📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA: Regole; a Diogneto ● PROFETI ● Concilio Vaticano II ● NUOVO TESTAMENTO

Contro i figli ribelli 1Guai a voi, figli ribelli – oracolo del Signore – che fate progetti senza di me, vi legate con alleanze che io non ho ispirato, così da aggiungere peccato a peccato. 2Siete partiti per scendere in Egitto senza consultarmi, per mettervi sotto la protezione del faraone e per ripararvi all’ombra dell’Egitto. 3La protezione del faraone sarà la vostra vergogna e il riparo all’ombra dell’Egitto la vostra confusione. 4Quando i suoi capi saranno giunti a Tanis e i messaggeri avranno raggiunto Canes, 5tutti saranno delusi di un popolo che è inutile, che non porterà loro né aiuto né vantaggio, ma solo confusione e ignominia.

Vano è l'aiuto dell'Egitto 6Oracolo sulle bestie del Negheb. In una terra di angoscia e di miseria, della leonessa e del leone che ruggisce, di aspidi e draghi volanti, essi portano le loro ricchezze sul dorso di asini, i loro tesori sulla gobba di cammelli a un popolo che non giova a nulla. 7Vano e inutile è l’aiuto dell’Egitto; per questo lo chiamo «Raab l’ozioso».

La vera alternativa 8Su, vieni, scrivi questo su una tavoletta davanti a loro, incidilo sopra un documento, perché resti per il futuro in testimonianza perenne. 9Poiché questo è un popolo ribelle. Sono figli bugiardi, figli che non vogliono ascoltare la legge del Signore. 10Essi dicono ai veggenti: «Non abbiate visioni» e ai profeti: «Non fateci profezie sincere, diteci cose piacevoli, profetateci illusioni! 11Scostatevi dalla retta via, uscite dal sentiero, toglieteci dalla vista il Santo d’Israele». 12Pertanto dice il Santo d’Israele: «Poiché voi rigettate questa parola e confidate nella vessazione dei deboli e nella perfidia, ponendole a vostro sostegno, 13ebbene questa colpa diventerà per voi come una breccia che minaccia di crollare, che sporge su un alto muro, il cui crollo avviene in un attimo, improvvisamente, 14e s’infrange come un vaso di creta, frantumato senza misericordia, così che non si trova tra i suoi frantumi neppure un coccio con cui si possa prendere fuoco dal braciere o attingere acqua dalla cisterna». 15Poiché così dice il Signore Dio, il Santo d’Israele: «Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nell’abbandono confidente sta la vostra forza». Ma voi non avete voluto, 16anzi avete detto: «No, noi fuggiremo su cavalli». Ebbene, fuggite! «Cavalcheremo su destrieri veloci». Ebbene, più veloci saranno i vostri inseguitori. 17Mille saranno come uno solo di fronte alla minaccia di un altro, per la minaccia di cinque vi darete alla fuga, finché resti di voi qualcosa come un palo sulla cima di un monte e come un’asta sopra una collina.

La salvezza futura 18Eppure il Signore aspetta con fiducia per farvi grazia, per questo sorge per avere pietà di voi, perché un Dio giusto è il Signore; beati coloro che sperano in lui. 19Popolo di Sion, che abiti a Gerusalemme, tu non dovrai più piangere. A un tuo grido di supplica ti farà grazia; appena udrà, ti darà risposta. 20Anche se il Signore ti darà il pane dell’afflizione e l’acqua della tribolazione, non si terrà più nascosto il tuo maestro; i tuoi occhi vedranno il tuo maestro, 21i tuoi orecchi sentiranno questa parola dietro di te: «Questa è la strada, percorretela», caso mai andiate a destra o a sinistra. 22Considererai cose immonde le tue immagini ricoperte d’argento; i tuoi idoli rivestiti d’oro getterai via come un oggetto immondo. «Fuori!», tu dirai loro. 23Allora egli concederà la pioggia per il seme che avrai seminato nel terreno, e anche il pane, prodotto della terra, sarà abbondante e sostanzioso; in quel giorno il tuo bestiame pascolerà su un vasto prato. 24I buoi e gli asini che lavorano la terra mangeranno biada saporita, ventilata con la pala e con il vaglio. 25Su ogni monte e su ogni colle elevato scorreranno canali e torrenti d’acqua nel giorno della grande strage, quando cadranno le torri. 26La luce della luna sarà come la luce del sole e la luce del sole sarà sette volte di più, come la luce di sette giorni, quando il Signore curerà la piaga del suo popolo e guarirà le lividure prodotte dalle sue percosse.

Venuta liberatrice del Signore 27Ecco il nome del Signore venire da lontano, ardente è la sua ira e gravoso il suo divampare; le sue labbra traboccano sdegno, la sua lingua è come un fuoco divorante. 28Il suo soffio è come un torrente che straripa, che giunge fino al collo, per vagliare i popoli con il vaglio distruttore e per mettere alle mascelle dei popoli una briglia che porta a rovina. 29Voi innalzerete il vostro canto come nella notte in cui si celebra una festa; avrete la gioia nel cuore come chi parte al suono del flauto, per recarsi al monte del Signore, alla roccia d’Israele. 30Il Signore farà udire la sua voce maestosa e mostrerà come colpisce il suo braccio con ira ardente, in mezzo a un fuoco divorante, tra nembi, tempesta e grandine furiosa. 31Poiché alla voce del Signore tremerà l’Assiria, quando il Signore percuoterà con la verga. 32Ogni colpo del bastone punitivo, che il Signore le farà piombare addosso, sarà accompagnato con tamburelli e cetre. Egli combatterà contro di essa con battaglie tumultuose. 33Il Tofet, infatti, è preparato da tempo: esso è pronto anche per il re. Profondo e largo è il rogo, fuoco e legna abbondano. Lo accenderà, come torrente di zolfo, il soffio del Signore.

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Approfondimenti

Contro i figli ribelli 30,1-5 Come il c. 29 anche il c. 30 fa seguire alla minaccia del giudizio (v. 1-17) l'annuncio della futura salvezza del Signore (vv. 18-26) che segnerà la fine di ogni potere oppressore (v. 27-32). La minaccia del giudizio è costituita da cinque detti originariamente indipendenti (1-5; 6-7; 8-11; 12-14 e 15-17), che il redattore ha riunito considerandoli tra loro complementari. I vv. 1-5 sono un detto di minaccia che presenta una perfetta regolarità nei suoi elementi tipici. Come 29,14; 31,1.3 e 33,1, questo detto, autentico, si riferisce agli intrighi politici che si svilupparono dopo la morte di Sargon II e che videro coinvolto anche il regno di Giuda.

1-2. L'agire dei responsabili, che progettano e stipulano alleanze senza cercare la volontà del Signore (manifestata per mezzo del profeta; cfr. 1Re 22), si configura come ribellione del figlio al padre, un crimine per il quale la futura legislazione deuteronomica, codificando un'antica norma di origine tribale, prevederà la pena di morte (Dt 21,18-21). L'espressione «figli ribelli» implica quindi di per sé la condanna di coloro che cercano un rifugio e un aiuto in un piano che non è in sintonia con il disegno del Signore. Tale è appunto l'alleanza con l'Egitto nella persona del suo faraone, identificato con l'etiope Shabako.

3-5. Il linguaggio di questi versetti richiama da vicino quello della polemica antidolatrica (cfr. 1Sam 12,21; Is 44,9-10; 47,12; 48,17; 57,12; Ger 2,8.11; 7,8; 11,19 e, soprattutto, Ab 2,18-19). È probabile che essi siano un aggiunta che prospetta il pericolo di divinizzare e, quindi, idolatrare il faraone oppressore. Solo il Signore è protezione e riparo perché dischiude sempre nuovi orizzonti di libertà e autenticità a quanti in lui si rifugiano.

Vano è l'aiuto dell'Egitto 30,6-7 Il detto sviluppa lo stesso tema e suppone la stessa situazione dei vv. 1-5. Per questo esso è comunemente ritenuto autentico e posto negli anni 705-701. Il v. 6 sembra alludere alla via percorsa dagli inviati di Ezechia per scendere in Egitto (cfr. v. 2). Chiamando l'Egitto con il nome «Raab», il mostro mitico che personificava le forze del caos, antitetiche alla creazione (cfr. Is 51,9; Gb 9,13), il profeta si innalza alle vette di una forte visione teologica. Quando il popolo del Signore non vive nel dinamismo della fede, apre la porta alle potenze del male che minacciano di introdurre nella sua storia la rovina e il caos. La fede nel Signore, che riduce «Raab» all'inattività, rende possibile guardare al futuro con la luce della speranza.

La vera alternativa 30,8-17 Preparata dalla contrapposizione tra JHWH e «Raab», la nostra pericope descrive la vera alternativa nella quale Israele è chiamato a sviluppare la scelta esistenziale della fede. Sotto il profilo letterario non si tratta di un brano unitario, ma di una “composizione” redazionale. La nota formula del messaggero, presente con alcune varianti nei vv. 12 e 15, consente di individuare tre unità originariamente indipendenti e ora riunite come parti di un unico messaggio: vv. 8-11; 12-14; 15-17. In esse si riflettono essenzialmente gli interventi del profeta negli anni 705-701, mentre la loro attuale “composizione” deriva da una forte reinterpretazione deuteronomistica che ricorre alla parola di Isaia per spiegare la caduta di Gerusalemme.

8-11. Probabilmente l'ordine di scrivere su una tavoletta (v. 8), che richiama da vicino 8,1.16, non si riferisce all'iscrizione di una parola o di una breve frase (nel qual caso si dovrebbe pensare all'espressione «Raab l'ozioso» del v. 7), ma intende un «documento» che contiene il messaggio del profeta connesso con gli eventi del 705-701. Il documento scritto serve come «testimonianza perenne» dell'autenticità delle parole di Isaia e della colpa del popolo che si è chiuso all'annuncio della parola.

12-14. I versetti sono un detto di giudizio connesso redazionalmente («Pertanto») ai versetti precedenti. La colpa del popolo consiste in ciò che Isaia considera “ripudio” della parola profetica, un atteggiamento che porta i destinatari non solo a chiudersi al messaggio, ma a «rigettarlo» perché indegno di essere «scelto» come criterio di vita (il verbo «rigettare» è antitetico a quello dell'elezione).

15-17. L'invettiva del v. 15, autentica, si condensa nella frase «voi non avete voluto» con cui si esprime la chiusura del popolo alla sua salvezza, che il profeta descrive così: «nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nell’abbandono confidente sta la vostra forza». Il ritornare al Signore, il rimanere serenamente fedeli alla sua parola in mezzo alle prove, sviluppando a livello esistenziale un «abbandono confidente» nella potenza salvifica del Signore: sono questi gli atteggiamenti propri di chi, nella fede, accetta Dio come la sua unica sicurezza (cfr. 7,9b). Il v. 16, probabilmente deuteronomistico, vede la mancanza di fede nella fiducia che l'uomo pone nei propri mezzi e nelle proprie capacità di salvezza. Mentre Isaia minaccia un grave castigo nel quale solo Gerusalemme è risparmiata dalla distruzione (v. 17b), la rilettura deuteronomistica con l'iperbole di mille gettati nel panico da uno solo (v. 17a) richiama, invertendoli, i motivi della guerra sacra (cfr. Dt 32,30) per spiegare la catastrofe del 586. Le immagini isaiane di «un palo sulla cima di un monte» e di «un'asta sopra una collina» esprimono nell'ottica deuteronomistica il drammatico effetto della distruzione di Gerusalemme, ridotta a un cumulo di rovine. L'appello alla fede, con cui Isaia orientava il popolo a percorrere fiducioso le vie dischiuse dalla parola del Signore, acquista ora un nuovo spessore e porterà i suoi frutti nella teologia deuteronomistica dell'esilio e del primo periodo postesilico (cfr. Dt 4; 30).

La salvezza futura 30,18-26 Il v. 18, che suppone il travaglio dell'esilio, è una promessa e pone il futuro del popolo nella luce dell'amore fedele e misericordioso del Signore. Questa promessa di salvezza è stata ampliata nel periodo postesilico dai vv. 19-24, cui venne aggiunta, in seguito, la reinterpretazione escatologica dei vv. 25-26.

18. La bellezza del nostro versetto è data dall'inclusione formata dalla radice verbale che significa «aspettare», «attendere» («aspetta», «spera»). Il Signore attende di «essere propizio (fare grazia)» al suo popolo, egli «sorge» con la sua potenza (cfr. Nm 10,35) per rendere salvificamente operante la sua tenerezza. Perciò egli è proclamato, unico caso in tutta la Scrittura, «Dio di giustizia (Dio giusto)»: colui che, fedele alle sue promesse, realizza la sal-vezza. La contemplazione del Signore che attende il suo popolo culmina nella beatitudine di coloro che lo «attendono (sperano)» affidandosi totalmente alla sua parola. La loro attesa, in sintonia con il disegno divino, non sarà delusa.

19-24. L'autore si rivolge alla comunità cultuale, quale rappresentante di tutto il popolo del Signore. Con un linguaggio che riflette la teologia del Sal 107, il testo assicura la comunità che la sua preghiera sarà esaudita (cfr. Sal 107,6) e, pur in mezzo alle angustie, rivivrà l'esperienza dell'esodo, essendo nutrita e guidata dal suo Dio (vv. 20-21; cfr. Sal 107,5-7). In tale contesto il nostro autore sviluppa il suo messaggio specifico. La comunità vivrà alla presenza del Signore, che non si terrà più nascosto, ma si manifesterà ad essa come il suo “maestro”. Questa prospettiva suggerisce che il nostro testo si richiama alla promessa geremiana della nuova alleanza nella quale si annuncia che tutti «conosceranno» il Signore (Ger 31,31-34); cfr. Ez 36,24-28; Dt 30,6-14; Is 54,4-13.

25-26. Si sviluppa la prospettiva della salvezza nei temini propri della profezia escatologica. «La luce della luna... del sole»: questo motivo, che è presente solo qui nella Scrittura, mentre sarà ripreso nell'apocalittica giudaica (cfr. Libro dei Giubilei 1,29; 19,25; 1Enoch 91,16), caratterizza il giorno nel quale il Signore cura la ferita del suo popolo.

Venuta liberatrice del Signore 30,27-33 Questa unità, delimitata dal presentativo «Ecco» (v. 27) e dal termine «Guai», che in 31,1 segna l'inizio di un nuovo detto, continua l'annuncio salvifico del brano precedente presentando il Signore che viene per punire i popoli oppressori, in particolare l'Assiria. Una serie di elementi orienta a ritenere il brano di epoca recente, quando i testi profetici erano letti in prospettiva escatologica o, come sembra più probabile, in un'ottica già apocalittica. Tuttavia non si può escludere che l'unità abbia inglobato un detto risalente alla redazione giosiana. Tale detto, se l'ipotesi è valida, va cercato nei vv. 27a.29-31, dove l'annuncio della punizione divina inferta all'Assiria presenta, sia a livello linguistico che teologico, forti risonanze deuteronomistiche.

27-28. Il testo contiene una solenne teofania che pone l'intervento del Signore nella luce della grandiosa liberazione dall'Egitto. Il Signore viene nella sua «ira ardente» che si manifesta nelle «sue labbra», nella «sua lingua» (dunque nell'efficacia della sua parola) e nella potenza del suo soffio (il termine può anche significare «spirito e così sarà inteso da successive reinterpretazioni apocalitiche). L'immagine del torrente le cui acque «giungono fino al collo» (cfr. Sal 69,2) mostra che da tale potenza si svilupperà una forza distruttrice.

29. Secondo questo versetto la venuta del Signore inaugura l'era della liberazione di Israele. Il titolo «Roccia di Israele» ricorre altrove solo nel testo recente di 2Sam 23,3. Esso esprime con grande efficacia l'esperienza della fede che trova nel Signore l'unica fonte della propria sicurezza e della propria gioia.

30-33. La punizione dell'«Assiria»: nella redazione attuale essa è simbolo della potenza storica che opprime il popolo del Signore. Il v. 33, che in origine si riallacciava al v. 31, descrive la salvezza divina con l'immagine del «Tofet», situato nella valle di Innom (o Geenna), dove è preparato il fuoco che il Signore stesso accenderà nel tempo stabilito per annientare ogni potere oppressore.

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Giudizio e salvezza di Gerusalemme 1Guai ad Arièl, ad Arièl, città dove si accampò Davide! Aggiungete anno ad anno, si avvicendino i cicli festivi. 2Io metterò alle strette Arièl, ci saranno gemiti e lamenti. Sarà per me come Arièl: 3io mi accamperò tutt’intorno contro di te e ti circonderò di trincee, innalzerò contro di te un vallo. 4Allora prostrata parlerai dalla terra, e dalla polvere saliranno le tue parole; sembrerà di un fantasma la tua voce dalla terra, e dalla polvere la tua parola risuonerà come bisbiglio. 5Sarà come polvere fine la massa dei tuoi nemici e come pula dispersa la massa dei tuoi tiranni. Ma d’improvviso, subito, 6dal Signore degli eserciti sarai visitata con tuoni, rimbombi e rumore assordante, con uragano e tempesta e fiamma di fuoco divoratore. 7E sarà come un sogno, come una visione notturna, la massa di tutte le nazioni che marciano contro Arièl, di quanti l’attaccano e la stringono d’assedio. 8Avverrà come quando un affamato sogna di mangiare, ma si sveglia con lo stomaco vuoto, e come quando un assetato sogna di bere, ma si sveglia stanco e con la gola riarsa: così succederà alla massa di tutte le nazioni che marciano contro il monte Sion.

Condanna per la cecità davanti al Signore 9Fermatevi e stupitevi, accecatevi e rimanete ciechi; ubriacatevi ma non di vino, barcollate ma non per effetto di bevande inebrianti. 10Poiché il Signore ha versato su di voi uno spirito di torpore, ha chiuso i vostri occhi, cioè i profeti, e ha velato i vostri capi, cioè i veggenti. 11Per voi ogni visione sarà come le parole di un libro sigillato: si dà a uno che sappia leggere dicendogli: «Per favore, leggilo», ma quegli risponde: «Non posso, perché è sigillato». 12Oppure si dà il libro a chi non sa leggere dicendogli: «Per favore, leggilo», ma quegli risponde: «Non so leggere».

Contro il culto esteriore 13Dice il Signore: «Poiché questo popolo si avvicina a me solo con la sua bocca e mi onora con le sue labbra, mentre il suo cuore è lontano da me e la venerazione che ha verso di me è un imparaticcio di precetti umani, 14perciò, eccomi, continuerò a operare meraviglie e prodigi con questo popolo; perirà la sapienza dei suoi sapienti e si eclisserà l’intelligenza dei suoi intelligenti».

Contro un agire assurdo 15Guai a quanti vogliono sottrarsi alla vista del Signore per dissimulare i loro piani, a coloro che agiscono nelle tenebre, dicendo: «Chi ci vede? Chi ci conosce?». 16Che perversità! Forse che il vasaio è stimato pari alla creta? Un oggetto può dire del suo autore: «Non mi ha fatto lui»? E un vaso può dire del vasaio: «Non capisce»?

La salvezza è vicina 17Certo, ancora un po’ e il Libano si cambierà in un frutteto e il frutteto sarà considerato una selva. 18Udranno in quel giorno i sordi le parole del libro; liberati dall’oscurità e dalle tenebre, gli occhi dei ciechi vedranno. 19Gli umili si rallegreranno di nuovo nel Signore, i più poveri gioiranno nel Santo d’Israele. 20Perché il tiranno non sarà più, sparirà l’arrogante, saranno eliminati quanti tramano iniquità, 21quanti con la parola rendono colpevoli gli altri, quanti alla porta tendono tranelli al giudice e rovinano il giusto per un nulla. 22Pertanto, dice alla casa di Giacobbe il Signore, che riscattò Abramo: «D’ora in poi Giacobbe non dovrà più arrossire, il suo viso non impallidirà più, 23poiché vedendo i suoi figli l’opera delle mie mani tra loro, santificheranno il mio nome, santificheranno il Santo di Giacobbe e temeranno il Dio d’Israele. 24Gli spiriti traviati apprenderanno la sapienza, quelli che mormorano impareranno la lezione».

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Approfondimenti

Giudizio e salvezza di Gerusalemme 29,1-8 Il brano è composto da due strofe. I vv. 1-4 sono un detto «Guai» che annuncia l'assedio di Gerusalemme, interpretato teologicamente come giudizio divino, mentre i vv. 5-8 sono una promessa di salvezza che prospetta il totale fallimento degli attacchi delle nazioni contro Gerusalemme. La prima strofa, sostanzialmente autentica, riflette l'annuncio di Isaia tra il 703, anno della defezione di Ezechia da Sennacherib, e il 701, anno in cui il re assiro levò l'assedio da Gerusalemme. I vv. 5-7, invece, appartengono alla redazione giosiana. Il v. 8, infine, è un'aggiunta che reinterpreta il v. 7.

1. «Ariel» il nome viene interpretato come “leone di Dio”, “dono di Dio”, “potente”, “altare di Dio”, “cuore dell'altare” o solo “altare”. È presente diverse volte nell'Antico Testamento, dov'è usato sia come nome di persona (2Sam 23,20 e 1Cr 11,22, Esd 8,16), sia per indicare la città di Gerusalemme (Is 29,1). Viene portato anche da un arcangelo della tradizione apocrifa giudaico-cristiana. Qui il nome si riferisce a Gerusalemme, la città che dal tempo in cui Davide si era accampato contro di essa, per conquistarla (v. 1a; cfr. 2Sam 5,6-7), non aveva più conosciuto né assedio né sconfitta. Ora, nel volgere di un anno o due, nonostante le solenni feste di pellegrinaggio (v.1b), il Signore stesso assedierà Gerusalemme riempiendo la città di lamenti e gemiti (v. 2; cfr. Lam 2,5). L'intervento del Signore, come tutte le altre volte in Isaia, si compie per mezzo del re assiro.

2. L'ultimo stico è probabilmente un'aggiunta che rilegge la minaccia di Isaia alla luce della caduta di Gerusalemme e vede nella città in preda all'incendio e alla distruzione il vero «Ariel». In altri termini la città è diventata come l'altare dove le vittime sacrificali sono immolate e consumate dal fuoco (cfr. Ez 43,15-16). Il fatto che Gerusalemme sia tutto ciò per il Signore («per me») rivela che tale aggiunta reinterpreta l'annuncio isaiano del giudizio. Attraverso la distruzione, il popolo è diventato un'offerta sacrificale al Signore, preludio della dispersione e distruzione dei nemici. Non è da escludere che il nome «Ariel», che compare nella nostra pericope, sia dovuto alla stessa mano redazionale che intese caratterizzare tutto il brano con la sua prospettiva teologica.

5-7. Vi è un annuncio di salvezza, che riecheggia il linguaggio e la concezione del movimento deuteronomistico, e perciò può essere attribuito alla redazione giosiana. Si offre un'interpretazione teologica della liberazione di Gerusalemme dall'esercito assiro nel 701.

Condanna per la cecità davanti al Signore 29,9-12

9-10. È un'accusa pronunciata probabilmente da Isaia dopo che il regno di Giuda si ribellò contro Sennacherib. La durezza del linguaggio è un segno che il profeta parla con l'intento di risvegliare negli uditori la coscienza della propria responsabilità davanti al Signore e alla sua parola. I destinatari dell'accusa non sono esplicitamente nominati. Dal contesto, però, risulta che essa riguarda soprattutto la classe dominante, dalla quale in definitiva erano determinate le scelte politiche dello stato.

11-12. Si tratta di un frammento in prosa che offre una spiegazione secondaria della cecità condannata nei vv. 9-10. Il motivo del libro sigillato appartiene all'immaginario apocalitico (cfr. Dn 12,9): un autore apocalittico attualizza la parola del profeta scorgendo nella chiusura del popolo verso «ogni visione» un segno della sua cecità. Solo chi ha questa visione (cioè l'apocalittico) potrà aprire i sigilli e leggere il libro, comunicando la rivelazione definitiva del Signore e del suo disegno.

Contro il culto esteriore 29,13-14 Il testo è chiaramente delimitato dalla formula «Dice il Signore» del v. 13 e dal «Guai» del v. 15, che segna l'inizio di una nuova pericope. Il nostro detto e un annuncio del giudizio che per vocabolario, stile e bellezza artistica (cfr. le antitesi del v. 13b) è ritenuto autentico e probabilmente è stato pronunciato quando l'esercito di Sennacherib si era già avvicinato a Gerusalemme.

13. Si indica la causa per la quale sulla città sovrasta il giudizio. Il cammino con cui l'uomo si avvicina al Signore non si manifesta solo in una pietà cultuale esteriore, ma coinvolge l'interiorità dell'uomo, secondo il ricco significato simbolico che il termine «cuore» ha nei testi dell'Antico Oriente e nella stessa Scrittura. Tale esigenza di interiorità e autenticità, che sarà ripresa con particolare enfasi nell'esortazione di Dt 6,4-5, suppone una coerenza esistenziale grazie alla quale la vita del credente è in sintonia con le istanze della parola del Signore. Mancando questa sintonia vitale, il culto, da luogo di incontro con il Signore (cfr. Dt 29,3), si riduce a un ritualismo formalistico, scade a livello di «usi umani» e non è più l'ambito dove la santità divina, mediante la parola, raggiunge l'uomo e lo trasforma (cfr. Is 6).

14. L'annuncio del giudizio (v. 14) si concentra nella forma verbale che qui non significa «operare prodigi» (cfr. Sal 4,4; 17,7 e soprattutto, 77,15) ma «realizzare un'opera inaudita» (cfr. 28,29). L'inaudito è che il Signore, che ha compiuto le meraviglie dell'esodo per il suo popolo, ora si volge contro di esso. I «sapienti» e «intelligenti» sono i consiglieri politici del re che ponendo la sicurezza nei loro piani hanno smarrito la certezza vera, che l'uomo sperimenta quando si apre al Signore.

Contro un agire assurdo 29,15-16 La condanna dei capi perché vogliono tenere nascosti i loro piani al popolo e allo stesso profeta, sottraendosi così alla volontà del Signore, orienta a collocare questo detto nel tempo in cui le truppe di Sennacherib si trovavano in Giuda e il re Ezechia mandò una missione al faraone Shabako per intavolare trattative segrete di alleanza. Il profeta scorge in questo tentativo un segno ulteriore della volontà dei responsabili di crearsi un ambito di vita “nascosto” al Signore, dove elaborare i propri piani e pro-getti. L'invettiva del v. 16 si condensa in un'esclamazione che indica la perversa assurdità di una simile condotta, nella quale l'uomo si illude di potersi sottrarre impunemente al disegno divino.

La salvezza è vicina 29,17-24 I presenti versetti nella posizione che occupano attualmente creano un forte contrasto con i vv. 9-16. Il futuro del popolo del Signore non è rinchiuso nella minaccia del giudizio, ma è aperto alla salvezza. La sezione non è autentica, dato il suo evidente carattere antologico che si ispira a vari passi della «Visione di Isaia». Inoltre la prospettiva in cui si muove l'annuncio della salvezza riflette una fase non lontana dalla maturazione apocalittica.

17-18. Si annuncia che la grande svolta è ormai vicina. L'affermazione «ancora un poco» mostra che l'autore del brano si rivolge al popolo mentre si trova ancora in una situazione di angustia, nella quale rischia di perdere la fiducia e la speranza. L'era della salvezza che sta per giungere si manifesterà nella trasformazione della natura (v. 17). In questo scenario simbolico il v. 18 assicura che «in quel giorno» (l'espressione qui non è segno di un'aggiunta redazionale, ma fa parte integrante del discorso iniziato nel v. 17) il castigo annunciato in Is 6,10 e richiamato in 29,9-12 sarà definitivamente superato.

19-21. La descrizione della salvezza si sviluppa in tre motivi. Anzitutto l'autore contempla l'esultanza degli umili ('ănawim). Qui il termine non ha più un significato esclusivamente sociale (povero), ma presenta una valenza teologica: gli umili sono coloro che, nel momento della loro angustia, hanno confidato nel Signore, perseverando nell'attesa della sua salvezza (v. 19). A questa gioia si contrappone la sparizione dei tiranni e dei «beffardi» (v. 20). La rovina degli oppressori comporta, infine, l'eclisse dei giudici iniqui che manipolano i processi per salvare il colpevole e condannare l'innocente (v. 21). Il fatto che proprio in questo contesto riaffiori la critica profetica contro ogni forma di ingiustizia e oppressione è certamente significativo. L'interpretazione teologica dei termini «umili» e «poveri» si sviluppa autenticamente nella misura in cui prende sul serio l'istanza profetica di un mondo plasmato dalla giustizia e dalla fraternità.

22-24. I versetti sono stati aggiunti in periodo successivo per confermare l'annuncio salvifico precedente. In sintonia con il v. 18 la salvezza viene presentata come un vedere «il lavoro» del Signore, cioè l'agire del Signore nella storia e, in particolare, i suoi interventi salvifici per il suo popolo. La comprensione e l'accoglienza dell'opera del Signore porta i fedeli a «santificare» il nome di JHWH, in altri termini a vivere secondo il dono della salvezza ricevuta. Tale significato, che è sviluppato magistralmente in Ez 36,23-28, è inteso anche nel nostro brano, come si evince dall'evidente parallelismo tra le locuzioni «santificheranno il Santo di Giacobbe» e «temeranno il Dio di Israele». Quest'ultima locuzione, che è una variante della formula «temere il Signore», connota il rapporto vitale e autentico che unisce Israele al suo Dio nell'adorazione e nella fedeltà della vita.

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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POEMI SU ISRAELE E SU GIUDA

Contro la corona di Efraim 1Guai alla corona superba degli ubriachi di Èfraim, al fiore caduco, suo splendido ornamento, che domina la fertile valle, o storditi dal vino! 2Ecco, inviato dal Signore, un uomo potente e forte, come nembo di grandine, come turbine rovinoso, come nembo di acque torrenziali e impetuose, getta tutto a terra con violenza. 3Dai piedi verrà calpestata la corona degli ubriachi di Èfraim. 4E avverrà al fiore caduco, al suo splendido ornamento, che domina la valle fertile, come a un fico primaticcio prima dell’estate: uno lo vede e lo mangia appena lo ha in mano. 5In quel giorno sarà il Signore degli eserciti una corona di gloria, uno splendido diadema per il resto del suo popolo, 6ispiratore di giustizia per chi siede in tribunale, forza per chi respinge l’assalto alla porta.

Contro i beffardi ubriachi 7Anche costoro barcollano per il vino, vacillano per le bevande inebrianti. Sacerdoti e profeti barcollano per la bevanda inebriante, sono annebbiati dal vino; vacillano per le bevande inebrianti, s’ingannano mentre hanno visioni, traballano quando fanno da giudici. 8Tutte le tavole sono piene di fetido vomito; non c’è un posto pulito. 9«A chi vuole insegnare la scienza? A chi vuole far capire il messaggio? Ai bambini svezzati, appena staccati dal seno? 10Sì: precetto su precetto, precetto su precetto, norma su norma, norma su norma, un po’ qui, un po’ là». 11Con labbra balbettanti e in lingua straniera parlerà a questo popolo 12colui che aveva detto loro: «Ecco il riposo! Fate riposare lo stanco. Ecco il sollievo!». Ma non vollero udire. 13E sarà per loro la parola del Signore: «Precetto su precetto, precetto su precetto, norma su norma, norma su norma, un po’ qui, un po’ là», perché camminando cadano all’indietro, si producano fratture, siano presi e fatti prigionieri.

Contro i capi del popolo 14Perciò ascoltate la parola del Signore, uomini arroganti, signori di questo popolo che sta a Gerusalemme. 15Voi dite: «Abbiamo concluso un’alleanza con la morte, e con gli inferi abbiamo fatto lega. Il flagello del distruttore, quando passerà, non ci raggiungerà, perché ci siamo fatti della menzogna un rifugio e nella falsità ci siamo nascosti». 16Pertanto così dice il Signore Dio: «Ecco, io pongo una pietra in Sion, una pietra scelta, angolare, preziosa, saldamente fondata: chi crede non si turberà. 17Io porrò il diritto come misura e la giustizia come una livella. La grandine spazzerà via il vostro rifugio fallace, le acque travolgeranno il vostro riparo. 18Sarà annullata la vostra alleanza con la morte; la vostra lega con gli inferi non reggerà. Quando passerà il flagello del distruttore, voi sarete una massa da lui calpestata. 19Ogni volta che passerà, vi prenderà, poiché passerà ogni mattino, giorno e notte. E solo il terrore farà capire il messaggio». 20Troppo corto sarà il letto per distendersi, troppo stretta la coperta per avvolgersi. 21Poiché come sul monte Perasìm si leverà il Signore; come nella valle di Gàbaon si adirerà per compiere l’opera, la sua opera singolare, e per eseguire il lavoro, il suo lavoro inconsueto. 22Ora cessate di agire con arroganza perché non si stringano di più le vostre catene, perché un decreto di rovina io ho udito, da parte del Signore, Dio degli eserciti, riguardo a tutta la terra.

Il consiglio del Signore 23Porgete l’orecchio e ascoltate la mia voce, fate attenzione e sentite le mie parole. 24Forse tutti i giorni l’aratore ara per seminare, rompe e sarchia la terra? 25Forse non ne spiana la superficie, non vi semina l’anéto e non vi sparge il cumìno? E non vi pone grano, miglio e orzo e spelta lungo i confini? 26Gli insegna la regola e lo ammaestra il suo Dio. 27Certo, l’anèto non si batte con il tribbio, né si fa girare sul cumìno il rullo, ma con il bastone si batte l’anèto e con la verga il cumìno. 28Il frumento vien forse schiacciato? Certo, non lo si pesta senza fine, ma vi fanno passare sopra il rullo e le bestie, senza schiacciarlo. 29Anche questo proviene dal Signore degli eserciti: egli si mostra mirabile nei suoi disegni, grande nella sua sapienza.

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Approfondimenti

POEMI SU ISRAELE E SU GIUDA 28,1- 33,24 La sezione dei cc. 28-33 contiene un'importante raccolta di detti che generalmente riflettono l'ultimo periodo dell'attività di Isaia, al tempo del re Ezechia. Il profeta appare impegnato a tradurre l'esigenza della fede nel concreto delle scelte politiche, sociali e religiose. Solo il detto di 28,1-4 deriva da un periodo precedente ed è stato messo qui a motivo del tema dell'ubriachezza, sviluppato nella pericope successiva. Oltre 28,1-4 provengono da Isaia i seguenti detti: 28,7-12; 28,14-18; 29,1-4.9-10; 29,13-14; 29,15-16; 30,1-5; 30,6-7.8; 30,(8)9-17; 31,1-3. Nella nostra sezione si incontrano anche alcune reinterpretazioni aggiunte che appartengono alla redazione giosiana. Esse sono: 29,5-9; 31,4-5.8-9.

Contro la corona di Efraim 28,1-6 I vv. 1-6 formano un'unità kerygmatica costituita da un detto autentico di Isaia (vv. 1-4) contro Efraim e da una sua reinterpretazione (vv. 5-6). In base al suo contenuto il testo è da collocare verso il 724, poco prima dell'assedio di Samaria ad opera di Salmanassar.

1-4. Samaria è chiamata «corona», con evidente riferimento alla posizione collinare della città, circondata da alte mura e quindi paragonabile a una di quelle ghirlande di fiori che i commensali si ponevano sul capo durante i banchetti (cfr. Am 3,9.15; Os 7,5-7). Il titolo, usato qui in senso ironico, caratterizza l'atteggiamento orgoglioso della città che chiude gli occhi alla propria situazione drammatica abbandonandosi a un'ebbrezza sfrenata. L'espressione parallela «fiore caduco» sottindende che la città ha perso la grandezza e il fasto di un tempo e che la sua fine è ormai vicina, ad opera di un uomo «potente e forte» che «getta tutto a terra con violenza», cioè il re assiro (v. 2). Se il profeta non ne indica esplicitamente il nome, sottolinea, però che l'«uomo forte» è inviato dal Signore. Nella caduta di Samaria si attua quindi il giudizio di JHwH che il popolo attira su di sé con il suo orgoglio e la sua irresponsabilità.

5-6. Sono un'aggiunta che si connette ai versetti precedenti per offrirne una profonda reinterpretazione. Secondo quest'aggiunta, che risale al periodo postesilico, il Signore stesso sarà «corona di gloria» per il «resto del suo popolo» (v. 5). Quanto la predicazione profetica sulla giustizia e la prospettiva isaiana della fede siano rimaste vive nella tradizione di Israele appare proprio da questi versetti dove il «resto», che pone la propria gloria nel Signore, è spinto a praticare la giustizia e riceve dal suo Dio la forza necessaria per respingere ogni assalto nemico. Giustizia, forza e speranza caratterizzano la vita del popolo che non cerca in se la propria sicurezza, ma ha il Signore come propria corona e diadema.

Contro i beffardi ubriachi 28,7-13 In questa pericope i vv. 7b-12, sicuramente autentici, contengono un'amara invettiva di Isaia contro i sacerdoti e i «profeti», che si abbandonano al vizio del bere e non trasmettono più la rivelazione del Signore. Il v. 7a è stato aggiunto quando nella presente raccolta furono inseriti i vv. 1-4. Anche il v. 13, formato dalla combinazione del v. 10 con 8,15, rappresenta un ampliamento secondario.

7-8. Il quadro di avvilente degradazione risulta soprattutto grave per i protagonisti che ne sono coinvolti: i sacerdoti e i profeti cultuali, con i quali Isaia non si è mai identificato, rifiutando per sé l'appellativo di nabî', profeta. Solo a partire dal tempo di Geremia, scomparso ogni pericolo di confusione, il termine nabî' sarà adoperato per indicare uomini come Amos, Osea, Isaia e Michea, per i quali la missione profetica è direttamente connessa con la loro esperienza di vocazione. L'immagine di profeti e sacerdoti che vacillano nella visione e traballano nelle loro sentenze, rivela lo stato drammatico del popolo privo delle necessarie guide spirituali.

9-10. La situazione appare nella sua tragica gravità nei v. 9-10, dove i sacerdoti e i profeti, ubriachi, si burlano del profeta. Per essi egli si illude di «insegnare la scienza» (era compito specifico del sacerdote far “conoscere” il disegno divino) e di «insegnare la scienza e far capire il messaggio» (ritenuto compito proprio dei “profeti cultuali”). Essi non sono bambini appena svezzati e quindi si ritengono rispettivamente esperti nel campo della scienza e in quello della visione (v. 9). Il senso del v. 10 dipende dall'interpretazione della frase. Secondo alcuni la prima parte allude al carattere moralistico della predicazione isaiana, mentre la seconda ironizza sulle promesse salvifiche del profeta. Secondo altri, invece, la frase sviluppa ulteriormente l'allusione ai bambini svezzati, in quanto le parole usate servivano ad apprendere le lettere “S” e “Q” nell'insegnamento dell'alfabeto ebraico. Secondo questa interpretazione i sacerdoti e i profeti deridono la predicazione di Isaia, come se fosse la ripetizione («un po' qui, un po là») di parole puerili, che non reggono di fronte al loro messaggio.

11-12. L'ultima parte del detto contiene anzitutto l'annuncio del giudizio (v. 11). Il Signore si rivolgerà ancora al popolo, che ha rifiutato la sua parola, «in lingua straniera»: una chiara allusione all'Assiria che il profeta considera come lo strumento con cui Dio compie il suo giudizio contro il suo popolo. Secondo il v. 12, che offre una sintesi della predicazione isaiana, il profeta ha annunciato al popolo il «riposo» assicurato dalla presenza del Signore in mezzo al suo popolo e nella sua città (Emmanuele). Non ascoltando il profeta, il popolo si è chiuso al dono divino del «riposo»; in altri termini si è chiuso alla fede e, con essa, alla fiducia e alla libertà.

Contro i capi del popolo 28,14-22 Il brano suppone lo stesso contesto storico del precedente; i suoi destinatari però non sono i sacerdoti e i profeti, ma i capi del popolo (cfr. v. 14b) i quali ritengono di essersi garantita la salvezza con le alleanze.

14-15. Il profeta si rivolge direttamente ai capi, apostrofati come «uomini di scherno», perché nella loro arroganza si beffano della parola del profeta. Le espressioni «alleanza con la morte» e «lega con gli inferi» non ricorrono altrove nella Scrittura. Esse, comunque, non intendono alludere a riti occulti in onore del dio ugaritico Mot (Morte) o di Osiride, il dio della morte venerato in Egitto. Le frasi in questione rappresentano una dichiarazione sarcastica con cui Isaia descrive il vanto dei capi che con le loro alleanze (soprattutto con l'Egitto) si sono garantiti contro «il flagello distruttore» (evidente allusione all'esercito assiro). L'ultimo distico del v. 15, anche se in bocca ai capi, riflette il pensiero del profeta. Ogni sicurezza che non si fondi nel Signore equivale a un rifugiarsi nella menzogna e nella falsità e, quindi, non libera dalla rovina che si riteneva definitivamente evitata.

16-18. La risposta del Signore all'arroganza dei capi si articola in due parti. La prima (vv. 16-17a), che contiene una promessa di salvezza, interrompe la sequenza denuncia-condanna, propria di un detto del giudizio, ed è probabilmente un'aggiunta postesilica. Con l'immagine della pietra scelta, saldamente fondata, che il Signore pone in Sion, si annuncia un nuovo tempio (cfr. Sal 87), simbolo del popolo rinnovato secondo le istanze fondamentali dell'alleanza: la fede («chi crede non vacillerà») e la fraternità vissuta secondo le esigenze del diritto e della giustizia (cfr. Os 2,16). Il testo richiama da vicino la descrizione di Gerusalemme «città della giustizia» e «città fedele» di 1,26. La singolare ricchezza teologica di questo passo risulta confermata dal fatto che esso venne in seguito letto in prospettiva messianica. La seconda parte è costituita dal detto originario di Isaia che annuncia, in forma chiastica, il crollo di tutte le illusioni annunciate dai capi nel v. 15.

19-22. Nei presenti versetti sono raccolte alcune reinterpretazioni del messaggio isaiano. Il v. 22 è probabilmente un'aggiunta di natura apocalittica. Il suo autore vede nel giudizio dei v. 14-21 la prefigurazione del giudizio che riguarderà tutta la terra. L'invito a non agire con «arroganza» mostra che anche in questa tarda aggiunta risuona l'energica condanna isaiana di ogni orgoglio dell'uomo che costruisce la propria esistenza senza «ascoltare la parola del Signore».

Il consiglio del Signore 28,23-29 Mediante una parabola agricola la pericope intende spiegare l'opera «singolare» e «inconsueta» del Signore, di cui si parla al v. 21. Certamente i profeti, e tra essi Isaia, si sono richiamati nei loro detti a espressioni e tradizioni sapienziali. Il brano, tuttavia, non può essere attribuito a Isaia sia perché suppone il v. 21, che è esso stesso già un'aggiunta, sia perché si muove chiaramente nel mondo della sapienza. Ne sono un segno evidente sia la formula sapienziale di invito all'ascolto (v. 23), sia la proclamazione del consiglio e della «sapienza» del Signore (v. 29).

23-26. La parabola si presenta con una struttura armonicamente elaborata. Dopo la formula sapienziale di invito all'ascolto (v. 23), diversa dalla formula introduttiva dell'insegnamento profetico (cfr. v. 14), la parabola descrive, con una domanda retorica, il procedere del contadino che rispetta i tempi per arare e seminare nel modo appropriato (vv. 24-25). Il v. 26, che conclude la prima parte, afferma che il Signore «insegna» al contadino la «perizia» necessaria per compiere il lavoro secondo la norma (letteralmente «il diritto»).

27-29. La seconda parte della parabola (vv. 27-28) descrive i diversi procedimenti richiesti per la raccolta di ciò che a suo tempo si è seminato (aneto, cumino, frumento). La sottolineatura che il frumento «non lo si pesta senza fine» anzi si fa attenzione a non schiacciarlo (v. 28), richiama l'agire del Signore che ha provato il suo popolo per purificarlo, non per annientarlo. Con il v. 29a, simmetrico al v. 26, la seconda parte si conclude proclamando che tutto questo «proviene» (lett. «esce») dal Signore delle schiere. Il v. 29b costituisce la conclusione nella quale l'intera parabola raggiunge il suo vero scopo: orientare a comprendere il mirabile disegno del Signore nelle diverse e alterne vicende della storia. Il Signore giudica e salva secondo il suo ineffabile disegno. Perciò il giudizio, in quanto purifica, contiene il germe della salvezza e la salvezza, a sua volta, rappresenta il fiore del giudizio.

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Vittoria sul caos 1In quel giorno il Signore punirà con la spada dura, grande e forte, il Leviatàn, serpente guizzante, il Leviatàn, serpente tortuoso, e ucciderà il drago che sta nel mare.

La vigna escatologica 2In quel giorno la vigna sarà deliziosa: cantàtela! 3Io, il Signore, ne sono il guardiano, a ogni istante la irrigo; per timore che la si danneggi, ne ho cura notte e giorno. 4Io non sono in collera. Vi fossero rovi e pruni, muoverei loro guerra, li brucerei tutti insieme. 5Oppure si afferri alla mia protezione, faccia la pace con me, con me faccia la pace!

Giacobbe nei giorni futuri 6Nei giorni che verranno Giacobbe metterà radici, Israele fiorirà e germoglierà, riempirà il mondo di frutti. 7Lo ha percosso quanto lo percosse il suo percussore? Oppure fu da lui ucciso come lo furono i suoi uccisori? 8Egli è entrato in contesa con lui, cacciandolo via, respingendolo, lo ha rimosso con il suo soffio impetuoso, come quando tira il vento d’oriente! 9Proprio così sarà espiata l’iniquità di Giacobbe e questo sarà tutto il frutto per la rimozione del suo peccato: mentre egli ridurrà tutte le pietre dell’altare come si fa delle pietre che si polverizzano per la calce, non erigeranno più pali sacri né altari per l’incenso. 10La fortezza è divenuta desolata, un luogo spopolato e abbandonato come un deserto; vi pascola il vitello, vi si sdraia e ne bruca gli arbusti. 11I suoi rami seccandosi si spezzeranno; le donne verranno ad accendervi il fuoco. Certo, si tratta di un popolo privo d’intelligenza; per questo non ne avrà pietà chi lo ha creato né chi lo ha formato ne avrà compassione.

Sul monte Sion 12Avverrà che, in quel giorno, il Signore batterà le spighe, dal Fiume al torrente d’Egitto, e voi sarete raccolti uno a uno, Israeliti. 13Avverrà che in quel giorno suonerà il grande corno, verranno gli sperduti nella terra d’Assiria e i dispersi nella terra d’Egitto. Essi si prostreranno al Signore sul monte santo, a Gerusalemme.

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Approfondimenti

27,1-13. Il capitolo conclusivo dell'Apocalisse isaiana contiene quattro detti escatologici riuniti insieme per integrare, con l'apporto delle loro specifiche prospettive, il quadro delineato dal messaggio dei precedenti capitoli.

Vittoria sul caos 27,1 Il primo detto è costituito dal v. 1. Si tratta di un annuncio del giudizio rivolto non contro un popolo particolare, ma contro le stesse potenze del caos di cui le strutture dell'ingiustizia e dell'oppressione sono altrettante manifestazioni storiche concrete. Il testo si ispira alla mitologia cananea e la reinterpreta. «Il drago che sta nel mare» è un'indicazione simbolica delle potenze del male che tendono a risucchiare la creazione nel caos originario. Con la vittoria del Signore, che rievoca le meraviglie presso il mare (cfr. Es 15), si realizzerà la creazione nuova.

La vigna escatologica 27, 2-5 Il canto della vigna, nel contesto che occupa, costituisce una suggestiva corona degli annunci di salvezza contenuti nei cc. 24-26. Il brano si situa all'interno di una ricca tradizione (cfr. Ez 15,3-8; Is 5,1-7; Sal 80,9-19).

2-3. Il canto inizia con la contemplazione della vigna che appare come luogo di delizia e di gioia. Il v. 2 presenta il Signore come il guardiano della sua vigna. Questo titolo divino richiama l'invocazione dei salmi (cfr. Sal 12,8; 32,7, 64,2 e 140,2.5), con cui si chiede al Signore che custodisca la vita dei suoi fedeli proteggendoli dagli empi (cfr. Gb 7,20 dove Dio è chiamato «custode dell'uomo»).

4-5. La vigna deliziosa vive nel tempo dell'amore fedele e sponsale del Signore (cfr. Is 54,4-10; 61,10-62,5). Con un esplicito richiamo al «rovi e pruni» di Is 5, si annuncia che il Signore distruggerà i nemici del suo popolo, così che in futuro la vigna possa svilupparsi in piena fedeltà (v. 4b). Poiché l'immagine dei «rovi e pruni» sembra indicare dei nemici interni alla comunità, alcuni studiosi hanno visto nel nostro canto un'allusione ai Samaritani e un appello conclusivo all'unità di tutta la comunità con i Signore. Tale spiegazione non può escludersi; essa comunque riguarda l'origine del testo. Nella sua attuale collocazione redazionale esso è inteso in senso escatologico e orienta la speranza della comunità verso il futuro promesso da colui che qui si rivela custode e difensore della sua vigna.

Giacobbe nei giorni futuri 27,6-11

27,6-9. Questi versetti presentano notevoli difficoltà. Una luce per la comprensione può venire dal fatto che il v. 6 richiama l'immagine della vite, che mette radici e cresce, in sintonia con il Sal 80,9-12. Il versetto è dunque un commento al canto della vigna. Nonostante le numerose prove incontrate nella sua storia, il popolo del Signore ha davanti a sé un futuro di crescita e di sviluppo («riempirà il mondo di frutti»). In realtà le prove provenivano dal Signore (v. 7 e v. 8) e miravano non alla morte, ma alla conversione e, quindi, alla vita. Se al canto della vigna di Is 5 che poneva il popolo sotto il giudizio divino, seguiva la pagina della vocazione di Is 6, nella quale la purificazione del profeta appariva come simbolo della futura salvezza del popolo, qui, dopo il canto della vigna deliziosa di Is 27,2-5, si annuncia esplicitamente (v. 9) che attraverso la purificazione il Signore opera l'espiazione della colpa di Giacobbe: situa nuovamente il popolo nell'ambito della vita, perdonando il suo peccato (cfr. Is 6,7). Segno dell'opera divina è la scomparsa definitiva di ogni idolatria e delle sue molteplici espressioni cultuali.

10-11. L'immagine della fortezza che crolla ricorda, nel contesto dei cc. 24-27, il destino della città del caos. L'immagine dei rami, che seccandosi si spezzano e servono per accendere il fuoco, richiama da vicino il detto sulla vigna infruttuosa di Ez 15; perciò anche i vv. 10-11 intendono essere un commento al canto della vigna deliziosa e identificano coloro che non ricorrono alla protezione del Signore con gli empi della città del caos destinati a perire. Non si può escludere che i versetti contengano una velata allusione al destino di Samaria, di cui si condanna la separazione insipiente dalla comunità di Gerusalemme. Nell'attuale contesto, però, ci sembra che il messaggio sia stato compreso in una prospettiva più universale.

Sul monte Sion 27,12-13 Si riassume la connotazione escatologica dei cc. 24-27, annunciando il ritorno dei figli di Israele dall'Assiria e dall'Egitto (v. 12). Le immagini della trebbiatura e del suono della tromba saranno poi riprese dall'apocalittica e inserite nel contesto del giudizio che accompagna la fine di questo mondo. Nel nostro testo esse presentano l'opera del Signore che cerca uno per uno i figli del suo popolo e li convoca «sul monte santo, in Gerusalemme»: il monte del banchetto (Is 25) e il monte della rivelazione (Is 2). L'immagine del ritorno del popolo del Signore costituisce una solenne conclusione parallela a Is 11,12-16 e 35,1-10. Ciò conferma che l'Apocalisse isaiana va vista non come unità a sé stante, ma come il culmine delle sentenze contro le genti, con le quali forma la grande sezione dei cc. 13-27.

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Il canto per la città forte 1In quel giorno si canterà questo canto nella terra di Giuda: «Abbiamo una città forte; mura e bastioni egli ha posto a salvezza. 2Aprite le porte: entri una nazione giusta, che si mantiene fedele. 3La sua volontà è salda; tu le assicurerai la pace, pace perché in te confida. 4Confidate nel Signore sempre, perché il Signore è una roccia eterna, 5perché egli ha abbattuto coloro che abitavano in alto, ha rovesciato la città eccelsa, l’ha rovesciata fino a terra, l’ha rasa al suolo. 6I piedi la calpestano: sono i piedi degli oppressi, i passi dei poveri».

Il giusto nella prova degli ultimi tempi 7Il sentiero del giusto è diritto, il cammino del giusto tu rendi piano. 8Sì, sul sentiero dei tuoi giudizi, Signore, noi speriamo in te; al tuo nome e al tuo ricordo si volge tutto il nostro desiderio. 9Di notte anela a te l’anima mia, al mattino dentro di me il mio spirito ti cerca, perché quando eserciti i tuoi giudizi sulla terra, imparano la giustizia gli abitanti del mondo. 10Si usi pure clemenza al malvagio: non imparerà la giustizia; sulla terra egli distorce le cose diritte e non guarda alla maestà del Signore. 11Signore, si era alzata la tua mano, ma essi non la videro. Vedranno, arrossendo, il tuo amore geloso per il popolo, e il fuoco preparato per i tuoi nemici li divorerà. 12Signore, ci concederai la pace, perché tutte le nostre imprese tu compi per noi. 13Signore, nostro Dio, altri padroni, diversi da te, ci hanno dominato, ma noi te soltanto, il tuo nome invocheremo. 14I morti non vivranno più, le ombre non risorgeranno; poiché tu li hai puniti e distrutti, hai fatto svanire ogni loro ricordo. 15Hai fatto crescere la nazione, Signore, hai fatto crescere la nazione, ti sei glorificato, hai dilatato tutti i confini della terra. 16Signore, nella tribolazione ti hanno cercato; a te hanno gridato nella prova, che è la tua correzione per loro. 17Come una donna incinta che sta per partorire si contorce e grida nei dolori, così siamo stati noi di fronte a te, Signore. 18Abbiamo concepito, abbiamo sentito i dolori quasi dovessimo partorire: era solo vento; non abbiamo portato salvezza alla terra e non sono nati abitanti nel mondo. 19Ma di nuovo vivranno i tuoi morti. I miei cadaveri risorgeranno! Svegliatevi ed esultate voi che giacete nella polvere. Sì, la tua rugiada è rugiada luminosa, la terra darà alla luce le ombre. 20Va’, popolo mio, entra nelle tue stanze e chiudi la porta dietro di te. Nasconditi per un momento, finché non sia passato lo sdegno. 21Perché ecco, il Signore esce dalla sua dimora per punire le offese fatte a lui dagli abitanti della terra; la terra ributterà fuori il sangue assorbito e più non coprirà i suoi cadaveri.

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Approfondimenti

Il canto per la città forte 26,1-6 Il testo è affine, per forma e contenuto, all'inno di 25,1-6 e perciò deve essere attribuito allo stesso strato. Si tratta di un inno che è modellato sulla forma di un antico canto di vittoria e si presenta suddiviso in due parti. Nei vv. 1-4 il popolo dei giusti (qui parla un “noi” mentre in Is 25, 1-6 parla un “io”) loda una città, che è ovviamente da identificare con Gerusalemme; invece nei vv. 5-6 si parla della distruzione di una città che aveva la pretesa di innalzarsi con la sua forza al di sopra di tutti. Inserito nell'attuale contesto dalla formula redazionale «In quel giorno», l'inno assume una tonalità escatologica che ravviva la sicurezza nell'imminente vittoria del Signore, quando per il popolo fedele giungerà «quel giorno», il giorno della liberazione definitiva.

1-4. La comunità sa di avere, in Gerusalemme, «una città forte», che ha resistito alle prove più amare della storia e ora si presenta nuovamente circondata da mura e baluardo, eretti dal Signore per la «salvezza» del suo popolo. Questa espressione, che vede nelle mura la garanzia della sicurezza e della tranquillità del popolo, orienta a ritenere che l'inno sia stato originariamente composto in occasione della ricostruzione delle mura di Gerusalemme ad opera di Neemia. Nell'attuale prospettiva escatologica il contesto storico è trasceso.

5-6. La seconda parte conferma l'affermazione che presentava il Signore come «roccia eterna». Coloro che «abitavano in alto», che rifiutavano di accogliere nella propria vita il disegno del Signore, difensore dei poveri e degli oppressi (cfr. Sal 9,10-11; 10,12-18) sono stati abbattuti da JHWH. La stessa fine è riservata alla città «eccelsa» (cfr. 24,10), caratterizzata dalla pretesa della propria superiorità e dalla sete di imporre su tutti il proprio dominio.

Il giusto nella prova degli ultimi tempi 26,7-21 Il brano appartiene allo strato fondamentale e la sua composizione è avvenuta non molto dopo quella di 24,1-20. Dopo l'inizio (v. 7), costituito da una sentenza di tipo sapienziale, segue un testo contraddistinto dal dialogo della comunità (prima persona plurale) con il Signore. La composizione, che sotto certi aspetti può essere definita una lamentazione, si conclude con il v. 18. Il v. 19 è un'aggiunta nella quale si risponde al lamento del popolo con l'annuncio della risurrezione. Infine i vv. 20-21, che per il genere letterario si distinguono dai precedenti, possono però essere ritenuti parte del testo in quanto suppongono la stessa situazione di prova escatologica e rappresentano la risposta dell'autore al lamento innalzato dal popolo al suo Dio. L'unione dei vv. 20-21 ai vv. 7-18 risulta confermata dal carattere peculiare di questi ultimi. In essi, intatti, non solo l'autore ha rinunciato al metro proprio della lamentazione, ma si riscontrano anche una presenza particolarmente accentuata del motivo della fiducia e un tono didattico che nei vv. 7a.9b e 10a assume addirittura la forma di un detto sapienziale. Questi rilevi formali orientano a vedere nel salmo un forte carattere parenetico che culmina nell'esortazione dei vv. 20-21.

7-9. Vi si trova una confessione di fiducia, il cui fondamento è presentato, in modo originale, nella sentenza del v. 7. La confessione del Signore che libera la vita dei fedeli dagli impedimenti dell'ingiustizia e della perversità è la base della fiducia. Essa si caratterizza come speranza che si sviluppa «nella via dei giudizi» divini, vale a dire in un cammino plasmato dalla parola che illumina le diverse situazioni della vita e della storia con la luce del disegno del Signore (v. 8). Perciò la comunità vive in un'ardente attesa del Signore, che si rende presente nella storia («nome») e nel «ricordo» dei suoi prodigi (cfr. Es 3,15), un'attesa che investe la totalità della persona («anima, «spirito») e la totalità del tempo (notte e giorno), perché mossa dalla certezza che solo nei «giudizi» del Signore l'uomo può imparare la giustizia (v. 9).

*11. «amore geloso»: la gelosia, nell'antica tradizione di Israele, connotava la potenza dell'amore con cui il Signore tutela il suo nome punendo le infedeltà del suo popolo. Qui, come in Zc 1,14-16; 8,2, il vocabolo appare con una nuova sottolineatura. La gelosia che JHWH ha per la sua gloria diventa la gelosia per il popolo, potenza d'amore che in ogni avversità dischiude un futuro di liberazione. L'immagine del fuoco preparato per i nemici del popolo, che sono per ciò stesso i nemici di JHWH, esprime con efficacia la dimensione salvifica della gelosia del Signore per il suo popolo (cfr. 9,6; 37,32; Sal 25,3; 86,17).

12-15. Nell'ottica del Signore «geloso per il suo popolo», si rinnova la confessione della fiducia. JHWH certamente esaudirà la preghiera del suo popolo concedendo la pace (v. 12). Questa certezza è rafforzata dal ricordo dei «padroni» che hanno dominato su Israele e che ora sono morti e non potranno più ritornare. Il Signore non solo li ha distrutti esaudendo la preghiera di Israele, ma ha fatto crescere e dilatare la nazione. Questa descrizione, che in parte è influenzata da 54,1-3, vede nella liberazione dalle dominazioni passate il segno dell'atteso intervento del Signore che inaugurerà la pienezza della salvezza.

16-18. Di nuovo un lamento rivolto direttamente al Signore. Nella supplica al Signore e nel riconoscimento della prova come «correzione» divina (cfr. Dt 8,2-5), il testo offre un prezioso orientamento alla comunità afflitta da un'angosciante frustrazione che coinvolge il significato stesso della sua esistenza e missione. L'immagine dei dolori del parto, cui non segue nessuna nascita (vv. 17-18a), è particolarmente espressiva di questo senso di frustrazione e di impotenza.

19. Colui che inserì questa aggiunta non solo testimonia di aver compreso dove il testo raggiungeva il suo vertice, ma mostra anche che l'annuncio della risurrezione è scaturito dalla fecondità della fede di Israele. La fede nella risurrezione qui appare con una ricchezza singolare che si sprigiona da tre antitesi nette e vigorose: i morti del Signore vivranno, i cadaveri (quelli che per la loro condizione cadono perché privi dell'energia vitale) sorgeranno (liberi dal giogo della morte); coloro che scendono nella «polvere» (qui sinonimo della tenebrosa regione dei morti) si sveglieranno (nella luce della vita e della rivelazione) e gioiranno (nell'esperienza piena della salvezza). La finale del v. 19 richiama il fondamento stesso della fede nella risurrezione. Fondendo insieme le immagini della rugiada (simbolo di vita rinnovata e feconda) e della luce (simbolo di vita nella benedizione divina, cfr. 9,1; 42,6.16; 58,8.10; Sal 27,1; 36,10; Nm 6,24-25), l'autore presenta il Signore nella sua potenza infinita che investe la regione della morte (qui denominata «terra») costringendola a «dare alla luce» coloro che in essa trascorrono un'esistenza umbratile, priva della vera vita. L'immagine della vita, che la morte non può tenere in suo potere, apre una prospettiva incommensurabile nell'orizzonte della speranza che anima il brano.

20-21. Nell'immagine della terra che scoprirà il sangue versato dalla violenza degli uomini (cfr. Gn 4,10) si racchiude una grande certezza. Nonostante il momentaneo trionfo della violenza e dell'ingiustizia, nessuna colpa potrà rimanere nascosta e impunita. Nel futuro dischiuso dalla promessa, la creazione non sarà più coinvolta dalla colpa dell'uomo, ma diventerà lo spazio di un mondo nuovo: il mondo della salvezza nel quale si realizzano i valori della giustizia, del diritto, dell'amore e della tenerezza (cfr. Os 2, 21).

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Inno di lode 1Signore, tu sei il mio Dio; voglio esaltarti e lodare il tuo nome, perché hai eseguito progetti meravigliosi, concepiti da lungo tempo, fedeli e stabili. 2Poiché hai trasformato la città in un mucchio di sassi, la cittadella fortificata in una rovina, la fortezza degli stranieri non è più una città, non si ricostruirà mai più. 3Per questo ti glorifica un popolo forte, la città di nazioni possenti ti venera. 4Perché tu sei sostegno al misero, sostegno al povero nella sua angoscia, riparo dalla tempesta, ombra contro il caldo; poiché lo sbuffo dei tiranni è come pioggia che rimbalza sul muro, 5come arsura in terra arida il clamore degli stranieri. Tu mitighi l’arsura con l’ombra di una nube, l’inno dei tiranni si spegne.

Il banchetto per tutti i popoli 6Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. 7Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre distesa su tutte le nazioni. 8Eliminerà la morte per sempre. Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto, l’ignominia del suo popolo farà scomparire da tutta la terra, poiché il Signore ha parlato.

Inno di lode 9E si dirà in quel giorno: «Ecco il nostro Dio; in lui abbiamo sperato perché ci salvasse. Questi è il Signore in cui abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza, 10poiché la mano del Signore si poserà su questo monte».

La fine di Moab Moab invece sarà calpestato al suolo, come si pesta la paglia nel letamaio. 11Là esso stenderà le mani, come le distende il nuotatore per nuotare; ma il Signore abbasserà la sua superbia, nonostante l’annaspare delle sue mani. 12L’eccelsa fortezza delle tue mura egli abbatterà e demolirà, la raderà al suolo.

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Approfondimenti

Inno di lode 25,1-5 Questo inno di lode appartiene al terzo stadio del processo formativo dell'apocalisse isaiana. L'autore richiama i grandi temi dell'annuncio del giudizio, in particolare la caduta della città del caos (cfr. 24,10-12), mosso da un preciso intento. Anche in una catastrofe cosmica chi confida nel Signore non resta privato del suo potente aiuto.

2-3. Si annuncia il secondo motivo della lode: la distruzione della città, qui indicata come «cittadella fortificata» e fortezza dei superbi. L'espressione «popolo forte» (v. 3), che potrebbe far pensare ai vincitori della città superba, indica invece gli abitanti della stessa città distrutta, come si evince dalla locuzione parallela «la città di genti possenti ti venera».

Il banchetto per tutti i popoli 25,6-8 La descrizione di un solenne banchetto, preparato dal Signore per tutti i popoli «su questo monte», è la continuazione di 24,21-23 e perciò deriva dallo stesso autore e non appartiene allo scritto fondamentale. La promessa di un banchetto destinato ai popoli è singolare all'interno della Scrittura. L'autore l'ha creata ispirandosi ad alcuni grandi motivi della tradizione, quali: il pellegrinaggio dei popoli al monte Sion (2,2-4; 60), la rivelazione che costituisce l'ammirazione delle genti, la sapienza che esercita il suo influsso in tutte le nazioni, la missione di Israele quale testimone dell'alleanza e della benedizione divina fino ai confini della terra.

6. Il richiamo a «questo monte» è molto illuminante: esso rinvia a 24,23 dove gli anziani sono alla presenza della Gloria divina, e richiama il racconto dell'alleanza di Es 24,9-11 quando essi «videro il Dio d'Israele» e mangiarono e bevvero, cioè parteciparono al banchetto nel quale il Signore sigillava la su alleanza con il popolo. Questi richiami orientano la ritenere che nel nostro testo tutti i popoli sono chiamati a partecipare al banchetto dell'alleanza.

7. «Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli»: l'espressione non significa l'eliminazione dell'incredulità con il dono della rivelazione (questo dono è già implicito nel tema dei popoli ammessi al monte dell'alleanza). Il velo o la coltre che ricopre i popoli richiama la condizione di sofferenza e di angustia dalla quale il Signore libera definitivamente (cfr. 2Sam 15,30; 19,5; Ger 14,3s.).

8. Una mano successiva ha aggiunto la prima frase: «Eliminerà la morte per sempre». Questa aggiunta, riflettendo la fede nella risurrezione, testimonia che il nostro brano venne reinterpretato secondo l'ottica propria dell'apocalittica.

Inno di lode 25,9-10a Questo inno di lode, che nella redazione attuale del libro forma, con 25,1-5, la cornice all'annuncio del banchetto preparato per tutti i popoli, è profondamente caratterizzato da un intento parenetico. Il canto che si innalzerà «in quel giorno» è attraversato da un unico tema: la speranza posta nel Signore non andrà delusa. Quando in Israele maturerà la fede nella risurrezione il canto della speranza svilupperà le sue virtualità in una prospettiva nuova e inattesa. La speranza pone la vita del credente nella sicurezza della vittoria eterna del Dio vivente.

La fine di Moab 25,10b-12 È l'aggiunta di un redattore che ritenne necessario precisare che il popolo di Moab sarebbe stato escluso dal banchetto di 25,6-8 e quindi dalla salvezza. Il nostro detto, che riflette l'esclusione dei Moabiti dalla comunità cultuale di Gerusalemme (cfr. Ne 13,1), non offre nessun aggancio a un fatto storico che consenta di datare l'apocalisse isaiana. Esso, invece, ha il merito di inserirsi nel discorso sviluppando il motivo dell'orgoglio quale causa della rovina dell'uomo e dei popoli nel giudizio di Dio (cfr. i vv. 11-12 con il v. 2).

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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LA GRANDE APOCALISSE

Il giudizio del mondo 1Ecco che il Signore devasta la terra, la squarcia e ne sconvolge la superficie e ne disperde gli abitanti. 2Avverrà lo stesso al popolo come al sacerdote, allo schiavo come al suo padrone, alla schiava come alla sua padrona, al compratore come al venditore, a chi riceve come a chi dà in prestito, al creditore come al debitore. 3Sarà tutta devastata la terra, sarà tutta saccheggiata, perché il Signore ha pronunciato questa parola. 4È in lutto, languisce la terra; è squallido, languisce il mondo, sono desolati il cielo e gli abitanti della terra. 5La terra è stata profanata dai suoi abitanti, perché hanno trasgredito le leggi, hanno disobbedito al decreto, hanno infranto l’alleanza eterna. 6Per questo la maledizione divora la terra, i suoi abitanti ne scontano la pena; per questo si consumano gli abitanti della terra e sono rimasti solo pochi uomini. 7Lugubre è il mosto, la vigna languisce, gemono tutti i cuori festanti. 8È cessata la gioia dei tamburelli, è finito il chiasso dei gaudenti, è cessata la gioia della cetra. 9Non si beve più il vino tra i canti, la bevanda inebriante è amara per chi la beve. 10È distrutta la città del nulla, è chiuso l’ingresso di ogni casa. 11Per le strade si lamentano, perché non c’è vino; ogni gioia è scomparsa, se ne è andata la letizia dalla terra. 12Nella città è rimasta la desolazione; la porta è stata abbattuta a pezzi. 13Perché così accadrà nel centro della terra, in mezzo ai popoli, come quando si bacchiano le olive, come quando si racimola, finita la vendemmia.

Giubilo per la salvezza 14Quelli alzeranno la voce, canteranno alla maestà del Signore. Acclameranno gioiosamente dal mare: 15«Voi in oriente, glorificate il Signore, nelle isole del mare, il nome del Signore, Dio d’Israele». 16Dagli angoli estremi della terra abbiamo udito il canto: «Gloria al giusto».

Inevitabilità del giudizio Ma io dico: «Guai a me! Guai a me! Ohimè!». I perfidi agiscono perfidamente, i perfidi operano con perfidia. 17Terrore, fossa e laccio ti sovrastano, o abitante della terra. 18Avverrà che chi fugge al grido di terrore cadrà nella fossa, chi risale dalla fossa sarà preso nel laccio, poiché cateratte dall’alto si aprono e si scuotono le fondamenta della terra. 19A pezzi andrà la terra, in frantumi si ridurrà la terra, rovinosamente crollerà la terra. 20La terra barcollerà come un ubriaco, vacillerà come una tenda; peserà su di essa la sua iniquità, cadrà e non si rialzerà.

Fine dei regni della terra e regno del Signore 21Avverrà che in quel giorno il Signore punirà in alto l’esercito di lassù e in terra i re della terra. 22Saranno senza scampo incarcerati, come un prigioniero in una prigione sotterranea, saranno rinchiusi in un carcere e dopo lungo tempo saranno puniti. 23Arrossirà la luna, impallidirà il sole, perché il Signore degli eserciti regna sul monte Sion e a Gerusalemme, e davanti ai suoi anziani risplende la sua gloria.

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Approfondimenti

LA GRANDE APOCALISSE 24,1-27,13 I cc. 24-27 sono chiamati impropriamente “l’Apocalisse di Isaia”. Se si prescinde da alcune aggiunte reinterpretative, lo strato fondamentale di questi capitoli (24,1-6.14-20; 26,7-21) sviluppa il tema del giudizio del mondo in modo da costituire la degna conclusione alle sentenze contro le nazioni dei cc. 13-23. La formazione del “Protoisaia” si è compiuta appunto in questo contesto storico e spirituale, forse negli anni 480-460, prima che la situazione si evolvesse e preparasse il terreno all'intervento di Neemia. La raccolta, così ultimata, continuò il suo cammino di costante attualizzazione nella vita del popolo. Ne sono un segno varie aggiunte, tra le quali meritano di essere menzionati gli interventi redazionali effettuati nei cc. 24-27: descrizioni escatologiche (24,21-23; 25,6-8.9-10a); canti che contrappongono alla rovina della città forte e superba il destino salvifico di Gerusalemme (25,1-5; 26,1-6); infine le sentenze, raggruppate nel c. 27. Alcune di queste aggiunte, però, si verificarono quando il libro di Isaia aveva ormai assunto la forma attuale con la fusione del “Protoisaia” con i cc. 40-66 (40-55 “Deuteroisaia”, 56-66 “Tritoisaia”). L'unione letteraria di queste opere fu possibile proprio per la loro interiore convergenza nella prospettiva della nuova Sion.

La redazione della “Visione di Isaia”, che si verificò intorno al 300, in un'epoca di incertezza per gli sconvolgimenti politici e sociali, avvenne per richiamare alla fede del popolo gli orientamenti vitali dell'opera e situarli nel contesto della rivelazione divina, quindi nella luce profetica della speranza. Grazie a questa prospettiva teologica della nuova Sion, la Gerusalemme storica si configurò come il punto di riferimento non solo dei Giudei che vivevano nella terra dei Padri, ma di tutto il giudaismo della diaspora.

Il giudizio del mondo 24, 1-13 La pericope è costituita dal racconto fondamentale (vv. 1-6) e da alcune aggiunte interpretative, Nel racconto fondamentale i vv. 1-3 formano una prima parte. Essa ha per tema l'annuncio della distruzione totale della terra e si conclude con la formula di citazione «il Signore ha pronunziato questa parola». La seconda strofa (vv. 4-6) presenta, nella forma di un detto di minaccia, il motivo del giudizio annunciato. La parola iniziale «languisce» ricorre di nuovo al principio del v. 7, segno che i vv. 7-13 sono stati intesi a livello redazionale come una terza strofa della composizione.

1-3. La prima strofa si presenta costruita in forma chiastica: terra (v. 1a) – abitanti (v. 1b); abitanti (v. 2) – terra (v. 3a). L'intero quadro, inoltre, è caratterizzato all'inizio e alla fine dall'enfasi data all'azione e alla parola del Signore. L'immagine del Signore che «spacca» e «squarcia» la terra richiama il testo di Na 2,11. Però, mentre il profeta si riferisce alla distruzione di Ninive, il nostro testo parla del giudizio del Signore che sconvolge tutta la terra, disperdendo senza scampo i suoi abitanti. L'autore non descrive come si verifica questo evento. Dal v. 2 risulta che a lui interessano di più le conseguenze che non le modalità del giudizio divino. Tutti gli uomini saranno raggiunti dal giudizio, senza riguardo alla loro posizione religiosa, al loro ceto sociale e alle loro ricchezze.

4-6. La seconda strofa descrive il giudizio della terra con l'immagine della siccità che colpisce l'intera vegetazione. Il v. 5 indica il motivo teologico del giudizio annunciato. La profanazione della terra ad opera dei suoi abitanti può avvenire sia per i delitti di sangue (Nm 35,33; cfr. Sal 106, 38), sia per l'idolatria (Ger 3,9). Nel nostro testo la terra è profanata perché i suoi abitanti «hanno infranto l'alleanza eterna»: l'alleanza del Signore con tutta l'umanità (cfr. Gn 9,16). L'infrazione dell'alleanza porta con sé l'irruzione della maledizione (v. 6; cfr. Dt 27,15-28; 28,15-46; 29,15-20). Come il diluvio non annientò l'intero genere umano, così anche dalla catastrofe del giudizio del mondo rimarrà un piccolo resto, primizia di un'umanità nuova e di un mondo nuovo. Questa visuale è un chiaro indizio che il nostro testo non è apocalittico, ma escatologico.

7-13. Questi versetti riuniscono tre aggiunte distinte. La prima si riallaccia alla descrizione del v. 7 («Lugubre è il mosto, la vigna languisce») per delineare un quadro dominato dall'assenza della gioia (vv. 7-9). Con l'aggiunta dei vv. 10-12 compare per la prima volta nei cc. 24-27 una grandezza che riveste particolare significato e che qui è denominata la «città del caos». Il termine non denota una città storica particolare, ma è carico di una connotazione simbolica: essa è l'anti-Gerusalemme, il simbolo della città costruita sull'orgoglio e quindi il luogo dove si concentrano e si condensano le forze della violenza e dell'oppressione. Con l'annuncio della distruzione della città del caos i nostri versetti sviluppano la dimensione positiva del giudizio del mondo: la fine della città del caos è il preludio della città della pace.

Giubilo per la salvezza 24,14-16a La breve pericope appartiene al secondo stadio della formazione dell'Apocalisse isaiana e introduce un canto alla «maestà» del Signore. Il termine, che non è frequente nella Scrittura (cfr. Is 2,10.19.21), si richiama al verbo che nel canto dell'esodo proclama la potenza salvifica del Signore che libera il suo popolo dall'oppressione del faraone (cfr. Es 15,1b.21b). Il «giusto» (v. 16) può essere o il pio Israele o avere un'estensione universale e riferirsi all'uomo retto e «timorato di Dio», secondo l'immagine di Giobbe. Il contesto sembra favorire l'ultima possibilità. I giusti sono il piccolo resto scampato dal giudizio, primizia di un'umanità nuova.

Inevitabilità del giudizio 24,16b-20 Con il v. 16b riprende il testo fondamentale. L'inevitabilità del giudizio è resa ancora più acuta dal grido di dolore suscitato nell'autore dalla perfidia umana che attira il giudizio. Il ritmo inarrestabile del giudizio è espresso con tre sostantivi («Terrore, fossa e laccio») che presentano una forte allitterazione. I tre sostantivi prospettano, in un drammatico crescendo, lo sviluppo di situazioni sempre più gravi e dalle quali è definitivamente impossibile una liberazione.

19-20. Prosegue la descrizione del cataclisma universale con le immagini della terra che si frantuma, «barcolla come un ubriaco» (28,7-8; 29,9) e «vacilla come una tenda» scossa dall'uragano prima di cadere senza più rialzarsi. Il v. 20b si riallaccia al v. 5 per indicare il motivo teologico del giudizio del mondo: la terra è schiacciata dal peso della sua iniquità (cfr. Sal 38,5).

Fine dei regni della terra e regno del Signore 24,21-23 Una sentenza di minaccia contro le potenze cosmiche che si ergono contro il Signore, culminante in un solenne annuncio di salvezza nel quale si proclama l'irruzione definitiva del regno del Signore. 21. «esercito di lassù»: richiama la polemica antidolatrica (cfr. Dt 4) e assicura l'eliminazione degli idoli, nei quali l'uomo trova la legittimazione della propria sicurezza e del proprio successo. Nel v. 22 l'affermazione che i re della terra saranno imprigionati e «dopo lungo tempo» saranno puniti presenta in embrione la concezione secondo cui il dramma finale si svolge in diverse fasi. Questa prospettiva riceverà un particolare sviluppo in alcune correnti dell'apocalitica futura.

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Detto su Tiro 1Oracolo su Tiro. Fate il lamento, navi di Tarsis, perché è stata distrutta: è senza più case. Mentre tornavano dalla terra dei Chittìm, ne fu data loro notizia. 2Ammutolite, abitanti della costa. I mercanti di Sidone, che attraversavano il mare, ti affollavano. 3Attraverso le acque profonde giungeva il frumento di Sicor, il raccolto del Nilo, che era la sua ricchezza. Tu eri il mercato dei popoli. 4Vergógnati, Sidone, perché il mare, la fortezza marinara, ha parlato dicendo: «Io non ho avuto doglie, non ho partorito, non ho allevato giovani, non ho fatto crescere vergini». 5All’udirlo in Egitto, si addoloreranno per la notizia su Tiro. 6Passate a Tarsis, fate il lamento, abitanti della costa. 7È questa la vostra città gaudente, le cui origini risalgono a un’antichità remota, i cui piedi la portavano lontano per fissarvi dimore? 8Chi ha deciso questo contro Tiro, la dispensatrice di corone, i cui mercanti erano prìncipi, i cui trafficanti erano i più nobili della terra? 9Il Signore degli eserciti lo ha deciso, per svergognare l’orgoglio di tutto il suo fasto, per umiliare i più nobili sulla terra. 10Solca la tua terra come il Nilo, figlia di Tarsis; il porto non esiste più. 11Ha steso la mano verso il mare, ha sconvolto i regni, il Signore ha decretato per Canaan di abbattere le sue fortezze. 12Egli ha detto: «Non continuerai a far baldoria, o vergine, duramente oppressa, figlia di Sidone. Àlzati, va’ pure dai Chittìm; neppure là ci sarà pace per te». 13Ecco la terra dei Caldei: questo popolo non esisteva. L’Assiria l’assegnò alle bestie selvatiche. Vi eressero le loro torri d’assedio, ne hanno demolito i palazzi, l’hanno ridotta a un cumulo di rovine. 14Fate il lamento, navi di Tarsis, perché è stato distrutto il vostro rifugio. 15Avverrà che in quel giorno Tiro sarà dimenticata per settant’anni, quanti sono gli anni di un re. Alla fine dei settant’anni a Tiro si applicherà la canzone della prostituta: 16«Prendi la cetra, gira per la città, prostituta dimenticata; suona con abilità, moltiplica i canti, perché qualcuno si ricordi di te». 17Ma alla fine dei settant’anni il Signore visiterà Tiro, che ritornerà ai suoi guadagni; essa trescherà con tutti i regni del mondo sulla terra. 18Il suo salario e il suo guadagno saranno sacri al Signore. Non sarà ammassato né custodito il suo salario, ma andrà a coloro che abitano presso il Signore, perché possano nutrirsi in abbondanza e vestirsi con decoro.

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Approfondimenti

Detto su Tiro 23,1-18 Anche prescindendo dalle aggiunte dei vv. 15-18, la sentenza su Tiro (vv. 1-14) presenta non pochi problemi sia di traduzione che di interpretazione. E probabile che nella sua forma originaria il poema fosse un invito al lamento per la distruzione di Sidone. Questo ci porterebbe non tanto al 701, quando Sidone riuscì a salvarsi accettando come re il filoassiro Ittobaal, ma alla distruzione della città avvenuta nel 678 ad opera del re assiro Assaraddon. La distruzione di Sidone poneva tutta la Fenicia sotto il potere assiro. Il poema lo afferma unendo anche la città di Tiro, rinomato centro politico e commerciale. Come Tiro crebbe in importanza, la sentenza fu letta soprattutto in riferimento ad essa. Il poema può suddividersi nelle seguenti parti: vv. 1b-5, la distruzione di Sidone; v. 6-9, la fine della città; vv. 10-14, la situazione disperata dei sopravvissuti. Sotto il profilo del genere letterario il testo si presenta come un invito al lamento nazionale per la catastrofe già abbattutasi sulla Fenicia. Interessante è l'appello «Fate il lamento, navi di Tarsis» che racchiude l'intero poema in un'inclusione (cfr. v. 1 e v. 14).

1-5. È un invito al lamento. In questo spazio totalmente marino il v. 4 capta la voce del mare che invita Sidone a «vergognarsi», prendendo coscienza della sua situazione priva di speranza (la «vergogna» è il riflesso soggettivo di una sventura oggettiva, cfr. Gb 29-30). Il mare non può dare nuovi giovani. Non si può più contare sul commercio marittimo. Il v. 5 sembra una glossa che riferisce tutto il carme alla distruzione di Tiro ad opera di Alessandro Magno nella sua marcia trionfale che si concluse in Egitto.

6-9. L'autore invita gli abitanti della costa a rifugiarsi nella lontana Tarsis. L'individuazione di questa città rinomata non è del tutto sicura sud della identificano con la greca Tartessos, situata nel sud della Spagna, ma ugualmente probabile ci sembra l'identificazione con Tarros, in Sardegna, un rinomato centro commerciale fenicio e, successivamente, cartaginese, greco e romano.

10-14. Il poema parte dalle ripercussioni nella lontana Tarsis (invitata a dedicarsi all'agricoltura) per mostrare che il Signore ha realizzato il suo decreto (cfr. v. 9). Rinnovando la potenza con cui aveva compiuto l'esodo, egli ha «steso la mano» (cfr. Es 14,20; Sal 89,26) contro i regni costruiti sulla ricchezza del mare, in particolare contro le fortezze di Canaan, ossia le fortezze della regione fenicia, dedita al commercio marino (v. 11). La conclusione (v. 14), che riprende la frase iniziale del v. 1b, sintetizza tutto il poema nell'immagine delle navi di Tarsis che hanno perso il loro «rifugio» e con esso la possibilità di solcare i mari per unire, con i vincoli del commercio e della ricchezza, popoli distanti tra loro e lontani da Sidone e Tiro.

15-18. La formula «In quel giorno» indica il carattere secondario di questi versetti. L'aggiunta più antica è costituita da una formula d'introduzione (v. 15b), cui segue il detto vero e proprio (v. 16). Il glossatore paragona Tiro a una prostituta che, invecchiata, è abbandonata da tutti e con le sue arti cerca ancora di attirare a sé gli amanti. L'immagine indica il commercio che con le sue ricchezze seduce e soggioga i popoli. Forse l'aggiunta testimonia gli sforzi compiuti con scarso successo da Tiro per riconquistare la grandezza e la gloria di un tempo.

I vv. 17-18 costituiscono la seconda aggiunta, composta da uno scriba che conobbe la caduta della città ad opera di Alessandro Magno (332) e la sua riabilitazione ad opera di Tolomeo II (274). La visione che le ricchezze guadagnate da Tiro sono «sacre» al Signore (e quindi sono da riservare al culto), e perciò sono portate a Gerusalemme, riflette forse la consapevolezza che la rinascita di Tiro poteva essere vantaggiosa per Gerusalemme.

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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La tragedia di Gerusalemme 1Oracolo sulla valle della Visione. Che hai tu dunque, che sei salita tutta sulle terrazze, 2città colma di rumore e tumulto, città gaudente? I tuoi trafitti non sono stati trafitti di spada né sono morti in battaglia. 3Tutti i tuoi capi sono fuggiti insieme, sono stati fatti prigionieri senza un tiro d’arco; tutti coloro che si trovavano in te sono stati catturati insieme, anche se fuggiti lontano. 4Per questo dico: «Stornate lo sguardo da me, che io pianga amaramente; non cercate di consolarmi per la desolazione della figlia del mio popolo». 5Infatti è un giorno di panico, di distruzione e di smarrimento, voluto dal Signore, Dio degli eserciti. Nella valle della Visione un diroccare di mura e un invocare aiuto verso i monti. 6Gli Elamiti hanno indossato la faretra, con uomini su carri e cavalieri; Kir ha tolto il fodero allo scudo. 7Le migliori tra le tue valli sono piene di carri; i cavalieri si sono disposti contro la porta. 8Così è tolta la protezione di Giuda. Tu guardavi in quel giorno alle armi del palazzo della Foresta. 9Avete visto le brecce della Città di Davide quanto erano numerose. Poi avete raccolto le acque della piscina inferiore, 10avete contato le case di Gerusalemme e avete demolito le case per fortificare le mura. 11Avete anche costruito un serbatoio fra i due muri per le acque della piscina vecchia; ma voi non avete guardato a chi ha fatto queste cose, né avete visto chi ha preparato ciò da tempo. 12Vi invitava in quel giorno il Signore, Dio degli eserciti, al pianto e al lamento, a rasarvi il capo e a vestire il sacco. 13Ecco invece gioia e allegria, sgozzate bovini e scannate greggi, mangiate carne e bevete vino: «Mangiamo e beviamo, perché domani moriremo!». 14Ma il Signore degli eserciti si è rivelato ai miei orecchi: «Certo non sarà espiato questo vostro peccato, finché non sarete morti», dice il Signore, Dio degli eserciti.

Contro l'arroganza di Sebna 15Così dice il Signore, Dio degli eserciti: «Rècati da questo ministro, da Sebna, il maggiordomo, e digli: 16“Che cosa possiedi tu qui e chi hai tu qui, tanto da scavarti qui un sepolcro?”. Scavarsi in alto il proprio sepolcro, nella rupe la propria tomba! 17Ecco, il Signore ti scaglierà giù a precipizio, o uomo, ti afferrerà saldamente, 18certamente ti rotolerà ben bene come una palla, verso una regione estesa. Là morirai e là finiranno i tuoi sontuosi cocchi, o ignominia del palazzo del tuo signore! 19Ti toglierò la carica, ti rovescerò dal tuo posto. 20In quel giorno avverrà che io chiamerò il mio servo Eliakìm, figlio di Chelkia; 21lo rivestirò con la tua tunica, lo cingerò della tua cintura e metterò il tuo potere nelle sue mani. Sarà un padre per gli abitanti di Gerusalemme e per il casato di Giuda. 22Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide: se egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno potrà aprire. 23Lo conficcherò come un piolo in luogo solido e sarà un trono di gloria per la casa di suo padre. 24Su di lui faranno convergere ogni gloria della casa di suo padre: germogli e rampolli, ogni piccolo vasellame, dalle coppe alle anfore. 25In quel giorno – oracolo del Signore degli eserciti – cederà il piolo conficcato in luogo solido. Si spezzerà, cadrà e andrà in frantumi tutto ciò che vi era appeso, perché il Signore ha parlato».

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Approfondimenti

La tragedia di Gerusalemme 22,1-14 Il nostro brano ha una storia piuttosto complessa. In essa si incontra anzitutto una parola autentica di Isaia (vv. 1b-3.12-14). Il profeta rimprovera la città perché nello scampato pericolo (vv. 2b-3), non ha saputo riconoscere l'appello del Signore al ravvedimento (v. 12), ma si è nuovamente abbandonata a una gioia sfrenata, segno della sua irresponsabilità e ostinazione (vv. 1-2a.13). Il detto, nel suo insieme, è un annuncio del giudizio diretto contro «questo peccato» di Gerusalemme (v. 14), nel quale l'invettiva dei vv. 1b-3.12-13 svolge la funzione di motivare la sentenza di condanna. Al detto originario furono incorporate in seguito varie aggiunte interpretative. La più antica di queste è il v. 4, deuteronomistico, nel quale la caduta di Gerusalemme sembra ormai un fatto compiuto. Una seconda aggiunta, che rappresenta una vera reinterpretazione, è costituita dai vv. 8b-11. Qui il contrasto non si sviluppa più sull'antitesi lamento-gioia, ma si svolge tra la fiducia nei mezzi umani (di natura militare) e la fiducia in JHWH. L'ultima aggiunta è rappresentata dai vv. 5-8a che conferiscono alla parola di Isaia, già attualizzata nel suo riferimento alla caduta di Gerusalemme, una connotazione escatologica o, addirittura, protopocalittica.

1-4. Il testo suppone che Gerusalemme sia scampata dal pericolo di essere conquistata e distrutta dalle truppe di Sennacherib che l'assediarono nel 701. L'immagine dei caduti, che non sono morti sul campo di battaglia, ma perché nel panico hanno tentato la fuga e sono stati catturati dall'esercito assiro, crea un forte contrasto tra la gioia chiassosa del momento e la paura dei capi e dei guerrieri che rende la città potenzialmente preda di un qualsiasi nemico futuro. Il quadro dei capi in fuga ha permesso di rileggere la parola di Isaia nella luce dell'amara esperienza del 587, quando i soldati e lo stesso re Sedecia tentarono inutilmente di porsi in salvo con la fuga (v. 4; cfr. 2Re 25,2-7).

5-8a. Il dolore descritto nel v. 4 costituisce lo sfondo sul quale si innesta la reinterpretazione escatologica dei vv. 5-8a. Il suo autore, che probabilmente è il responsabile del titolo di questa pericope e della sua inserzione nei detti contro i popoli, vede nella caduta di Gerusalemme il simbolo del giorno del Signore contro ogni potenza umana che si oppone al suo disegno di salvezza. Il gusto per l'allitterazione, già incontrato in 21,1-9 (ma anche in 13, 1-22; cfr. inoltre 24, 1-13.18b-20), si carica di una suggestione misteriosa con la locuzione iniziale del v. 5: giorno di panico (caratteristico della guerra nella quale interviene il Signore; cfr. Dt 7,23; 28,20; Ez 7,7; Zc 14,13), rovina (cfr. Am 7,4) e smarrimento (cfr. Is 14,25; 63,6; Zc 10,5). Le immagini, che solitamente descrivono il giudizio divino contro i popoli, qui sono riferite, come in Am 5, 18-20, all'intervento del Signore che punisce l'infedeltà del suo popolo.

8b-11. Questi versetti sono caratterizzati dall'inclusione antitetica del verbo «guardare» che aiuta a cogliere il loro significato. Essi descrivono il popolo che mira a costruire le proprie sicurezze militari: la descrizione, che riunisce in un solo sguardo opere di fortificazione e di urbanizzazione, verificatesi in varie tappe della storia di Gerusalemme, svela il suo vero intento nel v. 11. Nelle prove della sua esistenza il popolo non ha saputo «guardare» e «vedere» colui che operava e «preparava (plasmava)» gli eventi, ma ha cercato di costruirsi le proprie sicurezze e speranze.

12-14. Nei vv. 12-14 ritorna la voce di Isaia che condanna la gioia spensierata e irresponsabile della città di Gerusalemme perché ha saputo scorgere nello scampato pericolo del 701 un appello del Signore alla conversione. L'antitesi stilisticamente efficace tra il v. 12 (appello al pianto e al lamento) e il v. 13 (gioia e banchetti) esprime in modo forte la chiusura totale del popolo al disegno salvifico del suo Dio.

Contro l'arroganza di Sebna 22,15-25 La pericope si presenta suddivisa in tre parti: i vv. 15-19 sono un detto contro Sebnà, che riveste la carica di ministro del palazzo; i vv. 20-23 annunciano la chiamata di Eliakim alla stessa carica; infine i vv. 24-25 contengono due glosse che interpretano il detto relativo a Eliakim.

15-19. Il detto contro Sebna (vv. 15-18) ministro del palazzo, risale a un periodo anteriore all'invasione di Sennacherib (701), poiché in quella circostanza egli ricompare ma solo con la carica di scriba, mentre la carica di ministro del palazzo era in quel momento ricoperta da Eliakim (2Re 18, 18.37; 19,2; cfr. Is 36,3.22; 37,2). Non conosciamo il motivo che determinò l'intervento di Isaia contro Sebna, oscuro personaggio giunto alla carica più importante dello stato. Il v. 19 (dove il Signore parla in prima persona) è stato aggiunto per raccordare il nostro detto con quello di Eliakim. Poiché i vv. 20-23 sono incentrati sulla carica di maestro del palazzo, il v. 19 esplicita che la rovina di Sebna comportò la sua destituzione dall'ufficio che ricopriva.

20-23. L'espressione «Sarà un padre» (v. 21) indica che Eliakim svolge la propria funzione in modo da difendere e tutelare i diritti di tutti (cfr. Gb 29, 16). L'immagine della chiave della «casa di Davide» (v. 22) ricorda da vicino le mansioni del visir, il funzionario d'Egitto che i testi dell'epoca ci presentano inferiore solo al faraone (la stessa concezione traspare anche in Gn 41,37-44). Il ministro del palazzo è colui che, come rappresentante del re, ogni giorno inaugura e conclude la vita amministrativa del regno. Il v. 23 contiene una promessa. L'immagine del «piolo», piantato in un «luogo solido», conferma la funzione fondamentale che il personaggio svolge nel regno e quindi per la “solidità” della casa di Davide. L'ultimo stico suppone che la carica si sia trasmessa nella «casa di suo padre», rendendola gloriosa.

24-25. Il v. 24, che si ispira a Ez 15,3, proviene da un autore che era a conoscenza del nepotismo sviluppatosi in seno a questa potente famiglia. L'autore del v. 25 testimonia la caduta della famiglia, e, con la scomparsa della funzione di «ministro del palazzo», insinua anche la scomparsa della monarchia. Il detto suppone probabilmente la riforma di Esdra (cfr. Esd 9 7-8).

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Caduta di Babilonia 1Oracolo sul deserto del mare. Come i turbini che si scatenano nel Negheb, così egli viene dal deserto, da una terra orribile. 2Una visione tremenda mi fu mostrata: il saccheggiatore che saccheggia, il distruttore che distrugge. Salite, o Elamiti, assediate, o Medi! Io faccio cessare ogni gemito. 3Per questo i miei reni sono nello spasimo, mi hanno colto dolori come di una partoriente; sono troppo sconvolto per udire, troppo sbigottito per vedere. 4Smarrito è il mio cuore, la costernazione mi invade; il tramonto tanto desiderato diventa il mio terrore. 5Si prepara la tavola, si stende la tovaglia, si mangia, si beve. Alzatevi, o capi, ungete gli scudi, 6poiché così mi ha detto il Signore: «Va’, metti una sentinella che annunci quanto vede. 7E se vedrà cavalleria, coppie di cavalieri, uomini che cavalcano asini, uomini che cavalcano cammelli, allora osservi attentamente, con grande attenzione». 8La vedetta ha gridato: «Al posto di osservazione, Signore, io sto sempre lungo il giorno, e nel mio osservatorio sto in piedi, tutte le notti. 9Ecco, qui arriva una schiera di cavalieri, coppie di cavalieri. Essi esclamano e dicono: “È caduta, è caduta Babilonia! Tutte le statue dei suoi dèi sono a terra, in frantumi”». 10O popolo mio, calpestato e trebbiato come su un’aia, quanto ho udito dal Signore degli eserciti, Dio d’Israele, a voi l’ho annunciato.

Sull'Idumea 11Oracolo su Duma. Mi gridano da Seir: «Sentinella, quanto resta della notte? Sentinella, quanto resta della notte?». 12La sentinella risponde: «Viene il mattino, poi anche la notte; se volete domandare, domandate, convertitevi, venite!».

Le carovane di Dedan 13Oracolo nella steppa. Nella boscaglia, nella steppa, passate la notte, carovane di Dedan; 14andando incontro agli assetati, portate acqua. Abitanti della terra di Tema, presentatevi ai fuggiaschi con pane per loro. 15Perché essi fuggono di fronte alle spade, di fronte alla spada affilata, di fronte all’arco teso, di fronte al furore della battaglia.

La distruzione di Kedar 16Poiché mi ha detto il Signore: «Ancora un anno, contato alla maniera degli anni di un salariato, e scomparirà tutta la potenza gloriosa di Kedar. 17E il numero degli archi dei prodi di Kedar resterà molto esiguo, perché il Signore Dio d’Israele ha parlato».

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Approfondimenti

Caduta di Babilonia 21,1-10 Il poema tratta della caduta di Babilonia ad opera degli Elamiti e dei Medi (v. 2). Alcuni autori hanno riferito il detto alla conquista della città da parte di Sargon II nel 710, o di Sennacherib nel 689, ma è difficile vedere nei Medi e negli Elamiti degli pseudonimi per l'Assiria. Per altri la caduta di cui si parla è quella del 539 ad opera di Ciro, al quale si erano alleati gli Elamiti. L'iportesi, però, non spiega adeguatamente la distruzione di Babilonia e dei suoi templi (cfr. v. 9), sia perché la città accolse Ciro come un liberatore, sia perché questi si presentò come garante delle religioni locali. Con ogni probabilità il poema deve essere compreso in rapporto con l'assedio di Babilonia ad opera di Serse I, nel 482, che culminò con la distruzione totale della città, di cui non furono risparmiati né i templi né le numerose statue degli dei. Questa spiegazione risulta ulteriormente confermata dallo stile che è affine a quello di Is 24,1-13.18b-20, una pagina nella quale si rispecchiano gli eventi del 485-476. Oltre l'introduzione (v. 1) e la conclusione (v. 10) il poema si divide in due parti: l'annuncio della venuta del nemico (vv. 1b-5) e la caduta di Babilonia (vv. 6-9).

1a. Si ipotizza che «sul deserto del mare» derivi dalla locuzione assira mât tâmti («paese del mare») con cui si indicava il sud di Babilonia.

1b-5. Questi versetti descrivono una visione, dominata da una “venuta” misteriosa paragonabile, per potenza devastatrice, ai turbini del Negheb (v. 1b). Il linguaggio (cfr. «dal deserto») orienta a scorgere negli eventi descritti l'opera stessa del Signore che realizza il suo disegno. La prima parte si chiude con l'ultimo banchetto prima dell'assalto. L'ordine ai capi di ungere gli scudi rievoca la consacrazione alla divinità degli scudi prima del loro uso in battaglia.

6-9. Nella seconda parte il poema non descrive la battaglia vera e propria, ma con l'immagine della sentinella mira a sviluppare negli uditori l'attesa della vittoria e, quindi, la fiducia nella parola della promessa. La sentinella scorge i cavalieri che giungono e può far risuonare il loro grido: «È caduta, è caduta Babilonia!». Non si tratta dell'annuncio di un episodio singolo, ma di un evento simbolico. Babilonia è il simbolo della potenza che realizza le sue orgogliose ambizioni di dominio, costruendo il proprio impero sull'ingiustizia e sulla violenza. Nella caduta delle statue degli dei il crollo di Babilonia si presenta come la fine di un mondo e la premessa per un mondo nuovo: il mondo che sorge e si sviluppa per opera di JHWH e in sintonia con il suo disegno.

Sull'Idumea 21,11-12 Questo detto parla di Seir (Edom), mentre il titolo lo riferisce a «Dûmâ». Il nome indica un'oasi dell'Arabia settentrionale, ma nell'antichità poteva anche riferirsi a una località sita nel territorio di Edom, della quale si ha ancora conoscenza nei primi secoli dopo Cristo («Idumea»). Alcuni suppongono che si sia ricorso al termine dûmâ (silenzio) per indicare non una località, ma il carattere oscuro e difficile della sentenza. Nella Scrittura la «notte» è simbolo di sventura (Gb 18,18; 30,26; Is 8,23; 9,1; Am 5,18.20; Na 1,8), mentre la luce e il giorno connotano la redenzione e la salvezza (Is 9,1; cfr. Sal 27,1; 90,14; 97,11). In quest'ottica la domanda che giunge dagli Edomiti chiede quanto tempo duri ancora l'oppressione. Il testo della risposta può essere inteso in due sensi opposti: 1) «È venuto il giorno, ma è ancora notte» (la salvezza è venuta, ma gli Edomiti sono ancora nell'oppressione); 2) «Viene il giorno anche se è notte» (la risposta sottolinea che l'oppressione finirà sicuramente, anche se questo evento non si è ancora verificato). L'invito a rinnovare la domanda e ritornare si comprende meglio alla luce del secondo significato che è, dunque, quello più probabile.

21,13-15. IL detto sembra sorto al tempo della guerra di Ciro contro Nabonide che culminò con la resa della città di Babilonia. I Dedaniti, che formavano una tribù carovaniera a sud dell'Arabia, si trovano inseguiti da una truppa armata (v. 15) e sono costretti ad abbandonare la via commerciale, dotata dei necessari punti di rifornimento per il viaggio, e a rifugiarsi nella steppa. Il profeta invita gli abitanti di Tema a soccorrere gli infelici fuggiaschi. Il carattere umanitario di questo invito alla solidarietà mostra che, per il redattore, il tema del giudizio mira alla conversione e alla genesi di un mondo nuovo.

21,16-17. Kedar era una tribù di gruppi semisedentari (42,11), che vivevano nella zona desertica a nord della penisola arabica. Il detto, che presenta una prospettiva apocalittica interessata al computo del tempo (cfr. 16,13-14), annuncia l'annientamento di questa tribù di famosi arcieri che saranno ridotti a un numero esiguo.

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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