rivestito, di ossa e di nervi mi hai intessuto. 12Vita e benevolenza tu mi hai concesso e la tua premura ha custodito il mio spirito. 13Eppure, questo nascondevi nel cuore, so che questo era nei tuoi disegni! 14Se pecco, tu mi sorvegli e non mi lasci impunito per la mia colpa. 15Se sono colpevole, guai a me! Ma anche se sono giusto, non oso sollevare il capo, sazio d'ignominia, come sono, ed ebbro di miseria. 16Se lo sollevo, tu come un leone mi dai la caccia e torni a compiere le tue prodezze contro di me, 17rinnovi contro di me i tuoi testimoni, contro di me aumenti la tua ira e truppe sempre nuove mi stanno addosso. 18Perché tu mi hai tratto dal seno materno? Sarei morto e nessun occhio mi avrebbe mai visto! 19Sarei come uno che non è mai esistito; dal ventre sarei stato portato alla tomba! 20Non sono poca cosa i miei giorni? Lasciami, che io possa respirare un poco 21prima che me ne vada, senza ritorno, verso la terra delle tenebre e dell'ombra di morte, 22terra di oscurità e di disordine, dove la luce è come le tenebre”. _________________ Note

10,8-11 Le tue mani mi hanno plasmato e mi hanno fatto: questa descrizione del concepimento dell’uomo e del suo sviluppo nel seno materno si ispira alle immagini del vasaio che plasma l’argilla e al pastore che prepara i formaggi. Anche in altri testi biblici Dio è visto come colui che forma il corpo dell’uomo nel grembo della madre (vedi, ad es., Sal 139,15-16).

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Approfondimenti

Giobbe si sente colpito da Dio senza motivo 10,1-22 Giobbe si rivolge direttamente a Dio con una serie di domande retoriche che fanno leva sul Dio creatore. Giobbe chiede di non essere dichiarato colpevole, ma che Dio gli faccia conoscere il motivo del contendere con lui (v. 2). Giobbe è colpito per una colpa che non conosce e reclama a Dio perché gliela manifesti (cfr. Sal 50). Giobbe avverte un'intensità, un concentramento sproporzionato di Dio su di lui, dato che egli non può sottrarsi in alcun modo alla presa di Dio. Ma Giobbe con tali interrogativi sollecita pure Dio ad agire secondo la differenza di Dio sull'uomo (cfr. Os 11,9; Is 55,9).

vv. 8-12. Giobbe rievoca la relazione originaria fra Dio e l'uomo e ricorda a Dio la fragilità umana, come motivi per spingerlo a intervenire in suo favore. Dio, come uno scultore, ha formato l'uomo (v. 8; cfr. Gn 2), e poi ha stabilito che questa misteriosa formazione avvenisse all'interno del grembo materno (v. 11; cfr. Sal 139,13.15). Ma l'uomo è fortemente segnato dalla caducità, dimensione che di nuovo Giobbe ricorda a Dio (v. 9; cfr. 7,7; Gn 3,19, Sal 103,14). Giobbe ha conosciuto da parte di Dio il dono della vita e inoltre ha sperimentato la bontà (ḥesed) di Dio, quel legame che manifesta la sollecitudine e l'amore di Dio per l'uomo, e, conoscendo Giobbe, si può supporre l'esistenza di una risposta corrispondente.

vv. 13-17. Ma nonostante la benevolenza, Giobbe constata che Dio serbava dell'altro. Così se Giobbe ha peccato, Dio non lo lascia impunito. E anche se è giusto, egli non può alzare la testa, come espressione della propria libertà e dignità. Infatti se osa alzare la testa, Dio sta in agguato come un leone sulla preda (cfr. Os 5,14; 13,7-8) e accresce, con la sua ira, le sofferenze di Giobbe. Egli chiedeva all'inizio (cfr. v. 2) che Dio gli manifestasse il motivo del contendere. Adesso è Giobbe che, ricostruendo l'agire di Dio, manifesta le proprie proteste. Tuttavia l'intento di Giobbe è quello di ricordare a Dio che egli è Dio, e che l'uomo è solo una sua creatura. Appare particolarmente significativo, all'interno di questo discorso di Giobbe, pervaso dal motivo del rîb, soprattutto nella forma dell'accusa, anche l'uso del verbo yd', «conoscere, sapere». Giobbe conosce, riconosce, confessa in senso forense, la difficoltà dell'uomo di avere una giusta causa con Dio (cfr. 9,2), non sa valutare la propria integrità (cfr. 9,21), riconosce che Dio certamente non lo dichiarerà innocente (cfr. 9,28); comprende che Dio teneva in serbo per lui queste sventure. Le creature di Dio sono invece ignare di come Dio agisca con loro (cfr. 9,5). Infine c'è l'implorazione di Giobbe a Dio perché gli faccia conoscere il motivo della sua contesa con lui (cfr. 10,2), e ancora, Giobbe sostiene che Dio sa che lui non è colpevole (cfr. 10,7). Rispetto alle certezze di colpevolezza degli amici, Giobbe manifesta una conoscenza attraversata dagli interrogativi e che si rimette all'alterità di Dio, che non può operare secondo criteri umani. Giobbe con le sue domande e le sue proteste sollecita l'intervento di Dio: egli non può distruggere l'uomo, opera delle sue mani. Giobbe, pur nell'amarezza e nell'accusa, continua a mantenere l'apertura a Dio, in una relazione viva, resa più intensa e non respinta o negata, nella prova.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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RISPOSTA DI GIOBBE A BILDAD

1 Giobbe prese a dire:

2“In verità io so che è così: e come può un uomo aver ragione dinanzi a Dio? 3Se uno volesse disputare con lui, non sarebbe in grado di rispondere una volta su mille. 4Egli è saggio di mente, potente di forza: chi si è opposto a lui ed è rimasto salvo?

5Egli sposta le montagne ed esse non lo sanno, nella sua ira egli le sconvolge. 6Scuote la terra dal suo posto e le sue colonne tremano. 7Comanda al sole ed esso non sorge e mette sotto sigillo le stelle. 8Lui solo dispiega i cieli e cammina sulle onde del mare. 9Crea l'Orsa e l'Orione, le Plèiadi e le costellazioni del cielo australe. 10Fa cose tanto grandi che non si possono indagare, meraviglie che non si possono contare.

11Se mi passa vicino e non lo vedo, se ne va e di lui non mi accorgo. 12Se rapisce qualcosa, chi lo può impedire? Chi gli può dire: “Cosa fai?”. 13Dio non ritira la sua collera: sotto di lui sono fiaccati i sostenitori di Raab. 14Tanto meno potrei rispondergli io, scegliendo le parole da dirgli; 15io, anche se avessi ragione, non potrei rispondergli, al mio giudice dovrei domandare pietà. 16Se lo chiamassi e mi rispondesse, non credo che darebbe ascolto alla mia voce. 17Egli con una tempesta mi schiaccia, moltiplica le mie piaghe senza ragione, 18non mi lascia riprendere il fiato, anzi mi sazia di amarezze. 19Se si tratta di forza, è lui il potente; se di giustizia, chi potrà citarlo in giudizio? 20Se avessi ragione, la mia bocca mi condannerebbe; se fossi innocente, egli mi dichiarerebbe colpevole. 21Benché innocente, non mi curo di me stesso, detesto la mia vita! 22Per questo io dico che è la stessa cosa: egli fa perire l'innocente e il reo! 23Se un flagello uccide all'improvviso, della sciagura degli innocenti egli ride. 24La terra è lasciata in balìa del malfattore: egli vela il volto dei giudici; chi, se non lui, può fare questo?

25I miei giorni passano più veloci d'un corriere, fuggono senza godere alcun bene, 26volano come barche di papiro, come aquila che piomba sulla preda. 27Se dico: “Voglio dimenticare il mio gemito, cambiare il mio volto e rasserenarmi”, 28mi spavento per tutti i miei dolori; so bene che non mi dichiarerai innocente. 29Se sono colpevole, perché affaticarmi invano? 30Anche se mi lavassi con la neve e pulissi con la soda le mie mani, 31allora tu mi tufferesti in un pantano e in orrore mi avrebbero le mie vesti. 32Poiché non è uomo come me, al quale io possa replicare: “Presentiamoci alla pari in giudizio”. 33Non c'è fra noi due un arbitro che ponga la mano su di noi. 34Allontani da me la sua verga, che non mi spaventi il suo terrore: 35allora parlerei senza aver paura di lui; poiché così non è, mi ritrovo con me solo. _________________ Note

9,5 sposta le montagne: i terremoti e le catastrofi naturali erano considerati manifestazioni dell’onnipotenza divina.

9,9 Orsa, Orione, Plèiadi: l’identificazione delle costellazioni è difficile. I termini ebraici con cui vengono designate sono interpretati diversamente nelle antiche versioni greca e latina.

9,13 Raab: mostro dell’antica mitologia, personificazione del caos primitivo e delle ampie distese dei mari.

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Approfondimenti

RISPOSTA DI GIOBBE A BILDAD (9,1-10,22) Questo discorso di Giobbe contiene un'introduzione tematica (9,2-4) sulla questione della giustizia dell'uomo dinanzi a Dio, seguita da un inno alla potenza di Dio sulla natura (9,5-10): Il tema iniziale viene poi ripreso e ampliato (9,11-24) e culmina nell'affermazione che Dio distrugge l'uomo integro e quello malvagio (9,22). Seguono poi le considerazioni di Giobbe sulla sua situazione contingente, privato anche della possibilità di condurre Dio in giudizio (9,25-35). Infine, come nel discorso precedente, Giobbe conclude con un appello a Dio perché gli riveli su che cosa contende con lui e gli conceda una pausa dai terrori, prima dello ṣɇ'ôl (10,1-22). È assente, nel discorso, qualsiasi riferimento diretto agli amici. Giobbe persiste nel porre il problema in Dio, e con l'affermazione dell'assoluta discrezionalità di Dio nei confronti dell'uomo, viene messa in crisi, in modo irreversibile, la concezione degli amici fondata sull'esclusiva logica lineare causa-effetto. Il discorso presenta ripetutamente lessemi, sintagmi e alcuni tratti del rîb, la contesa giudiziaria fra due soggetti, Giobbe e Dio. Inoltre ad esso si affianca un uso particolare e significativo del verbo «conoscere» (yd).

9,2-4. Giobbe rilancia la questione al livello di Dio. Come può un uomo essere giusto con Dio? O anche, come può un uomo avere una giusta causa con Dio? Giobbe, in tal modo, riprende le parole di Elifaz (cfr. 4,17) benché in un contesto opposto alle certezze dell'amico. Il riferimento è a una controversia giuridica, al rîb, a un'azione giuridica di Giobbe contro Dio (cfr. 13,19; 23,6; 40,2). Essa implica che il soggetto che accusa presenti un discorso con tutte le ragioni e contestazioni che motivano il suo attacco, con le conseguenze che ne derivano, e faccia appello alla risposta di colui che è messo in questione. In questo caso, Giobbe però prevede (v. 3b) che Dio non si curi di rispondere ad alcuna delle molteplici contestazioni. Oppure, il senso del v. 3b può essere anche inteso in relazione all'uomo, che non potrebbe ribattere e rispondere alle interpellanze di Dio. L'autore sembra volutamente lasciare aperta la duplice possibilità di interpretazione. Il risultato che ne deriva da entrambe le prospettive è la superiorità di Dio, irraggiungibile per l'uomo (v. 4; cfr. 12,13).

vv. 5-10. Con un breve inno, Giobbe celebra la sapienza e soprattutto la potenza di Dio: egli esercita la sua incontrastata sovranità sulla natura (cfr. Am 8,9; Is 13,10.13; Sal 19,5-7; 104,2). Tuttavia mentre Elifaz (cfr. 5,9-16) aveva celebrato la potenza di Dio che interviene sulla natura a favore dell'uomo, e nelle relazioni umane per liberare l'oppresso dai prepotenti, qui Giobbe celebra le opere grandi e meravigliose di Dio, che non si possono né investigare né enumerare: Dio infatti esercita la sua potenza sulla natura in modo illimitato e indiscriminato.

vv. 11-24. La superiorità incontrastata di Dio si manifesta non solo sul creato, che non ha consapevolezza di quel che accade, ma anche rispetto all'uomo che pure non si accorge del passaggio di Dio. Chi può chiedere conto a Dio di quel che fa? Nessuno può protestare con lui. Nella ripresa del tema iniziale (cfr. v. 3), Giobbe afferma (vv. 14-15) che in una controversia con Dio, egli, anche se giusto, non risponderebbe alle accuse di Dio, ma al suo giudice (che non può essere se non Dio) implorerebbe misericordia, non tanto per scampare alla valenza minacciosa dell'atto del giudizio, quanto per la preponderanza irresistibile, incontenibile dell'avversario: Dio! Oltre il crescendo che descrive i tormenti esterni, le ferite interiori, le amarezze, l'angustia (cfr. 7,11), al lettore non sfugge che qui Giobbe, a sua insaputa, viene anche a contatto con un nodo del racconto, mentre riferisce che l'agire di Dio contro di lui è senza ragione (ḥinnām: v. 17; cfr. 2,3). Tutto è cominciato con la scommessa del Satan, che ha messo in dubbio il fatto che Giobbe tema Dio senza ragione (ḥinnām, cfr. 1, 9). Perciò, se si tratta di una prova di forza, Giobbe sa di non poter resistere dinanzi a Dio. Inoltre, pur esaminando e intensificando la metafora giudiziaria (vv. 19-24), Giobbe conclude che con Dio non ci sono possibilità di far valere la propria innocenza (v. 20), perché comunque egli distrugge senza distinzione l'uomo integro e il malvagio, l'empio (v. 22; cfr. Gn 18,23). L'affermazione di Giobbe (v. 22), pertanto, si oppone alle certezze di Bildad (cfr. 8,20) che prevedevano un comportamento differenziato di Dio a favore dell'uomo integro e contro il malvagio. Ma non basta; infatti Giobbe asserisce e accusa Dio di aver consegnato la terra in potere dell'empio (v. 24). Ancora una volta c'è una progressione drammatica nel discorso di Giobbe che dalla sua situazione estrema osa dire di Dio l'impensabile.

vv. 25-35. Giobbe constata (vv. 25-31) che tutti i suoi tentativi di dimenticare il suo lamento e le sue pene (e non Dio, come aveva alluso Bildad in 8,13), e anche ogni eventuale iniziativa di purificazione (v. 30; cfr. Is 1,18; Ger 2,22), sarebbero fatiche inutili, non inciderebbero sull'attribuzione di colpevolezza da parte di Dio. Infatti Dio non è un uomo così che Giobbe lo conduca in giudizio, non c'è un arbitro tra loro (cfr. v. 19) che possa dirimere la loro vertenza (vv. 32-33; cfr. Nm 23,19). Se l'ipotesi iniziale di Giobbe era quella del rîb con Dio (cfr. 9,3), lungo il discorso si è arricchita di altri riferimenti (cfr. 9,14-16.19-20), alludendo alla possibilità di essere chiamato in giudizio o di chiamare in giudizio Dio per veder riconosciuta da un giudice la propria innocenza. Tuttavia Giobbe è consapevole dell'impossibilità di ricorrere a un terzo, un giudice, fra lui e Dio, e più avanti Giobbe chiederà esplicitamente a Dio il motivo della contesa (rib, cfr. 10,2).

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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PRIMO DISCORSO DI BILDAD 1 Bildad di Suach prese a dire:

_ Dio non può sovvertire la giustizia_ 2“Fino a quando dirai queste cose e vento impetuoso saranno le parole della tua bocca? 3Può forse Dio sovvertire il diritto o l'Onnipotente sovvertire la giustizia? 4Se i tuoi figli hanno peccato contro di lui, li ha abbandonati in balìa delle loro colpe. 5Se tu cercherai Dio e implorerai l'Onnipotente, 6se puro e integro tu sarai, allora egli veglierà su di te e renderà prospera la dimora della tua giustizia; 7anzi, piccola cosa sarà la tua condizione di prima e quella futura sarà molto più grande. 8Chiedilo infatti alle generazioni passate, considera l'esperienza dei loro padri, 9perché noi siamo di ieri e nulla sappiamo, un'ombra sono i nostri giorni sulla terra. 10Non ti istruiranno e non ti parleranno traendo dal cuore le loro parole? 11Cresce forse il papiro fuori della palude e si sviluppa forse il giunco senz'acqua? 12Ancora verde, non buono per tagliarlo, inaridirebbe prima di ogni altra erba. 13Tale è la sorte di chi dimentica Dio, così svanisce la speranza dell'empio; 14la sua fiducia è come un filo e una tela di ragno è la sua sicurezza: 15se si appoggia alla sua casa, essa non resiste, se vi si aggrappa, essa non regge. 16Rigoglioso si mostra in faccia al sole e sopra il giardino si spandono i suoi rami, 17sul terreno sassoso s'intrecciano le sue radici e tra le pietre si abbarbica. 18Ma se lo si strappa dal suo luogo, questo lo rinnega: “Non ti ho mai visto!”. 19Ecco la gioia del suo destino e dalla terra altri rispuntano. 20Dunque, Dio non rigetta l'uomo integro e non sostiene la mano dei malfattori. 21Colmerà di nuovo la tua bocca di sorriso e le tue labbra di gioia. 22I tuoi nemici saranno coperti di vergogna, la tenda degli empi più non sarà”. _________________ Note

8,11 Il papiro e il giunco richiamano l’ambiente egiziano, ma anche la valle del fiume Giordano, alle cui acque essi devono la crescita e lo sviluppo.

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Approfondimenti

PRIMO DISCORSO DI BILDAD (8,1-22) Dopo Elifaz è Bildad a prendere la parola (v. 1). Egli subito ribatte che Dio non sovverte il diritto e la giustizia (v. 3), e ne fa una breve applicazione a Giobbe (vv. 4-7). I figli sono periti a causa del loro peccato e quel che accade a Giobbe è in relazione con le sue colpe. Bildad riporta così la riflessione sul comportamento umano, eludendo la questione posta da Giobbe sul comportamento di Dio. L'argomento di Bildad è fondato sull'investigazione dei «padri» (vv. 8-10) in modo da dare maggiore autorevolezza alle sue affermazioni. Le similitudini ruotano su ciò che appare e ciò che è in realtà (vv. 11-19), e tendono a mettere in rilievo l'inconsistenza della speranza dell'empio. Le conclusioni di Bildad (vv. 20-22) prevedono, secondo la rigida divisione retti/malvagi, la gioia per i primi e la distruzione per i secondi.

vv. 3-7. L'affermazione fondamentale da cui scaturisce il resto dell'argomentazione è che Dio non sovverte, non sconvolge il diritto. La forza di tale affermazione, peraltro presentata nella forma di una domanda retorica, emerge anche dal perfetto parallelismo sinonimico e sintattico dei due membri, fino all'uso dello stesso verbo («pervertire, sovvertire», cfr. v. 3. Cfr. anche 34,12). Altrove si dice che Dio sconvolge le vie degli empi (cfr. Sal 146,9), ma qui si adopera tale verbo con riferimento alle ultime considerazioni di Giobbe, su un'ingiustizia da parte di Dio. Bildad respinge le insinuazioni dell'amico, asserendo che è inconcepibile qualsiasi alterazione della giustizia divina; sostiene infatti la fedeltà di Dio riguardo alla giustizia e al diritto. I due lessemi si riferiscono in questo contesto all'ordine che Dio ha stabilito nel mondo. Così per Bildad, se Giobbe ora implora misericordia, Dio ristabilirà la sua grandezza. Le parole di Bildad sottendono una concezione meccanica del rapporto fra Dio e l'uomo, dove il comportamento di entrambi ha una serie prevedibile di possibilità, e garantisce all'uomo delle certezze. Pertanto, l'attenzione di Bildad è centrata sul comportamento dell'uomo a cui corrisponde l'agire di Dio. Così, mentre Giobbe, per il quale il problema è in Dio, diceva, rivolgendosi a Dio, «mi cercherai» (7,21), Bildad invece dice a Giobbe: «Se tu cercherai Dio» (v. 5); e mentre nel Prologo la rettitudine di Giobbe veniva ripetutamente riconosciuta, anche da Dio (1,1.8; 2,3), ora essa viene solo ipotizzata da Bildad (v. 6a; cfr. Prv 16,2; 20,11; 21,8).

vv. 8-10. A sostegno della sua argomentazione Bildad porta l'insegnamento dei «padri», maturato dall'osservazione e dall'esperienza delle generazioni precedenti, e che ha ricevuto autorevolezza anche dal vaglio del tempo. Alla richiesta di Giobbe (cfr. 6,24-25), Bildad risponde presentando il suo insegnamento come quello della tradizione (cfr. 15,18; Dt 32,7). Esso si caratterizza come un insegnamento sapienziale anche per la forma adoperata, la similitudine.

vv. 11-19. Bildad propone tre similitudini tratte dal mondo vegetale per esprimere l'illusione e l'inconsistenza della speranza dell'empio.

  1. La prima similitudine (v. 11-13) mostra come l'uomo che dimentica Dio perisce. La correlazione fra il dimenticare Dio e il perire ricorda l'avvertimento di Dt 8,19.
  2. La seconda similitudine (vv. 14-15) paragona l'inconsistenza della tela del ragno (cfr. Is 59,5-6) alla fiducia dell'uomo che confida nella propria casa, cioè la famiglia e le proprietà.
  3. Infine la terza similitudine (vv. 16-19) indica che le apparenti estensioni e diramazioni di un albero si rivelano illusorie come per l'uomo che, sradicato dal suo luogo, non è più riconosciuto (cfr. 7,10). Pertanto il successo dell'empio è solo apparente, perché al passaggio di Dio svanisce e un altro subentra ai suoi beni (cfr. Qo 2,26).

vv.20-22. La conclusione di Bildad conferma la fedeltà della giustizia divina che non respinge l'uomo integro (cfr. 1,1; ecc.) e non favorisce i malvagi. Pertanto egli cerca di confortare Giobbe su un lieto futuro cui allude facendo riferimento ai sentimenti: la gioia e il giubilo (Elifaz ne aveva descritto la prosperità, cfr. 5,24-26). E mentre Giobbe aveva concluso il suo discorso parlando della propria fine (7,21d), Bildad termina con la fine dei malvagi (v. 22b).

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Considerazione sulla vita 1 L'uomo non compie forse un duro servizio sulla terra e i suoi giorni non sono come quelli d'un mercenario? 2Come lo schiavo sospira l'ombra e come il mercenario aspetta il suo salario, 3così a me sono toccati mesi d'illusione e notti di affanno mi sono state assegnate. 4Se mi corico dico: “Quando mi alzerò?”. La notte si fa lunga e sono stanco di rigirarmi fino all'alba. 5Ricoperta di vermi e di croste polverose è la mia carne, raggrinzita è la mia pelle e si dissolve. 6I miei giorni scorrono più veloci d'una spola, svaniscono senza un filo di speranza.

Appello a Dio 7Ricòrdati che un soffio è la mia vita: il mio occhio non rivedrà più il bene. 8Non mi scorgerà più l'occhio di chi mi vede: i tuoi occhi mi cercheranno, ma io più non sarò. 9Una nube svanisce e se ne va, così chi scende al regno dei morti più non risale; 10non tornerà più nella sua casa, né più lo riconoscerà la sua dimora. 11Ma io non terrò chiusa la mia bocca, parlerò nell'angoscia del mio spirito, mi lamenterò nell'amarezza del mio cuore! 12Sono io forse il mare oppure un mostro marino, perché tu metta sopra di me una guardia? 13Quando io dico: “Il mio giaciglio mi darà sollievo, il mio letto allevierà il mio lamento”, 14tu allora mi spaventi con sogni e con fantasmi tu mi atterrisci. 15Preferirei morire soffocato, la morte piuttosto che vivere in queste mie ossa. 16Mi sto consumando, non vivrò più a lungo. Lasciami, perché un soffio sono i miei giorni. 17Che cosa è l'uomo perché tu lo consideri grande e a lui rivolga la tua attenzione 18e lo scruti ogni mattina e ad ogni istante lo metta alla prova? 19Fino a quando da me non toglierai lo sguardo e non mi lascerai inghiottire la saliva? 20Se ho peccato, che cosa ho fatto a te, o custode dell'uomo? Perché mi hai preso a bersaglio e sono diventato un peso per me? 21Perché non cancelli il mio peccato e non dimentichi la mia colpa? Ben presto giacerò nella polvere e, se mi cercherai, io non ci sarò!“. _________________ Note

7,1 Le parole di Giobbe si ispirano qui al genere della lamentazione, frequente nei testi biblici per esprimere la debolezza e la fragilità della condizione umana. Nell’antichità la condizione del mercenario (l’operaio pagato a giornata) e dello schiavo era tra le meno considerate e le più faticose.

7,12 mare e mostro marino: allusioni alle antiche mitologie mesopotamiche, nelle quali mare e mostri marini rappresentavano il caos e la ribellione alla divinità; per questo andavano tenuti sotto stretta vigilanza.

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Approfondimenti

Considerazione sulla vita 7,1-6 Giobbe riprende ora le sue considerazioni sulla sorte dell'uomo e sulla sua sorte personale. La vita dell'uomo è descritta attraverso alcune similitudini che sottolineano la condizione di servitù, di duro servizio obbligatorio (cfr. Is 40,2), di dipendenza dell'uomo, che, come un salariato o un servo, aspira al riposo e al compenso (vv. 1-2). Ma ciò che Giobbe ha avuto in sorte è solo affanno senza sosta, cosicché il disfarsi del suo corpo annuncia il termine della sua vita, ormai inesorabile, senza speranza (vv. 3-6; cfr. 31,2-3). Nel v. 6 il lessema speranza (tiqwāh) è usato all'interno di un gioco polisemantico: essa infatti indica non solo una ragione di vita, ma anche il filo della vita in relazione alla spola (cfr. Is 38,12), di cui si parla nella prima parte del versetto.

Appello a Dio 7,7-21 Giobbe conclude rivolgendo un appello appassionato a Dio. La prima invocazione a Dio è a ricordare la caducità della vita dell'uomo (v. 7; cfr. 10,9; Sal 78,39; 89,48) come motivo per intervenire e operare la salvezza. Seguono delle splendide espressioni (vv. 7-10) le quali, mediante il riferimento alla percezione visiva, alludono agli effetti definitivi della morte: Giobbe non tornerà a vedere il bene (ciò evoca la bontà del creato di Gn 1; ma anche il godere il frutto della fatica e del proprio lavoro, cfr. Qo 3,13), scomparirà dalla comunità degli uomini, e anche se gli occhi di Dio si poseranno su di lui, nel caso in cui Dio volesse salvarlo, egli già non è più. Infatti come una nube svanisce così chi scende nello ṣɇ'ôl non risale (v. 9; cfr. Sap 2,1.4). Tale asserzione esprime una concezione della morte come realtà definitiva che estingue ogni legame. Lo ṣɇ'ôl è il mondo sotterraneo dei morti, opposto alla terra dei viventi. La discesa nello ṣɇ'ôl preclude ogni relazione, anche con Dio (cfr. Is 38,11; Sal 6,6; 30,10; 88,11-13; 115,17), Tali riflessioni di Giobbe escludono evidentemente l'idea della risurrezione.

Nei vv. 12-15, Giobbe chiede ragione a Dio della sua persistente vigilanza su di lui, quasi fosse il mare per il quale Dio ha stabilito un limite, o uno di quei mostri mitologici sui quali Dio esercita il suo dominio (cfr. 3,8; 26,12; 38,8-11; 39,25-32). Giobbe pensava di avere una pausa da questo tormento almeno la notte, ma non è così (come in 7,3-4; cfr. Dt 28,67), il suo dolore è continuo. Infatti di notte Dio lo spaventa con i sogni e le visioni. Le notti di Giobbe sono abitate dagli incubi e non come per Elifaz (4,12-17) da conoscenze ispirate. Ascoltando Giobbe il lettore conosce così che la sua piaga si manifesta non solo all'esterno, sul corpo, ma anche nell'intimo, tanto che il tormento si estende al suo inconscio. Per questo la morte gli sembra preferibile alla vita (cfr. 6, 8-10). Tuttavia Giobbe, assediato da Dio, osservando il disfarsi del suo essere, chiede a Dio una sosta, una tregua (v. 16). Non solo, Giobbe rivolge a Dio una serie di domande che riprendono in senso contrario, negativo, i motivi presenti in Sal 8,5; 144,3. Giobbe chiede a Dio le ragioni del prestare così tanta attenzione all'uomo, un essere mortale, del fatto di metterlo alla prova continuamente, del trattare Giobbe come suo bersaglio (cfr. Sal 88). E se anche Giobbe ha peccato, inavvertitamente, o qui, come concessione all'argomentazione, egli ritiene di essere stato punito abbastanza; perché allora Dio non dimentica? Giobbe pone evidentemente in discussione l'ordinata disposizione divina, prospettata da Elifaz, sulla correzione dell'uomo (cfr. 5,17-26), che nel caso di Giobbe sembra essere adombrata dall'arbitrarietà dell'agire divino. Giobbe definisce la sua situazione come una prova da parte di Dio (v. 18; 23,10; cfr. Sal 139), ma con un carico di sofferenza sproporzionato rispetto alla brevità della vita umana, alla grandezza di Dio che solo può allontanare la trasgressione dell'uomo. In fondo, Giobbe chiede a Dio perché non lo perdona (v. 21; cfr. Es 34,7; Sal 32,1.5; 2Sam 24,10; Mic 7, 8; ecc.) e sollecita l'azione di Dio, di Dio che va in cerca dell'uomo, di Dio che ama, che è grande nell'amore (cfr. Sal 103). Giobbe si aspetta che Dio sia Dio. In tutto questo emerge anche il rilievo dato alla vita, come dono che proviene da Dio, come esclusivo tempo di relazione anche con Dio.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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RISPOSTA DI GIOBBE A ELIFAZ 1 Giobbe prese a dire:

L’angoscia di Giobbe 2“Se ben si pesasse la mia angoscia e sulla stessa bilancia si ponesse la mia sventura, 3certo sarebbe più pesante della sabbia del mare! Per questo le mie parole sono così avventate, 4perché le saette dell'Onnipotente mi stanno infitte, sicché il mio spirito ne beve il veleno e i terrori di Dio mi si schierano contro! 5Raglia forse l'asino selvatico con l'erba davanti o muggisce il bue sopra il suo foraggio? 6Si mangia forse un cibo insipido, senza sale? O che gusto c'è nel succo di malva? 7Ciò che io ricusavo di toccare ora è il mio cibo nauseante! 8Oh, mi accadesse quello che invoco e Dio mi concedesse quello che spero! 9Volesse Dio schiacciarmi, stendere la mano e sopprimermi! 10Questo sarebbe il mio conforto, e io gioirei, pur nell'angoscia senza pietà, perché non ho rinnegato i decreti del Santo.

La solitudine di Giobbe e delusione per l'abbandono da parte degli amici 11Qual è la mia forza, perché io possa aspettare, o qual è la mia fine, perché io debba pazientare? 12La mia forza è forse quella dei macigni? E la mia carne è forse di bronzo? 13Nulla c'è in me che mi sia di aiuto? Ogni successo mi è precluso? 14A chi è sfinito dal dolore è dovuto l'affetto degli amici, anche se ha abbandonato il timore di Dio. 15I miei fratelli sono incostanti come un torrente, come l'alveo dei torrenti che scompaiono: 16sono torbidi per il disgelo, si gonfiano allo sciogliersi della neve, 17ma al tempo della siccità svaniscono e all'arsura scompaiono dai loro letti. 18Le carovane deviano dalle loro piste, avanzano nel deserto e vi si perdono; 19le carovane di Tema li cercano con lo sguardo, i viandanti di Saba sperano in essi: 20ma rimangono delusi d'aver sperato, giunti fin là, ne restano confusi.

Giobbe si rivolge agli amici 21Così ora voi non valete niente: vedete una cosa che fa paura e vi spaventate. 22Vi ho detto forse: “Datemi qualcosa”, o “Con i vostri beni pagate il mio riscatto”, 23o “Liberatemi dalle mani di un nemico”, o “Salvatemi dalle mani dei violenti”? 24Istruitemi e allora io tacerò, fatemi capire in che cosa ho sbagliato. 25Che hanno di offensivo le mie sincere parole e che cosa dimostrano le vostre accuse? 26Voi pretendete di confutare le mie ragioni, e buttate al vento i detti di un disperato. 27Persino su un orfano gettereste la sorte e fareste affari a spese di un vostro amico. 28Ma ora degnatevi di volgervi verso di me: davanti a voi non mentirò. 29Su, ricredetevi: non siate ingiusti! Ricredetevi: io sono nel giusto! 30C'è forse iniquità sulla mia lingua o il mio palato non sa distinguere il male? _________________ Note

6,19 Tema e Saba: erano località dell’Arabia e famosi centri commerciali.

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Approfondimenti

RISPOSTA DI GIOBBE A ELIFAZ (6,1-7,21) L'intervento di Elifaz era volto a ristabilire un quadro teorico di certezze entro cui comprendere la vicenda di Giobbe. La risposta di Giobbe, invece, esprime l'intensità e il flusso delle emozioni. Dopo l'introduzione del narratore (6,1), Giobbe comincia il discorso riferendo la responsabilità di Dio sulla sua sventura e l'attesa della morte come ultima consolazione (6,2-10); infatti non ha più forza e non c'è benevolenza per lui (6,11-20), neppure dagli amici che gli sono ostili (6,21-30). Giobbe riprende poi a descrivere la sua disperata situazione e la sua fine ormai imminente (7,1-11) e conclude con un appello a Dio (7,12-21) perché cessi di scrutarlo e si mostri quale Dio della vita. Giobbe coerentemente continua, pure nell'amarezza, a riferirsi a Dio come interlocutore fondamentale.

L’angoscia di Giobbe 6,2-10 Con un'iperbole (vv. 2-3) Giobbe esprime che l'afflizione, lo sdegno e la sventura sono per lui senza misura. Egli in tal modo riprende quanto aveva detto Elifaz (cfr. 5,2), dando una ragione del suo parlare impetuoso, quasi rivendicandone il diritto. Appare originale l'uso della similitudine «più della sabbia del mare» (di solito connessa alla promessa dei patriarchi: Gn 22,17) con una diversa direzione, per indicare la sovrabbondanza della sofferenza. Giobbe pare riprendere poi l'argomentazione di Elifaz (cfr. 5,11-18) mentre attribuisce a Dio la provenienza della sua disgrazia (v. 4). In realtà questa concezione era già stata manifestata dal protagonista nel Prologo (cfr. 1,20; 2,10), benché con un accento differente. Adesso infatti Giobbe parla dei «terrori di elôah» e delle «saette di Shaddai». L'immagine delle saette di Dio ricorre anche altrove (cfr. 16,12-13; Sal 38,3; Dt 32,23-24; Ez 5,16), ed esprime la credenza che le malattie vengono da Dio. Elifaz (in 5,17) aveva denominato Dio, come 'elôah e Shaddai, come Dio che corregge l'uomo, mentre ora Giobbe ne parla come di colui che incute e provoca nell'uomo tormenti come un avversario (cfr. Sal 88,17-18). Peraltro questo motivo è completato alla fine del discorso, in cui Giobbe asserisce che Dio lo ha posto come un bersaglio (cfr. 7,20). La serie di quattro domande retoriche (vv. 5-6) trovano una spiegazione nella comparazione finale (v. 7) in cui Giobbe asserisce che suo cibo sono diventate le sue sofferenze. Così Giobbe esprime la costrizione a cui è sottoposto, ma anche la legittimità del suo gridare. Da qui proviene (vv. 8-10) il desiderio della morte come esaudimento da parte di Dio della speranza ultima di Giobbe. Il conforto che proviene da questa morte non è solo per il cessare delle sofferenze (come nel c. 3), ma per la fedeltà, fino alla fine, verso Dio. Giobbe, infatti, invoca la morte che provenga da Dio (come Mosè in Nm 11,14-15; Elia in 1Re 19,4; Giona in Gio 4,3), come atto conclusivo che confermi la sua adesione all'Onnipotente.

La solitudine di Giobbe e delusione per l'abbandono da parte degli amici 11-20 Giobbe continua la riflessione sulla sua situazione segnata dalla solitudine e dall'abbandono (vv. 11-14) della forza vitale interna, di qualsiasi aiuto esterno, persino della benevolenza degli amici, quella sollecitudine per l'altro, per la vita dell'altro (ḥesed), che è dovuta anche se l'altro ha abbandonato il timore di Dio, che è ciò che sta a cuore anche a Giobbe. Così egli introduce la delusione (v. 15-20) per l'atteggiamento degli amici paragonati a torrenti aridi.

Giobbe si rivolge agli amici 6,21-30 Giobbe si rivolge direttamente agli amici con una progressione drammatica. Dapprima esplicita i sentimenti di repulsione degli amici verso di lui: lo vedono spaventoso e temono (v. 21), e poi ne rimprovera il pregiudizio. Egli infatti non ha richiesto loro né l'impegno dei loro beni, né l'esercizio di azioni con connotazione forense in suo favore (vv. 22-23). Giobbe invece chiede, incita gli amici a portare delle argomentazioni capaci di far fronte alle sue parole rette e di mettere in evidenza la sua devianza. Giobbe non solo sollecita il confronto con gli amici, che tramite il discorso di Elifaz avevano emesso una sentenza che pareva inappellabile, ma, anche, rilancia loro la sfida sulle parole, un giudizio sulle parole (vv. 24-25). A questi amici che mostrano un volto crudele nell'amministrare la giustizia, infatti non hanno limiti nell'eseguire la loro pretesa giustizia contro i poveri e coloro che vanno in disgrazia (vv. 26-27), Giobbe infine rivolge l'invito (v. 28-30) a considerare la sua situazione, li esorta a ricredersi poiché egli non ha commesso ingiustizia, da intendere qui come atto concreto in riferimento al parlare (contro 5,16. Cfr. pure 13,7; 27,4; Sal 107,42; Is 59,3). Giobbe asserisce, pertanto, che la sua giustizia (ṣɇdāqā) è intatta. La parte del discorso rivolto agli amici (vv. 22-30) è caratterizzata da lessemi e sintagmi che appartengono al campo semantico forense, con i quali Giobbe dichiara la propria innocenza riguardo al parlare e sollecita anche, con l'ultima espressione di discolpa (v. 29), nella forma dell'interrogazione, il confronto aperto con gli amici.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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L’origine del male 1 Grida pure! Ti risponderà forse qualcuno? E a chi fra i santi ti rivolgerai? 2Poiché la collera uccide lo stolto e l'invidia fa morire lo sciocco. 3Ho visto lo stolto mettere radici e subito ho dichiarato maledetta la sua dimora. 4I suoi figli non sono mai al sicuro, e in tribunale sono oppressi, senza difensore; 5l'affamato ne divora la messe, anche se ridotta a spine, la porterà via e gente assetata agognerà le sue sostanze. 6Non esce certo dal suolo la sventura né germoglia dalla terra il dolore, 7ma è l'uomo che genera pene, come le scintille volano in alto.

Invocazione a Dio 8Io, invece, mi rivolgerei a Dio e a Dio esporrei la mia causa: 9a lui, che fa cose tanto grandi da non potersi indagare, meraviglie da non potersi contare, 10che dà la pioggia alla terra e manda l'acqua sulle campagne. 11Egli esalta gli umili e solleva a prosperità gli afflitti; 12è lui che rende vani i pensieri degli scaltri, perché le loro mani non abbiano successo. 13Egli sorprende i saccenti nella loro astuzia e fa crollare il progetto degli scaltri. 14Di giorno incappano nel buio, in pieno sole brancolano come di notte. 15Egli invece salva il povero dalla spada della loro bocca e dalla mano del violento. 16C'è speranza per il misero, ma chi fa l'ingiustizia deve chiudere la bocca. 17Perciò, beato l'uomo che è corretto da Dio: non sdegnare la correzione dell'Onnipotente, 18perché egli ferisce e fascia la piaga, colpisce e la sua mano risana. 19Da sei tribolazioni ti libererà e alla settima il male non ti toccherà; 20nella carestia ti libererà dalla morte e in guerra dal colpo della spada, 21sarai al riparo dal flagello della lingua, né temerai quando giunge la rovina. 22Della rovina e della fame riderai né temerai le bestie selvatiche; 23con le pietre del campo avrai un patto e le bestie selvatiche saranno in pace con te. 24Vedrai che sarà prospera la tua tenda, visiterai la tua proprietà e non sarai deluso. 25Vedrai che sarà numerosa la tua prole, i tuoi rampolli come l'erba dei prati. 26Te ne andrai alla tomba in piena maturità, come un covone raccolto a suo tempo. 27Ecco, questo l'abbiamo studiato a fondo, ed è vero. Ascoltalo e imparalo per il tuo bene”. _________________ Note

5,1 i santi: gli angeli, considerati nella loro funzione di intercessori (vedi anche 15,15).

5,19 Proverbio numerico che indica la totalità dei mali da cui Dio libera e preserva l’uomo.

5,23 Il patto con le pietre del campo vuole esprimere la fecondità del terreno e l’abbondanza dei raccolti.

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Approfondimenti

L’origine del male 5,1-7 L'imperativo con cui Elifaz si rivolge di nuovo direttamente a Giobbe introduce una nuova fase dell'argomentazione che riguarda la condizione attuale di Giobbe. Non senza sarcasmo, Elifaz insiste sull'inutilità dell'atteggiamento di Giobbe al cui grido nessuno risponde. Il vocabolario rende il contesto giudiziario: all'appello e alla querela non c'è per Giobbe chi gli renda giustizia (v. 1a; cfr. Sal 3,5; 4,2). Poiché evidentemente è Dio che non risponde (cfr. 3,20.23), è inutile rivolgersi agli altri esseri divini (v. 1b), che sono i servi di Dio (cfr. 4,18a) o gli dei tutelari. Opporsi con sdegno e ribellione alle circostanze avverse e incomprensibili è vano e si ritorce contro, uccidendo l'uomo che con tale atteggiamento si mostra stolto (v. 2). Elifaz ricava queste considerazioni ancora dall'osservazione degli eventi umani. Pertanto, la conclusione a cui egli giunge è che l'uomo è responsabile delle circostanze della sua vita, insomma anche il male scaturisce dall'uomo, e non senza ragione. La sentenza di 5,6 completa quella di 4,8 applicando metaforicamente le fasi dell'intero ciclo produttivo agricolo all'agire umano.

Invocazione a Dio 5,8-26 Elifaz si avvia a offrire alcune indicazioni concrete a Giobbe: gli propone di rimettere la propria causa a Dio (v. 8), come a colui che può dirimere la questione, e non la parte avversa con cui contendere. L'ambizione di Elifaz è evidente, quella di persuadere Giobbe a cambiare atteggiamento. Così Elifaz, con un inno, celebra Dio che opera prodigi nella creazione e nella storia (vv. 9-16; cfr. Sal 136,4). La potente opera di Dio si manifesta nel capovolgere gli eventi: il dono della pioggia rende la terra fertile (cfr. Is 48,18-20; Ger 14,22; Sal 147,8); la protezione sugli umili fa precipitare i perversi con i loro intrighi. Appartiene alla tradizione sapienziale l'affermazione che Dio innalza i miseri e gli afflitti e abbassa e confonde gli astuti (cfr. 1Sam 2,7-8; Sal 18,28; 75,8; 113,7; 147,6). Non si tratta tanto in quest'ambito di un'azione riequilibratrice, ma del ristabilire quell'ordine voluto da Dio fin dalla creazione del mondo. Il riproporre (vv. 11-16) il contrasto fra le conseguenze dell'intervento di Dio per gli afflitti e per i malvagi, produce l'effetto di un'ammonizione a un atteggiamento umile verso Dio e alla speranza per chi è nell'angustia. All'inno al Dio creatore e che presiede all'ordine naturale e sociale segue la beatitudine e la sicurezza dell'uomo che non respinge la correzione di Dio (vv. 17-26). Elifaz invita Giobbe che in passato aveva istruito, ammaestrato gli altri (cfr. 4,3), ad accettare ora la correzione di Dio (v. 17). Essa si manifesta nella sofferenza e nel dolore personale come strumento educativo di Dio (cfr. cc. 32-37; Prv 3,11-12). L'alleanza con le pietre e le bestie selvagge (v. 23) evoca l'armonia fra l'uomo e la natura, promessa per l'era messianica (cfr. Is 11,6-8; Os 2,20). A tutto ciò è connessa la prosperità familiare che si estenderà alla moltitudine della discendenza, mentre la morte giungerà come frutto maturo di una vita colma di giorni (v. 24-26).

v. 27. Nelle parole conclusive Elifaz presenta ciò di cui egli ha parlato come oggetto ed esito dell'investigazione compiuta con altri e sollecita Giobbe ad accettarne l'insegnamento per avere conoscenza. Peraltro egli con altri, gli amici e sapienti, ha investigato sull'agire di Dio che compie cose grandi e insondabili, inesplorabili! In questo discorso di Elifaz ricorrono degli argomenti fondamentali per tutta la Disputa: l'uomo riceve da Dio secondo la sua condotta; la radicale debolezza dell'uomo che non può essere giusto davanti a Dio; la sofferenza di Giobbe come strumento di correzione da parte di Dio. Inoltre mentre per i malvagi che tramano e realizzano il male l'azione punitiva di Dio è certa e definitiva (cfr. 4,8-9. 5,12-14), come se il malvagio paralizzato dalla sua attitudine al male fosse incapace di cambiare, non così è per la sventura che si abbatte sull'uomo retto, la quale, accolta come correzione per il peccato, renderà ancora più grande la sua prosperità (cfr. 5,11.15-26).

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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PRIMO DISCORSO DI ELIFAZ

Dio punisce i cattivi e corregge i buoni 1Elifaz di Teman prese a dire: 2“Se uno tenta di parlare, ti sarà gravoso? Ma chi può trattenere le parole? 3Ecco, sei stato maestro di molti e a mani stanche hai ridato vigore; 4le tue parole hanno sorretto chi vacillava e le ginocchia che si piegavano hai rafforzato. 5Ma ora che questo accade a te, ti è gravoso; capita a te e ne sei sconvolto. 6La tua pietà non era forse la tua fiducia, e la tua condotta integra la tua speranza? 7Ricordalo: quale innocente è mai perito e quando mai uomini retti furono distrutti? 8Per quanto io ho visto, chi ara iniquità e semina affanni, li raccoglie. 9A un soffio di Dio periscono e dallo sfogo della sua ira sono annientati. 10Ruggisce il leone, urla la belva, e i denti dei leoncelli si frantumano; 11il leone perisce per mancanza di preda, e i figli della leonessa si disperdono.

L’uomo non può essere giusto davanti a Dio 12A me fu recata, furtiva, una parola e il mio orecchio ne percepì il lieve sussurro. 13Negli incubi delle visioni notturne, quando il torpore grava sugli uomini, 14terrore mi prese e spavento, che tutte le ossa mi fece tremare; 15un vento mi passò sulla faccia, sulla pelle mi si drizzarono i peli. 16Stava là uno, ma non ne riconobbi l'aspetto, una figura era davanti ai miei occhi. Poi udii una voce sommessa: 17“Può l'uomo essere più retto di Dio, o il mortale più puro del suo creatore? 18Ecco, dei suoi servi egli non si fida e nei suoi angeli trova difetti, 19quanto più in coloro che abitano case di fango, che nella polvere hanno il loro fondamento! Come tarlo sono schiacciati, 20sono annientati fra il mattino e la sera, senza che nessuno ci badi, periscono per sempre. 21Non viene forse strappata la corda della loro tenda, sicché essi muoiono, ma senza sapienza?“. _________________ Note

4,13 Negli incubi delle visioni notturne: probabilmente si tratta di un’ispirazione divina, ricevuta in una visione notturna, come avveniva per i patriarchi biblici (ad es. Gen 15,12).

4,19 nella polvere: allusione al corpo dell’uomo e alla sua origine dalla terra (Gen 2,7).

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Approfondimenti

PRIMO DISCORSO DI ELIFAZ (4,1-5,27) Con il primo intervento di Elifaz (cc. 4-5) si entra nel vivo della Disputa. Dopo l'introduzione del narratore (4, 1), il discorso si apre con un esordio di Eli-faz che, rivolgendosi a Giobbe, evidenzia il contrasto fra i suoi atteggiamenti passati e presenti (4, 2-6). Gli offre poi le sue riflessioni scaturite dall'osservazione (4, 7-11), dalla visione (4, 12-21), e di nuovo dall'osservazione (5, 1-7), per concludere con un inno alla grandezza e potenza di Dio che innalza gli afflitti e fa perire gli astuti con l'annuncio della beatitudine dell'uomo che accetta la correzione di Dio (5, 8-26), seguito da un'incitazione a Giobbe ad accogliere il frutto di tale investigazione (5, 27). Lo scopo di Elifaz è di ristabilire un quadro di certezze entro il quale comprendere anche la vicenda dell'amico. Infatti l'iniziale monologo di Giobbe ha fatto esplodere le precedenti prospettive, fino a mettere in dubbio il bene stesso della vita. Elifaz cerca di persuadere Giobbe rispetto ad alcune tradizionali concezioni sulle conseguenze delle azioni umane e il manifestarsi della giustizia di Dio.

Dio punisce i cattivi e corregge i buoni (4,2-6) Nell'esordio, Elifaz si preoccupa dapprima (v. 2) di giustificare la propria impellente esigenza di prendere la parola, di esprimere la propria opinione, sollecitato così fortemente dalle circostanze. Riguardo ai fatti, egli rileva una dissonanza nel comportamento di Giobbe che, nella disgrazia, si mostra incapace di aiutare se stesso, là dove, in passato, era riuscito con gli altri (vv. 3-4; cfr. Is 35,3). Ma ancor più Giobbe manifesta la sua debolezza (cfr. Prv 24,10) nello sgomento per quel che gli accade. Le parole di Elifaz (v. 5) riferiscono una sottile, tragica consapevolezza dell'avvicinarsi ineluttabile della sventura, che perciò non deve suscitare sorpresa, non quella che mostra Giobbe. Soprattutto, per Elifaz il turbamento di Giobbe sembra in contrasto con il suo atteggiamento religioso (v. 6). Viene introdotta qui una questione fondamentale: il rapporto fra la fede e la vita, fra ciò che l'uomo pensa e come si comporta, fra le ragioni e le attese connesse all'agire dell'uomo. Elifaz insinua che il contegno di Giobbe non è altro che riporre fiducia nei propri sforzi.

vv. 7-11. La prima argomentazione di Elifaz si fonda sulla connessione fra le azioni dell'uomo e le relative conseguenze. La concezione portata da Elifaz esclude che la rovina possa abbattersi sull'uomo esente da colpa e integrato nella comunità (cfr. Sal 1,3; 37,25; Sir 2,10), bensì, basandosi sull'osservazione (4,8) degli eventi, Elifaz sostiene che le afflizioni sono il frutto di chi le ha seminate (cfr. Os 8,7; 10,12-13; Prv 22,8; Sir 7,3). Il giudizio di Dio si compie durante la vita dell'uomo. E la rovina manifesta la collera di Dio per la condotta malvagia dell'uomo. La metafora del leone (vv. 10-11), di solito intesa come il venir meno della forza aggressiva e della prepotenza del malvagio (cfr. Sal 7,3; 17,12; 22,14; 35,16-17; 58,7), può anche riferirsi al venir meno di Giobbe che non ha perso qualcosa, ma che lui stesso è perduto (cfr. Sal 119,176; 31,13).

L’uomo non può essere giusto davanti a Dio Elifaz riferisce poi una visione notturna (vv. 12-17; cfr. Zc 1,8) che ricorda quelle dei patriarchi e dei profeti. Nel descrivere tale visione Elifaz si sofferma sulle circostanze dell'evento, nel sonno profondo (v. 13, cfr. Gn 2,21; 15,12); sullo stato d'animo che suscita in lui: il panico (v. 14). L'oggetto della visione non è costituito da immagini (come nella tradizione della rivelazione biblica), che appaiono offuscate, ma da una voce che Elifaz ascolta. Il messaggio ha un contenuto inquietante (v. 17). Il verbo ṣdq, «essere giusto», e il termine ṣaddîq, «giusto», indicano un atteggiamento corretto da parte dell'uomo, conforme alle regole della comunità cui apparteneva, tuttavia in epoca postesilica; se ne accentuò il riferimento alle esigenze della torah di JHWH (cfr. Sal 1; 119). La conoscenza che Elifaz ha ricevuto in una rivelazione e che propone come un interrogativo di cui è scontata la risposta, insinua e apre un varco incolmabile fra Dio e l'uomo. Pone il dito in quella ferita profonda, ontologica, da cui l'uomo è attraversato: ogni uomo ha una congenita tendenza verso il male. Questo insegnamento si trova anche altrove nella Scrittura (cfr. Gn 8,21; 1Re 8,46; Prv 20,9; Qo 7,20; Sal 51,7; Gb 14,4; 15,14; 25,4) e richiama il racconto delle origini sottolineandone l'esito finale (Gn 3): la separazione, la distanza immensa fra l'uomo e Dio. A sostegno di tutto ciò, Elifaz porta come argomento (vv. 18-21) la sfiducia di Dio verso i suoi servi (anche in 15,15-16). Elifaz è ignaro, ironia dell'autore, di attribuire a Dio lo stesso atteggiamento che il Satan manifesta nel Prologo. Per Elifaz se Dio non si fida dei suoi servi, la corte celeste ancor meno si fida dell'uomo fatto di argilla. Tre immagini sono usate per parlare della fragilità dell'uomo. L'uomo è come polvere (cfr. Gn 2,7; 3,19; Gb 10,9; 33,6), come l'erba (cfr. Sal 90,5-6), come la tenda (cfr. Is 38,12; Qo 12,6). La sua fine è la morte che avviene senza che egli sia pervenuto alla sapienza. Per la prima volta ricorre il termine ḥokmâ, «sapienza», che indica la comprensione dell'ordine delle cose e del mondo e consente l'atteggiamento congruente dell'uomo agli eventi (cfr. Prv 1,2-6). La sapienza appare come un ideale della vita (cfr. 3,23) per Giobbe, mentre per Elifaz l'uomo muore privo di sapienza.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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DISPUTA

Primo discorso di Giobbe 1 Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno. 2Prese a dire: 3“Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: “È stato concepito un maschio!”. 4Quel giorno divenga tenebra, non se ne curi Dio dall'alto, né brilli mai su di esso la luce. 5Lo rivendichino la tenebra e l'ombra della morte, gli si stenda sopra una nube e lo renda spaventoso l'oscurarsi del giorno! 6Quella notte se la prenda il buio, non si aggiunga ai giorni dell'anno, non entri nel conto dei mesi. 7Ecco, quella notte sia sterile, e non entri giubilo in essa. 8La maledicano quelli che imprecano il giorno, che sono pronti a evocare Leviatàn. 9Si oscurino le stelle della sua alba, aspetti la luce e non venga né veda le palpebre dell'aurora, 10poiché non mi chiuse il varco del grembo materno, e non nascose l'affanno agli occhi miei! 11Perché non sono morto fin dal seno di mia madre e non spirai appena uscito dal grembo? 12Perché due ginocchia mi hanno accolto, e due mammelle mi allattarono? 13Così, ora giacerei e avrei pace, dormirei e troverei riposo 14con i re e i governanti della terra, che ricostruiscono per sé le rovine, 15e con i prìncipi, che posseggono oro e riempiono le case d'argento. 16Oppure, come aborto nascosto, più non sarei, o come i bambini che non hanno visto la luce. 17Là i malvagi cessano di agitarsi, e chi è sfinito trova riposo. 18Anche i prigionieri hanno pace, non odono più la voce dell'aguzzino. 19Il piccolo e il grande là sono uguali, e lo schiavo è libero dai suoi padroni. 20Perché dare la luce a un infelice e la vita a chi ha amarezza nel cuore, 21a quelli che aspettano la morte e non viene, che la cercano più di un tesoro, 22che godono fino a esultare e gioiscono quando trovano una tomba, 23a un uomo, la cui via è nascosta e che Dio ha sbarrato da ogni parte? 24Perché al posto del pane viene la mia sofferenza e si riversa come acqua il mio grido, 25perché ciò che temevo mi è sopraggiunto, quello che mi spaventava è venuto su di me. 26Non ho tranquillità, non ho requie, non ho riposo ed è venuto il tormento!“. _________________ Note

3,8 Il Leviatàn (“tortuoso”) è un mostro dell’antica mitologia orientale, rappresentato come un coccodrillo (vedi 26,13; 40,25).

3,17 Là i malvagi cessano di agitarsi: nel pensiero di Giobbe, come in quasi tutto l’AT, l’esistenza che attende l’uomo dopo la morte non è vita; è un’esistenza di ombre, dove buoni e cattivi stanno assieme, senza affetti né speranze (vedi 1Sam 28,19), Dio non è invocato e non interviene (vedi Sal 88,11-13). L’ambito in cui Dio manifesta la sua giustizia è ristretto, dunque, alla vita presente.

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Approfondimenti

DISPUTA 3,1 – 31,40. Il dialogo di Giobbe con gli amici e la sfida a Dịo (cc. 3-31) apre la grande sezione (3,1-42,6) che costituisce il corpo del libro, che sta tra il Prologo (1,1-2,13) e l'Epilogo (42,7-17). Per l'omogeneità delle tematiche affrontate e della prospettiva teologica sviluppata, esso si colloca all'interno del dibattito sapienziale della comunità giudaica postesilica. La svolta narrativa operata in questa sezione è radicale rispetto al Prologo e all'Epilogo. Innanzitutto la forma espressiva usata è quella poetica; inoltre un aspetto di grande rilievo narrativo è dato dal passaggio dal racconto del narratore onnisciente nel Prologo all'uso del discorso riferito o diretto, quale forma predominante adottata nell'intera sezione. Il narratore, presente, cede la parola ai personaggi, adotta differenti prospettive, consente la dialogicità dei punti di vista. Nondimeno, nell'emergere del personaggio nel dialogo, è presente una correlazione dialogica, intrinseca, tra l'intenzione diretta di colui che parla e quella rifratta dell'autore. Nell'attuale struttura narrativa del libro di Giobbe, la Disputa è composta da tre cicli di discorsi di Giobbe con i tre amici, è aperta e chiusa da due monologhi di Giobbe e costituisce sul piano narrativo la “complicazione”. In essa si trovano diversi tentativi di spiegare e risolvere il problema di Giobbe.

Primo discorso di Giobbe 3,1-26. Il monologo iniziale di Giobbe (c. 3) contiene una maledizione che si estende a tutta l'esistenza come enigma e fonte di inquietudine (cfr. 3,20.23). Motivi lessicali e tematici inducono alla suddivisione del monologo in una breve introduzione (vv. 1-2), seguita dalla maledizione della notte del concepimento e del giorno della nascita (vv. 3-10), da domande sul significato dell'esistenza (vv. 11-12), da considerazioni sulla morte come «riposo» tra eguali (vv. 13-19), da domande sull'enigma dell'esistenza e l'agire di Dio (vv. 20-26).

vv. 1-2. Il narratore introduce il monologo di Giobbe e ne offre la chiave di lettura: Giobbe maledice il giorno della sua nascita.

vv. 3-10. L'esordio di Giobbe contiene la maledizione non di Dio ma della sua esistenza. Giobbe non solo maledice il giorno in cui è nato (vv. 3a.4-5), come il profeta Geremia (20,14-16), ma anche la notte del suo concepimento (vv. 3b.6-9) come inizio della vita e ingresso nella storia (cfr. Sal 139,16). L'invettiva di Giobbe vorrebbe trasformare quel giorno in tenebra (in opposizione a Gn 1,3) così che non sia annoverato nel computo del tempo, e rendere quella notte sterile e a cui sia preclusa la luce. Giobbe respinge anche la gioia connessa all'evento della vita (vv. 3b.6b.7b). Scosso dall'amarezza, giunge a contestare quella concezione per cui il figlio significava, per i genitori, una benedizione (cfr. Sal 127,3) e il vertice dell'esistenza (cfr. Gn 30,1; Ger 20,15).

vv. 11-12. Giobbe comincia ora a porre delle domande. La sofferenza costituisce sempre, per l'uomo, una situazione privilegiata da cui scaturiscono le domande profonde dell'esistenza. Il dolore dilata la coscienza e la rende più profonda. Così Giobbe (v. 11), come Geremia (20,17-18), colpito tanto duramente nella sua persona, manifesta, attraverso gli interrogativi, come al nascere e al vivere avrebbe preferito il morire.

vv.13-19. Queste parole di Giobbe costituiscono un tentativo di illustrare la morte. Essa rappresenta la negazione dell'esistenza personale, la cessazione di ogni sofferenza, l'estinguersi di tutte le differenze e contrasti sociali (cfr. Sal 49,11-12; Qo 9,2-6). Ma più di tutto, la morte significa per Giobbe riposare (3,13.17.26). Essa si oppone alla vita, fonte inesauribile di inquietudine (cfr. 3,17.26).

20-23. Gradualmente diventa evidente, per il lettore, che le domande di Giobbe sono indirizzate a Dio. Giobbe non vive la propria fede in modo generico, ma in profondo rapporto con Dio. Anche nella tragedia permane il fondamentale riferimento a Dio. Nondimeno Giobbe considera che la vita, come itinerario da percorrere, si sottrae alla conoscenza umana. La stessa protezione di Dio (cfr. 1,10) diventa per l'uomo un limite e un impedimento (3,23; cfr. 19,8). Ciò rende Giobbe infelice e pieno di amarezza (v. 20) per la vita che gli è stata data, al punto da preferire la morte (v. 21-22; cfr. Sir 41,2).

24-26. Giobbe descrive ora il presente, quel che gli accade e percepisce. Lo fa in modo dinamico (espresso dalla triplice ripetizione del verbo «venire, entrare»), con un crescendo drammatico sulla sciagura che dall'esterno piomba su di lui e lo tormenta nell'intimo. Infatti entra in lui il gemito, il sospiro al posto del cibo; quel che teme gli avviene; non ha riposo e giunge a lui l'inquietudine.

Il monologo presenta alcuni importanti elementi di contrasto e di continuità con il Prologo, Infatti, alla presentazione idealizzata della personalità di Giobbe, subentra ora una rappresentazione in cui egli appare attraversato da profondi interrogativi esistenziali. Pertanto, dopo aver messo in rilievo la perseveranza di Giobbe, ora se ne introduce un altro carattere, la protesta.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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