📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

Capitolo LXI – L’accoglienza dei monaci forestieri

1 Se un monaco forestiero, giunto di lontano, vuole abitare nel monastero in qualità di ospite 2 e si dimostra soddisfatto delle consuetudini locali, 3 accontentandosi con semplicità di quello che trova, senza disturbare la comunità con le sue pretese, sia accolto per tutto il tempo che desidera. 4 Nel caso poi che egli rilevi qualche inconveniente o dia qualche suggerimento, l’abate si chieda se il Signore non lo abbia mandato proprio per questo. 5 E se in seguito vorrà fissare la sua stabilità nel monastero, non si opponga un rifiuto a questa sua richiesta, tanto più che durante la sua permanenza si è avuto modo di studiarne il comportamento. 6 Se però, quando era ospite si è dimostrato pieno di pretese e di difetti, non solo non dev’essere aggregato alla comunità, 7 ma bisogna dirgli garbatamente di andarsene per evitare che le sue miserie contagino anche gli altri. 8 Invece, se non merita di essere allontanato, non sia accolto e incorporato nella comunità solo nel caso che ne faccia domanda, 9 ma sia addirittura invitato a rimanere, perché gli altri possano trarre profitto dal suo esempio 10 e perché dappertutto si serve il medesimo Signore e si milita sotto lo stesso Re. 11 Anzi, se l’abate lo ritiene degno, può anche assegnargli un posto un po’ elevato. 12 E non solamente un monaco, ma anche coloro che appartengono all’ordine sacerdotale o al chiericato, l’abate può destinare a un posto superiore a quello corrispondente al loro ingresso in monastero, se ha notato che la condotta lo merita. 13 Si guardi però sempre dall’ammettere stabilmente nella sua comunità un monaco proveniente da un monastero conosciuto, senza il consenso e le lettere commendatizie del suo abate, perché sta scritto: 14 «Non fare agli altri quello che non vuoi che sia fatto a te».

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Approfondimenti

Monaci pellegrini Questo capitolo presenta un'ultima categoria di candidati: i monaci venuti da fuori. La parola “pellegrini”, suscettibile di varie interpretazioni, qui significa soprattutto “monaci stranieri, forestieri” (non monaci sarabaiti e girovaghi tanto detestati da SB, cf. RB 1,6-11). RB 61 dice semplicemente: “monaco proveniente da paesi lontani” (v.1), non si specifica il motivo del viaggio, né la categoria a cui il monaco appartiene.

1-4: Il monaco pellegrino ricevuto come ospite A differenza del sacerdote o chierico del capitolo precedente, il monaco pellegrino non intende entrare a far parte della comunità, ma solo essere accolto in foresteria come ospite. Per SB non c'è nessun problema: sia accolto “per tutto il tempo che vuole”, purché abbia due atteggiamenti fondamentali: si accontenti di quello che trova e non turbi la pace della famiglia monastica con pretese, critiche, pettegolezzi, ecc. (vv. 1-3). Questo non esclude che egli possa fare delle giuste osservazioni “con motivi validi e con umile carità” (v. 4). Pieno di spirito di fede, SB suggerisce all'abate che forse il Signore ha inviato il monaco forestiero “proprio per tale motivo” (v. 4): c'è sempre da correggere e da migliorare e la volontà del Signore si può manifestare attraverso un ospite, come attraverso le osservazioni dei fratelli più giovani (SB lo ha già detto in RB 3,3).

5-10: Aggregazione del monaco ospite alla comunità Se il monaco forestiero si trova bene nel monastero che lo ospita, potrà in seguito chiedere di essere ammesso nella comunità: dato che si è potuto conoscere la sua condotta, ci si regoli di conseguenza. SB è preoccupato soprattutto del profitto spirituale dei suoi monaci; l'ospite può contagiare la comunità con i suoi vizi, come può edificarla con la sua virtù: nel primo caso gli si dica “con urbanità” – non con insulti e violenza – di andar via; nel secondo caso non solo lo si accolga in comunità, se lo chiede, ma anzi sia invitato a entrarvi perché gli altri ne abbiano edificazione e perché “in ogni luogo si serve un solo Signore e si milita sotto un unico Re” (in omni loco uni Domino servitur, uni Regi militatur): la bella sentenza era forse comune nell'uso cristiano.

11-14: Due osservazioni Il capitolo si chiude con due osservazioni.

  1. L'abate avrà l'autorità di assegnare al nuovo fratello un posto più elevato, se lo ritiene degno (v. 11); e lo stesso potrà fare per i sacerdoti e i chierici (v. 12) di cui ha parlato al capitolo precedente. Si noti che non si tratta di una ripetizione, perché prima aveva previsto la promozione per onorare il sacerdozio (RB 60,4.8), mentre qui vuole onorare la virtù personale.
  2. La seconda osservazione è ispirata al desiderio di conservare la pace tra i monasteri vicini; quindi per accogliere un monaco di un monastero noto sarà necessaria l'autorizzazione del suo abate e le “lettere commendatizie”. Così prescrivevano vari Concili e le regole monastiche del sec. V e VI.

Il c. 61 ci appare così una pagina di discrezione veramente soprannaturale: accoglie il monaco forestiero, ma accetta le eventuali osservazioni come provenienti dal Signore, si preoccupa dell'avanzamento spirituale della comunità per cui, in caso di un ospite virtuoso, insiste per farlo rimanere, in modo da costituire uno sprone per gli altri: ma con prudenza e delicatezza, senza far torto a un monastero vicino. Ancora una volta SB ci appare non un legislatore minuzioso e legalista, ma un uomo spirituale e sollecito pastore di anime.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LX – I sacerdoti aspiranti alla vita monastica

1 Se qualche sacerdote chiede di essere ammesso nel monastero, non bisogna affrettarsi troppo ad accogliere la sua richiesta. 2 Ma se continua a insistere in questa preghiera, sappia che dovrà osservare tutta la disciplina della Regola, 3 senza la minima attenuazione, in modo che gli si possa dire con la Scrittura: «Amico, che sei venuto a fare?». 4 Gli si conceda tuttavia di prender posto dopo l’abate, di dare la benedizione e di recitare le preci finali, purché l’abate disponga così; 5 altrimenti non pretenda assolutamente nulla, anzi sia per tutti un esempio di umiltà, ben sapendo di essere soggetto alla disciplina della Regola. 6 E se per caso nella comunità si dovesse trattare dell’assegnazione delle cariche o di qualche altro affare, 7 occupi il posto che gli spetta corrispondentemente al suo ingresso in monastero e non quello che gli è stato concesso in considerazione della sua dignità sacerdotale. 8 Se poi qualche chierico, spinto dallo stesso desiderio, volesse essere aggregato alla comunità, sia assegnato a un posto di un certo riguardo, 9 ma sempre a condizione che prometta anche lui l’osservanza della Regola e la propria stabilità.

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Approfondimenti

1-9: Sacerdoti e chierici che domandano di diventare monaci SB passa a un'altra classe di candidati: sacerdoti e chierici (“de ordine sacerdotali” del v. 1 comprende vescovi, sacerdoti e diaconi; i “clerici” del v. 8 sono invece i chierici di grado inferiore). L'espressione del titolo in monasterio habitare non significa starvi per qualche tempo, ma ha il senso di “incorporazione alla comunità monastica, cioè diventare monaci. Per capire bene questo capitolo, bisogna vederlo alla luce della storia e della tradizione benedettina. Nel più antico cenobitismo, mentre si prestava al sacerdozio ogni segno di rispetto, si nutriva anche una certa diffidenza, o almeno si usava molta cautela per l'ammissione di sacerdoti allo stato monastico, a causa dei problemi che la sua dignità poteva creare col superiore e coi fratelli, specialmente per il fatto che tutti, abate compreso, erano in genere laici. Così si spiega perché i casi di tali passaggi fossero abbastanza rari, come potrebbe dedursi anche dalla parola forte “eventualmente” nel titolo.

La RM (c. 83) ammette i sacerdoti solo come ospiti e pellegrini (non come monaci) e li obbliga a lavorare; dei chierici non parla affatto. SB è più aperto: sa che la presenza di sacerdoti e chierici può causare problemi, ma li ammette come veri monaci, sia pure con cautela per evitare inconveniente. RB ordina quindi di non riceverli troppo presto (v. 1), ma solo se insistono omnino (assolutamente) nella domanda (v. 2), facendo loro capire subito che il carattere sacro non comporta alcuna mitigazione nell'osservanza della Regola (vv. 2-3). L'espressione “Amice, ad quid venisti?” la rivolse Gesù a Giuda nell'atto del tradimento (Mt 26,50). SB la cita senza il carattere di amarezza e di rimprovero che ha nel Vangelo, ma solo per ricordare al sacerdote che è venuto di sua spontanea volontà in monastero. Anche S. Arsenio nel deserto si domandava spesso: “Propter quid venisti?” (perché sei venuto?). È noto l'uso efficace che di questa frase fece S. Bernardo per ammonire se stesso ripetendo: “Bernarde, ad quid venisti?”. Così i sacerdoti sono equiparati a tutti gli altri fratelli nel tenore di vita. Non è detto però che devono essere provati per un anno intero, come stabilito nel c. 58; comunque dovevano fare una promessa formale (cioè la professione) di osservare la Regola e di perseverare nel monastero, come si deduce dal confronto con il v. 9: “anche questi...”.

Per onorare il sacerdozio, l'abate potrà loro concedere alcuni privilegi. Al v. 4 “missas tenere” è discutibile se significhi “celebrare la messa”, oppure “dire le orazioni finali” “missas” dell'Ufficio divino. Allora il senso generale del versetto sarebbe che il sacerdote occupa il secondo posto, subito dopo l'abate e, in assenza di questi, compie l'ufficio di benedire e di recitare le formule finali. Però questo non deve essere causa di presunzione, ma anzi “dia a tutti esempio di umiltà” (v. 5) e quando si tratta di decisioni nella comunità o di nomine, deve stare al posto che gli compete secondo la professione monastica (vv. 6-7) come tutti gli altri (cf. RB 63). Lo stesso dicasi per i chierici di grado inferiore, solo che, invece del primo posto subito dopo l'abate, vengono messi in un luogo intermedio, cioè si ha per loro un certo riguardo (vv. 8-9).

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LIX – I piccoli oblati

1 Se qualche persona facoltosa volesse offrire il proprio figlio a Dio nel monastero e il ragazzo è ancora piccino, i genitori stendano la domanda di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente 2 e l’avvolgano nella tovaglia dell’altare insieme con l’oblazione della Messa e la mano del bimbo, offrendolo in questo modo. 3 Per quanto riguarda poi i loro beni, o nella domanda suddetta promettano di non dargli mai nulla, né direttamente né per interposta persona, né in qualsiasi altro modo, e neanche di dargli mai l’occasione di procurarsi qualche sostanza, 4 oppure, se non intendono regolarsi secondo questa prassi e desiderano offrire qualche cosa al monastero per la salute dell’anima loro, 5 facciano donazione dei beni che vogliono regalare al monastero, riservandosene, se credono, l’usufrutto. 6 Così si precludano tutte le vie, in modo da non lasciare al ragazzo alcun miraggio da cui possa esser tratto in inganno e – Dio non voglia! – in perdizione, come ci ha insegnato l’esperienza. 7 La stessa procedura seguano anche i meno abbienti. 8 Quanto a coloro che non possiedono proprio nulla, facciano semplicemente la domanda e offrano il loro figlioletto con l’oblazione della Messa, alla presenza di testimoni.

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Approfondimenti

Un grosso problema alla nostra mentalità di oggi Il capitolo risulta incomprensibile, se prescindiamo dal contesto storico in cui è nato. Alla nostra mentalità sembra assurdo, anzi inumano e crudele, che si possa decidere così della sorte di una creatura umana prima che questa sia in grado di compiere responsabilmente un certo passo. Il c. 59 della RB è sembrato tanto duro che si è cercato di attenuarlo dicendo che il fanciullo, una volta giunto all'età della discrezione, poteva ratificare la sua oblazione monastica, oppure ritornare nel mondo (che in certi casi conosceva appena). Ma questa tesi non è sostenibile. Nella tradizione orientale sappiamo da S. Basilio (Reg. 7) che nell'oblazione dei fanciulli erano sempre richiesti i testimoni e che inoltre essi non facevano promessa di verginità; quindi la loro donazione non era definitiva. In occidente invece c'erano varie correnti: da quella che richiedeva il loro assenso (ad esempio in S. Leone Magno), fino a quella che riteneva perpetuo e irrevocabile il vincolo dell'oblazione fatta dai genitori. A metà del sec. VI si nota una presa di posizione a favore dell'irrevocabilità; nel IV Concilio di Lione (633) si stabilì il principio poi divenuto classico in occidente: “Monachum aut paterna devotio aut propria professio facit” (si diventa monaci o per la devozione del padre o per la propria professione). Mentre l'oriente quindi restò fedele in genere al principio di Basilio secondo cui la promessa di verginità non può essere che un atto libero e personale, l'occidente andò nella direzione opposta: “si è sacrificata la libera scelta della verginità a una nozione troppo materiale della consacrazione unita ai diritti dell'autorità paterna” (DeVogué).

RB sembra addirittura in anticipo sui tempi, nello stabilire con tanta chiarezza la prassi dell'oblazione dei fanciulli. È inutile cercare attenuazioni: niente fa supporre che SB prevede una ratifica cosciente e libera della involontaria consacrazione fatta da piccoli; anzi, le precauzioni riguardo ai beni sono proprio per scoraggiare eventuali tentazioni di uscire dal monastero. Il paragone tra il c. 58 e il c. 59 fa vedere una reale corrispondenza tra la professione degli adulti e l'oblazione dei fanciulli, e che quindi l'oblazione fatta dai genitori obbligava in perpetuo l'oblato alla vita monastica. Ciò del resto è confermato da altri passi della RB: i ragazzi appaiono sempre come veri monaci (e non come una categoria a parte) e vengono trattati come gli altri tenendo conto naturalmente della loro età debolezza (cf. RB 22,7; 30; 37; 45,3; 70,4-5; ecc.). L'unica ragione della incredibile durezza di questo capitolo è la mentalità dell'epoca, mentalità che oggi non possiamo accettare. Per la validità della professione, la Chiesa prescrive oggi almeno 18 anni di età, piena consapevolezza e libertà, mancanza assoluta di ogni tipo di violenza, timore grave o inganno (CIC. 656). Una volta non era così, e SB si è adattato alla mentalità dell'epoca in ambiente occidentale. D'altra parte, per aiutarci a comprendere, è noto che in alcuni popoli, ancor oggi, i matrimoni dei figli vengono arrangiati dai genitori fin da quando i figli stessi sono in tenera età! E oggi c'è anche chi protesta, in nome della libertà e dell'autodecisione, contro il battesimo dei bambini!

1-8: Oblazione dei fanciulli SB distingue tra i figli dei nobili (vv. 1-6), quelli dei meno ricchi (v. 7) e quelli dei poveri (v. 8). In tutti i casi, i genitori, offrendo i loro figli in tenera età, scrivevano la “petitio” e la avvolgevano nella tovaglia dell'altare insieme alla mano del piccolo (vv. 1-2.8): “il fanciullo – è stato detto con ragione – è offerto passivamente con il pane e il vino. Non lo si tratta come persona, ma come oggetto” (DeVogué).

Dove SB appare alla mentalità odierna di una insensibilità sconcertante per la libertà umana, è nelle prescrizioni relative alla disappropriazione del fanciullo, prescrizioni di carattere giuridico che occupano quasi tutto il testo del capitolo (vv. 3-6). I padri dei più ricchi e dei meno ricchi potranno fare qualche donazione al monastero, ma si obbligheranno formalmente a non lasciare nulla ai figli, né per il presente né per l'avvenire. In questa assoluta e definitiva carenza di beni materiali, la RB vedeva una garanzia di perseveranza per l'oblato (v. 6).

Evoluzione del termine “oblato” Quindi per molti secoli quasi tutti i monasteri ebbero i “monaci oblati”, cioé offerti da piccoli e cresciuti nel cenobio; molti di essi divennero illustri per fama e santità: S. Beda il Venerabile, S. Bonifacio apostolo della Germania, Santa Geltrude la Grande, ecc. Coloro invece che entravano da grandi nel monastero, si chiamavano conversi (non nel senso che il termine assunse poi, a partire dal sec. XI per distinguerli dai “chierici”).

Fin dai più remoti secoli benedettini, accanto agli oblati, si trovavano nei monasteri i fanciulli che ricevevano la loro istruzione letteraria e la loro educazione morale. È la gloriosa tradizione delle scuole monastiche che, insieme a quelle episcopali, tennero alto nel medioevo il culto del sapere e delle arti. Oggi, con il nome di “oblati”, si intendono due categorie di persone: “oblati regolari” o “claustrali” (cioè coloro che, senza essere monaci, vivono volontariamente in monastero per motivi spirituali) e “oblati secolari” (cioè coloro che, sia sacerdoti che laici, uomini e donne, vivono nel mondo ispirando la propria vita cristiana alle norme e alla spiritualità benedettina).

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LVII – Capitolo LVIII – Norme per l’accettazione dei fratelli

1 Quando si presenta un aspirante alla vita monastica, non bisogna accettarlo con troppa facilità, 2 ma, come dice l’Apostolo: «Provate gli spiriti per vedere se vengono da Dio». 3 Quindi, se insiste per entrare e per tre o quattro giorni dimostra di saper sopportare con pazienza i rifiuti poco lusinghieri e tutte le altre difficoltà opposte al suo ingresso, perseverando nella sua richiesta, 4 sia pure accolto e ospitato per qualche giorno nella foresteria. 5 Ma poi si trasferisca nel locale destinato ai novizi, perché vi ricevano la loro formazione, vi mangino e vi dormano. 6 Ad essi venga inoltre preposto un monaco anziano, capace di conquistare le anime, con l’incarico di osservarli molto attentamente. 7 In primo luogo bisogna accertarsi se il novizio cerca veramente Dio, se ama l’Ufficio divino, l’obbedienza e persino le inevitabili contrarietà della vita comune. 8 Gli si prospetti tutta la durezza e l’asperità del cammino che conduce a Dio. 9 Se darà sicure prove di voler perseverare nella sua stabilità, dopo due mesi gli si legga per intero questa Regola 10 e gli si dica: «Ecco la legge sotto la quale vuoi militare; se ti senti di poterla osservare, entra; altrimenti, va’ pure via liberamente». 11 Se persisterà ancora nel suo proposito, sia ricondotto nel suddetto locale dei novizi e si metta la sua pazienza alla prova in tutti i modi possibili. 12 Passati sei mesi, gli si legga di nuovo la Regola, perché prenda coscienza dell’impegno che sta per assumersi. 13 E se continua a perseverare, dopo altri quattro mesi, gli si legga ancora una volta la stessa Regola. 14 Se allora, dopo aver seriamente riflettuto, prometterà di essere fedele in tutto e di obbedire a ogni comando, sia pure accolto nella comunità, 15 ma sappia che anche l’autorità della Regola gli vieta da quel giorno di uscire dal monastero 16 e di sottrarsi al giogo della disciplina monastica che, in una così prolungata deliberazione, ha avuto la possibilità di accettare o rifiutare liberamente. 17 Al momento dell’ammissione faccia in coro, davanti a tutta la comunità, solenne promessa di stabilità, conversione continua e obbedienza, 18 al cospetto di Dio e di tutti i suoi santi, in modo da essere pienamente consapevole che, se un giorno dovesse comportarsi diversamente, sarà condannato da Colui del quale si fa giuoco. 19 Di tale promessa stenda un documento sotto forma di domanda, rivolta ai Santi, le cui reliquie sono conservate nella chiesa, e all’abate presente. 20 Scriva di suo pugno il suddetto documento o, se non è capace, lo faccia scrivere da un altro, dietro sua esplicita richiesta, e lo firmi con un segno, deponendolo poi sull’altare con le proprie mani. 21 Una volta depositato il documento sull’altare, il novizio intoni subito il versetto: «Accoglimi, Signore, secondo la tua promessa e vivrò; e non deludermi nella mia speranza». 22 Tutta la comunità ripeta per tre volte lo stesso versetto, aggiungendovi alla fine il Gloria. 23 Poi il novizio si prostri ai piedi di ciascuno dei fratelli per chiedergli di pregare per lui e da quel giorno sia considerato come un membro della comunità. 24 Se possiede dei beni materiali, li distribuisca in precedenza ai poveri o li doni al monastero con un atto ufficiale senza riservare per sé la minima proprietà, 25 ben sapendo che da quel giorno in poi non sarà più padrone neanche del proprio corpo. 26 Quindi, subito dopo, sia spogliato in coro delle vesti che indossa e rivestito dell’abito monastico. 27 Ma gli indumenti di cui si è spogliato devono essere conservati nel guardaroba, 28 in modo che, se in seguito dovesse – Dio non voglia!– cedere alla suggestione diabolica e lasciare il monastero, sia mandato via senza l’abito monastico. 29 Non gli si restituisca invece la domanda che l’abate ha ritirato dall’altare, ma sia conservata in monastero.

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Approfondimenti

L'AGGREGAZIONE AL MONASTERO (RB 58-61 + 62 Abbiamo già visto la paura che i monaci antichi avevano dei rapporti con l'esterno, per il pericolo che si infiltrasse nel monastero una mentalità mondana (vedi soprattutto RB 66,7 e 67,5). Per questo motivo i Padri del cenobitismo erano portati a provare duramente i postulanti, a saggiarne lo spirito e la consistenza dei propositi, a negare loro ripetutamente l'ingresso e, una volta ammessi, obbligarli a restare come in quarantena per un periodo più o meno lungo perché riflettessero sulla serietà della propria vocazione e si abituassero al nuovo genere di vita. Cassiano descrive in questo modo l'ammissione dei postulanti nei monasteri d'Egitto: prima si facevano aspettare almeno dieci giorni alle porte del cenobio, provandone la pazienza con ogni sorta di ingiurie; poi si facevano entrare e venivano spogliati di tutto il denaro e dei loro abiti, sostituendovi quelli del monastero; però con tale “vestizione” non erano ancora incorporati alla comunità, ma venivano affidati all'“anziano” che sovrintendeva alla foresteria, e per un anno intero aiutavano a servire gli ospiti, esercitandosi nell'umiltà e nella pazienza; infine passavano a far parte di una decania ed erano candidati ormai membri della comunità cenobitica e ricevevano una formazione specifica (Inst. 4,3-7). SB adottò più o meno questo schema, ma con molte modifiche, o sue originali o attingendo ad altri autori, come la RM, che in questa sezione è lunghissima e particolareggiata. Trattiamo qui dell'ammissione più comune e ordinaria (RB 58), e poi alcuni casi speciali di ingresso in comunità: l'oblazione dei fanciulli (RB 59), l'ammissione dei sacerdoti e chierici (RB 60) e di monaci di altri monasteri (RB 61); per associazione di idee, si parla poi dei sacerdoti del monastero (RB 62).

Preliminari al c. 58 È uno dei più importanti capitoli della Regola, perché non parla solo della procedura per l'accettazione, ma del contenuto stesso della vita monastica, con le idee fondamentali secondo SB: il QUAERERE DEUM, la STABILITAS, la CONVERSATIO MORUM, la OBOEDIENTIA. A questo capitolo corrispondono RM 87-88 e 89-90, molto lunghi, con tutti i dialoghi tra postulante e abate e le esortazioni di quest'ultimo, soprattutto il c.90, in cui quasi tutti i 95 versetti (!) sono occupati da un'omelia dell'abate. SB ha modificato molte cose, ha abbreviato moltissimo, ha soppresso la distinzione tra i postulanti iam conversi (già conversi, cioè coloro che vivevano nel mondo alla maniera dei monaci con una vita penitente, semplice e nel celibato) e i postulanti ancora laici.

1-4: L'ingresso Non bisogna essere facili all'accettazione: la sincerità e la solidità di una vocazione devono essere provate, come suggerisce l'Apostolo (che in questo caso non è S. Paolo, ma S. Giovanni, 1Gv 4,1; il testo si riferisce direttamente ai falsi profeti). Al v. 1 per “vita monastica” c'è il termine “conversatio” che è termine tecnico: per il senso preciso, vedi più avanti (commento al v. 17). Il nuovo venuto, dunque, comincia a trovare difficoltà davanti alla porta. SB però è più discreto: i “pochi giorni” di cui parla Pacomio (Reg 49) e che erano diventati “una settimana” secondo la Reg IV Patrum 2,25 e “dieci giorni” secondo Cassiano (Inst 4,3), diventano quattro o cinque giorni (v. 3). Non è verosimile che in tali giorni restasse sempre all'aperto e allo scoperto, forse veniva ricoverato presso la “cella” del portinaio. Dopo una prima fase davanti alla porta, un'altra breve fase nella foresteria (v. 4).

5-16: Il noviziato Comincia quindi un periodo di prova più definito e specifico, che si svolge in un locale apposito, cella novitiorum (noviziato) per un anno intero, sotto la guida di un “anziano” (che col tempo si chiamerà maestro dei novizi): tutte queste cose sono innovazioni proprie di SB. Nel locale a parte, i novizi passano tutto il tempo libero dall'Ufficio divino e dal lavoro: lì mangiano, dormono e “meditano”: un termine tecnico, quest'ultimo, che comprende sia la lectio divina, sia l'imparare a memoria i testi (la “exercitatio”), l'apprendere, quindi tutto il lavoro di studio e di formazione (vedi commento a RB 48,23).

6: ...un anziano capace di guadagnare le anime L'espressione di questo v. 6 è di origine biblica (Mt 18,15; 1Cor 9,20) e richiama un passo analogo della “Vita Pachomii”,25. Il metodo da seguirsi nel noviziato consta di due parti: da un lato il candidato stesso deve verificare (e il maestro deve osservare questo) se è disposto a cercare Dio attraverso un cammino spirituale specifico; dall'altro il maestro gli deve porre davanti le difficoltà che tale cammino comporta.

7-8: Punti fondamentali di verifica I vv.7-8 sono molto importanti: abbiamo alcune linee fondamentali della vita monastica.

  • Si revera Deum quaerit (se veramente cerca Dio): è colta qui tutta l'essenza e il programma della vita monastica. Si viene al monastero non per uno scopo particolare o per una missione specifica di bene (predicazione, insegnamento, ecc...), ma solo per la ricerca di Dio: è un atteggiamento generale di fondo, un'attitudine religiosa essenziale. Per i monaci, l'assidua ricerca di Dio, dopo che essi sono stati cercati da Lui (cf. Prol 14), diventa la loro ultima ragion d'essere.

  • Se e` pronto all'Opus Dei, all'obbedienza, alle umiliazioni: tre esplicitazioni della sincera ricerca di Dio che il novizio deve verificare; il maestro, poi, dovrà non nascondere le difficoltà del cammino: omnia dura et aspera per quae itur ad Deum (tutte le difficoltà e le asprezze attraverso le quali si va a Dio) (v. 8): anche questa frase è rimasta proverbiale e programmatica nell'iter di formazione del monaco. SB divide l'anno di noviziato in tre periodi disuguali: primi due mesi (v. 9), i successivi sei mesi (v. 12), gli ultimi quattro mesi (v. 13). Alla fine di ciascun periodo si legge al novizio l'intera Regola, “perché conosca bene che cosa affronta entrando” (v. 12). Oggi si usa leggere la Regola durante tutto il noviziato, accompagnata dalla spiegazione particolareggiata del maestro; gli antichi, anzi, raccomandavano di impararla a memoria, e l'uso è rimasto presso alcuni monasteri. Così il novizio va maturando la sua esperienza “in ogni pazienza” (v. 11), ascolta la triplice lettura della Regola (vv. 9.12.13), delibera (v. 14) di osservare tutte le prescrizioni della vita comune, della legge sotto la quale intende militare (v. 10). Allora, al termine del noviziato, lo si ritiene degno di essere aggregato alla comunità monastica (vv.14-16).

17-29: La professione monastica Il suscipiendus (colui che deve essere ammesso) (v. 17) farà ufficialmente professione di vita monastica. Al tempo di SB e per molti secoli non esisteva che una unica professione. La Chiesa è intervenuta, per vari motivi, ad obbligare un periodo di voti temporanei, della durata di almeno tre anni. Quanto è ordinato e descritto qui da SB vale oggi pienamente solo della professione “solenne”, che si usa chiamare anche consacrazione monastica.

17: Contenuto della professione SB fa promettere al candidato tre cose, che impropriamente furono definiti “i tre voti monastici”. In realtà SB non intende qui stabilire tre voti distinti, ma solo indicare l'oggetto della promessa del monaco. Nei pacomiani non si parla mai di voti, anche se c'era la pratica dei consigli evangelici; Basilio parla di consacrazione al Signore fatta per voto (Reg. 14), ma non menziona “voti” espliciti. Certamente la disposizione di SB ha avuto il merito di polarizzare la pratica dei voti monastici (castità e povertà erano inclusi nel fatto stesso di farsi monaco, nella “conversatio”) ed ha influito sulla organizzazione posteriore della vita religiosa. E passiamo al contenuto. Il novizio promette: “de stabilitate sua et conversatione morum suorum et oboedientia” (stabilità, conversione dei costumi, obbedienza9.

Stabilitas Che cos'è veramente la “stabilità”? Senza dubbio è anzitutto la perseveranza (cf. v. 9), cioè stabilità, costanza, fermezza, permanenza in uno stato determinato. La cosa è più complicata (e controversa) quando si vuol determinare con precisione l'oggetto della perseveranza. Tenendo presente il contesto, risulta abbastanza chiaro che si tratta di perseverare nel monastero come monaco sotto la Regola che si accetta di professare, praticamente è il “compromettersi totalmente nella vita monastica”, perseverando fino alla morte, in una comunità, in una permanenza abituale nei recinti del monastero, con l'accettazione della vita comune e l'osservanza regolare. Ricordiamo la finale del Prologo: “perseverando nel monastero fino alla morte, parteciperanno con la pazienza ai patimenti di Cristo” (Prol. 50). Ricordiamo ancora il 4° grado di umiltà: “conservare la pazienza... chi persevererà sino alla fine...” (RB 7,36). Ricordiamo ancora la finale del c. 4: ”... stabilitas in congregatione” (la stabilità nei recinti del monastero), che è l'“officina” dove si adoperano gli strumenti dell'arte spirituale (RB 4,78). Contro il disordine dei monaci girovaghi (RB 1,10-11), contro la “in-stabilitas” lamentata da Cassiano (Inst. 7,9), SB vuole come una delle sue caratteristiche una stabilità di luogo e di famiglia che aiuta a superare la instabilità del cuore. Il concetto di stabilità ha oggi un significato più allargato, secondo le diverse Congregazioni monastiche, e ammette delle eccezioni anche dove si è legati ad un singolo monastero. Rimane comunque il senso primordiale e fondamentale della perseveranza, con la pazienza, sull'esempio di Cristo: “In ultima analisi, promettere la stabilità è compromettersi nel partecipare alla pazienza, nella obbedienza, nella perseveranza di Cristo che furono totali, assolute, senza limiti...” (J. Leclerq). “È l'incarnazione, la cristallizzazione di un'attitudine, e di un'attitudine puramente spirituale...; la vita religiosa è un compromettersi per tutta la vita...; si entra in uno stato cristiforme...; si rimane in monastero perché si rimane in Cristo” (H. U. Von Balthasar).

La conversatio morum Prima si leggeva conversio monastica, cioè il novizio prometteva di cambiar vita, lasciare i costumi del mondo per acquistare quelli di un vero monaco. I recenti studi critici fanno ritenere genuina la lezione conversatio, piuttosto che conversio. Il termine “conversatio” può derivare dall'intransitivo “conversari” e significa: modo, tenore di vita, condotta; oppure dal transitivo “conversare”, da “convertere”, nel senso di rivoltare, rigirare, e allora equivale a “conversio”, sia in senso proprio che figurato. Come termine specifico monastico può quindi significare, oltre il semplice “modo di vivere”, anche l'entrata, la dimora in monastero, l'appartenenza allo stato monastico, oppure, in senso più limitato, la vita ascetica nello stato monastico; infine, come equivalente di “conversio”, significa la conversione, il mutamento di vita. Nella RB queste sfumature ci sono; nei passi in cui appare il termine, può valere in genere “vita monastica”: Prol. 49; RB 1.3; 1,12; 2,18; 21,1; 22,2; 58,1; 63,1; 63,7; 73,1-2. Però qui, in RB 58,17, l'aggiunta morum suorum (dei propri costumi) crea difficoltà. Secondo Steidle, la :“conversatio”_ designa qui ugualmente la vita monastica stessa (secondo un gran numero di testi antichi) e “morum suorum” non è che un “genitivo di ridondanza”, cioè una forma letteraria in cui nome e genitivo non sono realtà diverse, ma due sinonimi che si rafforzano reciprocamente. Il novizio così promette di osservare quella “conversatio” che aveva voluto abbracciare bussando la prima volta alla porta del monastero (v. 1). D'altronde la Mohrman ha dimostrato egregiamente lo scambio avvenuto tra i due termini e l'uso di “conversatio” anche nel significato di “conversio”. Tra “conversione dei costumi” come condotta virtuosa, oppure come stile di vita, applicati ambedue all'esistenza del monaco, non c'è dunque grande differenza, ma vogliono in fondo significare la medesima cosa. Potremmo vedere nel termine due prospettive secondo le due etimologie: la prima indicherebbe l'aspetto statico (cioè uno “stile” da monaci secondo la Regola); l'altra indicherebbe l'aspetto dinamico (la promessa di andare dal male verso il bene, e dal bene verso il meglio, l'impegno nel continuo superamento, nel rifiuto di fermarsi o di stagnarsi nella “corsa spirituale”). Ricapitolando, all'origine del termine c'è l'idea del genere di vita, la vita in comune, la maniera di vivere (“conversari”); ma questa maniera di vivere suppone e implica un cambiamento della condotta (“conversare”, da cui “convertere”), per cui il monaco è cosciente sempre di dover tendere ad perfectionem conversationis. Così “conversatio morum” non indica solamente il passaggio dal mondo alla vita monastica, ma la vita monastica stessa in ogni momento della sua tensione dinamica (e include e trascende i tre voti di povertà, castità e obbedienza). La vita monastica deve essere una corsa continua, un progresso nella “conversatio” e nella fede, come dice Prol. 49; la “conversatio morum” assicura l'“allargamento del cuore” (il “dilatato corde”) di cui parla ancora Prol. 49: per correre nella ineffabile dolcezza dell'amore di Cristo (cf. RB 7,68-70 con Prol. 49), nel cammino del ritorno verso il Padre (Prol. 2).

La Oboedientia Dei tre voti essenziali ad ogni stato religioso e già inclusi nella precedente “conversatio”, è espressamente nominata l'obbedienza, perché è il dono più elevato, perché indispensabile alla interna organizzazione del cenobio, perché per SB è la cosa più importante; praticamente ne ha parafrasato la materia nei vv. 14-16. Il novizio allora, al termine di un anno di prova e di matura riflessione, promette solennemente di perseverare nel recinto del monastero e nella comunità, a cui da allora in poi appartiene (stabilitas), in un costante progresso nelle virtù monastiche (conversatio) e nella docilità ai precetti della Regola e ai comandi dell'abate (oboedientia). Oggi la professione si emette “secondo la Regola di S. Benedetto e le Costituzioni della Congregazione ... ” cui si appartiene, perché le Dichiarazioni e le Costituzioni approvate dalla S. Sede integrano e interpretano la Regola secondo le particolari esigenze di tempo e di luogo e le tradizioni proprie di ciascuna Congregazione.

17-29: Rito della professione Dopo la riflessione sopra il contenuto della professione monastica, esaminiamone brevemente il rito come descritto da SB. Il novizio farà la sua professione davanti a tutti (v. 17) e soprattutto davanti a Dio e ai suoi Santi (v. 18). Deve redigere un documento giuridico, la “petitio” (oggi diciamo “la carta di professione”) scritta possibilmente di suo pugno, da lui firmata e che poi egli stesso porterà sull'altare (vv. 19-20). Benché la Regola non lo dica espressamente, da questo e da altri indizi (soprattutto da RB 59,2 e 8 in cui si dice di unire la “petitio” alla “oblatio”, cioè il pane e il vino per l'Eucarestia), si deduce che la professione avveniva durante la Messa, al momento della presentazione dei doni: la tradizione benedettina è unanime su questo punto. In tal modo la professione monastica acquista la sua dimensione teologica piena: nel contesto eucaristico viene espresso pienamente il dono di se stesso che il monaco fa a Cristo e in unione al sacrificio di Cristo.

Dopo la deposizione del documento sull'altare vicino alle offerte, il triplice canto del Suscipe (Sal 118, 116) intonato dal novizio e ripetuto dalla comunità intera (vv. 21-22), è molto significativo: Accoglimi, Signore, secondo la tua parola..., canta il monaco al momento supremo della sua consacrazione a Dio, in risposta alla chiamata che il Signore gli ha diretto (cf. Prol. 14-20). Non c'è monaco che non senta riempirsi l'anima di commozione e di dolcezza al ricordo del suo “Suscipe”. La rubrica seguente (v. 23) contiene ugualmente un significato profondo: il neo professo si prostra ai piedi dei fratelli chiedendo preghiere; quanto più arduo è il cammino, tanto più c'è bisogno della Grazia, e la preghiera fraterna costituisce il primo aiuto che riceve dalla comunità di cui ormai fa parte. Nei vv. 24-25 si parla della disappropriazione che deve essere fatta o distribuendo i beni ai poveri (prima della professione) o cedendoli al monastero con una donazione legale, dato che “da quel giorno non sarà più padrone nemmeno del proprio corpo” (v. 25).

Poi si parla della “vestizione” in maniera alquanto sorprendente e diversa da come aspetteremmo noi oggi e anche da quanto appare in Cassiano e in RM. SB non parla di “abito monastico” (l'espressione non appare mai nella Regola), ma solo che “sia svestito dei propri abiti e rivestito con quelli del monastero” (v. 26): è solo un segno e una conseguenza della totale disappropriazione; a lui non resta di proprio assolutamente nulla, neanche i vestiti con cui giunse al monastero; SB insomma non dà importanza all'abito monastico (vedi a questo proposito quanto detto nel commento a RB 55). Il capitolo si conclude alludendo al caso di abbandono e, incidentalmente, sappiamo che l'abate prende dall'altare la “petitio” e la fa conservare nel monastero per sempre, anche nel caso di infedeltà del monaco. Tale prescrizione ha un senso giuridico ed economico: siccome nella petitio era inserita la “donatio” dei beni, la carta non veniva restituita per evitare reclami da parte dell'uscito.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LVII – I monaci che praticano un’arte o un mestiere

1 Se in monastero ci sono dei fratelli esperti in un’arte o in un mestiere, li esercitino con la massima umiltà, purché l’abate lo permetta. 2 Ma se qualcuno di loro monta in superbia, perché gli sembra di portare qualche utile al monastero, 3 sia tolto dal suo lavoro e non gli sia più concesso di occuparsene, a meno che rientri in se stesso, umiliandosi, e l’abate non glielo permetta di nuovo. 4 Se poi si deve vendere qualche prodotto del lavoro di questi monaci, coloro, che sono stati incaricati di trattare l’affare, si guardino bene da qualsiasi disonestà. 5 Si ricordino sempre di Anania e Safira, per non correre il rischio che la morte, subita da quelli nel corpo, 6 colpisca le anime loro e di tutte le persone, che hanno comunque defraudato le sostanze del monastero. 7 Però nei prezzi dei suddetti prodotti non deve mai insinuarsi l’avarizia, 8 ma bisogna sempre venderli un po’ più a buon mercato dei secolari «affinché in ogni cosa sia glorificato Dio». =●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti

La povertà individuale del monaco, lo spogliamento di sé acquista qui un aspetto più spirituale che materiale: il monaco deve essere distaccato dalla proprietà privata anche nei suoi pensieri.

1-3: Gli artigiani del monastero La base di sussistenza del monastero, secondo la RB è la terra lavorata da operai a pagamento o dai monaci stessi (cf. RB 48). Tra i fratelli potrebbero trovarsi alcuni che o già nel mondo o in monastero si sono resi abili in un'arte. SB non specifica nulla; pare gli interessi poco; ciò che a lui interessa è il bene spirituale, quindi evitare il rischio della mancanza di umiltà: cose che sono al di sopra di ogni considerazione di guadagno per il monastero. Perciò potranno questi monaci esercitare la loro arte, ma solo con il consenso dell'abate (v. 1) e senza ritenersi indispensabili, vantandosi di portare un utile al monastero. Forse SB si ispira a S. Agostino, il quale parla di monaci che hanno portato delle sostanze al monastero e che potrebbero insuperbirsi di ciò. Potrebbe ispirarsi anche a Cassiano (Inst. 4,14) che parla del lavoro dei monaci egiziani. Per SB, se gli artigiani non sono capaci di disinteresse e di distacco, deve proibirsi loro di esercitare la loro arte (v. 3).

4-9: Vendita dei prodotti del lavoro Per la vendita dei prodotti del monastero sono due i vizi da evitare: la frode e l'avarizia. La frode potevano commetterla o gli artigiani stessi o altri monaci o altri intermediari. L'avarizia, sotto il pretesto di maggiori introiti per il monastero, sarebbe una cosa grave sia per i monaci singoli che per il buon nome del monastero stesso. Per evitare ciò, si venderà aliquantulum (un pochino) di meno di quanto vendono i secolari. S. Girolamo (Epist. 22,34) parla con ironia dei monaci sarabaiti, i quali, “come se fosse santo il loro lavoro, e non la vita, vendevano a prezzi maggiori”!

9: _Ut in omnibus glorificetur Deus..._ ...Affinché in tutto sia glorificato Dio. Anche nel trattare interessi così secondari e temporali, il fine e l'ispirazione devono essere di carattere soprannaturale. La bella sentenza, presa da S. Pietro (1Pt 4,11), ricordata quasi incidentalmente in un passo secondario della Regola e a proposito di un argomento così poco spirituale, esprime bene lo spirito di fede del S. Patriarca, ed è divenuta un programma e un motto dei nostri monasteri, dove si trova spesso anche abbreviata in sigla: U. I. O. G. D.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LVI – La mensa dell’abate

1 L’abate mangi sempre in compagnia degli ospiti e dei pellegrini. 2 Ma quando gli ospiti sono pochi, può chiamare alla sua mensa i monaci che vuole. 3 Sarà bene tuttavia lasciare uno o due monaci anziani con la comunità per il mantenimento della disciplina.

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Approfondimenti

1-3: Senso del capitolo Il breve capitolo va considerato come complemento del capitolo dell'ospitalità: c'è una cucina e una mensa propria per i forestieri e per l'abate. Questi mangia sempre con gli ospiti e, nel caso questi fossero pochi, l'abate può invitare alcuni dei fratelli, purché rimangano sempre uno o due seniori a tutelare la disciplina nel refettorio comune.

Il capitolo, uno dei più brevi di tutta la Regola, è stato il tormento dei commentatori, antichi e moderni. Alcuni hanno ritenuto inammissibile che SB faccia mancare abitualmente l'abate dalla mensa comunitaria, che è uno dei segni maggiori della vita fraterna e della comunità radunata nel nome di Cristo. DeVogué ha interpretato che gli ospiti fossero introdotti nel refettorio monastico e mangiassero alla “tavola” (“mensa” = nel senso di tavola) dell'abate, in giorno di digiuno con orario diverso (in modo che l'abate – solo lui – interrompesse il digiuno), negli altri giorni insieme alla comunità. Ma questa ipotesi renderebbe incomprensibile il v. 3 e non risponderebbe alla “mens” di SB, il quale vuole che gli ospiti non disturbino con la loro presenza la vita regolare dei monaci.

Dobbiamo dire che separare l'abate dai fratelli in un momento così significativo della vita della comunità come la refezione comune, costituisce il prezzo che SB si considerò obbligato a pagare affinché l'esercizio dell'ospitalità non intralciasse lo svolgimento normale del ritmo della giornata monastica. Certo, la cosa generò, nel corso dei secoli, abusi e inconvenienti: si pensi alla grande stortura che più tardi si verificò dando alla “mensa abbatis” il senso di “beneficio ecclesiastico”, con patrimonio proprio, distinto da quello della comunità; fu il pretesto per una lunga serie di gravi abusi che influirono molto negativamente sullo spirito monastico, specialmente nel periodo dei cosiddetti “abati commendatari”.

Naturalmente, oggi, tutto ciò è sorpassato e l'abate presiede abitualmente ai pasti comuni; gli ospiti o mangiano a parte o sono ammessi al refettorio monastico assieme alla comunità.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LV – Gli abiti e le calzature dei monaci

1 Bisogna dare ai monaci degli abiti adatti alle condizioni e al clima della località in cui abitano, 2 perché nelle zone fredde si ha maggiore necessità di coprirsi e in quelle calde di meno: 3 il giudizio al riguardo è di competenza dell’abate. 4 Comunque riteniamo che nei climi temperati bastino per ciascun monaco una tonaca e una cocolla, 5 quest’ultima di lana pesante per l’inverno e leggera o lisa per l’estate; 6 inoltre lo scapolare per il lavoro e come calzature, scarpe e calze. 7 Quanto al colore e alla qualità di tutti questi indumenti, i monaci non devono attribuirvi eccessiva importanza, accontentandosi di quello che si può trovare sul posto ed è più a buon mercato. 8 L’abate però stia attento alla misura degli abiti, in modo che non siano troppo corti, ma della taglia di chi li indossa. 9 I monaci che ricevono gli indumenti nuovi, restituiscano i vecchi, che devono essere riposti nel guardaroba per poi distribuirli ai poveri. 10 Infatti a ogni monaco bastano due cocolle e due tonache per potersi cambiare la notte e per lavarle; 11 il di più è superfluo e dev’essere eliminato. 12 Anche le calze e qualsiasi altro oggetto usato dev’essere restituito, quando ne viene assegnato uno nuovo. 13 I monaci, che sono mandati in viaggio, ricevano dal guardaroba gli indumenti occorrenti, che restituiranno poi lavati al ritorno. 14 Anche le cocolle e le tonache per il viaggio siano un po’ migliori di quelle portate usualmente; gli interessati le prendano in consegna dal guardaroba, quando partono, e le restituiscano al ritorno. 15 Per la fornitura dei letti poi bastino un pagliericcio, una coperta di grossa tela, un coltrone e un cuscino di paglia o di crine. 16 I letti, però, devono essere frequentemente ispezionati dall’abate, per vedere se non ci sia nascosta qualche piccola proprietà personale. 17 E se si scoprisse qualcuno in possesso di un oggetto che non ha ricevuto dall’abate, sia sottoposto a una gravissima punizione. 18 Ma, per strappare fin dalle radici questo vizio della proprietà, l’abate distribuisca tutto il necessario 19 e cioè: cocolla, tonaca, calze, scarpe, cintura, coltello, ago, fazzoletti e il necessario per scrivere, in modo da togliere ogni pretesto di bisogno. 20 In questo, però, deve sempre tener presente quanto è detto negli Atti degli Apostoli e cioè che «Si dava a ciascuno secondo le sue necessità». 21 Quindi prenda in considerazione le particolari esigenze dei più deboli, anziché la malevolenza degli invidiosi. 22 Comunque, in tutte le sue decisioni si ricordi del giudizio di Dio.

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Approfondimenti

1-8: I vestiti dei monaci Anche S. Agostino, subito dopo le norme sull'accettazione di lettere o regali, parla del vestiario dei monaci: un punto su cui è più facile che si insinui il vizio della proprietà. Questo capitolo della RB si ricollega a RM. 81 e, nella seconda parte, a RM. 82. Che cosa deve avere dunque ciascun monaco per uso suo personale? Vestiti, calzature e pochi utensili: lo stretto necessario. RB 55 intende precisarlo, ma solo fino a un certo punto. Perché SB ha troppa esperienza, prudenza e sensatezza per imporre un vestito uniforme, un “abito religioso” nel senso moderno della parola, valido e obbligatorio per tutti i luoghi e per tutte le persone. SB vuole che si tenga conto del clima (vv. 1-3), e ciò fa capire che egli ha una prospettiva ampia (non pensa solo al monastero di Montecassino o di Terracina); esprime la sua opinione su ciò che basta in un clima temperato (vv. 4-6); non gli interessano il colore e la qualità, e vuole che i monaci non se ne curino (vv. 7-8). Ciò che gli interessa è la povertà, o meglio la semplicità: che ci si accontenti del necessario; difatti SB insiste sulla sobrietà (sufficit “basta” dei vv. 4 e 10) e sul ruolo dell'abate nel fornire il vestiario (v. 8).

L'elenco del vestiario fornito dalla Regola è abbastanza ridotto: una cocolla di lana per l'inverno e un'altra più leggera o consumata per l'estate, la tunica, lo scapolare “per il lavoro” propter opera, scarpe e calze (vv. 4-6). Tutto sembrerebbe chiaro, e invece non lo è affatto, perché nessuno dei capi di vestiario menzionati corrisponde a quelli in uso oggi nei monasteri; anche se i nomi sono rimasti, il significato è mutato. Vediamo in breve:

L'evoluzione dell'abito monastico Gli storici disputano sul senso degli antichi testi relativi all'abito dei monaci. Alcuni dicono che esso era certamente riconoscibile e che, sin dai testi pacomiani, “prendere l'abito”, o riceverlo dalle mani di un altro monaco equivaleva a impegnarsi nello stato monastico. Altri dicono che l'abito monastico non aveva nulla di specifico, in quanto ciò non era ammissibile per gli usi del tempo. La cosa è discutibile e i testi sono interpretati nell'uno o nell'altro senso. Certo è che l'abito monastico doveva mettere in risalto la povertà, l'umiltà: ora il problema è sapere se facevano questo prendendo un abito particolare, oppure scegliendo l'abito comune della gente più povera e più semplice.

In oriente In oriente gli anacoreti usavano la massima libertà. Forse il primo abito monastico distintivo fu la “melota”: una specie di zimarra larga, fatta di pelli di capra o di altro animale, stretta al corpo da una cintura di cuoio; ricordava – e senza dubbio voleva pure imitare – il vestito di Elia (cf. 2Re 1,8) e di Giovanni Battista (cf. Mt 3,4), i due precursori dei monaci cristiani. I monaci d'Egitto continuarono per molto tempo a usare la melota, però, in genere, solo come difesa dal freddo. Abitualmente invece indossavano una tunica con o senza maniche, una cintura di cuoio e un cappuccio “Koukoullion” che copriva il capo e il collo. Così la maggior parte degli eremiti e cenobiti di S. Pacomio. S. Basilio non prescrive un abito tipico, ma un vestito povero, semplice, simbolo della rinunzia alla vanità del mondo.

In occidente In occidente l'abito monastico è stato il più vario. S. Girolamo descrive – esagerando un pò – le bizzarrie e le stravaganze nel vestire dei vari monaci che giravano per Roma. S. Martino di Tours e i suoi monaci indossavano una tunica tessuta con pelle di cammello e un “pallium” o mantello nero. Il pallium era a quel tempo il contrassegno più comune del monaco in Gallia e nell'Africa romana. Cassiano attribuisce grande importanza all'abito monastico, cui dedica tutto il primo libro delle Institutiones. In occidente comunque finì per imporsi il cappuccio, tanto che i monaci furono conosciuti come gens cucullata (persone incappucciate), e si conservava anche la melota: S. Benedetto eremita a Subiaco andava vestito di pelli (II Dial. 1) e da abate continuò a portarla (II Dial. 7). La RM (90,82-86) usa le espressioni “vestiti santi”, “abiti sacri”, “abito di Cristo”, abito del santo proposito”, cioè per il Maestro esiste un abito distintivo.

La RB Al contrario, la RB non ha nulla di esplicito: probabilmente né la cuculla, né la tunica, né lo scapulare che i primi monaci di S. Benedetto indossavano, erano abiti specificamente monastici. La “tunica” di lana era l'indumento più importante, insostituibile; tutti i romani l'avevano; già fin dal secolo III d.C. si usava un cinturone di cuoio: “bracile”; in RB 22,5 si parla di corde o tunicelle: “cingulis aut funibus”). La “cuculla” consisteva originariamente in un semplice cappuccio che copriva la testa, il collo e parte delle spalle; più tardi si modificò. La cocolla di SB era forse un mantello semicircolare chiuso (molto simile alle ampie casule); costituiva il vestito esteriore del monaco, come lo prova il fatto di averne due, una per l'inverno e una per l'estate. Probabilmente se la toglievano per lavorare, sostituendola con lo scapolare. Lo “scapulare” è il pezzo più discusso: alcuni lo identificano con lo “analabos” di cui parla Evagrio Pontico, cioè la cinta di lana che girava intorno al corpo per aggiustare e adattare il vestito alla persona; altri pensano a un modello più ridotto di cocolla, più adatto per il lavoro manuale, una cocolla particolarmente corta da coprire poco più che le spalle (“scapulare”, appunto). Quest'ultima opinione è la più probabile. Per i piedi si parla di pedules et caligae (calze e scarpe), ma non si è affatto d'accordo sul significato dei termini usati da SB. Secondo alcuni, i “pedules” sarebbero una specie di sandali legati al collo del piede con lacci (come le “ciocie” usate nella zona di Cassino I (che è la “Ciociaria”); le “caligae” invece erano stivaletti da viaggio e da campagna. Sembra più probabile che “pedules” fossero un indumento di stoffa che avevano l'ufficio delle nostre calze, e “caligae” fossero le scarpe simili alle calzature militari, stivaletti che coprivano interamente il piede. Comunque, a parte queste considerazioni archeologiche di importanza relativa, certo è che SB lascia una grande libertà per quanto riguarda la qualità, il colore, la foggia dei vestiti (v. 7). Da questo e da altri indizi, pare che nessuno dei capi di vestiario citati in questo capitolo appartenga esclusivamente ai monaci: l'abito dei primi benedettini non differiva essenzialmente da quello dei contadini, dei poveri e degli schiavi, cioè delle classi inferiori della società. È sintomatico che SB non parla mai dell'abito monastico, se non nel momento della professione (RB 58,26), il che è tanto più strano in quanto Cassiano, il suo autore preferito, e la RM trattano di esso lungamente ed esaltano il valore religioso e il simbolismo dell'abito monastico come segno distintivo (cf. Inst. 1: tutta la descrizione dell'abito e il suo simbolismo; RM 81; 90,82-85; 95,21; ecc...). Per SB il distintivo del monaco è la tonsura (RB 1,7). Se nella professione il monaco viene spogliato del suo abito e ne riceve un altro completo (e notiamo che lì non si dice “abito monastico” o “abito santo” o simili, ma semplicemente “vestiti” – anzi “rebus” (le robe) – del monastero, RB 58,26), ciò vuol significare direttamente che egli ha perduto il diritto di proprietà. Insomma, SB non dà importanza a queste cose. Fare una storia dell'evoluzione dell'abito monastico lungo i secoli è pressoché impossibile. Certamente nel sec. VI non era usato il colore nero, che era ritenuto un lusso (S. Cesario lo proibisce espressamente). Oggi quasi tutti i benedettini usano il nero; i Camaldolesi, gli Olivetani e i monaci di Montevergine usano il bianco; i cisterciensi e i Trappisti usano tonaca bianca e scapolare nero.

Nella Congregazione Silvestrina, all'inizio l'abito era de gattinello, cioè di un panno di lana di colore misto risultante dalla combinazione del grigio o cenerino con il lionato. Per questo nel medioevo i Silvestrini furono chiamati, come i Vallombrosani, monaci “grisei” (grigi). Col passare del tempo il lionato prese il sopravvento sul grigio, fino a diventare tanè, come si può vedere da numerose pitture esistenti. Nel 1663, al tempo dell'unione con i Vallombrosani, fu adottato il colore nero. Le Costituzioni del 1690 stabiliscono l'abito di colore tanè o lionato che pieghi allo scuro. In seguito, non sappiamo precisamente quando, si adottò il colore bleu fino al 1933. Attualmente, a partire da quella data, l'abito è nero e la cocolla (abito corale) è di colore turchino tendente al nero. In India e Sri Lanka, viene usato il bianco. In Australia, da qualche anno, usano, opzionale d'estate, anche il colore bianco.

9-14: Disciplina per rilevare e consegnare i vestiti SB vuole evitare che i monaci accrescano il guardaroba. “Bastano due tuniche e due cocolle”. Sappiamo che i monaci dormivano vestiti, per essere pronti a recarsi all'Ufficio notturno (RB 22), e quindi avevano la tunica e forse anche la “cuculla”... Notiamo il vigoroso sufficit (basta) all'inizio del v. 10 e tutto il v. 11: quel che è in più è superfluo e si deve eliminare (così anche in Pacomio, Reg. 81). Al v. 13 si parla di femoralia (femorali): corrispondono pressappoco alle odierne “mutande”. Ordinariamente non erano usati, ma solo in viaggio, soprattutto per cavalcare. Nei monasteri il loro uso fu però assai vario: in alcuni luoghi li portavano abitualmente tutti (come a Cluny); in altri chi li voleva, in altri era addirittura proibito. Notiamo anche la delicatezza e la signorilità di SB nel prescrivere vestiti migliori per chi viaggia (v. 14).

15-19: Fornitura del letto e precauzioni contro il vizio della proprietà La stessa semplicità che distingue l'abito del monaco, deve contrassegnare il suo letto: sufficiant (bastano), (di nuovo, per la terza volta, appare questo verbo!), un pagliericcio, una coperta leggera, un cuscino (v.15). Il letto era allora l'unico mobilio personale del monaco, e pare che servisse da nascondiglio per le piccole cose che i monaci sottraevano all'uso comune. La RB, come tutti i documenti monastici antichi, invita l'abate a ispezionare con frequenza e a punire severamente i colpevoli di un vizio così odioso, cioè la proprietà (vv.1 6-17). Sono rimasti famosi alcuni fatti di monaci trovati in possesso di denaro dopo la morte e trattati molto rudemente per tale motivo (privati della sepoltura ecclesiastica!): cf. S. Girolamo in Epist. 22,23 e il fatto di S. Gregorio Magno quando era abate al Celio. L'ispezione “opus peculiare” del v. 16, si ispira a Cassiano (Inst. 4,14), dove significa: guadagno procurato con lavori particolari. In RB, invece, ha il senso di “cose ritenute senza il permesso dell'abate”.

20-22: L'abate deve provvedere ai singoli Però, per estirpare dalle radici il “vizio della proprietà” (di nuovo appare l'espressione usata in RB 33,1), l'abate deve dare a tutti i fratelli il necessario. Osservazione molto pertinente: altrimenti se lo procurano di nascosto! è stato sempre così!. In tal modo invece, non hanno alcun pretesto per compiere atti di proprietà. Le disposizioni precedenti ricordano l'energico c. 33; solo che, invece di dirigersi ai monaci, qui la Regola parla all'abate: dia egli tutto il necessario, secondo la frase di Atti 4,35 già citata nel c. 34: “veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno”. E di nuovo la Regola parla a favore dei deboli che necessitano di più. A queste necessità deve badare l'abate nel dare le cose, e “non alla cattiva volontà degli invidiosi” (v. 21); cioè non deve omettere di soddisfare le necessità dei monaci più deboli per dare retta a quelli che, mossi da invidia, non tollerano eccezioni o agevolazioni. Così il trattato sulla proprietà (spogliamento di sé) costituito dai cc. 33-34 riceve nel c. 55 un complemento indispensabile, che potrebbe intitolarsi “la responsabilità dell'abate nel mantenimento della vita comune” (DeVogué).

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LIV – La distribuzione delle lettere e dei regali destinati ai singoli monaci

1 Senza il consenso dell’abate nessun monaco può ricevere dai suoi parenti o da qualunque altra persona lettere, oggetti di devozione o altri piccoli regali e neanche farne a sua volta o scambiarli con i confratelli. 2 E anche se i parenti gli mandassero qualche dono, non si permetta di accettarlo, senza averne prima informato l’abate. 3 Ma questi, anche nel caso che dia il suo consenso per ricevere il dono, può sempre assegnarlo a chi vuole 4 e il monaco a cui era destinato non deve farsi di questo un motivo di afflizione, per non dare occasione al diavolo. 5 Se poi qualcuno si provasse a comportarsi diversamente, sia sottoposto ai castighi dalla Regola.

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Approfondimenti

Non ricevere nulla senza permesso Questo breve capitolo non è che l'applicazione di quanto prescritto in RB 33,2: “Nessuno ardisca dare o ricevere qualcosa senza il permesso dell'abate”. Si è già detto quanto SB sia severo in materia di povertà, per lo spogliamento e il distacco del monaco. La fonte è soprattutto S. Agostino (ma anche Pacomio, Cassiano, Cesario); tuttavia, mentre Agostino parla della castità (ricevere alcunché da qualcuna, cioè da una donna) e della clausura, RB si riferisce alla povertà (e all'obbedienza: non disporre di nulla senza il permesso dell'abate).

Per il monaco destinatario si aggiunge la raccomandazione di non lamentarsi (cf RB 34,3) nel caso che l'abate dia il permesso di accettare il regalo e poi lo dia a un altro fratello che forse ne ha più bisogno, secondo lo spirito del c. 34: è un caso concreto di distribuzione delle cose in comune. Pertanto quel monaco a cui era inviato il regalo non deve rattristarsi, “per non dare occasione al diavolo” (cf Ef 4,27; 1Tim 5,14), cioè per non cedere alla tentazione del malcontento, dell'agitazione, della mormorazione.

Il termine “eulogia” (letteralmente: “buona parola”, “benedizione”) ha tanti significati: designava anzitutto l'Eucarestia e il pane benedetto durante la messa che si inviavano vicendevolmente vescovi e presbiteri, in segno di comunione e di amicizia. S. Paolino da Nola ne mandava ai suoi amici, come S. Agostino. Anche quel briccone di Fiorenzo, quando inviò a SB il pane avvelenato, simulò di mandare un'eulogia (II Dial. 8). Designava ancora il pane offerto dai fedeli che non veniva consacrato per l'Eucarestia e veniva distribuito al termine della liturgia. Il vocabolo servì poi ad indicare ogni pio dono, come reliquie, medaglie, immagini e anche frutta e piccoli doni tra i più vari. In questo testo, dunque, significa piccoli regali, magari con incluso il carattere quasi sacro di regalo tra ecclesiastici e persone consacrate a Dio (SB pensa probabilmente ai regaletti fatti ai monaci dalle monache o pie donne, cf II Dial. 19).

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LIII – L’accoglienza degli ospiti

1 Tutti gli ospiti che giungono in monastero siano ricevuti come Cristo, poiché un giorno egli dirà: «Sono stato ospite e mi avete accolto» 2 e a tutti si renda il debito onore, ma in modo particolare ai nostri confratelli e ai pellegrini. 3 Quindi, appena viene annunciato l’arrivo di un ospite, il superiore e i monaci gli vadano incontro, manifestandogli in tutti i modi il loro amore; 4 per prima cosa preghino insieme e poi entrino in comunione con lui, scambiandosi la pace. 5 Questo bacio di pace non dev’essere offerto prima della preghiera per evitare le illusioni diaboliche. 6 Nel saluto medesimo si dimostri già una profonda umiltà verso gli ospiti in arrivo o in partenza, 7 adorando in loro, con il capo chino o il corpo prostrato a terra, lo stesso Cristo, che così viene accolto nella comunità. 8 Dopo questo primo ricevimento, gli ospiti siano condotti a pregare e poi il superiore o un monaco da lui designato si siedano insieme con loro. 9 Si legga all’ospite un passo della sacra Scrittura, per sua edificazione, e poi gli si usino tutte le attenzioni che può ispirare un fraterno e rispettoso senso di umanità. 10 Se non è uno dei giorni in cui il digiuno non può essere violato, il superiore rompa pure il suo digiuno per far compagnia all’ospite, 11 mentre i fratelli continuino a digiunare come al solito. 12 L’abate versi personalmente l’acqua sulle mani degli ospiti per la consueta lavanda; 13 lui stesso, poi, e tutta la comunità lavino i piedi a ciascuno degli ospiti 14 e al termine di questo fraterno servizio dicano il versetto: «Abbiamo ricevuto la tua misericordia, o Dio, nel mezzo del tuo Tempio». 15 Specialmente i poveri e i pellegrini siano accolti con tutto il riguardo e la premura possibile, perché è proprio in loro che si riceve Cristo in modo tutto particolare e, d’altra parte, l’imponenza dei ricchi incute rispetto già di per sé. 16 La cucina dell’abate e degli ospiti sia a parte, per evitare che i monaci siano disturbati dall’arrivo improvviso degli ospiti, che non mancano mai in monastero. 17 Il servizio di questa cucina sia affidato annualmente a due fratelli, che sappiano svolgerlo come si deve. 18 A costoro si diano anche degli aiuti, se ce n’è bisogno, perché servano senza mormorare, ma, a loro volta, quando hanno meno da fare, vadano a lavorare dove li manda l’obbedienza. 19 E non solo in questo caso, ma nei confronti di tutti i fratelli impegnati in qualche particolare servizio del monastero, si segua un tale principio 20 e cioè che, se occorre, si concedano loro degli aiuti, mentre, una volta terminato il proprio lavoro, essi devono tenersi disponibili per qualsiasi ordine. 21. Così pure la foresteria, ossia il locale destinato agli ospiti, sia affidata a un monaco pieno di timor di Dio: 22 in essa ci siano dei letti forniti di tutto il necessario e la casa di Dio sia governata con saggezza da persone sagge. 23 Nessuno, poi, a meno che ne abbia ricevuto l’incarico, prenda contatto o si intrattenga con gli ospiti, 24 ma se qualcuno li incontra o li vede, dopo averli salutati umilmente come abbiamo detto e aver chiesta la benedizione, passi oltre, dichiarando di non avere il permesso di parlare con gli ospiti.

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Approfondimenti

Il c. 53 sull'ospitalità è in linea con tutta la tradizione monastica. La S. Scrittura parla dell'accoglienza degli ospiti come di un esercizio fondamentale della carità fraterna (cf. Rm 12,13; 13,8; ecc.) e Gesù dice che nelle persone di ospiti e pellegrini si riceve lui stesso (Mt 25,35-43). Fin dalle origini del monachesimo, ricevere poveri, pellegrini e ospiti fu ritenuta una pratica sacrosanta della vita quotidiana: così presso i Padri del Deserto (abbiamo tanti esempi e aneddoti nei “Detti”), presso anacoreti, presso i cenobiti pacomiani. SB si mostra degno erede di questa tradizione. Per il c. 53 della RB abbiamo nella RM vari capitoli (RM 65; 71-72; 78-79), in cui da una parte notiamo grande comprensione e carità (addirittura il Maestro fa anticipare il pasto dei fratelli a sesta, se l'ospite si trattiene); d'altra parte notiamo differenza nei confronti di ospiti che si fermano più giorni: in essi potrebbero nascondersi parassiti e ladri. SB ha soppresso tanta casistica e parla dell'ospitalità in un solo capitolo unitario e ben compatto, tutto pieno di un profondo spirito di fede, di calore umano e di carità fraterna.

Struttura del capitolo RB 53 si divide in due parti:

  1. la prima (vv. 1-15) descrive l'accoglienza con una piccola teologia dell'ospitalità (è ispirata soprattutto alla “Historia Monachorum in Aegypto” tradotta da Rufino);
  2. la seconda (vv.16-24) parla dell'organizzazione dell'ospitalità nel monastero, con le ripercussioni per la vita interna del cenobio e la pace dei fratelli.

Appare, anche dalla struttura e dal vocabolario, che questa seconda parte dovette essere composta in un secondo tempo da SB; in seguito alla pratica continua dell'ospitalità, alle varie esperienze, agli inconvenienti notati, il santo Patriarca dovette aggiungere alcune precisazioni. Le campagne italiane non erano certo il deserto dell'Egitto, gli ospiti a Montecassino affluivano incessantemente e a volte in buon numero; tale afflusso avrà pregiudicato il clima di preghiera e il silenzio in cui vivevano i monaci. Da qui alcune restrizioni aggiunte alla prima stesura, per armonizzare le irrinunciabili tradizioni dell'ospitalità monastica con le esigenze della vocazione cenobitica.

1-15: Accoglienza degli ospiti: teologia dell'ospitalità Esaminiamo ora il testo “Ero pellegrino e mi avete ospitato” (Mt 25,35). La frase di Matteo domina tutta la prima parte del capitolo e costituisce la base per il principio generale che tutti gli ospiti che giungono al monastero siano accolti come Cristo in persona (v. 1). Mettiamo l'accento su quel “tutti” con cui si apre il capitolo. SB intende bandire ogni distinzione di grado sociale. Ognuno poi sia ricevuto con l'onore dovuto, “soprattutto i nostri fratelli nella fede e i pellegrini” (v. 2). Domestici fidei (fratelli nella fede) sembra si debba interpretare nel senso di monaci o anche chierici e in genere quelli che fanno professione di speciale servizio a Dio (ciò sarebbe confermato anche da passi di Pacomio, Cassiano, Girolamo). Pellegrini: quelli che vengono da lontano a scopo di pietà e di devozione. I pellegrinaggi ai luoghi santi della Palestina e di Roma erano allora frequenti e i monasteri erano il naturale rifugio nelle soste dei pii viaggiatori. Dunque i “domestici fidei”, per la loro professione sacra, e i “peregrini”, per il loro sacro scopo di viaggio, meritano particolare cura ed onore. A questi SB aggiunge i “poveri” (v. 15), specificando che specialmente nei poveri e nei pellegrini si riceve Cristo.

Posto il principio, SB passa a descrivere il rito dell'accoglienza, i cui vari atti erano nella tradizione della Chiesa primitiva e del monachesimo: accorrere a ricevere l'ospite, umiltà nel riceverlo, preghiera, bacio di pace, lettura della S. Scrittura, lavanda dei piedi... (vv. 3-14). A proposito della lavanda dei piedi (vv.12-14), ricordiamo che essa era anticamente assai comune ed era necessaria a causa del viaggiare a piedi. Praticamente dobbiamo ritenere che non ad ogni “benvenuto” tutta la comunità andasse a compiere questo atto, ma che per tutti insieme i nuovi venuti si eseguisse la lavanda in un solo tempo della giornata, e che i fratelli la facevano a turno, in modo che “tutta la comunità” adempisse questo atto di servizio e di umiltà. A tal riguardo gli usi nei monasteri furono i più vari. Bello lo spirito di fede che aleggia nel v. 14: i monaci vedono nell'ospite arrivato una manifestazione della grazia e della benevolenza di Dio: “Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia (=grazia)...” (Sal 47,10).

16-24: Organizzazione dell'ospitalità Dato che nel monastero bisogna accogliere tutti coloro che chiedono ospitalità – (ricordiamo l'8° strumento delle buone opere: “onorare tutti gli uomini” (RB. 4,8) che si riferisce senz'altro all'ospitalità) – potrebbero derivare inconvenienti per la vita comune, poiché gli ospiti, “che non mancano mai in monastero” (v. 16), arrivano alle ore più impensate. Ecco allora la necessità di una certa organizzazione, per compiere bene l'esercizio dell'ospitalità. Abbiamo quindi la cucina a parte con un personale specializzato, la foresteria e il foresteriario, con eventuali aiutanti: ambedue le cose sono creazioni di S. Benedetto rispetto alla RM. Il santo patriarca vuole che la casa di Dio sia amministrata da saggi e saggiamente (v. 22). Sappiamo che nel mandare alcuni monaci a fondare il monastero di Terracina, SB parlò di posto per “l'oratorio, il refettorio per gli ospiti, la foresteria...” (II Dial. 22); e ancor oggi non si concepisce monastero benedettino senza una parte riservata a foresteria.

Il capitolo si chiude con la proibizione ai monaci di parlare con l'ospite, e sembra una nota un po' negativa in un testo iniziato con tanto slancio spirituale. SB è guidato dall'intenzione di salvaguardare l'osservanza regolare; non si tratta solo del silenzio, ma anche di evitare il contatto col mondo esterno, come si vedrà anche in RB 66,7 e 67,4-5. Però l'osservanza della Regola non significa mancanza di educazione: incontrando l'ospite, il monaco non ometterà di salutare gentilmente e di domandare umilmente la benedizione, secondo l'uso del tempo.

Conclusione e applicazione oggi Il bel capitolo sull'ospitalità ha generato la gloriosa tradizione dell'ospitalità benedettina, una delle manifestazioni caratteristiche dello spirito e dello stile benedettino, che ha svolto anche un'opera di altissimo valore sociale nella storia d'Europa. Oggi, certo, la situazione è cambiata: rapidissimi mezzi di comunicazione, organizzazioni turistiche e alberghiere... Eppure, anche oggi si viene al monastero. Che cosa vengono a cercare gli uomini del XX secolo nelle nostre foresterie? Quella dimensione spirituale che non può trovarsi in un albergo. Il problema dell'accoglienza va ripensato, e seriamente, nelle nostre comunità. E notiamo che gli ultimi versetti del c. 53 non sono in contraddizione con il concetto di “comunità aperta”. Aprirsi significa soprattutto donare quanto di meglio si possiede, in uno scambio fraterno di carità. Questo tuttavia è possibile solo se l'accoglienza degli ospiti si svolge in modo da salvaguardare la pace e il raccoglimento della comunità, altrimenti non si offre altro che il vuoto della propria dissipazione. La foresteria poggia sulla interiorità dei monaci; una foresteria monastica non può essere tale se dietro di essa non c'è la presenza silenziosa e irradiante di una comunità riunita nel nome di Cristo; una comunità che sappia, in uno spirito di fede, essere disponibile, sappia accogliere tutti come Cristo in persona (cf v. 1), e mettere a parte coloro che vengono al monastero, in semplicità e umiltà, della propria vita di preghiera, di meditazione, di lavoro.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LII – La chiesa del monastero

1 La chiesa sia quello che dice il suo nome, quindi in essa non si faccia né si riponga altro. 2 Alla fine dell’Ufficio divino escano tutti in perfetto silenzio e con grande rispetto per Dio, 3 in modo che, se un monaco volesse rimanere a pregare, privatamente, non sia impedito dall’indiscrezione altrui. 4 Se, però, anche in un altro momento qualcuno desidera pregare per proprio conto, entri senz’altro e preghi, non a voce alta, ma con lacrime e intimo ardore. 5 Perciò, come abbiamo detto, chi non intende dedicarsi all’orazione si guardi bene dal trattenersi in chiesa dopo la celebrazione del divino Ufficio, per evitare che altri siano disturbati dalla sua presenza.

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Approfondimenti

Questo capitoletto apporta un prezioso completamento alla sezione liturgica, perché lascia intravedere dei prolungamenti alla preghiera comune nel corso della giornata. RB 52 corrisponde a RM 68, che pero` tratta soltanto del silenzio da osservarsi uscendo dall'oratorio: i monaci non debbono seguitare a canticchiare i salmi.

1: L'oratorio del monastero Per comprendere la prima frase di SB (v. 1), bisogna tener presente che era abbastanza normale per gli antichi fare qualche piccolo lavoro manuale mentre ascoltavano la salmodia del solista o le letture. Così per i monaci egiziani, probabilmente anche nelle comunità pacomiane. S. Cesario di Arles proibisce alle monache di lavorare durante l'Ufficio (Regula virginum, 10), però vuole qualche lavoretto durante l'Ufficio notturno per vincere il sonno (Ibid. 15). In questo contesto si comprende la concisa ed energica frase di SB: “L'oratorio deve essere ciò che il suo nome significa” (v. 1): la casa della preghiera non sarà mai per SB un laboratorio, né servirà talvolta a consumare i cibi, né fungerà mai da parlatorio, né diventerà un luogo, anche provvisorio, per deporre strumenti di lavoro o altri oggetti non destinati al culto.

2-3: Silenzio terminato l'Ufficio divino Che nell'oratorio si celebra l'Opus Dei, si sa. SB ricorda qui (vv. 2-3) che, terminato l'Ufficio divino, “tutti escano in silenzio”; e passa poi al tema che gli interessa particolarmente: l'orazione privata di ciascun monaco. Si deve mantenere nell'oratorio il massimo silenzio, perché chi vuole possa continuare a pregare; nell'oratorio in particolare Dio dà udienza ininterrottamente, la porta è sempre aperta. SB vuole invitare velatamente a pregare con frequenza, come si deduce anche dal seguente v.4.

4-5: Preghiera privata anche in altri momenti Non solo dopo l'Opus Dei, ma anche in altri momenti un fratello può sentirsi spinto alla preghiera. Così veniamo a conoscere che durante la giornata ogni monaco può trovare l'opportunità di qualche momento libero da dedicare alla sua preghiera privata, probabilmente durante il periodo della lettura. SB poi aggiunge delle condizioni sulla maniera di pregare: entri semplicemente e preghi, espressione nuda e semplice che non include alcun particolare metodo o schema di orazione; preghi e basta, cioè massima libertà e semplicità nel procedimento secondo l'ispirazione di Dio. Non a voce alta, cioè senza alzare la voce, senza emettere gemiti e sospiri sonori, come si usava a volte presso gli antichi, ma con lacrime e fervore di cuore; richiama la “purezza di cuore” e la “compunzione delle lacrime” di RB 20,3 (Per preghiera e lacrime, cf. anche RB 4,57, uno strumento delle buone opere). Lacrime e cuore sono come indizi dell'autenticità della preghiera del monaco. Chi non vuole pregare in questo modo, non è autorizzato a rimanere nell'oratorio (v. 5), perché l'oratorio deve essere solo luogo di preghiera e di incontro con Dio.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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