📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

Pazienza e fiducia nelle prove 1Figlio, se ti presenti per servire il Signore,⊥ prepàrati alla tentazione. 2Abbi un cuore retto e sii costante,⊥ non ti smarrire nel tempo della prova. 3Stai unito a lui senza separartene, perché tu sia esaltato nei tuoi ultimi giorni. 4Accetta quanto ti capita e sii paziente nelle vicende dolorose, 5perché l'oro si prova con il fuoco e gli uomini ben accetti nel crogiuolo del dolore. ⌈Nelle malattie e nella povertà confida in lui.⌉ 6Affìdati a lui ed egli ti aiuterà, raddrizza le tue vie e spera in lui⊥. 7Voi che temete il Signore, aspettate la sua misericordia e non deviate, per non cadere. 8Voi che temete il Signore, confidate in lui, e la vostra ricompensa non verrà meno. 9Voi che temete il Signore, sperate nei suoi benefici, nella felicità eterna e nella misericordia, ⌈poiché la sua ricompensa è un dono eterno e gioioso.⌉ 10Considerate le generazioni passate e riflettete: chi ha confidato nel Signore ed è rimasto deluso? O chi ha perseverato nel suo timore e fu abbandonato? O chi lo ha invocato e da lui è stato trascurato? 11Perché il Signore è clemente e misericordioso, perdona i peccati e salva al momento della tribolazione⊥.

I frutti del timore del Signore 12Guai ai cuori pavidi e alle mani indolenti e al peccatore che cammina su due strade! 13Guai al cuore indolente che non ha fede, perché non avrà protezione. 14Guai a voi che avete perduto la perseveranza⊥: che cosa farete quando il Signore verrà a visitarvi? 15Quelli che temono il Signore non disobbediscono alle sue parole, quelli che lo amano seguono le sue vie. 16Quelli che temono il Signore cercano di piacergli, quelli che lo amano si saziano della legge. 17Quelli che temono il Signore tengono pronti i loro cuori e si umiliano al suo cospetto.⊥ 18“Gettiamoci nelle mani del Signore e non in quelle degli uomini;⌉ poiché come è la sua grandezza, così è anche la sua misericordia”.

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Approfondimenti

vv. 1-18. Il Signore è «clemente e misericordioso, rimette i peccati e salva al momento della tribolazione» (2, 11). Su questo tema teologico Ben Sira innesta e sviluppa, nel secondo c., le idee religiose e le premesse sapienziali del primo. Il timore del Signore si manifesta nella prova e nell'obbedienza alla sua parola, matura nell'amore e nell'umiltà. Lo temono coloro che, sforzandosi di piacere a lui (v. 16a), aspettano da lui la ricompensa (vv. 3.7-9) e si saziano della sua legge (v. 16b). Stando uniti a lui senza separarsene (v. 3), si gettano nelle sue braccia misericordiose, piuttosto che in quelle degli uomini (v. 18). Al contrario, non lo temono i cuori pavidi e indolenti (vv. 12-13), i peccatori che camminano «su due strade» (v. 12) e coloro che hanno perso la pazienza (v. 14a). Le due parti del c. (vv. 1-11 e 12-18) sono chiuse entrambe da un'affermazione teologica sulla misericordia del Signore (vv. 11.18cd). La prima parte passa dall'aspirante discepolo (vv. 1-6, coi verbi all'imperativo della seconda persona singolare) al «Voi che temete il Signore» (vv. 8-10, coi verbi all'imperativo della seconda persona plurale); la seconda parte presenta tre «Guai» contro i peccatori (vv. 12-14) e tre descrizioni di «coloro che temono il Signore» (vv. 15-17). I quattro stichi del v. 18 chiudono il c. passando al “noi”: «Gettiamoci nelle braccia del Signore» (v. 18ab), la cui grandezza è pari alla misericordia (v. 18cd). Il ritmo ternario (tre vocativi in 7-9, tre interrogativi in 10bcd, tre «guai» in 12-14 e tre “timorati del Signore” in 15-17) conferisce al brano dinamismo e armonia.

vv. 1-11. Il vocativo «Figlio» è abituale nella letteratura sapienziale per rivolgersi ai propri discepoli (cfr. 3,12.17; 4,1; 6,18.23.32; 10,28; 11,10; 14,11; 31,22). A volte si trova il plurale (cfr. 3,1; 23,7; 39,13; 41,14; Pr 2,1; 3,1; 4,1). Frequente è pure l'uso dell'imperativo: dieci in questo brano, uno solo negativo (v. 2b). L'invito a «prepararsi alla tentazione» (v. 1b) anche nel servizio del Signore – il primo degli imperativi – rientra nella teoria deuteronomica della retribuzione: anche per Ben Sira la sofferenza dell'uomo virtuoso non è una punizione, ma una prova educativa. La sapienza stessa mette alla prova il discepolo «finché possa fidarsi di lui» (4,17e); Abramo viene lodato perché «nella prova fu trovato fedele» (44,20d); chi teme il Signore, in caso di tentazioni, sarà liberato (33,1). La funzione educativa della prova è raccomandata da Ben Sira anche nelle relazioni umane: «Se intendi farti un amico, mettilo alla prova e non fidarti subito di lui» (6,7). Cfr. anche Mt 6,13 e Lc 11,4 (preghiera e tentazione), Gc 1,2-4.12 (dopo la prova la pazienza e la corona della vita). Dal «prepararsi alla tentazione» (v. 1b) allo «sperare in lui» (v. 6b): il primo e l'ultimo imperativo contengono una sintesi del messaggio. Il secondo e il penultimo imperativo, con lo stesso verbo (euthynein, tenere dritto, raddrizzare: vv. 2a.6b), invitano a rendere fermi e retti il cuore e le vie: frequente il rifiuto della doppiezza ipocrita e incostante (cfr. 1,25b; 2,12b). L'imperativo «sii costante» (v. 2a), nel linguaggio del Siracide, marca la differenza del discepolo da falso amico (karterein ricorre solo qui e in 12,15. Cfr. At 2,42.44). Avendo fiducia nell'aiuto del Signore (cfr. 2,6a con 1,24b), il discepolo non si smarrirà nel tempo della seduzione (v. 2b) e accetterà tutto con animo grande (v. 4).

vv. 7-11. Il tema della misericordia del Signore (eleos) compare nella prima parte come oggetto dell'attesa e della speranza di chi teme il Signore (vv. 7a.9b); nella seconda come attributo di Dio pari alla sua grandezza (v. 18d; cfr. v. 11a). La misericordia è sintesi dei benefici del Signore, in una prospettiva sempre terrena (vv. 7-10; cfr. Is 35,10; 51,11). Eleos rende nei LXX l'ebraico ḥesed, che indica l'amoroso interesse di Dio per l'uomo come risultato del rapporto basato sull'alleanza. Dio è clemente e misericordioso (v. 11a; cfr. 50,19): eco della proclamazione del nome “misericordioso e pietoso” (cfr. Es 34,6; Sal 86,5.15; 103,8; Gl 2,13).

vv. 12-14. Aperti da una formula imprecatoria, questi vv. si riferiscono agli Ebrei che hanno perso la fiducia nel Signore e nelle sue promesse al popolo di Israele. Ormai camminano su «due strade» (v. 12b), sono incostanti e infedeli nel servizio del Signore. Vengono alla mente i rimproveri di Elia al popolo che zoppica con i due piedi, oscillando tra il Signore e Baal (1Re 18,21), e le osservazioni di Isaia circa l'instabilità di chi non ha fede (Is 7,9). La parentela letteraria e tematica di questi vv. con i profeti emerge anche dall'annunciata “visita” del Signore (v. 14b). Il verbo episkeptein ricorre sette volte nel Siracide. In quattro casi i soggetto è il Signore: l'Altissimo “sorveglia” le schiere celesti (17,32) e “interviene” in favore dell'umile che prega (35,21). Negli altri due casi il verbo indica una “visita di giudizio”, accezione tipica del vocabolario profetico (cfr. 46,14). In 2,14 la “visita” si presenta come un giudizio a cui è impossibile sottrarsi. Qui il verbo pqd verosimilmente sotteso, non indica l'intervento salvifico di Dio (Es 4,31; Sof 2,7) o la sorveglianza continua sull'uomo (Gb 7,18), ma come nei profeti questo verbo ha l'accezione di “visita punitiva” del Signore (Is 10,12; Ger 9,24). Ben Sira sembra proprio dire che gli Ebrei apostati subiranno la stessa sorte dei popoli e dei sovrani stranieri “visitati” da JHWH. Più avanti userà ancora il tono profetico del “Guai!”, rivolgendosi in modo esplicito contro chi ha lasciato la via dei padri per seguire la via dell'ellenismo: «Guai a voi, uomini empi, che avete abbandonato la legge di Dio altissimo» (41,8).

vv. 15-18. Dopo il ritratto negativo dei peccatori, quello positivo dei timorati del Signore. Un quadro di alta tensione spirituale: «temere il Signore» è amarlo e cercare di piacergli, non disobbedirgli ma saziarsi della sua legge, preparare il cuore e l'anima nell'umiltà per seguire le sue vie e per stare davanti a lui. L'esortazione finale a gettarsi nelle braccia del Signore misericordioso e non in quelle degli uomini (v. 18) svela ancora una volta gli intenti generali dell'opera di Ben Sira: fare riecheggiare la scelta sapiente del re Davide che, in un momento di angoscia, preferì cadere «nelle mani del Signore perché la sua misericordia è grande», piuttosto che in quelle degli uomini, suoi nemici (2Sam 24,14; cfr. anche 1Cr 21,13).

Conclusione. Ben Sira sa che la “prova” attende ogni discepolo: nessuno può evitare il tempo della seduzione (v. 2b), della tribolazione (v. 11b) e le situazioni umilianti (v. 4b). Bisogna prepararsi (vv. 1.17), convinti che la “brace dell'umiliazione” (v. 5b) ha un valore educativo (cfr. Gb 32-37). Il passato insegna la fedeltà di Dio verso chi ha “perseverato” nel suo timore (v. 10). Nasce un giudizio sul presente (vv. 12-14) e una richiesta per il futuro (i verbi dei vv. 15-17 sono al futuro). In sintesi – dice Ben Sira – bisogna saper “cadere” nelle braccia di Dio, da veri timorati e confidenti (vv. 3.18ab), per non cadere come il collerico (1,19b) o come l'orgoglioso (1,27a). Di fronte ai contrasti sociali e culturali, economici e religiosi del presente, la lezione di Ben Sira – pur riprendendo insegnamenti che dovevano essere frequenti di fronte al rischio di apostasia all'inizio del II secolo a.C. – non è scontata e ripetitiva: dalla teologia profetica (Is 51,1-3; Sal 22,4-6) e deuteronomistica (Dt 6,5-6; 10,12-13) egli attinge motivi di speranza e di amorevole fiducia. Lo sguardo si ferma su una vetta: chi ama il Signore rimane appagato, “sazio” della sua legge (2,16b; 32,15). All'invito alla fortezza nella prova si unisce l'annuncio dell'eleos del Signore. Perciò il c. viene titolato riferendosi ora al timore di Dio nella prova (ms. 248: “Sulla pazienza”) ed ora alla fiducia in lui.

(cf. PIETRO FRANGELLI, Siracide – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Prologo Molti e importanti insegnamenti ci sono dati dalla legge, dai profeti e dagli altri scritti successivi, per i quali è bene dar lode a Israele quanto a dottrina e sapienza. Però non è giusto che ne vengano a conoscenza solo quelli che li leggono, ma è bene che gli studiosi, con la parola e con gli scritti, si rendano utili a quelli che ne sono al di fuori.

Per questo motivo, mio nonno Gesù, dopo essersi dedicato per tanto tempo alla lettura della legge, dei profeti e degli altri libri dei nostri padri, avendone conseguito una notevole competenza, fu indotto pure lui a scrivere qualche cosa su ciò che riguarda la dottrina e la sapienza, perché gli amanti del sapere, assimilato anche questo, possano progredire sempre più nel vivere in maniera conforme alla legge.

Siete dunque invitati a farne la lettura con benevola attenzione e ad essere indulgenti se, nonostante l’impegno posto nella traduzione, sembrerà che non siamo riusciti a rendere la forza di certe espressioni. Difatti le cose dette in ebraico non hanno la medesima forza quando vengono tradotte in un’altra lingua. E non solamente quest’opera, ma anche la stessa legge, i profeti e il resto dei libri nel testo originale conservano un vantaggio non piccolo.

Nell’anno trentottesimo del re Evèrgete, anch’io, venuto in Egitto e fermatomi un poco, dopo avere scoperto che lo scritto è di grande valore educativo, ritenni necessario adoperarmi a tradurlo con diligente fatica. In tutto quel tempo, dopo avervi dedicato molte veglie e studi, ho portato a termine questo libro, che ora pubblico per quelli che, all’estero, desiderano istruirsi per conformare alla legge il proprio modo di vivere.

LA SAPIENZA GUIDA LA VITA DELL’UOMO (1,1-23,28)

La sapienza viene dal Signore 1Ogni sapienza viene dal Signore e con lui rimane per sempre. 2La sabbia del mare, le gocce della pioggia e i giorni dei secoli chi li potrà contare? 3L'altezza del cielo, la distesa della terra e le profondità dell'abisso chi le potrà esplorare?⊥ 4Prima d'ogni cosa fu creata la sapienza e l'intelligenza prudente è da sempre. 5Fonte della sapienza è la parola di Dio nei cieli, le sue vie sono i comandamenti eterni. 6La radice della sapienza a chi fu rivelata? E le sue sottigliezze chi le conosce? 7Ciò che insegna la sapienza a chi fu manifestato? La sua grande esperienza chi la comprende? 8Uno solo è il sapiente e incute timore, seduto sopra il suo trono. 9Il Signore stesso ha creato la sapienza, l'ha vista e l'ha misurata, l'ha effusa su tutte le sue opere, 10a ogni mortale l'ha donata con generosità, l'ha elargita a quelli che lo amano. ⌈L'amore del Signore è sapienza che dà gloria, a quanti egli appare, la dona perché lo contemplino.⌉

Il timore del Signore conduce alla sapienza 11Il timore del Signore è gloria e vanto, gioia e corona d'esultanza. 12Il timore del Signore allieta il cuore, dà gioia, diletto e lunga vita. ⌈Il timore del Signore è dono del Signore, esso conduce sui sentieri dell'amore.⌉ 13Chi teme il Signore avrà un esito felice, nel giorno della sua morte sarà benedetto.⊥ 14Principio di sapienza è temere il Signore; essa fu creata con i fedeli nel seno materno. 15Ha posto il suo nido tra gli uomini con fondamenta eterne, abiterà fedelmente con i loro discendenti.⊥ 16Pienezza di sapienza è temere il Signore; essa inebria di frutti i propri fedeli. 17Riempirà loro la casa di beni desiderabili e le dispense dei suoi prodotti. 18Corona di sapienza è il timore del Signore; essa fa fiorire pace e buona salute. L'una e l'altra sono doni di Dio per la pace ⌈e si estende il vanto per coloro che lo amano.⌉ 19Egli ha visto e misurato la sapienza, ha fatto piovere scienza e conoscenza intelligente, ha esaltato la gloria di quanti la possiedono. 20Radice di sapienza è temere il Signore, i suoi rami sono abbondanza di giorni.⊥ 21Il timore del Signore tiene lontani i peccati, chi vi persevera respinge ogni moto di collera. 22La collera ingiusta non si potrà scusare, il traboccare della sua passione sarà causa di rovina. 23Il paziente sopporta fino al momento giusto, ma alla fine sgorgherà la sua gioia. 24Fino al momento opportuno terrà nascoste le sue parole e le labbra di molti celebreranno la sua saggezza. 25Fra i tesori della sapienza ci sono massime sapienti, ma per il peccatore è obbrobrio la pietà verso Dio. 26Se desideri la sapienza, osserva i comandamenti e il Signore te la concederà. 27Il timore del Signore è sapienza e istruzione, egli si compiace della fedeltà e della mansuetudine. 28Non essere disobbediente al timore del Signore e non avvicinarti ad esso con cuore falso. 29Non essere ipocrita davanti agli uomini e fa' attenzione alle parole che dici. 30Non esaltarti, se non vuoi cadere e attirare su di te il disonore; il Signore svelerà i tuoi segreti e ti umilierà davanti all'assemblea, perché non ti sei avvicinato al timore del Signore e il tuo cuore è pieno d'inganno. _________________ Note

1,1-23,28 Questa prima sezione ha come tema fondamentale la sapienza, con i diversi significati che ad essa si possono attribuire. L’autore non si preoccupa di seguire un’articolazione logica in questa esposizione e si notano ripetizioni di uno stesso tema o delle medesime situazioni. La sapienza è vista come una prerogativa di Dio, come l’ordine che regola e dà armonia al creato, come dono che Dio offre all’uomo.

1,11-30 Come già nel libro dei Proverbi, che il Siracide ha presente, il timore del Signore è visto anche qui nel suo duplice aspetto di radice e culmine della sapienza (Pr 1,7). Già in queste prime battute, il Siracide ama collegare la sapienza con l’osservanza dei comandamenti.

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Approfondimenti

Il c. 1 presenta due componimenti poetici, uno dedicato alle caratteristiche della sapienza (1, 1-10) e l'altro al timore del Signore (1,11-30).

vv. 1-10. Il primo brano (vv. 1-10) è delimitato da due inclusioni: l'aggettivo pas (tutto/ogni: vv. 1a.9c-10a) e la preposizione meta (con/su: vv. 1.10a). Evidente l'intento religioso universalistico: Ben Sira vuole abbracciare ogni sapienza, nel rapporto con il Signore, con tutte le sue opere e con ogni vivente. Da Dio creata – e perciò solo a lui nota in profondità (vv. 4.9) – la sapienza passa dalla comunione con lui a tutte le sue opere, a tutti i viventi (vv. 6.9c-10). Non è conquista umana. Lo dicono alcune domande retoriche, con immagini sapienziali tipiche: contare i granelli di sabbia dei mari, le gocce di una pioggia e i giorni del tempo (v. 2); esplorare gli ultimi confini di cielo, terra e abisso (v. 3); accedere alla «radice» nascosta, ai «disegni» insondabili della sapienza (v. 6). Se questa è la condizione umana, cosa può fare l'uomo per ottenere la sapienza? Ben Sira riassume la risposta in una sola parola, l'ultima del brano: amare Dio, perché così la sapienza verrà data all'uomo in abbondanza (v. 10). Amare: l'unico verbo del brano che ha per soggetto l'uomo e caratterizza la sua risposta alla «generosità» di Dio. «Uno solo è sapiente» (v. 8): di fronte e al di sopra di tutte le creature, l'autore presenta la realtà unica e trascendente di Dio. L'immagine del trono (v. 8) richiama la sua sovranità spazio-temporale. Avendo creato la sapienza «prima di ogni cosa» (v. 4a), egli la conosce e possiede in modo intimo e peculiare, la rivela e la effonde su quanti lo amano (vv. 6.9-10).

vv. 1-5. Sono individuabili tre temi, concernenti «ogni» sapienza: l'origine e la natura religiosa, non secolare (vv. 1.8), l'inaccessibilità (vv. 2-3.8), la preesistenza (v. 4). I vv. ricordano vari testi sapienziali. L'origine della sapienza è in Dio (cfr. Gb 12,13; Pr 2,6; Sap 7,26; 9,4). La sua inaccessibilità risuona nelle prime pagine della Bibbia (Gn 1-2), in Gb 38,16, ma anche in Paolo: sia quando parla delle «vie inaccessibili» del Dio creatore e redentore (Rm 11, 33) sia quando si riferisce all'«imperscrutabile ricchezza» di Cristo (Ef 3,8), resa manifesta dal ministero dell'apostolo. Il verbo caratteristico è exichniazein (v. 3), che significa «seguire la pista, ricercare». Nel contesto della lettera agli Efesini sono riprese e applicate in modo irripetibile a Cristo e alla vita cristiana tematiche sapienziali: la sapienza della creazione si rivela in Cristo mediante la Chie-sa. Il tema della preesistenza (cfr. Gb 28, 12-23; Prv 8, 22-31 e Bar 3,20-32) collega sapienza e legge mosaica, che i rabbini consideravano preesistente (cfr. Ber. Rabba, 8).

vv. 6-10. In evidenza i temi teologici di Dio sapiente, sovrano terribile (v. 8), creatore e conoscitore della sapienza (v. 9ab), generoso nel donare (vv. 9c.10a). Il tema degli uomini arricchiti dal suo dono e chiamati ad una risposta di amore (v. 10b) chiude la pericope. La sapienza del creatore è celebrata anche in Giobbe (cfr. 9,4; 12,13; Pv 8,14) e nei profeti (cfr. Is 28,29; 40,12-14; Ger 10,12). Ben Sira riprende molti motivi di questo brano nell'inno alla grandezza di Dio in 42,15-43, 33. Nel racconto della vocazione di Isaia è presente l'immagine del «Signore seduto sopra il trono» (6, 1), segno della santità trascendente di Dio. Altrove il trono indica la sua autorità suprema di giudice (cfr. Sal 9,5) e di signore della storia (cfr. Sal 47,9). Cfr. anche Sap 9,4. Dio “vede e misura” la sapienza: cfr. Sir 1,19; Gb 28,27. Circa l'“effusione” della sapienza, ricordiamo Gl 3,1-2 e At 2,17-18: Dio “effonde” su ogni creatura il suo spirito. In At 2,33 è Gesù risorto che “effonde” lo Spirito Santo ricevuto dal Padre. Il verbo usato in Sir 1,9c è lo stesso che nei LXX e in At: exechein «effondere, riversare». I destinatari – «tutte le sue opere» e «ogni carne mortale» – sono introdotti rispettivamente da epi (su) e da meta (con). La diversa preposizione lascia intravedere una sfumatura: «ogni mortale», sia ebreo che pagano, riceve dal Signore il dono della sapienza in un modo che lo accomuna e insieme lo distingue dalle altre «opere» di Dio. Tutto ciò diventa manifesto nella risposta di “amore”: mentre le opere partecipano del dono, l'uomo entra consapevolmente in comunione con colui che dona. È una prima comparsa del tema della dignità dell'uomo, particolarmente caro a Ben Sira (16, 24-17,14). Una dignità che deve risplendere soprattutto tra i fedeli che abitano la «città amata» (24, 11) di Gerusalemme, sede di quella sapienza personificata che si lega alla legge della vita (17,9), al «libro dell'alleanza del Dio altissimo» (cfr. 24,23).

vv. 11-30. In questo secondo componimento poetico sono individuabili due sezioni: la prima illustra i legami tra il timore del Signore e la sapienza (11-21); la seconda presenta le istruzioni utili a quanti desiderano la sapienza (22-30). Dal punto di vista letterario qualcuno vi trova un canto alfabetico (riducendo i 24 distici a 22, come le lettere dell'alfabeto ebraico), che farebbe inclusione con l'acrostico alfabetico conclusivo (51,13-30). Ne deriva una cornice per tutta l'opera di Ben Sira: all'inizio un brano sul legame della sapienza col timore di Dio, alla fine un racconto sulla ricerca appassionata della sapienza. Altri canti alfabetici ricorrono in 5, 1-6, 4; 6,18-37; 49,1-16. In Siracide, come in genere nella poesia biblica (cfr. Dt 32; Prv 31,10-31; Sal 25; 34; 37; 119; Lam 1-4), una simile composizione scandisce meglio le parti dell'opera e conferisce unità e completezza al brano. L'intera pericope (vv. 11-30) si apre e si chiude col tema del timore del Signore: da un lato, esso è motivo di vanto ed allieta il cuore (vv. 11-12); dall'altro smaschera il cuore «pieno di inganno» (v. 30ef), che non lo ricerca veramente. L'esordio (vv. 11-12) mette in evidenza i caratteri peculiari del timore del Signore: esso è gloria e vanto, gioia e benedizione. Sono vantaggi personali e sociali. Al centro della religione di Ben Sira non c'è posto né per il terrore fisico della divinità, né per il complesso di inferiorità del Giudeo davanti al Greco. Il timore del Signore per Ben Sira ha un legame costitutivo con la sapienza: ne è principio (v. 14), pienezza (v. 16), corona(v. 18) e radice (v. 20). Tutta l'esperienza sapienziale è posta sotto il segno di quel timore, che «cancella i peccati» (v. 21). Seguono alcune massime sulla pazienza del sapiente (v. 22-24) e sull'acquisto della sapienza, che avviene mediante la fiduciosa osservanza dei comandamenti (vv. 25-27) ed il costante rifiuto di ogni ipocrisia verso Dio e verso gli uomini (vv. 28-30). La pedagogia religiosa di Ben Sira si arricchisce di un altro termine tecnico: l'«istruzione/mansuetudine» (v. 27a). Il greco paideia rimanda a mûsar e a torah e dona un'altra importante sfumatura al “timore del Signore”, vero tema centrale, anzi “totale” di Ben Sira. Quel “timore”, presente dodici volte nella pericope e unasessantina di volte nel libro, supera la frequenza del termine sophia.

vv. 11-13. Il «timore del Signore» ha qui il significato ampio di vita religiosa, colta nei suoi risvolti vantaggiosi quotidiani. C'è un legame intimo tra religione e morale; chi lo rispetta ne trae subito un utile. L'elenco dei beni abbraccia la dimensione personale (felicità e gioia), quella sociale (gloria e beni che allietano il cuore) e quella temporale (vita lunga che si conclude felicemente). Il tema della “benedizione” di Dio nel giorno della morte di colui che lo teme (v. 13b) sembra contenere, nel greco, una sfumatura escatologica.

vv. 14-21. Ora il timore del Signore è presentato come principio e radice (vv. 14.20), pienezza e corona (vv. 16.18) della sapienza. Ben Sira ricorre ad altre immagini per descrivere la sapienza: il seno materno, in cui essa viene creata insieme con la vita dei fedeli (v. 14b); il nido, che essa pone in modo stabile tra gli uomini (v. 15); la casa e i magazzini, che essa riempie dei suoi beni (v. 17); i polloni e i rami, segno dei suoi frutti (vv. 18b.20b). Quando la sapienza è radicata nel timore di Dio, dà come frutto una lunga vita (vv. 12b.20b), perché esso «cancella i peccati» e «terrà lontana ogni collera» (v. 21). Per il rapporto tra timore del Signore e sapienza, cfr. Sal 111,10; Gb 28,28; Prv 1,7; 9,10; 15,33.

vv. 22-24. La seconda sezione (vv. 22-30) inizia con un bozzetto sociale, che introduce la prima coppia di antitesi. Ben Sira ritrae due caratteri che raggiungono esiti diversi: colui che si adira senza motivo (v. 22) e colui che sopporta in silenzio (vv. 23-24). Il primo cade vittima della sua passione incontrollata, il secondo consegue serenità ed elogi. Cfr. 27,30 e 28,3. È il paziente che riesce a «persuadere il giudice» (cfr. Pr 25,15).

vv. 25-30. Questi vv. anticipano quanto verrà ben sintetizzato in 19,20. Il peccatore, convinto che l'essere religiosi è una cosa abominevole (v. 25b), non presta attenzione al timore del Signore che, attraverso la sapienza, porta all'amore di lui (cfr. 1,25-27; 2,15). Diverso è l'atteggiamento dell'uomo pio: teme il Signore e desidera la sapienza, fa tesoro delle «massime istruttive» (v. 25a) e «osserva i comandamenti» (v. 26a), attenendosi a “ciò che piace” al Signore (v. 27b: eudokia). La fiducia e la mansuetudine (pistis e praotes in v. 27b), di cui Dio «si compiace», escludono «doppiezza di cuore» (v. 28b), «pieno di inganno» (v. 30t), e si manifestano in fede docile verso di lui e umiltà generosa verso il prossimo. Ben Sira invita a eliminare l'ipocrisia e la menzogna dal cuore, sede dell'intelligenza e della libera volontà: alla verità delle parole di Dio non si addicono labbra bugiarde che «parlano con cuore doppio» (Sal 12,3). Cfr. la doppiezza della lingua (5,9c) e dell'animo (Gc 1,8; 4,8) e le «due strade» del peccatore (2,12). Vedi anche 5,14; 6,1; 28,13. Il messaggio è sempre lo stesso: chi teme il Signore è “lineare” e costante nel pensiero e nelle manifestazioni esterne. Emergono i primi dati di un umanesimo religioso rinnovato: chi si mantiene sincero e umile con Dio e con gli uomini non corre rischi di cadere (vv. 29-30ab). Agli occhi dell'assemblea (v. 30d; forse la sinagoga: cfr. Pr 5,14) colui che teme il Signore non subirà umiliazioni, ma conserverà gloria e lunga vita (cfr. vv. 11-12). L'identificazione di coloro che temono il Signore con gli “umili del Signore” conclude il primo capitolo, invitando a ripercorrere la linea biblica del “Magnificat”: Ez 17,24; Prv 11,2; Mt 23,12; Lc 1,52-53.

Conclusione. L'inizio del capitolo fonde l'atto di fede con la contemplazione e lascia affiorare due aspetti, che avranno grande rilievo in seguito: da un lato la sapienza come arola e istruzione, dall'altro la Sapienza come persona e comunione (cfr. Sir 24). Il NT accoglie il tema di Dio che istruisce (cfr. Gc 1,5) e si serve, con un senso teologico nuovo, della personificazione della sapienza per parlare del Verbo di Dio (v.5; Gv 1,1-2). Il primo brano (vv. 1-10) introduce a tutta l'opera con riflessioni sulla sapienza uni-versale, prima creatura del Signore e suo precipuo attributo, presente nelle profondità dello spazio e del tempo, do no di Dio a tutti i viventi che lo amano. La seconda parte (vv. 11-30) presenta il timore del Signore, che merita la considerazione di tutti gli uomini, non solo dei fedeli (vv. 10.14-15). Senza un tale timore non sono possibili né i beni tradizionali come la gloria, la felicità, la lunghezza di giorni (vv. 11-13), né l'accesso alla pienezza della sapienza e dei suoi frutti (vv. 1.8-10.14-20). Ben Sira isola l'atteggiamento del peccatore e dell'ipocrita. Si rivolge a colui che «desidera la sapienza» (v. 26a): lo invita a ricercare il timore del Signore (v. 30e), che consiste nell'amore (v. 10) e che si manifesta nell'osservanza dei comandamenti (v. 26a) e nella realizzazione di “ciò che a lui piace” (v. 27b). Così il Signore gli concederà la sapienza in abbondanza (vv. 10b.26b). Si può concludere che il primo capitolo offre una sorta di sintesi della teologia e dell'antropologia di Ben Sira, insieme con un primo efficace sguardo sulla complessità della sua impresa educativa: rilanciare l'autentica via giudaica alla sapienza, in un contesto da cui traspaiono passioni e lotte, ipocrisie e infedeltà, con rischi per la sopravvivenza non solo socio-economica, politica e culturale (vv. 22. 29-30ab), ma anche morale e religiosa delle persone e delle istituzioni giudaiche (vv. 28,30c-t). Non si può ignorare come l'intero capitolo punti al «cuore» dell'uomo (v. 30f), nel desiderio di convincerlo a «ricercare il timore del Signore» (v. 30e): solo così potrà riconoscere la verità delle parole iniziali del libro, e cioè che non c'è sapienza che non venga da parte del Signore (v. 1).

(cf. PIETRO FRANGELLI, Siracide – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Il passaggio del Mar Rosso e la disfatta degli Egiziani 1Sugli empi sovrastò sino alla fine una collera senza pietà, perché Dio prevedeva anche ciò che avrebbero fatto, 2cioè che, dopo aver loro permesso di andarsene e averli fatti partire in fretta, cambiato proposito, li avrebbero inseguiti. 3Mentre infatti erano ancora occupati nei lutti e piangevano sulle tombe dei morti, presero un'altra decisione insensata e inseguirono come fuggitivi quelli che già avevano pregato di partire. 4A questo estremo li spingeva un meritato destino, che li gettò nell'oblio delle cose passate, perché colmassero la punizione che ancora mancava ai loro tormenti, 5e mentre il tuo popolo intraprendeva un viaggio straordinario, essi incappassero in una morte singolare. 6Tutto il creato fu modellato di nuovo nella propria natura come prima, obbedendo ai tuoi comandi, perché i tuoi figli fossero preservati sani e salvi. 7Si vide la nube coprire d'ombra l'accampamento, terra asciutta emergere dove prima c'era acqua: il Mar Rosso divenne una strada senza ostacoli e flutti violenti una pianura piena d'erba; 8coloro che la tua mano proteggeva passarono con tutto il popolo, contemplando meravigliosi prodigi. 9Furono condotti al pascolo come cavalli e saltellarono come agnelli esultanti, celebrando te, Signore, che li avevi liberati. 10Ricordavano ancora le cose avvenute nel loro esilio: come la terra, invece di bestiame, produsse zanzare, come il fiume, invece di pesci, riversò una massa di rane. 11Più tardi videro anche una nuova generazione di uccelli, quando, spinti dall'appetito, chiesero cibi delicati; 12poiché, per appagarli, dal mare salirono quaglie.

Gli Egiziani più colpevoli degli abitanti di Sòdoma 13Sui peccatori invece piombarono i castighi non senza segni premonitori di fulmini fragorosi; essi soffrirono giustamente per le loro malvagità, perché avevano mostrato un odio tanto profondo verso lo straniero. 14Già altri infatti non avevano accolto gli sconosciuti che arrivavano, ma costoro ridussero in schiavitù gli ospiti che li avevano beneficati. 15Non solo: per i primi ci sarà un giudizio, perché accolsero ostilmente i forestieri; 16costoro invece, dopo averli festosamente accolti, quando già partecipavano ai loro diritti, li oppressero con lavori durissimi. 17Furono perciò colpiti da cecità, come quelli alla porta del giusto, quando, avvolti fra tenebre fitte, ognuno cercava l'ingresso della propria porta.

Dio è il Signore della natura e delle sue leggi 18Difatti gli elementi erano accordati diversamente, come nella cetra in cui le note variano la specie del ritmo, pur conservando sempre lo stesso tono, come è possibile dedurre da un'attenta considerazione degli avvenimenti. 19Infatti animali terrestri divennero acquatici, quelli che nuotavano passarono sulla terra. 20Il fuoco rafforzò nell'acqua la sua potenza e l'acqua dimenticò la sua proprietà naturale di spegnere. 21Le fiamme non consumavano le carni di fragili animali che vi camminavano sopra, né scioglievano quel celeste nutrimento di vita, simile alla brina e così facile a fondersi. 22In tutti i modi, o Signore, hai reso grande e glorioso il tuo popolo e non hai dimenticato di assisterlo in ogni momento e in ogni luogo.

_________________ Note

19,1 L’ultima riflessione sugli avvenimenti dell’esodo è collocata nella cornice delle acque del Mar Rosso. L’uscita di Israele dalle acque del Mar Rosso è celebrata come una nuova creazione, l’apparire di un mondo nuovo (vv. 6-12).

19,13 Mentre gli abitanti di Sòdoma avevano infierito su ospiti sconosciuti (Gen 19,1-11), gli Egiziani hanno violato l’ospitalità nei confronti di forestieri benèfici, quali erano stati gli Ebrei durante la loro permanenza in Egitto (in un primo tempo accolti benevolmente, vennero poi condannati a duri lavori).

19,17 Furono perciò colpiti da cecità: allusione alla piaga delle tenebre, con la quale Dio punì gli Egiziani (Es 10,21-28) e alla cecità che colpì gli abitanti di Sòdoma, alla porta della casa di Lot (chiamato qui giusto, vedi Gen 19,11).

19,18-22 Il libro si conclude con il ringraziamento e la lode a Dio, per la bontà con cui circonda il suo popolo e lo rende grande e glorioso (v. 22). Il ricordo del passato diviene così messaggio di fiducia per il presente e per il futuro.

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Approfondimenti

Il c. 19 presenta l'ultimo dei sette dittici: annegamento degli Egiziani nel Mar Rosso – passaggio e liberazione degli Israeliti (vv. 1-21). Il dittico è articolato in quattro brevi unità: v. 1-5: empi; vv. 6-12: popolo santo e creazione; vv. 13-17: empi; vv. 18-21: popolo santo e creazione. L'andamento è caratterizzato dall'alternanza dei soggetti: al giudizio storico sugli empi (vv. 1-5) corrisponde il loro giudizio escatologico (vv. 13-17); alla salvezza storica del popolo eletto (vv. 6-12) corrisponde la salvezza escatologica nella nuova creazione (vv. 18-21). L'autore, giunto all'ultimo dittico, che illustra il tracollo degli Egiziani e la salvezza degli Israeliti, opera un allargamento di prospettiva. Poiché è l'ultimo dittico, il definitivo, esso acquista un significato tipologico, per cui l'autore con naturalezza passa dal piano storico a quello escatologico, e la descrizione escatologica avviene sulla falsariga della creazione; sicché abbiamo qui una sintesi stupenda dei tre momenti della storia salvifica: esodo, creazione, escatologia.

vv. 1-5. La prima unità è articolata in tre «infatti» («perché infatti»: v. 1b; «mentre infatti»: v. 3a; «infatti»: v. 4a; il primo e il terzo mancano nella traduzione BC), introdotti dalla sentenza lapidaria iniziale sulla condanna degli empi (v. 1a). Il primo afferma la prescienza divina circa la condotta degli Egiziani (vv. 1b-2), il secondo illustra il voltafaccia di questi ultimi (v. 3), il terzo motiva teologicamente la loro morte come il colmo dei castighi (vv. 4-5); così lo «sdegno» iniziale (v. la) viene ora specificato come «morte» (v. 5c).

v. 1a. «sdegno»: è sinonimo di ira e ne sottolinea propriamente l'espressione esterna, in tal caso la calamità del Mar Rosso. Questo sdegno divino si contrappone alla precedente manifestazione dell'ira divina perché, a differenza di quella (cfr. 18, 20c), dura fino alla fine e dunque non può essere temperato dalla misericordia (cfr. «implacabile»); emerge con chiarezza il carattere ultimativo del presente castigo.

v. 1b-3. L'irrevocabilità del giudizio divino è giustificata dall'ostinazione egiziana a combattere gli Ebrei, ostinazione prevista da Dio, ma non certo voluta. Il v. 2 specifica concretamente ciò che Dio vede nella sua prescienza. Il v. 2ab fa riferimento a Es 12,31-33, dove dapprima faraone e poi il popolo fanno pressione perché Israele si affretti a partire; il v. 2c riprende Es 14,5-9, dove si narra il voltafaccia egiziano e l'inseguimento fino al mare. Il racconto di Esodo non menziona i riti di lutto e i lamenti funebri degli Egiziani, ma questi si possono dedurre implicitamente dal testo di Nm 33,4.

vv. 4.5. «destino»: se i Greci conoscono un destino personificato, che predetermina gli eventi in modo ineluttabile e misterioso, lo Pseudo-Salomone pur usando il medesimo termine gli dà un significato diverso: non si tratta di una necessità cieca, indipendente da Dio e dalla libertà umana, bensì della conseguenza del cieco e ostinato peccato egiziano. La lenta sequenza delle piaghe, fino all'ultima e drammatica moria dei primogeniti, voleva essere da parte di Dio un forte invito alla riflessione e al ravvedimento; ne era però scaturita soltanto una serie di rifiuti, l'ultimo dei quali davvero emblematico (cfr. v. 3). Con questa figura del destino l'autore intende dunque rappresentare drammaticamente il mistero del peccato, realtà inspiegabile, ma tristemente presente nella storia dell'uomo.

vv. 6-12. Questa seconda unità si apre con un versetto che funge da titolo e da principio generale: obbediente agli ordini, la creazione coopera alla salvezza di Israele (v. 6). L'esperienza del prodigioso passaggio del Mar Rosso (vv. 7-8) e il dono delle quaglie, evidenziato dal contrasto con le piaghe egiziane (vv. 10-12), convergono al centro dell'unità, il v. 9, che sottolinea infatti la lode di Israele a Dio salvatore.

v. 6. L'autore interpreta gli eventi miracolosi dell'esodo come un nuovo intervento creatore di Dio; egli riprende così il tema della partecipazione del cosmo alla lotta contro gli empi, a cui aveva dedicato un primo accenno in 5,17 e una lunga riflessione nel quinto dittico (16,15-29). Lo Pseudo-Salomone può aver pensato alla teoria filosofica del mutuo scambio degli elementi; il suo intento però è di sottolineare la docilità della natura al volere divino.

v. 7. Dopo il principio generale (cfr. v. 6) l'autore offre qui alcuni esempi dell'attività creatrice di Dio al momento dell'esodo. Anche se nella sua espressione letterale il v. 7a farebbe piuttosto pensare a Nm 10,34, si riferisce certamente a Es 14, 19.20, dove la colonna di nube viene a interporsi tra l'accampamento ebraico e gli inseguitori egiziani. La nube rappresenta la presenza di Dio in mezzo al suo popolo e il verbo «coprire d'ombra» ricorda l'espressione di Gn 1,2, dove lo spirito di Dio aleggia sulle acque; con ciò si vuole affermare che Dio è nuovamente all'opera con la sua potenza creatrice. Il parallelo col racconto della creazione continua al v. 7b, dove l'emergere improvviso della terra asciutta dalle acque richiama Gn 1,9, e anche al v. 7d, dove l'immagine della pianura verdeggiante rievoca la sequenza di Gn 1,11-13.

v. 9. La rievocazione storica diventa inno e preghiera, esprimendo così la partecipazione dell'autore e della sua generazione al cantico di Mosè (cfr. Es 15) e il valore attuale della liberazione pasquale. Due immagini simboleggiano questa lode-preghiera: la prima, quella dei cavalli alla pastura richiama un'immagine parallela di Is 63,11-14 e forse si contrappone al tracollo dei cavalli egiziani in mare (Es 14,28); la seconda, quella degli agnelli esultanti, richiama l'immagine del Sal 114,4.6 e fa pensare ai cori di danza di Maria e delle donne al mare (Es 15,20).

vv. 10-12. Se la rievocazione del miracolo del mare (vv. 7-8) era sfociata nella lode (v. 9), quest'ultima viene ulteriormente motivata da un nuovo argomento, dal ricordo cioè delle piaghe egiziane; il ricordo non solo permette di rievocare ciò che è passato, ma permette pure una nuova e più profonda comprensione di quegli eventi alla luce del nuovo intervento salvifico divino. Il v. 10b ricorda anzitutto la terza piaga (cfr. Es 8,12-15), rileggendola però alla luce di Gn 1,24-25; la piaga rappresenta così un sovvertimento nella prosperità della terra: invece di animali terrestri produce zanzare, cioè esseri alati. Il v. 10c rievoca la seconda piaga (cfr. Es 7,26-8,11) di nuovo alla luce del racconto della creazione; infatti l'acqua invece di animali acquatici (cfr. Gn 1,20-21) produce le rane, animali piuttosto terrestri. Queste produzioni “anomale” della terra e del fiume richiamano alla mente dell'autore un'altra produzione “anomala” del mare, questa volta però a favore degli Israeliti: il miracolo delle quaglie. Anche se cronologicamente l'episodio si colloca nel contesto delle peregrinazioni nel deserto (cfr. Es 16,13; Nm 11,31-32), viene qui anticipato a motivo del tema. Parlando di «produzione» (v. 11a) e passando sotto silenzio nell'espressione «salirono dal mare» la menzione del vento (cfr. Nm 1,31), lo Pseudo-Salomone vuole di nuovo rileggere il miracolo alla luce del racconto di Gn 1: il mare anziché animali acquatici produce animali volatili.

vv. 13-17. La presente unità riprende il tema della prima ma ne allarga pure l'orizzonte con l'introduzione dei Sodomiti, non menzionati per nome, e soprattutto col passaggio alla prospettiva escatologica. Tre sono i momenti del castigo divino: «castighi» (v. 13a), «giudizio» (v. 15a), «cecità» (v. 17a), accompagnati tutti da una riflessione comparativa col comportamento dei Sodomiti: vv. 13d-14; 15b-16; 17b.

v. 13abc. I castighi si riferiscono alla catastrofe finale de gli Egiziani menzionata sopra (vv. 1-5). Essi piombano terribili ed inaspettati; erano stati tuttavia preceduti dai segni premonitori dei fulmini (circa questa tradizione, assente nel racconto di Esodo, cfr. Sal 77, 18-19 e la ricca tradizione giudaica: Filone, Vit. Mos. 2, 254; Giuseppe Flavio, Ant. 2, 343-344; Targum Es 14,24 [N]); questi segni rappresentano l'estremo tentativo di Dio di indurre gli Egiziani alla riflessione e alla conversione.

vv. 13d-14. Si adduce ora la causa di quel castigo: l'odio degli Egiziani per gli stranieri (v. 13d). E questo un problema molto vivo al tempo dell'autore; si comprende allora perché venga particolarmente accentuato, ripreso più volte e paragonato al comportamento dei Sodomiti (v. 14a).

vv. 15-16. Una traduzione più accurata della BC ci permette di cogliere meglio il senso: «E non solo! Ci sarà un giudizio diverso per loro, perché (quelli) accolsero con odio degli stranieri; ma questi, dopo aver accolto con gioia persone che condividevano già i loro diritti, le oppressero con duri lavori». Col v. 15 si passa dal piano storico al piano escatologico: non solo le varie piaghe d'Egitto conducono all'ultima piaga della catastrofe del mare, ma quest'ultima, a sua volta, è la premessa del giudizio escatologico. Il termine «giudizio» significa letteralmente «visita»; si tratta appunto della visita escatologica, che sarà positiva per i giusti (cfr. 2,20 [BC = «soccorso»]; 3,7.9.13), negativa invece per gli Egiziani; essi diventano così tipo degli empi. Il confronto Sodomiti-Egiziani continua anche su questo piano escatologico. Circa i primi l'autore sottolinea anzitutto l'inospitalità senza alcuna allusione diretta ai loro peccati sessuali (cfr. Gn 19, 1-11), e poi prospetta nei loro confronti un giudizio meno sfavorevole; circa i secondi lo Pseudo-Salomone ne accentua la colpevolezza

v. 17. In questo contesto escatologico il versetto non vuole semplicemente rievocare la piaga delle tenebre, che egli ha già lungamente descritto (cfr. c. 17), bensì la cecità ad essa conseguente e cioè la condizione dell'uomo che vive fuori della torah, essendo essa la vera luce (cfr. 18,4). È da questa cecità che furono colpiti gli Egiziani, come un tempo i Sodomiti alla porta della casa di Lot (Gn 19,11). Contrapposto a loro sta il giusto Lot, che rappresenta l'Israele fedele alla legge, modello per la generazione contemporanea a cui l'autore si rivolge.

vv. 18-21. Riprendendo dalla seconda unità (vv. 6-12) il tema della creazione che coopera alla salvezza del popolo santo, l'autore in questi ultimi versetti descrive la nuova creazione; infatti la salvezza storica degli Ebrei anticipa e prefigura precisamente la salvezza escatologica, simboleggiata appunto dalla nuova creazione. Al versetto iniziale che funge da titolo e da principio generale (v. 18) segue una duplice coppia parallela: animali (v. 19) – elementi fisici (v. 20); animali (v. 21ab) – elementi fisici (v. 21cd). Essi illustrano il principio della intercambiabilità degli elementi, all'apice dei quali lo Pseudo-Salomone colloca il cibo incorruttibile della nuova creazione.

v. 18. Grazie alla teoria greca dell'intercambiabilità degli elementi l'autore paragona gli eventi miracolosi dell'esodo a quanto avviene nel suono dell'arpa: pur conservando la medesima tonalità, le note variano nel loro ritmo, così gli elementi della natura si scambiavano le loro proprietà, pur permanendo nella loro natura. Mentre nell'antica creazione ogni elemento era legato a determinate regole e proprietà (cfr. Gn 1), nella nuova creazione gli elementi sono ormai intercambiabili, sempre comunque dietro l'esclusiva iniziativa di Dio.

vv. 19-20. I due versetti offrono alcuni esempi tratti dal racconto delle piaghe sulla intercambiabilità degli esseri animali e degli elementi. Il v. 19a si riferisce verosimilmente agli Israeliti stessi e al loro bestiame, che avanzarono attraverso le acque come esseri acquatici; l'emistichio seguente invece ala piaga delle rane (cfr. Sap 19,10c; Es 7,26-8,11); il v. 20 ricorda chiaramente il fenomeno del fuoco che ardeva tra la grandine e folgoreggiava fra le piogge (16,22cd) e il fenomeno dell'acqua che dimenticava la propria virtù e ravvivava sempre più il fuoco

v. 21. Questo versetto ricorda ancora la nuova proprietà del fuoco che non consuma gli animali delle piaghe, specialmente le cavallette (cfr. 16,18), ma soprattutto vuole attirare l'attenzione sul nuovo cibo. Nel deserto Dio aveva dato agli Ebrei un cibo celeste, per tutti i gusti, resistente al fuoco, segno della parola che nutre, e tale da condurre l'uomo al ringraziamento (16, 20.21.22.26.28); qui ci viene presentato il cibo della nuova creazione, le cui caratteristiche ricalcano quelle della manna: è un cibo ambrosiaco (viene dal cielo e, implicitamente, è segno della parola), resistente al fuoco, cioè incorruttibile, tale dunque da suscitare la lode (cfr. v. 22). È la realtà della vita che qui trionfa: non soltanto nella nuova creazione gli elementi cambiano funzione in favore dei giusti, ma questi avranno un cibo celeste incorruttibile, datore dunque di incorruttibilità. E di questa che la salvezza storica degli Israeliti al mare e il dono delle quaglie (vv. 6-12) erano figura ed anticipazione.

v. 22. La seconda persona dei verbi e il vocativo «Signore» conferiscono a questo versetto finale la forma di dossologia, interpretando così nel modo più felice il pensiero dello Pseudo-Salomone. Egli, infatti, volgendo indietro lo sguardo a tutta la storia delle piaghe, non può non esprimere tutto il suo sentimento di ringraziamento, di riconoscenza e di lode a Dio. Al centro del versetto c'è il verbo «hai reso glorioso»; il parallelismo col verbo precedente «hai magnificato» potrebbe affievolire la forza del primo, sì da indurre a interpretarlo come un semplice onorare, glorificare. In realtà è alle grandi opere di Dio, ai magnalia Dei, che il nostro verbo fa riferimento, acquistando così un forte significato soteriologico. Ora l'ultimo termine con cui si chiude il libro, «assistendolo» (in greco è alla fine del versetto), sottolinea enfaticamente l'incessante presenza salvifica di Dio; è a questa presenza salvifica, e nello stesso tempo imponente e gloriosa, che fa riferimento il verbo «rendere glorioso», perché gloria (kabôd) indica appunto quanto in Dio è appariscente per l'uomo, l'imponenza della sua manifestazione, che è sempre manifestazione salvifica. È proprio su questa presenza divina nella storia che l'autore vuole terminare l'intero libro, prefigurazione e anticipazione di una presenza definitiva che di lì a poco tempo inaugurerà i nuovi tempi: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).

(cf. MICHELANGELO PRIOTTO, Cantico dei Cantici – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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La luce illumina il cammino degli Israeliti 1Per i tuoi santi invece c'era una luce grandissima; quegli altri, sentendone le voci, senza vederne l'aspetto, li proclamavano beati, perché non avevano sofferto come loro 2e li ringraziavano perché non nuocevano loro, pur avendo subìto un torto, e imploravano perdono delle passate inimicizie. 3Invece desti loro una colonna di fuoco, come guida di un viaggio sconosciuto e sole inoffensivo per un glorioso migrare in terra straniera. 4Meritavano di essere privati della luce e imprigionati nelle tenebre quelli che avevano tenuto chiusi in carcere i tuoi figli, per mezzo dei quali la luce incorruttibile della legge doveva essere concessa al mondo.

La morte dei nemici e la salvezza dei giusti 5Poiché essi avevano deliberato di uccidere i neonati dei santi – e un solo bambino fu esposto e salvato –, tu per castigo hai tolto di mezzo la moltitudine dei loro figli, facendoli perire tutti insieme nell'acqua impetuosa. 6Quella notte fu preannunciata ai nostri padri, perché avessero coraggio, sapendo bene a quali giuramenti avevano prestato fedeltà. 7Il tuo popolo infatti era in attesa della salvezza dei giusti, della rovina dei nemici. 8Difatti come punisti gli avversari, così glorificasti noi, chiamandoci a te. 9I figli santi dei giusti offrivano sacrifici in segreto e si imposero, concordi, questa legge divina: di condividere allo stesso modo successi e pericoli, intonando subito le sacre lodi dei padri. 10Faceva eco il grido discorde dei nemici e si diffondeva il lamento di quanti piangevano i figli. 11Con la stessa pena il servo era punito assieme al padrone, l'uomo comune soffriva le stesse pene del re. 12Tutti insieme, nello stesso modo, ebbero innumerevoli morti, e i vivi non bastavano a seppellirli, perché in un istante fu sterminata la loro prole più nobile. 13Quanti erano rimasti increduli a tutto per via delle loro magie, allo sterminio dei primogeniti confessarono che questo popolo era figlio di Dio. 14Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo rapido corso, 15la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale, guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio, portando, come spada affilata, il tuo decreto irrevocabile 16e, fermatasi, riempì tutto di morte; toccava il cielo e aveva i piedi sulla terra. 17Allora improvvisi fantasmi di sogni terribili li atterrivano e timori inattesi piombarono su di loro. 18Cadendo mezzi morti qua e là, mostravano quale fosse la causa della loro morte. 19Infatti i loro sogni terrificanti li avevano preavvisati, perché non morissero ignorando il motivo delle loro sofferenze.

Minaccia di sterminio per Israele e intercessione di Aronne_ 20L'esperienza della morte colpì anche i giusti e nel deserto ci fu il massacro di una moltitudine, ma l'ira non durò a lungo, 21perché un uomo irreprensibile si affrettò a difenderli, avendo portato le armi del suo ministero, la preghiera e l'incenso espiatorio; si oppose alla collera e mise fine alla sciagura, mostrando di essere il tuo servitore. 22Egli vinse la collera divina non con la forza del corpo né con la potenza delle armi, ma con la parola placò colui che castigava, ricordando i giuramenti e le alleanze dei padri. 23Quando ormai i morti erano caduti a mucchi gli uni sugli altri, egli, ergendosi là in mezzo, arrestò l'ira e le tagliò la strada che conduceva verso i viventi. 24Sulla sua veste lunga fino ai piedi portava tutto il mondo, le glorie dei padri scolpite su quattro file di pietre preziose e la tua maestà sopra il diadema della sua testa. 25Di fronte a queste insegne lo sterminatore indietreggiò, ebbe paura, perché bastava questa sola prova dell'ira divina.

_________________ Note

18,5-19 La strage dei primogeniti egiziani è narrata in Es 11-12. Ad essa viene contrapposta la salvezza dei figli dei giusti (vv. 7-8). La strage è il castigo inferto da Dio agli Egiziani, perché il loro re aveva ordinato di uccidere i figli maschi degli Ebrei (Es 1,16). La notte in cui questa strage avviene è presentata nella cornice della Pasqua: mentre gli Ebrei celebrano la festa di liberazione, gli Egiziani assistono impotenti alla morte dei primogeniti.

18,9 L’offerta dei sacrifici in segreto si riferisce all’immolazione dell’agnello pasquale. Le sacre lodi dei padri sono i salmi “pasquali”, quelli cioè che cantano le grandi opere di Dio in favore del suo popolo (Sal 113-118; 136).

18,20-25 Nel deserto ci fu anche un intervento punitivo da parte di Dio nei confronti del proprio popolo, che si era ribellato (ribellione di Core, Nm 16,1-3, e mormorazione di tutto Israele contro Mosè e Aronne, Nm 17,6-15). L’autore riflette su questo fatto e risponde all’obiezione di chi sostiene che non esisterebbe distinzione tra giusti e ingiusti. L’ira di Dio, egli dice, non durò a lungo (v. 20), ma venne placata dalla preghiera di Aronne (v. 21).

18,24 portava tutto il mondo: la veste sacerdotale con i suoi ricami era simbolo dell’universo; sulle pietre preziose del pettorale erano incisi i nomi dei capostipiti delle tribù d’Israele (dodici, disposti su quattro file); sul diadema era incisa la frase: “Consacrato al Signore” (Es 28,36; Sir 45,6-22).

18,25 lo sterminatore: personificazione del castigo o flagello di Dio (Nm 17,12-15).

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Approfondimenti

v. 1a. «santi»: il termine definisce spesso il popolo di Israele sottolineando sia l'azione misteriosa di JHWH (cfr. 10,15.17; 18,5), sia il dono della legge (cfr. 18,1.9). Nel nostro caso è proprio il dono di quest'ultima che permette a Israele, nonostante i suoi peccati, di usufruire dello statuto di santità. L'aggettivo possessivo che accompagna il titolo di «santi» aggiunge infine una nota d'affetto e di intimità, ben lontana da un mero rapporto giuridico e in stridente contrasto col freddo pronome «essi» con cui l'autore designa gli Egiziani.

vv. 1b-2. Il castigo divino che raggiunge gli empi comporta pure una loro presa di coscienza e un riconoscimento (che non significa tuttavia pentimento) del male commesso, come ad es. appare dalla confessione degli empi di Sap 5,4-13 e dal dittico seguente (cfr. 18,19).

v. 3. Dalla luce si passa alla colonna di fuoco, ripetutamente menzionata nei testi di Esodo (13,21-22; 14,19.24; cfr. Nm 14,14); l'autore opera così un allargamento d'orizzonte per sottolineare che, al di là dei tre giorni della piaga, Israele era sempre accompagnato dalla luce.

  1. Qui appare il significato ultimo della luce: essa rappresenta la legge stessa; si tratta di un'idea tradizionale biblica (cfr. Is 2,5; Pr 6,23; Sal 119,105), che l'autore riprende e approfondisce ulteriormente tramite l'aggettivo «incorruttibile». L'uomo è chiamato da Dio all'incorruttibilità (cfr. 2, 23; BC = «immortalità»), cioè a stare vicino a Dio (6,19); proprio per l'amore divino per la vita delle sue creature egli ha infuso in esse il suo spirito incorruttibile (12,1). Ma come potrà l'uomo concretamente rispondere a questa chiamata divina all'incorruttibilità? Precisamente osservando le leggi (6,19), cioè tramite questa torah donata da Dio a Israele! E proprio questa la luce incorruttibile che accompagna costantemente il popolo; esso la dovrà non solo accogliere e vivere, ma anche testimoniare e portare al mondo intero. Appare qui chiaro in quale senso lo Pseudo-Salomone concepisca l'identità di Israele e anche giustifichi la sua presenza in mezzo alle nazioni. In questo contesto il significato primitivo della piaga s'è enormemente dilatato: le tenebre egiziane rappresentano l'ignoranza della torah ed implicitamente la preclusione all'incorruttibilità.

vv. 5-25. La struttura del dittico è costituita fondamentalmente da due unità: vv. 6-19; 20-25. Il motivo principale della prima è dato dalla morte del primogeniti egiziani, fatto che comporta però anche la salvezza degli Israeliti tramite la celebrazione della Pasqua; la seconda unità ha invece come tema unico la salvezza del popolo eletto, ottenuta grazie all'intercessione di Aronne; il v. 5 introduce non solo il dittico in questione, ma anche il seguente del c. 19. Mentre i vv. 20-25 costituiscono un brano unitario e ben articolato, l'unità 6-19 è costruita su tre piccoli brani facilmente riconoscibili: la notte della salvezza (vv. 6-9), il grido degli Egiziani (vv. 10-13), l'azione del logos (vv. 14-19). Le due unità del sesto dittico sono letterariamente unite dal termine logos-parola (vv. 15.22); si tratta della corrispondenza più importante, sulla quale si basa la contrapposizione Ebrei-Egiziani: tramite la parola gli Egiziani sono colpiti a morte, tramite la parola intercessoria di Aronne gli Ebrei ottengono la liberazione dalla morte. All'epoca della Sapienza la Pasqua è diventata una chiave teologica per interpretare tutta la storia della salvezza, cosicché la rievocazione della Pasqua egiziana permette allo Pseudo-Salomone non solo di rimontare all'epoca dei patriarchi (cfr. 18, 6), ma soprattutto di sottolineare l'attualità di questa festa in quanto celebrazione d'alleanza e momento di forte attesa escatologica (cfr. 18,7-9). Nel contesto pasquale il giudizio sui primogeniti egiziani acquista una dimensione nuova, escatologica, a prima vista impensata, e anche l'intercessione di Aronne assume un forte carattere d'attualità.

v. 5. L'autore, giunto al termine di una storia di rifiuto, interpreta la decima piaga e l'annegamento degli Egiziani nel mare come segno della condanna di Dio. Si tratta di una condanna definitiva; infatti l'espressione «tutti insieme» con la sua sfumatura di totalità non lascia più spazio per ulteriori piaghe e soprattutto l'uso del verbo «far perire» richiama la perdizione che viene da Dio, al di là di una semplice catastrofe naturale (questo verbo compare sempre, direttamente o indirettamente, in contesti in cui si tratta della perdizione che proviene da Dio: 4,19; 12,6.12; 14,6; 18,19).

vv. 6-9. Quest'unità presenta una progressiva specificazione dei contenuti. Al preannuncio della Pasqua ai patriarchi (v. 6) segue l'attesa del popolo, qualificata dall'autore come duplice attesa: della salvezza per i giusti e della rovina per i nemici (v. 7). Il v. 8 riprende i due elementi, approfondendo però quello positivo; infatti la salvezza dei giusti viene specificata come chiamata e glorificazione di Israele (v. 8b). Infine la chiamata e la glorificazione di Israele sono ulteriormente precisate nella descrizione della celebrazione pasquale al v. 9.

v. 6. Lo Pseudo-Salomone interpreta la notte pasquale come il compimento di una parola già annunciata al patriarchi (cfr. G n 15, 13-14); i plurali «padri» e «promesse» invitano tuttavia a non limitare questo preannuncio pasquale a un momento storico, bensì a riferirlo al complesso delle promesse patriarcali, come fa ad es. il Targum Es 12,42. Caratteristica poi del nostro testo è l'evidenziazione della conseguenza di tale preannuncio: «cosicché... potessero rallegrarsene» (BC = «perché... stessero di buon animo»). In riferimento alle promesse sopra citate, si tratta verosimilmente non solo della gioia di Abramo per la futura liberazione dei suoi discendenti dalla schiavitù egiziana, ma anche della sua gioia per la nascita di Isacco e per la liberazione del medesimo al momento del sacrificio.

vv. 7-8. L'attesa dell'evento pasquale da parte del popolo di Dio presuppone non più l'epoca patriarcale, bensì l'ultimo tempo del soggiorno in Egitto. Al v. 8, tramite il pronome «ci», l'autore e la generazione del suo tempo entrano direttamente in scena come protagonisti di quella storia: attraverso il memoriale liturgico la storia passata diventa storia ed esperienza presente. Lo Pseudo-Salomone definisce gli Israeliti come «tuo popolo» e «giusti». Nel linguaggio biblico «popolo» è un appellativo quasi esclusivo di Israele, ma ciò che fonda questo stretto rapporto è piuttosto il genitivo che lo accompagna: «di Dio» o il pronome corrispondente. È in questa particolare relazione con Dio che Israele in quanto popolo nasce, è qualificato e trova la sua identità. L'appellativo «i giusti» a partire da Sap 10, 20 fino alla fine rappresenta sempre Israele; si tratta di un Israele ideale, sistematicamente contrapposto agli Egiziani e una volta ai Cananei (12,9), un Israele ideale perciò, che incarna storicamente la figura del giusto dei primi capitoli e che mostra come, nonostante la persecuzione, Dio lo conduce al successo. La chiamata di Dio del v. 8b è l'invito a celebrare il sacrificio pasquale (cfr. Es 3, 18; 5, 3), chiamata che continua ogni anno con la celebrazione della Pasqua fino all'epoca dell'autore (cfr. «ci»).

v. 9. «legge divina»: nel lungo capitolo di Es 12 il termine torah (legge) compare una volta sola al v. 49 a conclusione di una pericope dove, al di là delle singole prescrizioni rituali sulla Pasqua, il tema di fondo è costituito dalla circoncisione, condizione irrinunciabile per la partecipazione alla celebrazione pasquale; la circoncisione, infatti, è il segno dell'alleanza e dell'appartenenza al popolo eletto (Gn 17,1.14) e quindi anche la condizione per la partecipazione al culto. Alla luce di questo contesto la legge di Sap 18,9 designa più specificatamente il “patto”, temine nel quale converge il concetto di alleanza e, più velatamente, il concetto di circoncisione. Come già la tradizione biblica (cfr. 1Re 8,9.21; Ger 31,32) e specialmente quella targumica (cfr. ad es. il Targum Zc 9, 11), anche lo Pseudo-Salomone rilegge la Pasqua alla luce dell'alleanza, sicché questa festa diventa il momento dell'unità, dove attorno all'alleanza e alla circoncisione il popolo ritrova la sua vera identità. La partecipazione alla celebrazione pasquale si traduce in un impegno (cfr. «si imposero»), che però non è un semplice impegno di solidarietà fra uomini, bensì una fraternità profonda creata dall'accettazione del dono divino dell'alleanza; si tratta, infatti, della legge «della divinità» (BC = «divina»), dove la specificazione vuole precisamente sottolineare la dimensione soprannaturale e l'iniziativa gratuita di Dio in favore dell'uomo. «beni e pericoli»: l'impegno dei partecipanti alla celebrazione pasquale è caratterizzato, oltre che dall'umanità (cfr. «concordi»), soprattutto dalla disponibilità a condividere beni e pericoli; col termine «beni» l'autore allude certamente al dono della manna o delle quaglie o dell'acqua, ma soprattutto ai beni spirituali, cioè alle promesse divine, come apparirà chiaro nell'imminente episodio del deserto (vv. 20-25). «canti di lode dei padri»: si tratta del canto dell'Hallel; quella Pasqua preannunciata ai patriarchi (v. 6) è ora motivo di canto e di ringraziamento per la generazione dell'esodo, inizio di una lode che è giunta ininterrotta sino alla generazione dell'autore.

vv. 10-13. Questa breve unità descrive la reazione degli Egiziani alla strage dei loro primogeniti. L'unità si apre con il lamento degli Egiziani che piangono i figli e si chiude con il riconoscimento da parte dei medesimi Egiziani della figliolanza divina di Israele; il grido iniziale è discorde (v. 10a; BC = «confuso»), il riconoscimento finale invece è unanime (v. 13b).

v. 10. Lo Pseudo-Salomone parte dal dato tradizionale di Es 11,6 e 12,30, dove si accenna al grande grido che strazia l'Egitto dopo la morte dei primogeniti; la sua originalità consiste soprattutto nel confrontare questo grido disperato con il canto pasquale degli Ebrei.

vv. 11-12. «Schiavo-padrone» e «popolano-re»: indicano le due categorie sociologiche estreme, entro le quali si collocano tutte le altre categorie intermedie. Dunque tutti gli Egiziani, senza eccezione alcuna, sono colpiti dalla stessa piaga; a differenza degli Ebrei, dove l'alleanza fonda l'intima unità fra i membri (v. 9bcd), qui è il castigo a creare una solidarietà d'altronde negativa e forzata. La vastità e la gravità della piaga emergono in crescendo tramite la successione degli emistichi: dapprima la frase lapidaria di 12b, poi l'iperbole dell'emistichio seguente, ed infine, in tutta la sua gravità, l'affermazione di 12d.

v. 13. «figlio di Dio»: il riferimento è a Es 4,22-23 in cui, con lo sguardo già rivolto alla decima piaga, si afferma chiaramente la figliolanza divina di Israele e la sua conseguente incompatibilità col servizio a faraone. Come gli empi dei primi capitoli, dapprima in forma dubitativa e sarcastica (2,18), poi forzati dalla realtà del giudizio divino (5,5), sono costretti a vedere in Israele il figlio di Dio, così i padri egiziani, privati drammaticamente dei loro primogeniti sono costretti a riconoscere che Israele, illeso dalla strage, non appartiene a loro, bensì a Dio, ne è il figlio per eccellenza.

vv. 14-19. La breve unità presenta una struttura binaria: vv. 14-16; 17-19. Dapprima viene descritta l'azione punitiva del logos in una cornice prettamente cosmica (cfr. il ricco vocabolario di termini naturali e cosmici: «silenzio-notte-tutte le cose-cielo-terra»), poi la descrizione passa invece al piano personale e psicologico (cfr. il vocabolario psicologico: «fantasmi-sogni-atterrire-timori-terrificanti»). Il nesso fra le due parti è costituito letterariamente dai due avverbi «allora» e «improvvisamente» (BC = «improvvisi»); il primo fa riferimento al tempo (mezzanotte), il secondo alla repentinità dell'evento.

vv. 15-16. Emerge in primo piano la figura possente e grandiosa della parola (logos), alla cui azione è attribuito l'eccidio dei primogeniti egiziani. Essa viene qualificata come onnipotente. Quest'aggettivo in 7,23 è riferito allo spirito della sapienza e in 11,17 all'azione punitrice di Dio; il verbo corrispondente ha sempre come soggetto Dio (11,23; 12,18; 14,4) e una volta la sapienza (7,27); così il sostantivo è costantemente riferito a Dio (7,25; 11,20; 12,15.17); dunque siamo di fronte a una qualità tipicamente divina. Anche le altre due qualificazioni «dal cielo» e «dal tuo trono regale» fanno riferimento alla sede di Dio (cfr. 9,4.10.16; 16,20). La figura del logos rappresenta cosi una personificazione della volontà divina, al fine di sottolineare che la parola di Dio è davvero presente nella storia degli uomini, efficace e dinamica. La descrizione del logos continua con l'immagine del guerriero inflessibile, che piomba sull'Egitto e che con la sua spada acuta colpisce a morte. Il vocabolario rinvia costantemente a Sap 5,17-23, dove tramite l'immagine tradizionale del guerriero si descrive l'intervento risolutore e definitivo di Dio con un totale sconvolgimento cosmico e la sconfitta degli empi. Così la piaga egiziana diventa pure segno e anticipazione del giudizio finale. Quest'interpretazione dello Pseudo-Salomone trova dei paralleli interessanti specialmente nella tradizione targumica (cfr. Targum Es 11,4: 12,12-13.23.27.29), dove è proprio alla parola che si attribuisce l'uccisione dei primogeniti e la salvezza degli

vv. 17-19. A mezzanotte apparizioni di terribili sogni sconvolgono l'animo dei primogeniti egiziani, provocando in loro timori inaspettati; la conseguenza di tutto ciò è che i primogeniti escono dalle loro case e cadono mezzi morti, chi qua, chi là; non muoiono però repentinamente, ma lentamente, mostrando la causa della loro morte. A chi mostrino la causa della loro morte non è detto; probabilmente ai genitori e agli altri Egiziani non toccati dalla piaga. Questa rivelazione tramite sogni ha lo scopo di rendere i primogeniti coscienti e non semplicemente oggetto del castigo divino.

vv. 20-25. La precedente descrizione della decima piaga potrebbe far sorgere l'obiezione che non solo gli Egiziani, ma anche gli Israeliti vennero colpiti in seguito da una moria nel deserto; l'autore risponde rievocando l'episodio di Nm 17,6-15, dove, in contrapposizione alla punizione degli Egiziani tramite la parola, evidenzia la salvezza degli Ebrei grazie alla parola d'intercessione. Il brano è caratterizzato da un movimento di tipo concentrico: annuncio della piaga e del suo carattere limitato (v. 20), Aronne usa l'arma della liturgia (v. 21abc), ferma il flagello (v. 23), indossa le insegne liturgiche (v. 24), annuncio della fine della piaga e del suo carattere limitato (v. 25).

v. 20. Lo Pseudo-Salomone interpreta la strage di Nm 17 come un giudizio divino su Israele; si tratta però di un giudizio limitato nel tempo e con valore educativo, è cioè una prova di Dio.

v. 21. «un uomo»: si tratta di Aronne, la figura dominante di questa unità. Egli è incensurabile come Abramo (cfr. Gn 17,1; Sap 10,5), Giobbe (cfr. Gb 1, 1.8; 2,3) ed Ester (cfr Est 8,12n), e come Mosè (cfr. Sap 10,15) è servo di Dio; con ciò lo Pseudo-Salomone presenta assai positivamente la figura di Aronne e le attribuisce un'importanza maggiore rispetto alla tradizione anticotestamentaria. Il dato nuovo della rilettura di Sapienza è costituito non solo dal fatto che è Aronne a prendere l'iniziativa (cfr. «si affrettò»), ma soprattutto dalla sua preghiera di intercessione, di cui in Nm 17,6-15 manca infatti ogni accenno esplicito. L'evidenziazione della preghiera significa che lo Pseudo-Salomone interpreta l'intervento di Aronne come un atto di intercessione; il carattere di espiazione rimane, perché legato all'offerta dell'incenso e alla menzione successiva della veste sacerdotale (v. 24), tuttavia diventa preminente l'aspetto di intercessione, cioè della preghiera.

v. 22. «parola»: il significato immediato è quello di parola di preghiera, con riferimento al v. 21c; tuttavia dietro questo termine significativo si cela pure un significato più profondo. Nel contesto della memoria liturgica (cfr. v. 22d) la funzione fondamentale del ricordare consiste nell'attualizzazione della storia salvifica e questa è resa possibile grazie al ruolo determinante della parola, che prende il posto dell'evento passato e ne rende presente ed efficace il valore salvifico. Se Aronne vince la piaga, è dunque grazie a questa parola! Nella memoria liturgica di Aronne, sebbene il nostro testo lo dica indirettamente, è presente ed operante la parola, che, in quanto parola di salvezza donata da Dio a Israele tramite l'alleanza, sconfigge la piaga. L'autore continua così la riflessione di 18,15-16: qui il logos colpisce i primogeniti egiziani salvando in tal modo gli Ebrei; nell'episodio del deserto è il medesimo logos che, grazie ala memoria liturgica di Aronne, sconfigge la piaga salvando ancora una volta il popolo eletto; tuttavia questo viene detto non esplicitamente, ma per via d'allusione tramite l'uso del termine logos.

v. 23. Come il giusto sta di fronte ai suoi persecutori e incute loro un grande timore (5,1-2) e come il logos sta di fronte agli Egiziani e semina la morte (18,16), così Aronne sta (BC = «ergersi») in mezzo e ferma la moria. Egli non resiste a Dio, anche se inizialmente la piaga è stata da lui inviata, perché in Aronne è presente la parola; come Dio può suscitare una piaga, così può anche fermarla. Infine lo stare di Aronne ricorda l'intercessione di Mosè e di Finees (cfr. Sal 106,23.30).

v. 24. Tre sono gli elementi essenziali del vestito liturgico di Aronne: la lunga veste talare (v. 24a), il pettorale (v. 24b) e il diadema (v. 24d). La prima rappresenta il meglio del lavoro umano e del materiale terrestre (cfr. Es 28,3; Sir 45,10-11), sicché essa diventa un microcosmo offerto tramite la liturgia a Dio; la liturgia del sacerdozio di Aronne diventa così, accanto ai miracoli dell'esodo, segno e tappa della grande lotta del cosmo contro gli empi. I nomi dei patriarchi incisi sul pettorale di Aronne significano che egli nell'esercizio del suo sacerdozio entra in stretta comunione con loro, anzi li rappresenta grazie alla memoria liturgica; è così che la promessa e l'alleanza si attualizzano in Israele. Il diadema (BC = «corona») indica la lamina d'oro fissata in fronte alla tiara tramite cordicelle di color giacinto; ora, almeno a partire dal I sec. a.C., questa lamina portava l'iscrizione del tetragramma del nome divino a ad esso allude il temine «maestà». È grazie a questa presenza del nome ineffabile che Aronne è consacrato a Dio (cfr. Es 28,36; 39,30) e ne rappresenta in modo del tutto particolare la presenza e la maestà.

v. 25. «lo sterminatore»: l'autore, riprendendo il termine da Es 12,23, ricollega intenzionalmente la piaga di Nm 17 a quella dei primogeniti egiziani; in entrambi gli episodi lo sterminatore agisce alle dipendenze di Dio; contro i primogeniti però il castigo è assoluto e inarrestabile, contro il popolo eletto è invece limitato. Grazie alle insegne sacerdotali, che fanno di Aronne il rappresentante del cosmo, dei patriarchi e di Dio stesso, lo sterminatore si intimorisce e indietreggia; in altre parole, l'intercessione di Aronne è pienamente accolta da Dio.

(cf. MICHELANGELO PRIOTTO, Cantico dei Cantici – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Le tenebre come castigo degli Egiziani 1I tuoi giudizi sono grandi e difficili da spiegare; per questo le anime senza istruzione si sono ingannate. 2Infatti gli ingiusti, avendo preteso di dominare il popolo santo, prigionieri delle tenebre e incatenati a una lunga notte, chiusi sotto i loro tetti, giacevano esclusi dalla provvidenza eterna. 3Credendo di restare nascosti con i loro peccati segreti, sotto il velo oscuro dell'oblio, furono dispersi, terribilmente spaventati e sconvolti da visioni. 4Neppure il nascondiglio in cui si trovavano li preservò dal timore, ma suoni spaventosi rimbombavano intorno a loro e apparivano lugubri spettri dai volti tristi. 5Nessun fuoco, per quanto intenso, riusciva a far luce, neppure le luci più splendenti degli astri riuscivano a rischiarare dall'alto quella notte cupa. 6Appariva loro solo una massa di fuoco, improvvisa, tremenda; atterriti da quella fugace visione, credevano ancora peggiori le cose che vedevano. 7Fallivano i ritrovati della magia, e il vanto della loro saggezza era svergognato. 8Infatti quelli che promettevano di cacciare timori e inquietudini dall'anima malata, languivano essi stessi in un ridicolo timore. 9Anche se nulla di spaventoso li atterriva, messi in agitazione al passare delle bestie e ai sibili dei rettili, morivano di tremore, rifiutando persino di guardare l'aria che in nessun modo si può evitare. 10La malvagità condannata dalla propria testimonianza è qualcosa di vile e, oppressa dalla coscienza, aumenta sempre le difficoltà. 11La paura infatti altro non è che l'abbandono degli aiuti della ragione; 12quanto meno ci si affida nell'intimo a tali aiuti, tanto più grave è l'ignoranza della causa che provoca il tormento. 13Ma essi, durante tale notte davvero impotente, uscita dagli antri del regno dei morti anch'esso impotente, mentre dormivano il medesimo sonno, 14ora erano tormentati da fantasmi mostruosi, ora erano paralizzati, traditi dal coraggio, perché una paura improvvisa e inaspettata si era riversata su di loro. 15Così chiunque, come caduto là dove si trovava, era custodito chiuso in un carcere senza sbarre: 16agricoltore o pastore o lavoratore che fatica nel deserto, sorpreso, subiva l'ineluttabile destino, perché tutti erano legati dalla stessa catena di tenebre. 17Il vento che sibila o canto melodioso di uccelli tra folti rami o suono cadenzato dell'acqua che scorre con forza o cupo fragore di rocce che precipitano 18o corsa invisibile di animali imbizzarriti o urla di crudelissime belve ruggenti o eco rimbalzante dalle cavità dei monti, tutto li paralizzava riempiendoli di terrore. 19Il mondo intero splendeva di luce smagliante e attendeva alle sue opere senza impedimento. 20Soltanto su di loro si stendeva una notte profonda, immagine della tenebra che li avrebbe avvolti; ma essi erano a se stessi più gravosi delle tenebre.

_________________ Note

17,1-20 Il testo racchiuso in 17,1-18,4 contiene la riflessione sulla piaga delle tenebre (Es 10,21-23). Al castigo delle tenebre viene contrapposto il beneficio della luce, mediante il quale Dio rende visibile la protezione accordata agli Ebrei.

17,2 lunga notte: simboleggia la condizione degli Egiziani, privi della luce della rivelazione di Dio. È anche immagine della condizione di peccato dell’empio (il giusto è, invece, nella luce).

17,10 coscienza (in greco syneidesis): il termine appare qui per la prima volta nella Bibbia greca; viene probabilmente dal linguaggio filosofico degli stoici.

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Approfondimenti

vv. 17,1-18,4. Il quinto dittico riprende la nona piaga egiziana delle tenebre (Es 10,21-23), opponendo le tenebre degli Egiziani (vv. 2-20) alla luce degli Ebrei (18,1-4). Tre inclusioni delimitano l'intero passo: «tenebre» (17,2b; 18,4a), «chiusi» (17,2c; 18,4c) e «senza legge (BC = iniqui) – legge» (17,2a; 18,4d). Mentre le prime due sottolineano l'oscurità che avvolge ed imprigiona gli Egiziani, l'ultima evidenzia positivamente il dono della legge rifiutato dagli Egiziani, ma accolto dagli Israeliti. Anche la contrapposizione fra le due parti è ben segnata: dopo un breve versetto introduttivo (v. 1), l'autore descrive anzitutto il castigo egiziano e significativamente una doppia inclusione evidenzia proprio in termini «tenebre» (vv. 2b.20bc) e «notte» (vv. 2b.20a) disposti in ordine chiastico. La controparte è costituita dai vv. 18, 1-4, caratterizzati da una nuova inclusione portante sul termine «luce» (vv. 1a.4ad). La descrizione della piaga delle tenebre nel racconto di Esodo è molto concisa (tre versetti appena!). Ciò permette al nostro autore di dare briglia alla sua fantasia creatrice e alle sue capacità letterarie. Certo lo stile è sovrabbondante e retorico, ma esso è al servizio di una teologia; l'arditezza delle metafore, il ricco pathos, la vivida descrizione del terrore che paralizza gli Egiziani, l'unità tra il piano fisico e quello spirituale, le ricche e numerose sottolineature psicologiche, tutto serve ad evidenziare il significato spirituale delle tenebre egiziane e della luce israelitica, cioè la condizione di peccato e la condizione di giustizia. Specialmente per quanto riguarda gli Egiziani è evidente l'enorme sforzo letterario dell'autore per descrivere e quasi far toccare con mano la realtà dell'empietà, una vera obnubilazione spirituale, che però non pareva tale ai suoi connazionali nel seducente ambiente alessandrino del I sec. a.C.

v. 2. In applicazione al principio di 11, 16, l'autore ci mostra che al progetto egiziano di dominare gli Israeliti fa riscontro, invece, la piaga delle tenebre; queste vengono costantemente rappresentate come delle catene che avvolgono inesorabilmente gli Egiziani (cfr. vv. 2b.16d.20bc; 18,4b). Il fallimento del tentativo egiziano sta nel fatto che Israele costituisce un popolo santo (cfr. Es 19,6), cioè un popolo che appartiene a Dio e sul quale faraone non può perciò accampare alcuna pretesa; gli Egiziani invece, in quanto «senza legge» (BC = «iniqui»), sono esclusi dalla provvidenza eterna, anticipazione dell'ade, dove infatti questa provvidenza cessa di esistere.

vv. 3-4. Lo Pseudo-Salomone propone ancora una seconda applicazione del principio di 11, 16: gli Egiziani sono persuasi di poter occultare i loro peccati nel segreto di una solidarietà piena di omertà; le tenebre invece li separano gli uni dagli altri (questo è il significato di «disperdere»), lasciandoli in balia di se stessi, dei loro spaventi e specialmente di lugubri fantasmi. Questi ultimi hanno soprattutto la funzione di ricordar loro precisamente quei peccati che essi volevano che rimanessero dimenticati (cfr. v. 3b).

vv. 5-6. In questa descrizione della piaga la notte acquista un rilievo particolare. Si tratta anzitutto di una notte lunga e cupa, impenetrabile ad ogni fuoco acceso dall'uomo v. 5a) e ad ogni luce astrale (v. 5bc); talvolta apparivano lampi potenti ed improvvisi, ma lungi dall'illuminare quella terribile oscurità, deformavano la realtà, fino a trastormarla in oggetti sinistri e ancor più paventabili.

vv. 7-9. L'isolamento degli Egiziani tocca pure le loro certezze culturali, giacché la scienza magica si trova impotente, anzi umiliata di fronte alla piaga. Lo Pseudo-Salomone allude ai maghi egiziani menzionati nel racconto di Esodo (Es 7,11-12.22; 8,3; 9,11), allargandone però la presenza anche alla piaga delle tenebre; egli vuole evidentemente polemizzare contro la pratica magica così diffusa nell'ambiente alessandrino. Con ironia l'autore ne condanna le false promesse, che invece di guarire fanno piombare in paure immotivate e ridicole. Ritorna infine la presenza ossessiva degli animali delle piaghe precedenti, che conduce gli Egiziani fino a una angoscia mortale.

v. 11. La definizione filosofica del timore come «rinunzia agli aiuti della ragione» (v. 11) presupporrebbe che quest'ultima abbia la capacità di controllo sulle passioni e sulle paure, secondo la linea di alcune scuole filosofiche, ad es. quella stoica; il nostro autore in realtà polemizza contro l'eccessiva fiducia nella ragione, mostrandone appunto i limiti, anzi l'impotenza. Soltanto la torah, come apparirà nella riflessione finale di 18,1-4, è la vera luce dell'uomo.

vv. 13-14. «essi»: sono ancora i maghi egiziani, che l'autore dipinge in preda ai medesimi fantasmi degli altri Egiziani (cfr. v. 4) e al medesimo sonno; quest'ultimo evoca soprattutto quell'immobilismo interiore paralizzante e pieno di paura, che li aveva spinti a rinunciare ad ogni soccorso della ragione e che già anticipava in loro la condizione esistenziale dell'ade (cfr. Gb 3,13; Ger 51,39.57). È percepibile l'ironia verso quelli che avevano preteso «di cacciare timori e inquietudini dall'anima malata» (cfr. v. 8)! «notte»: nuovi tratti vengono ad aggiungersi alla descrizione della notte (cfr. vv. 5-6): si tratta di una notte impotente e infernale. Essa non ha un potere assoluto sull'uomo, ma diventa strumento punitivo di Dio, che vuole colpire così l'arrogante sicurezza della magia egiziana proprio tramite un mezzo impotente! Il secondo tratto di questa notte è il suo carattere infernale. Gli inferi nell'ottica del libro della Sapienza rappresentano soprattutto il luogo della punizione definitiva degli empi (cfr. Sap 1, 12); questa notte egiziana perciò anticipa già e prefigura la notte escatologica, come apparirà esplicitamente al v. 20.

vv. 15-16. Contro ogni eventuale dubbio l'autore afferma che la piaga coinvolge tutto il paese, trasformandolo in un'immensa prigione, dove perciò porte e catenacci diventano utili.

vv. 17-18. I due versetti descrivono una serie di fatti naturali che, nonostante il loro carattere pacifico, paralizzano e terrorizzano gli Egiziani; è una lista artificiale che mira a raggiungere il numero sette e ad esprimere così il concetto di una totalità negativa. Queste tenebre non solo si ergono come un muro fra uomo e uomo, separando gli Egiziani gli uni dagli altri (cfr. v. 3c), ma li separano pure dalla natura, che cosi diventa a loro estranea e minacciosa.

vv. 19-20. In opposizione alla profonda tenebra egiziana emerge ora improvvisamente la luce, una luce ancora più vasta perché abbraccia tutto il mondo, e una luce che riconcilia uomo e natura tramite la serenità del lavoro. L'autore non menziona ancora gli Israeliti, perché tramiteil contrasto vuole aggiungere un ultimo tratto alla descrizione della tenebra. Questa infatti appare in tutta la sua tragica realtà: segno e anticipazione delle tenebre infernali e soprattutto terribile solitudine antropologica; è proprio quest'ultimo aspetto che definisce e caratterizza tragicamente gli inferi. Lo Pseudo-Salomone, che aveva già rilevato la separazione degli Egiziani fra loro (v. 3c) e con la natura (vv. 17-18), li mostra ora non solo isolati dagli altri popoli (v. 20a), ma perfino in dissidio interiore: l'amara coscienza del male commesso fa sentire la loro stessa esistenza come un orribile peso, più pesante delle stesse tenebre!

(cf. MICHELANGELO PRIOTTO, Cantico dei Cantici – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Le creature come castigo e beneficio: le quaglie 1Per questo furono giustamente puniti con esseri simili e torturati con una moltitudine di bestie. 2Invece di tale castigo, tu beneficasti il tuo popolo; per appagarne il forte appetito gli preparasti come cibo quaglie dal gusto insolito, 3perché quelli che desideravano cibo, a causa del ribrezzo per gli animali inviati contro di loro, perdessero anche l'istinto della fame, mentre questi, rimasti privi di cibo per un breve periodo, provassero un gusto insolito. 4Era necessario che su quei tiranni si abbattesse una carestia implacabile e a questi si mostrasse soltanto come erano tormentati i loro nemici.

Serpenti, cavallette, mosconi 5Quando infatti li assalì il terribile furore delle bestie e venivano distrutti per i morsi di serpenti sinuosi, la tua collera non durò sino alla fine. 6Per correzione furono turbati per breve tempo, ed ebbero un segno di salvezza a ricordo del precetto della tua legge. 7Infatti chi si volgeva a guardarlo era salvato non per mezzo dell'oggetto che vedeva, ma da te, salvatore di tutti. 8Anche in tal modo hai persuaso i nostri nemici che sei tu colui che libera da ogni male. 9Essi infatti furono uccisi dai morsi di cavallette e mosconi, né si trovò un rimedio per la loro vita, meritando di essere puniti con tali mezzi. 10Invece contro i tuoi figli neppure i denti di serpenti velenosi prevalsero, perché la tua misericordia venne loro incontro e li guarì. 11Perché ricordassero le tue parole, venivano feriti ed erano subito guariti, per timore che, caduti in un profondo oblio, fossero esclusi dai tuoi benefici. 12Non li guarì né un'erba né un unguento, ma la tua parola, o Signore, che tutto risana. 13Tu infatti hai potere sulla vita e sulla morte, conduci alle porte del regno dei morti e fai risalire. 14L'uomo uccide con la sua malvagità, ma non può far ritornare uno spirito che se n'è andato, né libera un'anima già accolta nel regno dei morti.

La grandine e la pioggia 15È impossibile sfuggire alla tua mano: 16perciò gli empi, che rifiutavano di conoscerti, furono fustigati dalla forza del tuo braccio, perseguitati da piogge strane, da grandine, da acquazzoni travolgenti, e consumati dal fuoco. 17E, cosa più sorprendente, nell'acqua che tutto spegne il fuoco prendeva sempre più forza, perché alleato dei giusti è l'universo. 18Talvolta la fiamma si attenuava per non bruciare gli animali inviati contro gli empi e per far loro comprendere a tale vista che erano incalzati dal giudizio di Dio. 19Altre volte, anche in mezzo all'acqua, la fiamma bruciava oltre la potenza del fuoco per distruggere i germogli di una terra iniqua.

La manna 20Invece hai sfamato il tuo popolo con il cibo degli angeli, dal cielo hai offerto loro un pane pronto senza fatica, capace di procurare ogni delizia e soddisfare ogni gusto. 21Questo tuo alimento manifestava la tua dolcezza verso i figli, si adattava al gusto di chi ne mangiava, si trasformava in ciò che ognuno desiderava.

Neve, acqua e fuoco 22Neve e ghiaccio resistevano al fuoco e non si fondevano, perché sapessero che il fuoco, che ardeva nella grandine e lampeggiava nelle piogge, distruggeva i frutti dei nemici; 23al contrario, perché i giusti si nutrissero, dimenticava perfino la propria forza. 24La creazione infatti, obbedendo a te che l'hai fatta, si irrigidisce per punire gli ingiusti e si addolcisce a favore di quelli che confidano in te. 25Per questo anche allora, adattandosi a tutto, era al servizio del tuo dono che nutre tutti, secondo il desiderio di chi ti pregava, 26perché i tuoi figli, che hai amato, o Signore, imparassero che non le diverse specie di frutti nutrono l'uomo, ma la tua parola tiene in vita coloro che credono in te. 27Ciò che infatti non era stato distrutto dal fuoco si scioglieva appena scaldato da un breve raggio di sole, 28perché fosse noto che si deve prevenire il sole per renderti grazie e incontrarti al sorgere della luce, 29poiché la speranza dell'ingrato si scioglierà come brina invernale e si disperderà come un'acqua inutilizzabile.

_________________ Note

16,1-4 Gli Egiziani sono puniti da una grave carestia, causata dall’invio di animali nauseanti (forse vi è un’allusione alla piaga delle rane, Es 7,28-29); gli Ebrei invece sono saziati mediante l’invio di quaglie (Es 16,9-13). Ciò che si dimostrò castigo per gli Egiziani, fu un beneficio per Israele.

16,5-14 Nel deserto anche gli Israeliti furono puniti con l’invio di serpenti velenosi, a motivo della loro contestazione nei confronti di Mosè (Nm 21,6), ma poi il serpente di bronzo innalzato da Mosè fu salvezza per loro (Nm 21,8-9). Agli Egiziani non fu concesso un rimedio simile, e caddero sotto la fitta invasione di cavallette e mosconi (Es 8,16-20; 10,15). Gli episodi narrati nel libro dell’Esodo vengono esposti dall’autore con grande libertà e in forme iperboliche.

16,15-19 Gli elementi atmosferici (pioggia, grandine, acquazzoni, fuoco) diventano strumenti di punizione per gli Egiziani, che hanno rifiutato di riconoscere Dio e la potenza prodigiosa della sua azione. L’autore si riferisce al testo di Es 9,13-35.

16,20-21 I giusti ottengono dal Signore un cibo speciale, cibo degli angeli: la manna (v. 20). L’autore offre del testo di Es 16 una lettura spirituale, che il NT farà propria (Gv 6,32-33.49-51).

16,26 Vedi Dt 8,3.

16,28 si deve prevenire il sole: allusione alla preghiera del mattino; ad essa, che costituisce la prima delle tre preghiere liturgiche quotidiane dell’ebraismo, invitano più volte i Salmi (vedi Sal 5,4; 88,14).

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Approfondimenti

vv. 1-4. La breve unità, determinata dall'inclusione «furon tormentati»— «erano tormentati» (vv. 1b.4d), è fortemente caratterizzata dalla contrapposizione Egiziani-Ebrei (vv. 1.2a; 3a.3d; 4a,4c). Questa triplice contrapposizione segue una progressiva determinazione: affermazione generale della punizione egiziana; ripugnanza per gli animali e perdita dell'appetito; conseguente carestia. Così per quanto concerne gli Ebrei: affermazione generale del beneficio accordato al popolo santo e sua specificazione nel cibo delle quaglie; squisitezza di questo cibo; presa di coscienza del beneficio ottenuto.

v. 1. «giustamente..»: l'avverbio, che assieme al corrispondente aggettivo definisce in Sapienza sempre (con l'eccezione di 13,15) il giudizio circa la sorte dei giusti (3,5; 6,16; 7,15; 9,12; 12,7) e degli empi (1,16; 12,26; 15,6; 16,9; 18,4; 19,4), esprime la profonda convinzione dell'autore circa la verità e la giustizia del giudizio divino, convinzione ora pienamente motivata dalle due lunghe digressioni precedenti. «numerose bestiole»: seguendo l'ordine del racconto di Esodo, si alluderebbe alla piaga delle rane (Es 7,26-8,11), tuttavia il termine greco ha una portata più ampia e designa in generale le bestie che mordono, cioè le bestie selvagge; così è possibile che il nostro autore alluda non solo alla piaga delle rane, ma anche alle altre piaghe (cfr. Es 8,12-28; 10,1-20).

vv. 2-4. Il riferimento è chiaramente all'episodio delle quaglie (cfr. Es 16,13; Nm 11,31-32), ma l'autore oltrepassa il semplice piano storico tramite una forte idealizzazione; passa intatti sotto silenzio le mormorazioni del popolo (cfr. Es 16,2-3.7-9.12) e l'ira punitrice di Dio (Nm 11,33-34); sottolinea come sia Dio stesso a preparare il cibo al suo popolo, quasi come a un ospite di riguardo; e se il testo biblico mostrava la brama di carne da parte di Israele (Es 16,3; Nm 11,4), qui si evidenzia il gusto squisito di questo cibo donato da Dio.

vv. 5-14. Ma non subirono anche gli Israeliti una piaga di serpenti nel deserto? (cfr. Nm 21,4-9)? A questa possibile obiezione pare voglia rispondere il nostro autore con il terzo dittico, nel quale infatti mostra il profondo significato pedagogico e salvifico di tale episodio. Punto di partenza è l'episodio biblico del serpente di bronzo (Nm 21,4-9), ma fortemente reinterpretato; lo Pseudo-Salomone infatti passa sotto silenzio numerosi elementi, come le mormorazioni del popolo, l'intercessione di Mosè, l'innalzamento del serpente di bronzo, per evidenziare invece con vigore e ripetutamente questo messaggio teologico: la salvezza proviene unicamente da Dio. L'unità è articolata in due serie di tre membri ciascuna in parallelo fra loro: a) 5-6; b) 7-8; c) 9-10; a) 11; b') 12; c) 13-14. Il parallelismo a-a' ha come tema il valore pedagogico dell'azione divina; i secondi due membri (b-b') sottolineano con forza il tema di Dio unico salvatore; per quanto riguarda gli ultimi due membri (c-c) l'opposta sorte degli Egiziani e degli Ebrei trova la sua vera ragione nell'opposizione fra Dio, detentore del potere sulla vita e sulla morte, e l'uomo che di tale potere è privo.

vv. 5-6. «i decreti della tua legge»: indicano qui la legge data da Dio, cioè la torah; essa costituisce il segno dell'alleanza tra Dio e il popolo e per quest'ultimo un impegno concreto all'osservanza dei singoli comandamenti. E alla luce del carattere educativo dell'azione di Dio che l'autore interpreta il serpente di bronzo definendolo «pegno di salvezza». Già nel racconto di Numeri lo sguardo al serpente di bronzo era soltanto la condizione per la liberazione dalla calamità. Qui, in quanto pegno di salvezza, esso diventa veramente il segno nel quale gli Israeliti possono riconoscere concretamente l'azione salvifica di Dio. E proprio a questo riconoscimento che mira l'azione pedagogica divina!

vv. 7-8. L'espressione «chi si volgeva a guardarlo» oltrepassa il semplice movimento fisico, per descrivere soprattutto la conversione dell'uomo a Dio; tramite un forte contrasto (v. 7ab), infatti, l'autore sottolinea che la salvezza di Israele proviene unicamente da Dio. Due espressioni caratterizzano questa realtà salvifica divina allargando l'orizzonte dal semplice piano storico dell'episodio di Numeri a quello universale: «salvatore di tutti» (v. 7c), e «che libera da ogni male» (v. 8b). La prima riprende un titolo ben noto nell'ambiente ellenistico, che qualificava dei e sovrani come donatori universali di pace e di benessere, ed applicava questa realtà a Dio soltanto; oggetto della sua salvezza sono non solo gli israeliti, ma tutti gli uomini (cfr. Sap 11,23). La seconda espressione estende questa salvezza ad ogni genere di mali e di pericoli, senza esclusione di sorta, come ben mostra l'intero libro della Sapienza, dove il verbo «liberare», costituisce un “leitmotiv” dell'azione di Dio e della sua Sapienza (cfr. 2,18; 10,6.9.13.15; 19,9).

vv. 9-10. Il v. 9 allude ala piaga dei tafani (Es 8,16-28) e a quella delle cavallette (Es 10,1-20), con una tendenza però ad accentuarne il carattere letale, così come fanno sia Filone che Giuseppe Flavio. La stessa personificazione della misericordia divina intende attirare l'attenzione del lettore su questo attributo divino, mostrandolo direttamente all'opera come donatore di salvezza. Siamo qui nel cuore del messaggio biblico, che attribuisce proprio alla misericordia divina l'opera salvifica (cfr. ad es. Sal 57,4-8; 78,38; Is 54,8); e non aveva già lo Pseudo-Salomone definito Dio come Signore di misericordia (9,1)?

v. 12. Ciò che nei vv. 7-8 si diceva di Dio, viene ora attribuito alla sua parola (con la ripresa dell'aggettivo «tutto»!); come già Sal 107, 20, così anche il nostro testo attribuisce la salvezza alla parola stessa. Lungi dal voler offrire una semplice personificazione letteraria, l'autore evidenzia con forza il modo concreto con cui Dio veicola la sua salvezza, tramite cioè una parola efficace, radicalmente diversa dalla parola umana, e presente in Israele.

vv. 13-14. Il v. 13 tramite l'uso di espressioni polari disposte in ordine chiastico («vita-morte»; «conduci giù-fai risalire») fonda l'affermazione del v. 12b: la parola di Dio ha il potere di guarire perché egli è il signore della vita e della morte. Queste espressioni, che provengono dalla tradizione biblica (Dt 32, 39; 1 Sam 2, 6; Tb 13, 2), alludono non solo alla salvezza operata da Dio da un terribile pericolo di morte, ma vogliono specialmente affermare il suo assoluto potere sulla vita e sulla morte, come si deduce dal v. 14, che proprio sulla privazione di un tale potere fonda la radicale differenza tra uomo e Dio.

vv. 15-29. Questo dittico occupa il centro del grande affresco che oppone Egiziani ed Ebrei; non sorprende perciò la sua importanza teologica. La contrapposizione verte sugli elementi atmosferici: da un lato piogge e grandine distruggono il raccolto degli Egiziani (vv. 16-19), dall'altro la manna sfama miracolosamente il popolo ebreo (vv. 20-23). Si tratta di due brevi unità che chiariscono sì la straordinarietà dei fenomeni naturali (vv. 18b.19c.23a), ma che soprattutto sottolineano l'intento educativo divino volto a suscitare una presa di coscienza in entrambe le parti (cfr. «per far loro comprendere»: v. 18c; «perché riconoscessero»: v. 22b). Ed è ancora in funzione di questo intento divino che alle due precedenti unità fa seguito la riflessione dei vv. 24-29; essa è incentrata, infatti, sulla proposizione finale del v. 26, che proclama esplicitamente la necessità imprescindibile di andare oltre il piano esteriore della storia, per coglierne il significato interiore. Così lungo tutto il dittico notiamo una costante: agli empi che rifiutano questa comprensione interiore (v. 16a), Dio risponde con la piaga, perché comprendano (v. 18c); a questa comprensione sono pure chiamati i giusti tramite il risvolto positivo della piaga (v. 22b); questa comprensione infine si svela come fede nella parola di Dio, vero ed indispensabile cibo dell'uomo (v. 26).

vv. 16-19. «gli empi»: sono gli Egiziani, la cui empietà viene subito caratterizzata come ostinato rifiuto a «riconoscere» JHWH (v. 16a), cioè a riconoscere nelle piaghe la sua presenza e la sua opera. In conseguenza essi abitano una «terra iniqua», cioè una terra abitata e coltivata da gente iniqua; così la terra stessa partecipa in qualche modo al peccato degli Egiziani. È dunque questa realtà di ostinato peccato che sta dietro tutta la piaga e che ne costituisce la motivazione profonda. La “piaga” qui evocata è quella della grandine (cfr. Es 9,13-35), però con alcune sottolineature proprie dell'autore. Tramite tre espressioni («strane piogge- grandine – acquazzoni travolgenti: vv. 16cd) egli evidenzia anzitutto la pioggia, che nel racconto di Esodo costituisce un elemento secondario (cfr. 9,33-34); la successiva menzione del fuoco (v. 16d) si appoggia Es 9,23.24, ma ad esso viene attribuito un ruolo assai più importante; è questo fuoco, infatti, che divora gli empi e non la grandine, come nel racconto della piaga egiziana (cfr. Es 9,19.25). Non solo acqua e fuoco coesistono una accanto all'altro senza distruggersi a vicenda, ma perfino cooperano; questo superamento delle leggi elementari della natura permette così all'autore di indicare il vero motivo di tutto questo e cioè che «l'universo si fa alleato dei giusti» (v. 17c).

vv. 20-23. La controparte positiva della grandine e della folgore è la manna, perché anch'essa viene dal cielo (cfr. Es 16,4; Sal 78,24; 105,40). Essa non è mai citata per nome; in compenso viene descritta a lungo in ben otto emistichi (vv. 20-22a) e con un vocabolario ricco di simbolismo e di teologia, che rivela il grande interesse dell'autore. Questi attinge non solo alla riflessione biblica (Es 16,1-36; Nm 11,6-9; 8,2-4.16; 5,12; Ne 9,15.20; Sal 78,23-25; 105,40), ma anche ala abbondante tradizione giudaica.

v. 20. Diversamente dal testo di Esodo che allude a una preparazione (cfr. Es 16,5.23), si tratta qui di un pane già pronto, che l'uomo ha solo da mangiare; è Dio infatti che l'ha preparato «senza fatica», a differenza di quanto avviene per il pane umano, che esige lavoro e fatica. Circa il sapore della manna il testo biblico la assimila a quello di una focaccia con miele (Es 16, 31) o a quello di pasta all'olio (Nm 11, 8); ma vi si ricorda anche il senso di nausea e di monotonia che gli Israeliti finirono per avere (Nm 11,4-6); in confronto, il nostro testo descrive una manna virtualmente ricca di ogni sapore, capace di soddisfare tutti i gusti, anzi a servizio del desiderio di ognuno (vv. 20c.21cd)! Lo Pseudo-Salomone attinge qui alla ricca tradizione esegetica giudaica, che attribuiva a questo cibo caratteristiche meravigliose e uniche.

v. 21. Ispirandosi verosimilmente a Es 16,31 e a Nm 11,8 lo Pseudo-Salomone vede nella manna un segno della «dolcezza» divina verso Israele. E la prima volta che nella Bibbia si parla della dolcezza di Dio, tema che avrà successo nella mistica cristiana; l'appellativo «i tuoi figli» precisa ancora che si tratta di una dolcezza di padre.

vv. 22-23. «neve e ghiaccio»: partendo da Es 16,14, che assimila la manna alla brina, e dalla versione greca di Nm 11,7, che paragona la manna al ghiaccio, il nostro autore suo definire questo cibo celeste come neve e ghiaccio. L'audacia dell'espressione è dovuta al fatto che gli serve un elemento di contrasto col fuoco per mostrare la totale dipendenza degli elementi naturali dalla volontà divina.

v. 24. I verbi «irrigidirsi» e «allentarsi» (BC = «addolcirsi») possono far pensare alla metafora dell'arco teso o allentato, segno di castigo o di beneficio, dove Dio è il guerriero e la creazione l'arco; ma questi due verbi appartengono pure al vocabolario della fisica stoica, secondo cui la concentrazione d'energia (irrigidirsi) assicura la stabilità di una sostanza e delle sue proprietà, mentre l'allentamento d'energia permette a una sostanza di subire l'azione di altre sostanze e di altre proprietà. E possibile dunque che qui lo Pseudo-Salomone pensi ancora alla piaga, dove appunto il fuoco si irrigidiva per resistere all'azione contraria dell'acqua ed accrescere così la propria energia, e la manna s'addolciva per arricchirsi delle proprietà più svariate.

v. 26. È la punta dell'intero dittico, dove l'intento pedagogico di Dio non vuole semplicemente far capire agli Egiziani e agli Israeliti che dietro le piaghe è lui stesso che opera (vv. 18cd.22bcd), bensì soprattutto specificare che, al di là dei vari segni, questa presenza si realizza concretamente nella parola! L'autore, riprendendo la nota riflessione di Dt 8, 3, interpreta la manna con le sue meravigliose qualità sopra ricordate precisamente come il segno della parola di Dio. Se questa parola esprime tutta la tenerezza paterna di Dio (nota le espressioni del v. 26a!), esige anche da Israele un profondo atteggiamento di fede (v. 26c), che non consiste semplicemente in un rapporto di conoscenza, bensì in un rapporto filiale: essi devono riconoscersi davvero come i figli prediletti di Dio. Alla luce di questa teologia non appaiono più eccessive le affermazioni sulla manna.

vv. 27-29. Ritornando ancora una volta alla manna, lo Pseudo-Salomone rileva che essa, nonostante resistesse al fuoco durante la sua cottura (v. 27a; cfr. vv. 22a.23), si scioglieva al calore del primo sole del mattino (cfr. Es 16,21); ciò gli permette di tirare una nuova conclusione, questa volta però d'ordine liturgico, e cioè la necessità della preghiera mattutina (v. 28). Si tratta anzitutto di una preghiera di ringraziamento, dove l'uomo prende veramente coscienza di tutti i benefici di Dio, in particolare, secondo il nostro contesto, del dono della parola, e li riconosce davanti a lui; è da questa preghiera di ringraziamento che potrà poi sorgere ogni altra preghiera (v. 28b). L'atteggiamento contrario, quello dell'ingrato, è destinato invece al fallimento: come la manna-brina fondeva ai raggi del primo sole (cfr. v. 27b), così fonderà la speranza dell'uomo ingrato; egli verrà disperso, come si getta via l'acqua sporca, usata per i lavori domestici e perciò non più utilizzabile.

(cf. MICHELANGELO PRIOTTO, Cantico dei Cantici – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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La fedeltà d’Israele all’unico vero Dio 1Ma tu, nostro Dio, sei buono e veritiero, sei paziente e tutto governi secondo misericordia. 2Anche se pecchiamo, siamo tuoi, perché conosciamo la tua potenza; ma non peccheremo più, perché sappiamo di appartenerti. 3Conoscerti, infatti, è giustizia perfetta, conoscere la tua potenza è radice d'immortalità. 4Non ci indusse in errore né l'invenzione umana di un'arte perversa, né il lavoro infruttuoso di coloro che disegnano ombre, immagini imbrattate di vari colori, 5la cui vista negli stolti provoca il desiderio, l'anelito per una forma inanimata di un'immagine morta. 6Amanti di cose cattive e degni di simili speranze sono coloro che fanno, desiderano e venerano gli idoli.

Il fabbricante di idoli 7Un vasaio, impastando con fatica la terra molle, plasma per il nostro uso ogni vaso. Ma con il medesimo fango modella i vasi che servono per usi nobili e quelli per usi contrari, tutti allo stesso modo; quale debba essere l'uso di ognuno di essi lo giudica colui che lavora l'argilla. 8Quindi, mal impiegando la fatica, con il medesimo fango plasma un dio vano, egli che, nato da poco dalla terra, tra poco ritornerà alla terra da cui fu tratto, quando gli sarà richiesta l'anima, avuta in prestito. 9Tuttavia egli si preoccupa non perché sta per morire o perché ha una vita breve, ma di gareggiare con gli orafi e con gli argentieri, di imitare coloro che fondono il bronzo, e ritiene un vanto plasmare cose false. 10Cenere è il suo cuore, la sua speranza più vile della terra, la sua vita più spregevole del fango, 11perché disconosce colui che lo ha plasmato, colui che gli inspirò un'anima attiva e gli infuse uno spirito vitale. 12Ma egli considera la nostra vita come un gioco da bambini, l'esistenza un mercato lucroso. Egli dice che da tutto, anche dal male, si deve trarre profitto. 13Costui infatti sa di peccare più di tutti, fabbricando con materia terrestre fragili vasi e statue.

Stoltezza degli Egiziani, dediti all’idolatria 14Ma sono tutti stoltissimi e più miserabili di un piccolo bambino i nemici del tuo popolo, che lo hanno oppresso. 15Perché essi considerarono dèi anche tutti gli idoli delle nazioni, i quali non hanno né l'uso degli occhi per vedere, né narici per aspirare aria, né orecchie per udire, né dita delle mani per toccare, e i loro piedi non servono per camminare. 16Infatti li ha fabbricati un uomo, li ha plasmati uno che ha avuto il respiro in prestito. Ora nessun uomo può plasmare un dio a lui simile; 17essendo mortale, egli fabbrica una cosa morta con mani empie. Egli è sempre migliore degli oggetti che venera, rispetto ad essi egli ebbe la vita, ma quelli mai. 18Venerano anche gli animali più ripugnanti, che per stupidità, al paragone, risultano peggiori degli altri. 19Non sono tali da invaghirsene, come capita per il bell'aspetto di altri animali; furono persino esclusi dalla lode e dalla benedizione di Dio.

_________________ Note

15,7-13 L’immagine del vasaio appare spesso nella Bibbia (vedi Sir 38,29-30; Is 29,16; 45,9; Ger 18,4): qui è presentata come esempio di colui che fabbrica gli idoli.

15,8 quando gli sarà richiesta l’anima: allusione al giudizio di Dio, dopo la morte.

15,14-19 Meritevoli di condanna sono soprattutto gli Egiziani, oppressori d’Israele e dediti al culto degli idoli di tutti i popoli: considerarono dèi anche tutti gli idoli delle nazioni (v. 15). È una condanna del sincretismo egiziano, ancora in auge al tempo in cui scrive l’autore del libro. Gli idoli vengono derisi sulla scia di Sal 115,4-7 e 135,15-17. Nei vv. 18-19 viene condannata la zoolatria, molto praticata in Egitto.

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Approfondimenti

vv. 1-6. L'unità è articolata in due parti (vv. 1-3; 4-6), introdotte entrambe dal pronome di prima persona plurale («nostro»: v. 1; «ci»: v. 4). La prima è una confessione dell'intima comunione che intercorre tra Israele e Dio, sottolineata letterariamente dai numerosi aggettivi e pronomi possessivi di seconda persona (tuoi – tua – ti – ti – tua); la seconda è una denuncia dell'idolatria culminante al v. 6.

v. 1. Ispirandosi specialmente alla descrizione di Es 34,6, ma anche linguaggio dei salmi, l'autore evoca i tratti salienti del Dio di Israele: «buono», con un accento personale e di perdono; «fedele», titolo nel quale confluisce sia l'assoluta lealtà di Dio agli impegni di alleanza, sia la sua veracità e autenticità, in contrapposizione all'inconsistenza degli idoli; «paziente», cioè l'opposto degli dei pagani vendicativi e gelosi; «secondo misericordia», dove la realtà di un Dio indulgente e aperto al perdono e alla grazia è accentuata dal fatto della sua onnipotenza (cfr. «tutto governi»).

vv. 2-3. Quattro volte ricorrono verbi attinenti al campo semantico del conoscere; è un conoscere non teorico e intellettuale, bensì esistenziale; si tratta, infatti, dell'orientamento totale di Israele verso Dio, anche al di là delle sue momentanee cadute nel peccato.

vv. 4-6. Nonostante la seduzione, Israele ha resistito all'idolatria; il merito – questo è detto solo implicitamente – va ascritto al dono della sapienza che gli ha permesso di conoscere il vero Dio. Evidentemente qui lo Pseudo-Salomone non si riferisce all'Israele storico, che spesso condivise le aberrazioni dei popoli pagani, bensì a quell'Israele ideale, numericamente minoritario ma qualitativamente unico e vero popolo di Dio, che durante i secoli rimase fedele a Dio e che è il vero modello per la comunità giudaica alessandrina. Il giudizio dell'autore sull'arte greca pare eccessivamente pessimista; egli è certamente influenzato dalla tradizionale ripulsa degli Ebrei per le immagini, ma qui la sua forte polemica non è contro l'arte in quanto tale, bensì contro gli idoli che essa rappresenta o comunque contro l'arte in quanto strumento e occasione di idolatria. Probabilmente al v. 5 c'è un'allusione alla celebre storia di Pigmalione, che si innamorò della statua di Afrodite da lui stesso scolpita. Una sentenza sapienziale chiude l'unità con una forte condanna degli idolatri. Costoro sono definiti «amanti del male» e si collocano così in contrapposizione radicale al giovane Salomone, che si innamora (letteralmente: «amante») della bellezza della sapienza (8,2).

vv. 7-13. Due termini posti in inclusione («terra-terrestre»: vv. 7a.13b; «vasi»: vv. 7d.13c) non solo delimitano l'unità, ma ne indicano pure il soggetto particolare, il vasaio che dall'argilla plasma i vasi. E l'ultima delle figure di fabbricatori d'idoli ricordate dall'autore; mentre il taglialegna risulta un povero uomo, ingenuo e sprovvisto di capacità critica, il vasaio appare invece in tutta la sua colpevolezza; è un cinico infatti, avido di denaro e consapevole del proprio peccato. Sullo sfondo di tutta la descrizione si sente imponente, ma anche discreta, la figura del Creatore, l'unico capace di dare all'argilla un alito di vita. Alla sua luce appare davvero ridicolo e malizioso il gesto del vasaio idolatra.

v. 8. L'argilla del vasaio con cui egli pretende di fabbricare idoli richiama la stessa realtà dell'origine dell'uomo, essendo egli stesso nato dalla terra. Qui l'autore si rifà a Gn 2,7 e specialmente a Gn 3,19, ma con un allargamento d'orizzonte, perché non è soltanto Adamo, ma ogni uomo ad essere tratto dalla terra; in ciò egli segue una riflessione biblica presente soprattuto in Giobbe (cfr. Gb 10,8-9; 33,6), ma anche in altri testi (ad es. Sal 103,13; Qo 3,20; 12,7). Dio dunque è ancora all'opera e trae dalla terra proprio questo vasaio che con la terra plasma idoli!

vv. 10-11. Riprendendo una frase di Is 44, 20 (LXX) l'autore qualifica come «cenere» il cuore di questo vasaio; essendo tutta la sua attività intellettuale e volitiva assorbita da un progetto radicalmente inconsistente come quello di fabbricare idoli, essa è davvero cenere, cioè una realtà interamente consumata e che non serve più a nulla. Il vasaio idolatra porta in sé già la morte, perché rifiuta l'autore della vita; essa infatti viene unicamente da Dio.

vv. 12-13. Tre detti correnti nel mondo greco descrivono in crescendo negativo l'attitudine interiore del vasaio. Il primo si pone in particolare contrasto con quanto precede, perché ad essere ritenuta trastullo è proprio questa nostra vita che abbiamo ricevuto dal creatore (v. 11). Il secondo alla nozione di gioco e di festa aggiunge quella di lucro; la vita deve essere infatti non solo una fiera, ma una fiera lucrosa. Col terzo detto non solo la festa, ma tutte le realtà e perfino il male (con ciò si intende specialmente la fabbricazione di idoli) vengono ridotte a puro strumento di profitto. È quest'unica sete di guadagno, distruggitrice di ogni valore e lucidamente perseguita, che rende il vasaio sommamente colpevole.

vv. 14-19. La presente unità costituisce la terza e ultima sezione della critica delle religioni pagane. Questa conclusione rappresenta pure il climax di tutta la lunga riflessione dell'autore, perché egli denuncia ora la forma peggiore dell'idolatria: la zoolatria! Responsabile non è più il generico mondo pagano, ma un popolo preciso: gli Egiziani. Questo permette all'autore di ricollegarsi col tema della piaga delle bestiole, che aveva preannunciato in 11,15 e poi ricordato in 12,23-25, e di preparare così la ripresa del midrash delle piaghe. L'articolazione di questa breve unità è semplice: una frase introduttiva (v. 14) qualifica e designa i colpevoli; ad essa seguono due motivazioni portanti, l'una sull'idolatria dei popoli (vv. 15-17), l'altra sul peccato specifico della zoolatria (vv. 18-19). La ripresa del dialogo diretto con Dio (cfr. v. 14) sottolinea la profonda partecipazione dello Pseudo-Salomone.

v. 14. «anima infantile»: qui, come in 12,24, indica il bambino che a causa dell'età è ancora privo di saggezza.

vv. 15-17. La stoltezza egiziana si fonda anzitutto sul fatto di condividere gli idoli dei pagani. Seguendo la tendenza biblica (cfr. Sal 115,5-7; 135,16-17; Dt 4,28; 5,23), l'autore sottolinea con vigore l'impotenza degli idoli, la quale proviene non solo dal loro essere fittizio, ma anche dal loro artigiano, l'uomo, che in quanto creatura non potrà mai trascendere il quadro della propria natura, anzi nemmeno creare un essere a lui simile.

vv. 18-19. Il secondo e più grave motivo della stoltezza egiziana è la zoolatria. E noto come il culto di animali vivi (gatti, cani, coccodrilli, serpenti, ippopotami...) fosse presente nella religione egiziana e che questo costituisse non solo oggetto di meraviglia, ma anche di condanna da parte degli autori greci e romani. Il nostro autore nella sua condanna mostra tutta l'irrazionalità di un simile culto: non solo si tratta di animali ripugnanti, ma anche di animali più stupidi di tutti gli altri; in essi è scomparsa perfino quella lode e quella benedizione che Dio aveva impartito a tutti gli animali al momento della creazione (Gn 1,21-22.25).

(cf. MICHELANGELO PRIOTTO, Cantico dei Cantici – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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La salvezza di chi naviga viene solo da Dio 1Anche chi si dispone a navigare e a solcare onde selvagge invoca un legno più fragile dell'imbarcazione che lo porta. 2Questa infatti fu inventata dal desiderio di guadagni e fu costruita da una saggezza artigiana; 3ma la tua provvidenza, o Padre, la pilota, perché tu tracciasti un cammino anche nel mare e un sentiero sicuro anche fra le onde, 4mostrando che puoi salvare da tutto, sì che uno possa imbarcarsi anche senza esperienza. 5Tu non vuoi che le opere della tua sapienza siano inutili; per questo gli uomini affidano la loro vita anche a un minuscolo legno e, avendo attraversato i flutti su una zattera, furono salvati. 6Infatti, anche in principio, mentre perivano i superbi giganti, la speranza del mondo, rifugiatasi in una zattera e guidata dalla tua mano, lasciò al mondo un seme di nuove generazioni. 7Benedetto è il legno per mezzo del quale si compie la giustizia, 8maledetto invece l'idolo, opera delle mani, e chi lo ha fatto; questi perché lo ha preparato, quello perché, pur essendo corruttibile, è stato chiamato dio. 9Perché a Dio sono ugualmente in odio l'empio e la sua empietà; 10l'opera sarà punita assieme a chi l'ha compiuta. 11Perciò ci sarà un giudizio anche per gli idoli delle nazioni, perché fra le creature di Dio sono diventati oggetto di ribrezzo, e inciampo per le anime degli uomini, e laccio per i piedi degli stolti.

Origine dell’idolatria 12Infatti l'invenzione degli idoli fu l'inizio della fornicazione, la loro scoperta portò alla corruzione della vita. 13Essi non esistevano dall'inizio e non esisteranno in futuro. 14Entrarono nel mondo, infatti, per la vana ambizione degli uomini, per questo è stata decretata loro una brusca fine. 15Un padre, consumato da un lutto prematuro, avendo fatto un'immagine del figlio così presto rapito, onorò come un dio un uomo appena morto e ai suoi subalterni ordinò misteri e riti d'iniziazione; 16col passare del tempo l'empia usanza si consolidò e fu osservata come una legge. Anche per ordine dei sovrani le immagini scolpite venivano fatte oggetto di culto; 17alcuni uomini, non potendo onorarli di persona perché distanti, avendo riprodotto le sembianze lontane, fecero un'immagine visibile del re venerato, per adulare con zelo l'assente, come fosse presente. 18A estendere il culto anche presso quanti non lo conoscevano, spinse l'ambizione dell'artista. 19Questi infatti, desideroso senz'altro di piacere al potente, si sforzò con l'arte di renderne più bella l'immagine; 20ma la folla, attratta dal fascino dell'opera, considerò oggetto di adorazione colui che poco prima onorava come uomo. 21Divenne un'insidia alla vita il fatto che uomini, resi schiavi della disgrazia e del potere, abbiano attribuito a pietre o a legni il nome incomunicabile.

L’idolatria è causa di ogni male 22Inoltre non fu loro sufficiente errare nella conoscenza di Dio, ma, vivendo nella grande guerra dell'ignoranza, a mali tanto grandi danno il nome di pace. 23Celebrando riti di iniziazione infanticidi o misteri occulti o banchetti orgiastici secondo strane usanze, 24non conservano puri né la vita né il matrimonio, ma uno uccide l'altro a tradimento o l'affligge con l'adulterio. 25Tutto vi è mescolato: sangue e omicidio, furto e inganno, corruzione, slealtà, tumulto, spergiuro, 26sconcerto dei buoni, dimenticanza dei favori, corruzione di anime, perversione sessuale, disordini nei matrimoni, adulterio e impudicizia. 27L'adorazione di idoli innominabili è principio, causa e culmine di ogni male. 28Infatti coloro che sono idolatri vanno fuori di sé nelle orge o profetizzano cose false o vivono da iniqui o spergiurano con facilità. 29Ponendo fiducia in idoli inanimati, non si aspettano un castigo per aver giurato il falso. 30Ma, per l'uno e per l'altro motivo, li raggiungerà la giustizia, perché concepirono un'idea falsa di Dio, rivolgendosi agli idoli, e perché spergiurarono con frode, disprezzando la santità. 31Infatti non la potenza di coloro per i quali si giura, ma la giustizia che punisce i peccatori persegue sempre la trasgressione degli ingiusti.

_________________ Note

14,1-11 La critica ora colpisce chi rivolge la propria preghiera agli idoli di legno. Ad essi i naviganti affidavano la protezione delle imbarcazioni. Non è l’idolo, ma Dio solo, a dare protezione, come già ai tempi di Noè, quando salvò l’umanità e ne garantì la sopravvivenza (v. 6: lasciò al mondo un seme di nuove generazioni). un legno: l’idolo.

14,6 la speranza del mondo: Noè (Gen 6).

14,15 e ai suoi subalterni ordinò: si riferisce ai riti delle religioni misteriche, diffuse nel mondo orientale e greco-romano (vedi anche 14,23).

14,21 nome incomunicabile: quello di Dio (nella forma YHWH), che gli Ebrei non possono pronunziare.

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Approfondimenti

vv. 1-10. L'autore continua la sua polemica antidolatrica proponendo una nuova figura, quella del marinaio che implora l'idolo protettore della sua nave. Anche qui si tratta di un idolo di legno e della preghiera rivolta ad esso; lo Pseudo-Salomone però approfondisce la riflessione affrontando il tema della provvidenza divina. Lo svolgimento del pensiero è chiaro e lineare: all'affermazione iniziale della maggior fragilità dell'idolo invocato rispetto alla nave che lo porta (v. 1) seguono tre motivazioni culminanti sulla provvidenza divina (vv. 2-3a); quest'ultima poi viene fondata con due ricche argomentazioni (vv. 3b-4; 5-7) disposte fra loro in ordine chiastico e facenti riferimento a due dati d'esperienza (navigazione di inesperti: v. 4b; navigazione in generale: v. 5bcd) e a due eventi della storia salvifica (il passaggio del Mar Rosso: v. 3bc; l'arca di Noè: v. 6). La riflessione poi si chiude con una breve unita (vv. 8-10), che da un lato riprende il discorso sull'idolo e all'altro introduce già il brano seguente.

vv. 2-3a. Le due motivazioni sono legate ad una argomentazione umana: al progresso economico dell'uomo che lo spinge a concepire l'idea di una nave, e alla sua capacità tecnica che gli permette di realizzare il progetto; ma esse sono superate dalla terza, con la quale l'autore si pone sul piano della fede: soltanto grazie alla provvidenza divina la nave potrà, una volta progettata e realizzata, affrontare il mare. Stilisticamente questo viene espresso dal passaggio alla seconda persona e alla forma di preghiera.

vv. 3b-4. L'evento più importante della storia salvifica, e cioè il passaggio del Mar Rosso, è la prima prova della provvidenza divina; infatti, tracciando per il suo popolo una strada sicura in mezzo al mare, Dio dimostra la sua assoluta signoria sulle acque! Si comprende perciò, ed è questo il dato di esperienza, che anche degli inesperti possano imbarcarsi senza timore su una nave. La conseguenza di tutto ciò non è solo la conferma di quanto detto al v. 3a, ma una nuova affermazione sull'onnipotenza salvifica divina (v. 4a); è quest'affermazione che occupa il posto centrale della prima argomentazione (vv. 3b-4).

vv. 5-7. L'autore inizia la seconda argomentazione con un'affermazione circa la positività e l'utilità di tutte le opere della sapienza (v. 5a); il mare è dunque una creatura utile ed infatti l'uomo se ne serve con la navigazione (v. 5bcd). A questo dato di esperienza si affianca di nuovo un dato biblico: l'arca di Noè (v. 6). Qui Noè viene presentato come il primo navigatore (vedi l'espressione: «in principio»), nel quale risalta in modo particolare l'assistenza provvidenziale di Dio. Questa appare specialmente nel contrasto Noè-giganti. Seguendo una nota tradizione giudaica (Sir 16, 7-8, 3 Mac 2, 4; Giuseppe Flavio, Ant. 1, 73.100), secondo cui i giganti primitivi (cfr. Gn 6,4) sarebbero stati annientati dal diluvio, l'autore contrappone la zattera di Noè alla possanza dei giganti; ma sarà soltanto il patriarca a salvarsi. Parimenti, è in questo Noè affidato a una fragile zattera che sopravviverà l'intera umanità. Confortato dall'inconfutabile dato biblico, l'autore può così concludere questa seconda argomentazione con una nuova affermazione di principio: Dio vuole che le sue creature rappresentate qui dal legno, siano utili (v. 7); dunque la fabbricazione di un idolo contraddice radicalmente la realtà di un Dio provvidente e dispensatore di benedizione.

vv. 8-10. Una profonda solidarietà intercorre tra l'idolo e il suo fabbricatore; con ciò il fabbricatore d'idoli diventa partecipe di tutti quei giudizi sarcastici sugli idoli espressi sopra. Ma in particolare lo Pseudo-Salomone alla benedizione precedente (v. 7) contrappone ora la maledizione; si tratta di una maledizione radicale e totale, che coinvolge non soltanto l'uomo, come nella tradizione biblica (cfr. ad es. Dt 27,15), ma anche l'idolo. Le conseguenze della maledizione sono due: l'essere in odio a Dio e il castigo. Già in 12,4 l'autore aveva espresso l'odio di Dio verso i Cananei, in quanto colpevoli di orribili delitti; qui ricompare la medesima espressione, perché l'idolatria, in quanto divinizzazione di una creatura (cfr. v. 8c), è davvero il massimo delitto che può compiere l'uomo.

vv. 11-31. Quest'unità costituisce la parte centrale della grande riflessione sull'idolatria (13,10-15,13) e anche il momento più importante; l'autore, infatti, non si limita a denunciare l'idolatria tramite la satira o la critica teologica, ma risale alla sua stessa origine, vedendovi una sorte di peccato originale che pesa gravemente sull'umanità e le cui terribili conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Un'ampia introduzione (vv. 11-14) preannuncia il castigo divino a causa degli idoli, adducendo due motivazioni: l'invenzione umana degli idoli e le conseguenti deviazioni morali; sono questi i due temi che verranno illustrati nei versetti seguenti. Infatti una prima parte (vv. 15-21) tratta l'argomento dell'origine del culto idolatrico ed una seconda parte (vv. 22-26) descrive tramite un catalogo di 22 vizi le terribili deviazioni morali causate dall'idolatria. La riflessione conclusiva (vv. 27-31), ricollegandosi all'introduzione, riprende il tema del castigo in riferimento però non più agli idoli, bensì agli idolatri spergiuri.

v. 11. «castigo»: l'inaugurazione del regno di Dio sulla terra comporterà l'annientamento degli idoli; essi infatti non hanno diritto di cittadinanza sulla terra in quanto non sono creature di Dio, ma rappresentano l'anticreazione, la pretesa divina dell'uomo. Tre termini descrivono l'assurdità creaturale degli idoli: abominio, scandalo, laccio; il primo sul piano dell'essere, i secondi due sul piano del comportamento.

v. 12. «prostituzione»: esprime bene l'intima connessione che l'autore sottolinea tra origine dell'idolatria e corruzione morale. Il termine, infatti, indica nel linguaggio biblico l'infedeltà religiosa di Israele; d'altra parte nel suo significato proprio la prostituzione diventa segno di tutta la corruzione morale che accompagna l'idolatria.

vv. 13-14. Trattandosi di un prodotto dell'uomo e non di una creatura di Dio, l'idolatria non potrà sussistere per sempre, ma sarà destinata a scomparire.

vv. 15-21. Oggetto di questi versetti è il preannunciato tema dell'origine del culto idolatrico. L'andamento della riflessione è ben articolato: il v. 15 illustra secondo un preciso ordine cronologico (lutto – immagine – apoteosi – culto misterico) l'apoteosi da parte del padre di un figlio precocemente morto e il successivo culto; il seguente v. 16 allarga l'orizzonte dal precedente piano familiare a quello sociale, introducendo l'apoteosi dei sovrani. A questa si arriva dapprima tramite la confezione di immagini (v. 17) e poi tramite la loro esplicita trastormazione in oggetto di culto, grazie anche alla connivente ambizione degli artisti e all'ingenua attrazione della gente (vv. 18-20). La conclusione del v. 21 riprende entrambi i casi con una forte riflessione teologica sul nome divino. 15. Le religioni misteriche conoscono una grande fioritura in questo I sec. a.C. e praticano un culto caratterizzato da insegnamenti segreti e da riti.

vv. 16-20. Lo Pseudo-Salomone, dopo aver accennato alle pretese divine dei re (v. 16b), insiste molto sulle immagini come fattore determinante del processo di divinizzazione. Per un Giudeo già la semplice immagine è carica di ambiguità e di pericolo ed è proprio essa che diventa oggetto di culto! In questo contesto l'autore polemizza pure contro l'arte greca, la cui seduzione non poteva non esercitare un forte ascino sugli ambienti giudaici, in particolare su quelli della diaspora.

v. 21. «nome incomunicabile»: si tratta verosimilmente del nome divino, JHWH, rivelato a Mosè (Es 3, 14), proprio soltanto di Dio, che deve rimanere nascosto e che l'uomo non può pronunciare; è partendo da questa concezione che si sente tutto l'orrore dell'autore per la divinizzazione di vili realtà terrestri, come pietre o legni! Da tale gravissimo abuso non potevano non scaturire terribili conseguenze morali.

vv. 22-26. Il catalogo dei vizi è introdotto dal v. 22 caratterizzato letterariamente da un doppio contrasto: conoscenza di Dio-ignoranza, guerra-pace, dove il capovolgimento dei valori è totale. Il catalogo stesso inizia al v. 23 e non offre alcun andamento logico, né la sua numerazione ha la pretesa della completezza, perché è estremamente varia, perfino casuale. C'è però un elemento organizzativo, che è dato dal numero 22, il numero delle lettere dell'alfabeto ebraico, e che richiama l'idea di totalità; ma si tratta di una totalità negativa. A questo catalogo si contrappone idealmente la lista delle 21 qualità della sapienza sopra ricordata (7,22-23).

v. 22. Non si tratta soltanto di una conoscenza di tipo filosofico, come nella diatriba cinico-stoica, bensì di una conoscenza biblica, dove accanto all'elemento intellettuale c'è tutto l'aspetto esistenziale dell'uomo. D'altronde il verbo «sbagliare» in Sapienza ha un significato profondamente esistenziale: è nella loro vita che gli empi sbagliano, specialmente nel loro modo di giudicare il giusto (1,12; 2,21; 5,6-7) ed è ancora a questo errare che l'autore imputa le varie forme di idolatria (11,15; 12,24; 13,6). Ne consegue un inquietante capovolgimento di valori, simboleggiato qui dal rovesciamento del comune senso dei termini «pace» e «guerra»; è il peccato del linguaggio, indice del totale pervertimento della verità. Già Isaia aveva denunciato con vigore questo capovolgimento di valori (cfr. Is 5,20).

v. 23. Per evidenziare lo stretto legame tra idolatria e immoralità, lo Pseudo-Salomone pone subito in primo piano le gravissime deviazioni dei culti misterici, specialmente quella dell'infanticidio. Egli si rifà verosimilmente alle numerose accuse che gli autori antichi muovono contro 1 misteri, specialmente quelli dionisiaci. Ma, come già a proposito dei Cananei (cfr. 12, 3-7), l'intento dell'autore non è semplicemente storico, rilevare cioè delle deviazioni, quanto teologico: egli vuole mostrare che la radice profonda dell'empietà sta proprio nell'idolatria e in particolare nella religione misterica, dove la pretesa sacralizzazione della vita nasconde in realtà i vizi più abominevoli. I veri «misteri» (BC = «segreti») a cui l'uomo deve rivolgersi sono invece quelli della sapienza (6,22), di cui l'autore nei capitoli precedenti ha appunto tessuto l'elogio e che ha additato come vera compagna di vita.

vv. 25-26. Per questo elenco di vizi lo Pseudo-Salomone trae ispirazione in parte dal decalogo, forse attraverso la rilettura di Os 4,2, e in parte dai cataloghi degli scritti filosofici greci. L'area sessuale è certamente quella più sottolineata.

vv. 27-31. Nel mondo greco-romano il giuramento viene considerato sacro e gioca un ruolo importante nella vita pubblica e sociale; nella tradizione biblica poi si è sempre avuto coscienza del carattere eccezionale del giuramento, perché con esso è Dio stesso che viene preso a testimone, e conseguentemente della gravità dello spergiuro. Il nostro autore è scandalizzato dalla facilità con cui nella società pagana si spergiura, nonostante il carattere religioso che si attribuisce al giuramento; ed egli vede proprio nell'idolatria la causa di questa continua violazione, essendo gli idoli inconsistenti e vacui. Questo comportamento però provoca una mentalità atea, secondo cui colui che conta nella storia non è più Dio, ma l'uomo e soltanto l'uomo. Ecco perché lo spergiuro costituisce il colmo d'ogni male ed è legato strettamente all'idolatria.

(cf. MICHELANGELO PRIOTTO, Cantico dei Cantici – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Critica al culto della natura 1Davvero vani per natura tutti gli uomini che vivevano nell'ignoranza di Dio, e dai beni visibili non furono capaci di riconoscere colui che è, né, esaminandone le opere, riconobbero l'artefice. 2Ma o il fuoco o il vento o l'aria veloce, la volta stellata o l'acqua impetuosa o le luci del cielo essi considerarono come dèi, reggitori del mondo. 3Se, affascinati dalla loro bellezza, li hanno presi per dèi, pensino quanto è superiore il loro sovrano, perché li ha creati colui che è principio e autore della bellezza. 4Se sono colpiti da stupore per la loro potenza ed energia, pensino da ciò quanto è più potente colui che li ha formati. 5Difatti dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si contempla il loro autore. 6Tuttavia per costoro leggero è il rimprovero, perché essi facilmente s'ingannano cercando Dio e volendolo trovare. 7Vivendo in mezzo alle sue opere, ricercano con cura e si lasciano prendere dall'apparenza perché le cose viste sono belle. 8Neppure costoro però sono scusabili, 9perché, se sono riusciti a conoscere tanto da poter esplorare il mondo, come mai non ne hanno trovato più facilmente il sovrano?

Critica al culto degli idoli_ 10Infelici anche coloro le cui speranze sono in cose morte e che chiamarono dèi le opere di mani d'uomo, oro e argento, lavorati con arte, e immagini di animali, oppure una pietra inutile, opera di mano antica. 11Ecco un falegname: dopo aver segato un albero maneggevole, ha tagliato facilmente tutta la corteccia intorno e, avendolo lavorato abilmente, ha preparato un oggetto utile alle necessità della vita; 12raccolti poi gli avanzi del suo lavoro, li consuma per prepararsi il cibo e saziarsi. 13Quanto avanza ancora, buono proprio a nulla, legno contorto e pieno di nodi, lo prende e lo scolpisce per occupare il tempo libero; con l'abilità dei momenti di riposo gli dà una forma, lo fa simile a un'immagine umana 14oppure a quella di un animale spregevole. Lo vernicia con minio, ne colora di rosso la superficie e ricopre con la vernice ogni sua macchia; 15quindi, preparatagli una degna dimora, lo colloca sul muro, fissandolo con un chiodo. 16Provvede perché non cada, ben sapendo che non è in grado di aiutarsi da sé; infatti è solo un'immagine e ha bisogno di aiuto. 17Quando prega per i suoi beni, per le nozze e per i figli, non si vergogna di parlare a quell'oggetto inanimato, e per la sua salute invoca un essere debole, 18per la sua vita prega una cosa morta, per un aiuto supplica un essere inetto, per il suo viaggio uno che non può usare i suoi piedi; 19per un guadagno, un lavoro e un successo negli affari, chiede abilità a uno che è il più inabile con le mani.

_________________ Note

13,1 I cc. 13-15 costituiscono un ampio sviluppo del tema dell’idolatria. L’autore distingue due categorie di idolatri: quelli che adorano la natura divinizzata (vv. 1-9) e quelli che adorano gli idoli, opera dell’uomo, e gli animali (13,10-15,19). Nella condanna di quanti adorano la natura (le sue forze e i suoi elementi), il rimprovero è più leggero (v. 6), perché l’autore riconosce loro la capacità di cogliere la bellezza del creato, anche se si lasciano ingannare e non raggiungono Dio, che è all’origine di quanto è nel creato. Viene affermata la possibilità della conoscenza naturale di Dio: l’uomo, dalla bellezza e dalla bontà delle creature, per analogia (v. 5) può giungere alla conoscenza di Dio, loro autore (vedi Rm 1,18-23).

13,10-19 Più severo è il giudizio nei confronti di chi adora le opere prodotte dalle mani stesse dell’uomo (oggetti di legno, di pietra, di metalli preziosi).

13,11-16 Ecco un falegname: la polemica contro gli idoli risente degli scritti dei profeti, che già si erano scagliati contro l’idolatria (vedi Is 40,19; 44,9-20; Ger 10,1-9).

13,14 minio: per il suo vivo colore rosso (colore ricco di simbolismi), veniva spalmato sugli amuleti e sulle statue.

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Approfondimenti

13,1-15,19. L'autore, dopo aver annunciato in forma ancora generica le piaghe delle bestiole in 11,15 e averle nuovamente ricordate in 12,23-25, prima di passare alla loro descrizione dettagliata (16,1-14), vuole dimostrare che gli Egiziani hanno davvero meritato questi castighi; infatti la zoolatria si rivela come il peggiore peccato e come la vera causa della loro catastrote finale. Ma questo giudizio sulla zoolatria comporta uno sguardo critico sull'idolatria in generale e sulle religioni pagane: è appunto il tema di questi capitoli 13-15 della Sapienza. Lo Pseudo-Salomone articola la sua riflessione in tre momenti, che corrispondono a tre tipi di religione: la religione dei filosofi (13,1-9), l'idolatria (13,10-15,13) e la zoolatria (15,14-19). Tre formule parallele introducono le tre sezioni: «davvero stolti.... considerarono come dei» (13,1.2); «infelici sono... chiamarono dei» (13,10); «ma sono tutti stoltissimi... considerarono dei» (15,14-15).

vv. 1-9. Il fallimento nella conoscenza di Dio accomuna, sia pure in grado diverso, Egiziani e filosofi; su questa incapacità di conoscenza di Dio attira l'attenzione l'inclusione con cui l'autore delimita questa prima unità: «non furono capaci di conoscere» (v. 1c; BC = «non riconobbero») – «furono capaci di conoscere» (v. 9a; BC = «poterono sapere»). Una prima parte, introdotta da un giudizio generico, espone succintamente il pensiero filosofico e i suoi limiti (vv. 1-5); una seconda parte esprime il giudizio critico dell'autore.

v. 1. Il Dio, che al roveto ardente s'è rivelato come colui che è (cfr. Es 3,14), e che a partire da Abramo ha guidato e ammaestrato il popolo eletto, è il medesimo Dio che si offre alla conoscenza dei pagani tramite il creato. Di conseguenza questi ultimi, non avendo riconosciuto l'artefice del cosmo, hanno pure mancato l'incontro col Dio di Abramo! Di qui il netto giudizio negativo dell'autore sui filosofi pagani e sui loro seguaci espresso tramite il termine «vani» (BC = «stolti»), termine che nel linguaggio biblico è particolarmente legato all'idolatria (cfr. 2Re 17,15; Is 44,9; Ger 2,5; 8,19; 10,3.15; Ez 8,10) e che sottolinea l'inconsistenza, l'illusione, la menzogna della condizione di colui che non ha alcun riferimento al Dio vero.

v. 2. Sei sono le realtà cosmiche divinizzate: il fuoco, il vento, l'aria, le stelle, l'acqua, i luminari del cielo. Il numero sei forse non è casuale; infatti pare che esprima l'imperfezione e l'incompiutezza di questa ricerca filosofica, in contrapposizione ai sette titoli che qualificano il vero Dio: «Dio» (v. 1b), «colui che è» (v. 1c), «artefice» (v. 1d); «Signore» (v. 3b), «autore della bellezza» (v. 3c), «colui che li ha formati» (v. 4b), «autore» (v. 5b).

vv. 3-5. La via scelta dai Greci per arrivare alla divinità, e cioè la contemplazione e la riflessione sulle realtà visibili, è giusta; se essi non sono giunti alla conoscenza del vero Dio, è perché non sono stati coerenti con la via intrapresa. Il principio di fondo è che l'artigiano è superiore alla sua opera, per cui Dio, in quanto creatore, è infinitamente superiore alle sue creature. A questa superiorità divina si arriva poi grazie al procedimento dell'analogia, per cui partendo dalla bellezza o dalla grandezza delle realtà visibili si può giungere all'infinita bellezza e grandezza di Dio. Questo sguardo umano su Dio è qui denominato contemplazione (v. 5b: «si contempla»; BC = «si conosce»); è un primo suggerimento dell'autore a non vedere qui un processo di conoscenza puramente speculativa, bensì un cammino che coinvolge l'uomo intero.

vv. 6-8. Da un lato traspare in questi versetti la simpatia del nostro autore per i filosofi greci e la sua apertura verso il tentativo del mondo pagano di aprirsi una via alla divinità; sono infatti persone che cercano Dio, che vogliono trovarlo (v. 6c) e che «compiono indagini» (v. 7a); di qui la benignità dell'autore nel rilevare le possibili scuse (cfr. «inganno» e «seduzione») e nel qualificare come leggero il rimprovero contro costoro. Dall'altro lato però il v. 8 afferma chiaramente la loro colpa; il «neppure» iniziale vuole accomunare costoro, sia pure con tutte le attenuazioni sopra menzionate, agli idolatri, di cui si parlerà nell'imminente nuova unità. Con ciò lo Pseudo-Salomone riprende il giudizio negativo iniziale (v. 1), non però per concludere la riflessione, ma, al contrario, per porsi l'importante domanda dell'ultimo versetto (v. 9).

v. 9. Apparentemente la domanda è senza risposta, in realtà è un invito a riconsiderare il problema alla luce di tutta la pericope e del suo contesto e a ritrovarvi così la risposta. Teoricamente l'autore riconosce ai filosofi la possibilità di giungere alla conoscenza di Dio tramite il metodo analogico che dalle realtà visibili porta a lui, ma di fatto riconosce che tale possibilità non s'è realizzata. Il problema, infatti, verte sul tipo di conoscenza che deve usare l'uomo per arrivare a Dio e qui la risposta dell'autore è sufficientemente chiara. Già in 2 egli aveva sottolineato che era a una comunione personale ed esistenziale con Dio che la pedagogia divina chiamava gli Egiziani; perciò la loro conoscenza forzata e intellettuale di Dio non aveva potuto scamparli dalla catastrofe (12,27). Parallelamente una conoscenza puramente intellettuale non può essere sufficiente ai filosofi per giungere a Dio. L'ignoranza loro rimproverata in 13,1 non è semplicemente di ordine intellettuale, bensì esistenziale, come prova il parallelo di 14,22, dove il medesimo termine fa riferimento alle deviazioni morali dei pagani; quando l'impegno morale ed esistenziale viene escluso dal processo di ricerca e di conoscenza di Dio, allora quest'ultimo è destinato a fallire. Positivamente è mancata alla ricerca filosofica pagana la sapienza! È appunto essa che la finale della preghiera di Salomone appassionatamente indicava come condizione necessaria per ogni conoscenza di Dio (9,13a.17).

vv. 13,10-15,13. Questa riflessione sull'idolatria è la più lunga; occupa infatti la parte preponderante dei cc. 13-15. È costruita su un'accurata struttura concentrica:

  • a) 13, 10-19: idoli di metallo, di pietra, di legno e presentazione di un taglialegna idolatra;
  • b) 4, 1-10: invocazione a Dio, allusione a episodi biblici, breve unità di transizione;
  • c) 14, 11-31: invenzione dell'idolatria e conseguenze morali;
  • b') 15, 1-6: invocazione a Dio, allusione a episodi biblici, breve unità di transizione;
  • a') 15,7-13: idoli d'argilla e presentazione di un vasaio

Al centro dell'intera riflessione viene evidenziato il male dell'idolatria nel suo momento originale, quando cioè appare nella storia. L'enumerazione dei vari idoli alle estremità della grande unità segue invece» un ordine decrescente, dai metalli più nobili alla vile argilla, significando così il deterioramento morale sempre più grave dell'uomo. A questo immenso movimento idolatrico si contrappone la testimonianza di alcuni tratti della storia salvifica (cfr. b.b').

vv. 10-19. Un giudizio sugli adoratori d'idoli (v. 10), parallelo a quello di 13,1, ma più negativo, introduce non solo la presente pericope, ma l'intera unità sull'idolatria (13,10-15,13). I versetti seguenti presentano poi concretamente un taglialegna e il suo idolo di legno (vv. 11-19). Dapprima l'autore descrive le varie azioni che portano alla costruzione dell'idolo (vv. 11-15), poi evidenzia la contraddizione tra l'impotenza dell'idolo e la preghiera ad esso rivolta (vv. 16-19). L'autore si ispira a Is 44, 9-20, mantenendo però una certa libertà e mostrandosi assai più vivace nella descrizione.

v. 10. «cose morte»: il termine, in inclusione col singolare di 13,18, sottolinea ed anche motiva l'infelicità di questi idolatri. Esso vuole contrapporre gli idoli non tanto al Dio vivente, quanto piuttosto all'uomo vivente, come emergerà soprattutto dall'affermazione ironica del v. 18. Ma anche nel confronto con le realtà cosmiche di cui s'è parlato prima gli idoli fabbricati dall'uomo sono «cose morte» cioè perdenti, perché esse posseggono almeno il movimento e la vita, al contrario degli idoli.

vv. 11-15. La descrizione della fabbricazione dell'idolo è articolata in sette momenti: taglio dell'albero e raschiamento della scorza (v. 11abc), confezione di un utensile (v. 11de), utilizzazione degli avanzi per preparare un cibo che sazia (v. 12), utilizzazione ulteriore di quanto rimane (v. 13abcd), confezione di un idolo ad immagine d'uomo o di animale (vv. 13e.14a), verniciatura (v. 14bcd), allestimento di un posto e fissazione al muro dell'idolo (v. 15). Emerge la figura di un artigiano che lavora con diligenza e metodo; però quella capacità tecnica che dovrebbe farlo partecipare all'attività creatrice di Dio, lo conduce invece a un idolo ignobile e impotente! Nel quarto momento della descrizione, quello centrale ed anche quello più lungo, l'autore sottolinea poi ripetutamente e con sarcasmo l'inutilità di quel legno: non è solo un avanzo di avanzi, ma è proprio buono a nulla, distorto e pieno di nodi; il minio serve a nascondere l'infima qualità del materiale; il rosso, cioè il belletto rosso prediletto dalle signore greche ed egiziane, fa apparire sarcasticamente questo idolo come una donna che vuole coprire col belletto le sue brutture o le sue rughe! Infine con l'ultima e plastica immagine dell'idolo inchiodato al muro l'autore vuole sarcasticamente evidenziare come esso abbia davvero trovato una degna dimora! Il legno di cui è costituito l'idolo è il materiale più povero fra quelli menzionati dall'autore; l'ordine infatti è decrescente: oro – argento – pietra (v. 10) – legno (v. 13). Così la destinazione del legno conosce un ordine decrescente: utensile per gli usi della vita – riscaldamento per preparare il cibo – idolo buono proprio a nulla.

vv. 16-19. Terminata la descrizione della confezione dell'idolo, l'autore evidenzia la totale impotenza dello stesso; se il fissarlo alla parete gli ha conferito una stabilità, si tratta di una stabilità inutile, incapace d'autonomia. Partendo da questa constatazione, risulta più evidente la contraddizione della preghiera che il taglialegna rivolge all'idolo (vv. 17-19). Questa preghiera consta di dieci richieste, tre all'inizio in un'unica proposizione (v. 17ab), a cui corrispondono altre tre nella proposizione finale (v. 19a); in mezzo quattro richieste comprendenti un emistichio ciascuna (vv. 17d.18abc). Le prime tre domande riguardano soprattutto la famiglia; le ultime tre, l'attività esterna; le quattro intermedie, temi vari, fra i quali spicca quello della vita. L'intero passo è caratterizzato soprattutto dall'antitesi tra richiesta e incapacità dell'idolo.

(cf. MICHELANGELO PRIOTTO, Cantico dei Cantici – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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1Poiché il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose. 2Per questo tu correggi a poco a poco quelli che sbagliano e li ammonisci ricordando loro in che cosa hanno peccato, perché, messa da parte ogni malizia, credano in te, Signore.

La moderazione di Dio verso i Cananei 3Tu hai odiato gli antichi abitanti della tua terra santa, 4perché compivano delitti ripugnanti, pratiche di magia e riti sacrileghi. 5Questi spietati uccisori dei loro figli, divoratori di visceri in banchetti di carne umana e di sangue, iniziati in orgiastici riti, 6genitori che uccidevano vite indifese, hai voluto distruggere per mezzo dei nostri padri, 7perché la terra a te più cara di tutte ricevesse una degna colonia di figli di Dio. 8Ma hai avuto indulgenza anche di costoro, perché sono uomini, mandando loro vespe come avanguardie del tuo esercito, perché li sterminassero a poco a poco.

La bontà di Dio spinge alla conversione 9Pur potendo in battaglia dare gli empi nelle mani dei giusti, oppure annientarli all'istante con bestie terribili o con una parola inesorabile, 10giudicando invece a poco a poco, lasciavi posto al pentimento, sebbene tu non ignorassi che la loro razza era cattiva e la loro malvagità innata, e che la loro mentalità non sarebbe mai cambiata, 11perché era una stirpe maledetta fin da principio; e non perché avessi timore di qualcuno tu concedevi l'impunità per le cose in cui avevano peccato. 12E chi domanderà: “Che cosa hai fatto?”, o chi si opporrà a una tua sentenza? Chi ti citerà in giudizio per aver fatto perire popoli che tu avevi creato? Chi si costituirà contro di te come difensore di uomini ingiusti? 13Non c'è Dio fuori di te, che abbia cura di tutte le cose, perché tu debba difenderti dall'accusa di giudice ingiusto. 14Né un re né un sovrano potrebbero affrontarti in difesa di quelli che hai punito. 15Tu, essendo giusto, governi tutto con giustizia. Consideri incompatibile con la tua potenza condannare chi non merita il castigo. 16La tua forza infatti è il principio della giustizia, e il fatto che sei padrone di tutti, ti rende indulgente con tutti.

La bontà di Dio è un esempio per tutti 17Mostri la tua forza quando non si crede nella pienezza del tuo potere, e rigetti l'insolenza di coloro che pur la conoscono. 18Padrone della forza, tu giudichi con mitezza e ci governi con molta indulgenza, perché, quando vuoi, tu eserciti il potere. 19Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini, e hai dato ai tuoi figli la buona speranza che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento. 20Se infatti i nemici dei tuoi figli, pur meritevoli di morte, tu hai punito con tanto riguardo e indulgenza, concedendo tempo e modo per allontanarsi dalla loro malvagità, 21con quanta maggiore attenzione hai giudicato i tuoi figli, con i cui padri concludesti, giurando, alleanze di così buone promesse! 22Mentre dunque correggi noi, tu colpisci i nostri nemici in tanti modi, perché nel giudicare riflettiamo sulla tua bontà e ci aspettiamo misericordia, quando siamo giudicati. 23Perciò quanti vissero ingiustamente con stoltezza tu li hai tormentati con i loro stessi abomini. 24Essi si erano allontanati troppo sulla via dell'errore, scambiando per dèi gli animali più abietti e più ripugnanti, ingannati come bambini che non ragionano. 25Per questo, come a fanciulli irragionevoli, hai mandato un castigo per prenderti gioco di loro. 26Ma chi non si lascia correggere da punizioni derisorie, sperimenterà un giudizio degno di Dio. 27Infatti, soffrendo per questi animali, s'indignavano perché puniti con gli stessi esseri che stimavano dèi, e capirono e riconobbero il vero Dio, che prima non avevano voluto conoscere. Per questo la condanna suprema si abbatté su di loro.

_________________ Note

12,4-5 compivano delitti ripugnanti: vengono elencate alcune abominevoli usanze (sacrifici umani, magia, infanticidio, cannibalismo) di cui erano accusati i Cananei (vedi Lv 18,21; Dt 18,9-14; 2Re 3,27; 23,10).

12,11 stirpe maledetta: richiama la vicenda narrata in Gen 9,20-27, dove Noè aveva maledetto Canaan, figlio di Cam e capostipite dei Cananei.

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Approfondimenti

vv. 3-27. Questa seconda riflessione h a per oggetto i Cananei: a chi volesse obiettare contro la filantropia divina adducendo il fatto dello sterminio degli antichi abitanti di Canaan, l'autore risponde che Dio anche nei loro confronti ha agito con moderazione. I Cananei erano gravemente colpevoli e meritevoli di morte (vv. 3-7), ma, essendo uomini, Dio fu loro indulgente (v. 8a) e li colpì a poco a poco, concedendo loro la possibilità di pentirsi, nonostante l'atavica ostinazione nel male (vv. 8b-11). L'azione di Dio è strutturalmente fondata sulla giustizia (vv. 13-15), anzi la sua giustizia proviene direttamente dalla sua onnipotenza (v. 16a), per cui egli agisce con indulgenza verso gli uomini (vv. 16b-18). Seguono infine due riflessioni conclusive, una su Israele (vv. 19-22) e l'altra sugli Egiziani (vv. 23-27). La presente riflessione teologica continua certamente quella iniziata nella sezione precedente; la scelta però del caso dei Cananei è dovuta alla necessità di giustificare teologicamente la conquista israelitica di Canaan, argomento questo particolarmente dibattuto nella letteratura apologetica giudaico-ellenistica.

vv. 3-7. «terra santa»: quest'appellativo, noto già nell'AT (cfr. Zc 2,16; 2Mac 1,7), è specialmente usato dal giudaismo della diaspora e sottolinea non solo il profondo vincolo che univa quest'ultimo alla terra dei padri, ma anche una concezione teologica; si tratta infatti di un «paese che è possesso del Signore, dove è stabilita la Dimora del Signore» (Gs 22, 19); perciò ogni peccato ne costituisce una contaminazione (cfr. Lv 18,24-30; Ez 36,16-18). L'autore dapprima qualifica e determina progressivamente i peccati dei Cananei (v. 4) e poi li descrive (vv. 5.6a). Si tratta anzitutto di delitti ripugnanti, tali quindi da giustificare l'odio divino appena menzionato; più specificatamente sono pratiche di magia e come tali condannate da Dio (cfr. Dt 18,10-12); ma la magia è ancora un concetto notevolmente ampio, per cui lo Pseudo-Salomone determina ulteriormente il campo con l'espressione «riti sacrileghi», che fa chiaramente riferimento a riti di iniziazione e a riti cultuali. Segue la menzione specifica di due orrendi delitti, cioè dell'infanticidio e del cannibalismo; la prima accusa è ben documentata sia dall'AT (cfr. Dt 12,31; 18,10; 2Re 3,27), sia dall'archeologia, a differenza della seconda il cui vocabolario tradisce un influsso della tragedia greca, dove i temi dell'infanticidio e del cannibalismo all'interno di riti religiosi sono conosciuti. È probabile che l'autore voglia oltrepassare il giudizio storico e allargare l'orizzonte dai Cananei al mondo greco-romano contemporaneo, fonte di forte seduzione per molti suoi correligionari. «Tu odiavi... tu li hai voluti distruggere»: non si tratta di contraddizione con le affermazioni precedenti sull'amore universale di Dio per le creature (11,24-25); l'odio di Dio per i Cananei, infatti, è l'odio contro i loro delitti e la durezza dei termini è dovuta al sentimento di orrore che la menzione di tali delitti suscita, tanto più che si tratta di creature piccole, indifese ed innocenti.

v. 8a. Nessun delitto, per quanto grave, può cancellare la realtà della dignità umana. Quest'argomento molto moderno, che l'autore prende a prestito dalla filosofia stoica, fonda il comportamento indulgente di Dio e si riallaccia alla precedente riflessione di 11,23-12,1.

vv. 8b-11. L'autore vede questa indulgenza divina nel previo invio delle vespe, che offre così ai Cananei l'opportunità e il tempo per il pentimento; si tratta di una nuova interpretazione dei testi biblici, che infatti presentano questa piaga come una misura di ordine economico (Es 23,28-30), oppure di ordine militare (Gs 24,12; Dt 7,20-22). È evidente lo sforzo dello Pseudo-Salomone di far entrare anche il caso dei Cananei nel quadro della sua tesi generale. Per sottolineare maggiormente l'indulgenza divina egli ripete quanto aveva già osservato a proposito degli Egiziani (cfr. 11,17-20), cioè la possibilità da parte di Dio di sterminare subito in vari modi i Cananei (cfr. v. 9) e soprattutto evidenzia che la perversione di questi ultimi è atavica e innata, risalendo a una maledizione originale (vv. 10c-11a); è evidente l'allusione alla maledizione lanciata da Noè su Canaan (Gn 9, 25), interpretata però non più in senso politico ed etnico, bensì morale.

v. 12. Queste quattro domande retoriche, dove si sente l'eco della lingua di Giobbe (cfr. Gb 9, 12.19), costituiscono il centro dell'intera riflessione e portano tutte sulla inappellabilità del giudizio di Dio, tuttavia con una differenza di prospettiva appena percettibile. Mentre le prime due possono concernere sia l'agire misericordioso di Dio, sia l'attività della sua giustizia vendicatrice, le altre due riguardano l'eliminazione finale dei Cananei. L'autore menziona in modo discreto, lo sterminio degli antichi abitanti di Canaan.

vv. 13-15. Se il giudizio di Dio è inappellabile, non è tuttavia arbitrario! Nessuna altra autorità, né divina (cfr. v. 13), né tanto meno umana (cfr. v. 14) potrebbe chiedere conto del suo comportamento o accusarlo in tribunale. Segue poi (cfr. v. 15) una nuova e solenne affermazione della giustizia di Dio, dove, sulla scia dell'ideale regale ellenistico, egli è presentato come colui che governa l'universo (BC = «tutto») con giustizia.

vv. 16-18. Un'ultima considerazione dell'autore fonda la giustizia del comportamento di Dio sulla stessa forza (termine-chiave che compare regolarmente all'inizio di ogni versetto)! L'esperienza umana insegna che i re terrestri, appunto perché detentori di un potere limitato ed effimero, tendono a esercitarlo in modo arrogante e ingiusto; al contrario, possedendo la pienezza del potere, Dio può operare secondo una perfetta giustizia; così in lui la forza diventa davvero «principio di giustizia» (v. 16a). Certo l'indulgenza divina non impedisce l'esercizio della forza nel caso dell'incredulità o dell'arroganza (cfr. v. 17); tuttavia è proprio questa indulgenza che caratterizza il comportamento divino (v. 18). Per sottolineare ancora una volta questa attitudine fondamentale di Dio, l'autore sceglie il termine «mitezza»; questo vocabolo, applicato ai sovrani ellenistici e poi romani, indica nella lingua contemporanea l'opposto del potere arbitrario e tirannico; applicato a Dio, mostra bene come la mitezza dei suoi giudizi storici non è segno di impotenza, bensì di un amore misericordioso e indulgente.

v.19ab. L'attitudine di Dio indulgente verso i Cananei, «perché uomini» (v. 8) e dotato di una sapienza «amica degli uomini» (cfr. 1,6; 7,23), deve spingere Israele a un amore universale verso tutte le creature, quelle stesse creature che Dio ama e protegge (11,24-12,1). Se l'espressione «amare gli uomini» tradisce un influsso dello stoicismo, che propugnava pure un tale amore universale, qui la ragione di fondo però è ancorata alla storia salvifica. È possibile che l'autore voglia pure rispondere indirettamente alle accuse di separatismo e di odio verso gli altri uomini, che i pagani lanciavano contro i Giudei.

v. 19cd. Non solo ai Cananei, ma anche e soprattutto agli Ebrei, Dio offre l'opportunità del pentimento. Con ciò l'autore, lungi da un atteggiamento manicheo, riconosce anche in Israele la realtà del peccato!

vv. 20-21. Si tratta di un invito a considerare le sofferenze subite da Israele, sia in Egitto che nel deserto, non come castigo e vendetta da parte di Dio, ma alla luce della sua condotta verso i Cananei , e cioè come correzione nell'ambito della sua opera educatrice e amorosa di padre verso i propri figli.

v. 22. La conclusione (cfr. «dunque») è rivolta alla comunità giudaica contemporanea; la prima persona plurale, infatti, coinvolge autore e ascoltatori. Lo Pseudo-Salomone invita i suoi correligionari ad abbandonare un giudizio settario e manicheo nei confronti dei non-Giudei, specialmente nei confronti degli Egiziani, e ad assumere l'atteggiamento indulgente e misericordioso di Dio.

vv. 23-25. La perifrasi di 23a designa gli Egiziani, sottolineandone particolarmente la stoltezza. Si tratta però, all'inizio, della stoltezza di bambini ingannati (v. 24c), cioè di bambini ancora privi della facoltà di ragionare, come mostra l'espressione parallela «fanciulli irragionevoli» del versetto seguente (v. 25a). Perciò Dio si comporta come avviene nell'educazione dei bambini, usando castighi derisori, cioè ricorrendo a piaghe leggere (cfr. Es 10,2 LXX).

vv. 26-27. In opposizione ai castighi derisori, l'autore menziona ora il giudizio degno di Dio (v. 26b); non si tratta solo di una possibilità teorica, bensì di una realtà storica, essendo gli Egiziani incappati in questo supremo castigo (v. 27e); l'autore allude con ciò alla morte dei primogeniti egiziani e alla catastrofe nel mare. La ragione sta nel fatto che gli Egiziani arrivarono a una conoscenza di Dio soltanto forzata e intellettuale (cfr. v. 27) e non a un rapporto personale ed esistenziale con lui, vero e unico scopo della pedagogia misericordiosa divina (cfr. 12,2).

(cf. MICHELANGELO PRIOTTO, Cantico dei Cantici – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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