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DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

DISCORSI DI ELIU 1 Quei tre uomini cessarono di rispondere a Giobbe, perché egli si riteneva giusto. 2Allora si accese lo sdegno di Eliu, figlio di Barachele, il Buzita, della tribù di Ram. Si accese di sdegno contro Giobbe, perché si considerava giusto di fronte a Dio; 3si accese di sdegno anche contro i suoi tre amici, perché non avevano trovato di che rispondere, sebbene avessero dichiarato Giobbe colpevole. 4Eliu aveva aspettato, mentre essi parlavano con Giobbe, perché erano più vecchi di lui in età. 5Quando vide che sulla bocca di questi tre uomini non vi era più alcuna risposta, Eliu si accese di sdegno.

Primo discorso di Eliu Eliu contesta le argomentazioni di Giobbe 6Eliu, figlio di Barachele, il Buzita, prese a dire: “Giovane io sono di anni e voi siete già canuti; per questo ho esitato, per rispetto, a manifestarvi il mio sapere. 7Pensavo: “Parlerà l'età e gli anni numerosi insegneranno la sapienza”. 8Ma è lo spirito che è nell'uomo, è il soffio dell'Onnipotente che lo fa intelligente. 9Essere anziani non significa essere sapienti, essere vecchi non significa saper giudicare. 10Per questo io oso dire: “Ascoltatemi; esporrò anch'io il mio parere”. 11Ecco, ho atteso le vostre parole, ho teso l'orecchio ai vostri ragionamenti. Finché andavate in cerca di argomenti, 12su di voi fissai l'attenzione. Ma ecco, nessuno ha potuto confutare Giobbe, nessuno tra voi ha risposto ai suoi detti. 13Non venite a dire: “Abbiamo trovato noi la sapienza, Dio solo può vincerlo, non un uomo!“. 14Egli non ha rivolto a me le sue parole, e io non gli risponderò con i vostri argomenti. 15Sono sconcertati, non rispondono più, mancano loro le parole. 16Ho atteso, ma poiché non parlano più, poiché stanno lì senza risposta, 17risponderò anch'io per la mia parte, esporrò anch'io il mio parere; 18mi sento infatti pieno di parole, mi preme lo spirito che è nel mio ventre. 19Ecco, il mio ventre è come vino senza aria di sfogo, come otri nuovi sta per scoppiare. 20Parlerò e avrò un po' d'aria, aprirò le labbra e risponderò. 21Non guarderò in faccia ad alcuno, e non adulerò nessuno, 22perché io non so adulare: altrimenti il mio creatore in breve mi annienterebbe. _________________ Note

32,1 L’intervento inatteso di questo personaggio di nome Eliu pone un intervallo tra i discorsi di Giobbe e la grande teofania racchiusa in 38,1-42,6. La sezione che racchiude questi discorsi è considerata da molti come un’aggiunta posteriore: in realtà, il personaggio Eliu non verrà nemmeno citato da Dio nel suo ultimo intervento (vedi 42,7-9).

32,2 Buzita: Buz è nome di una tribù del deserto arabico (Ger 25,23 e anche Gen 22,21). Ram designa probabilmente il clan di appartenenza di Eliu (vedi 1Cr 2,25.27).

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Approfondimenti

DISCORSI DI ELIU (32,1-37,24) La forte tensione drammatica raggiunta, nella fase conclusiva della Disputa, con la sfida di Giobbe a Dio, esigeva a questo punto l'intervento e il pronunciamento di Dio. L'unica cosa che si poteva attendere era una presa di posizione da parte di Dio, come evento necessario, non più procrastinabile. Tutta l'evoluzione del processo narrativo lo imponeva. Invece, con sorpresa, un nuovo fatto narrativo interviene a sospendere, a ritardare quel tanto atteso rivelarsi di Dio. Giobbe pare sottoposto all'esperienza ancora più sconcertante che, non solo il suo grido di aiuto, ma anche la contesa e la sfida a Dio che ha tenacemente avanzato, a rischio della sua stessa vita, sembrano rimanere senza risposta, sembrano cadere nel vuoto. Non Dio, ma un uomo si affretta a rispondergli. Il narratore, infatti, presenta sulla scena un personaggio la cui stessa esistenza era, finora, del tutto sconosciuta. Con grande abilità il narratore attira l'attenzione su Eliu, che silenzioso ha assistito alla Disputa e che, indignato per la pretesa giustizia di Giobbe e per l'esito fallimentare degli interventi degli amici, prende la parola sulle questioni in discussione.

Il fatto che Eliu non sia mai stato menzionato prima, né alcun riferimento segua ai suoi discorsi, insieme alla qualità e ai contenuti della sua argomentazione in sé compiuta, costituiscono degli indizi che inducono a ritenere che siamo davanti a un'interpolazione di notevoli dimensioni (cc. 32-37). Essa pare rispondere a particolari ragioni connesse alla recezione iniziale del poema, dunque si tratta di un'aggiunta successiva alla fase principale della formazione dell'opera, che tuttavia nel contesto del libro canonico assume una precisa funzione narrativa. Riteniamo opportuno esaminare le ragioni e la funzione di tale inserzione, dopo averne investigato il contenuto.

L'articolazione di questa unità letteraria (cc. 32-37) è caratterizzata da una breve sezione narrativa, in prosa, nella quale il narratore presenta Eliu (32, 1-5), seguita da quattro discorsi dello stesso (32,6b-33,33; 34,2-37; 35,2-16; 36,2-37,24), in poesia, ciascuno introdotto dal narratore (32,6a; 34,1; 35,1; 36,1). Pertanto, dal punto di vista formale questa consistente unità tende a mostrare elementi di continuità con quel che precede.

32,1-5. La transizione da una fase narrativa a un'altra è affidata anche in questo caso (come nel passaggio dal Prologo alla Disputa, cfr. 2,11-13) a un “sommario”, benché, qui, esso appaia del tutto orientato, oltre che a presentare sulla scena un nuovo personaggio, a sottolinearne l'intraprendenza e l'iniziativa. Esso contiene, infatti, una forte accentuazione prolettica, rivolta a quel che sta per accadere, a differenza del “sommario” di 2,11-13, che concludeva il Prologo, e dove, non a caso, i tre amici che facevano il loro ingresso sulla scena, (cfr. 2, 13), sedevano, in attesa, accanto a Giobbe. Ogni iniziativa era, in quel caso, interamente affidata a Giobbe. Peraltro, radicalmente diversi, opposti, sono i sentimenti degli amici e di Eliu. I tre amici si recano da Giobbe per condolersi, per consolarlo e confortarlo (cfr. 2,11), dunque per un atto di solidarietà. Ciò che, invece, muove Eliu a prendere la parola è l'ira (menzionata in questo “sommario” per ben quattro volte), contro Giobbe e contro gli amici; dunque ne viene annunciata l'ostilità e la contrapposizione. Due ragioni provocano il furore di Eliu. Innanzitutto egli si accende d'ira contro Giobbe che si dichiara innocente nei confronti di Dio (cfr. 35, 2), che si ritiene giusto nella relazione con Dio, e dunque, in qualche modo, manifesta quasi la pretesa di essere più giusto di Dio. L'altro motivo dell'indignazione di Eliu è dovuto al silenzio degli amici (v. 3), al loro fallimento, sebbene lo avessero dichiarato colpevole. In questo caso gli amici avrebbero riconosciuto la colpevolezza di Giobbe, ma non sono stati capaci di ribattere in modo definitivo alle sue argomentazioni. Oppure, secondo un'altra lettura del TM, essi non hanno trovato di che rispondergli e, dunque, non lo hanno condannato. Il fatto che gli accusatori sono tacitati dimostra la vittoria di Giobbe (cfr. 5,16; 11,2-3; 32,15-20). Infine, secondo la lettura più antica, essi, non avendo trovato alcuna risposta per Giobbe, hanno condannato Dio. Insomma, rimanendo in silenzio, gli amici di fatto avvalorano la pretesa innocenza di Giobbe. Il narratore si preoccupa anche di informare il lettore che Eliu ha atteso, prima di replicare, per rispetto verso gli amici più anziani. Non manca dell'ironia in questo; infatti, a motivo dell'età, Eliu ha permesso loro di parlare prima, benché la sua comprensione sia prospettata, fin d'ora, superiore alla loro. Peraltro, questa informazione del narratore mostra che Eliu è a conoscenza della vicenda di Giobbe e della Disputa con gli amici. L'indignazione, l'insofferenza sono i sentimenti che animano Eliu e lo collocano, già prima che egli cominci a parlare, in una posizione antagonista e di contrasto, soprattutto nei confronti di Giobbe.

Primo discorso di Eliu (32,6-33,33) Il primo discorso di Eliu contiene un'ampia premessa con una serie di considerazioni preliminari che scaturiscono dalla sua osservazione dell'andamento della Disputa. Pertanto Eliu si è convinto che la sapienza non è connessa all'età (32,6-10), e, deluso per l'incapacità degli amici di rispondere a Giobbe (32,11-16), annuncia la sua esigenza e la sua decisione di intervenire (32,17-22). Rivolgendosi poi a Giobbe, Eliu gli si presenta come un uomo, uguale a lui (33,1-7), e ribatte alla sua dichiarazione di innocenza (33,8-12) proponendo la propria comprensione del significato dell'agire di Dio (33, 13-30). Eliu conclude con un formale invito di replica a Giobbe (33,31-33). Per Eliu la causa della sofferenza importa meno del suo scopo. Dio, infatti, attraverso la tribolazione, vuole avvertire il peccatore.

vv. 32,6-10. Eliu, presentandosi, spiega i motivi che lo inducono ad intervenire solo ora. Egli ha esitato nel prendere la parola, non perché non avesse una sua opinione, ma a motivo della sua giovinezza. Eliu, infatti, riteneva (v. 7) che gli anziani riflettessero quella conoscenza che deriva dall'aver osservato e speculato sugli eventi in un ampio arco di tempo, avendo vissuto a lungo (cfr. Sir 25,3-6; concetto emerso anche nella Disputa, cfr. 8,8-10; 12,12). Tuttavia Eliu assume ora una posizione critica; proprio quel che è accaduto nella Disputa lo induce a correggere tale visione. La polemica sembra voler colpire anche un uso deviante della sapienza, come appannaggio e prerogativa di un piccolo gruppo (cfr. per es. 12,2; Ger 18, 8), affermando, invece, che la sapienza è dono di Dio all'uomo (cfr. Prv 2,6), connessa, innanzitutto, al dono stesso della vita.

vv. 11-16. Per Eliu nessuno degli amici è riuscito ad essere un pertinace accusatore e contendente (môkîaḥ) al punto in cui, invece, Giobbe lo è stato per Dio (cfr. 40,2). Eliu rimprovera gli amici i quali, appagati della loro sapienza (v. 13; cfr. 4,12-21; 11,6; 15,8-11), hanno offerto a Giobbe la persuasione che Dio lo ha colpito, e non un uomo, e che Dio non può essere sospettato di punire senza una causa. Eliu osserva, deluso, anche lo sconcerto degli amici: egli pare insistere nel voler prendere le distanze dagli amici, conferendo in tal modo un maggiore risalto a quel che si prepara a dire. Egli pensa di disporre di argomenti decisivi che gli amici non hanno trovato.

vv. 17-22. Le parole di Eliu ricordano e rimandano a una pluralità di significati. Innanzitutto, per quanto nessuno lo abbia esplicitamente interpellato, egli si sente talmente indignato e provocato da quanto ha udito e si è verificato da non poter fare a meno di manifestare ciò che pensa (cfr. 20,3). Inoltre la menzione dello «spirito», rûaḥ, che dentro di lui lo induce a parlare, sembra quasi voler alludere a un'ispirazione divina (cfr. 4,12-16). Nondimeno, con tale asserzione, egli non evita di esporsi al pericolo che proprio la moltitudine delle parole si riveli solo vento (cfr. 8,2; 16,3). Per riferire l'intensità della spinta interiore a intervenire, Eliu si avvale di un'immagine frizzante (v. 19). Paragona gli argomenti che ha accumulato nella sua mente al vino che ribolle, che fermenta, che necessita di un'apertura di sfogo o squarcerà gli otri, anche se nuovi. Così le sue parole squarceranno il suo ventre se egli non le esprimerà. Perciò egli deve parlare per liberare il suo ventre, lasciando uscire le sue parole.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Sicuro della propria innocenza, Giobbe si appella a Dio 1 Ho stretto un patto con i miei occhi, di non fissare lo sguardo su una vergine. 2E invece, quale sorte mi assegna Dio di lassù e quale eredità mi riserva l'Onnipotente dall'alto? 3Non è forse la rovina riservata all'iniquo e la sventura per chi compie il male? 4Non vede egli la mia condotta e non conta tutti i miei passi? 5Se ho agito con falsità e il mio piede si è affrettato verso la frode, 6mi pesi pure sulla bilancia della giustizia e Dio riconosca la mia integrità. 7Se il mio passo è andato fuori strada e il mio cuore ha seguìto i miei occhi, se la mia mano si è macchiata, 8io semini e un altro ne mangi il frutto e siano sradicati i miei germogli. 9Se il mio cuore si lasciò sedurre da una donna e sono stato in agguato alla porta del mio prossimo, 10mia moglie macini per un estraneo e altri si corichino con lei; 11difatti quella è un'infamia, un delitto da denunciare, 12quello è un fuoco che divora fino alla distruzione e avrebbe consumato tutto il mio raccolto. 13Se ho negato i diritti del mio schiavo e della schiava in lite con me, 14che cosa farei, quando Dio si alzasse per giudicare, e che cosa risponderei, quando aprisse l'inquisitoria? 15Chi ha fatto me nel ventre materno, non ha fatto anche lui? Non fu lo stesso a formarci nel grembo? 16Se ho rifiutato ai poveri quanto desideravano, se ho lasciato languire gli occhi della vedova, 17se da solo ho mangiato il mio tozzo di pane, senza che ne mangiasse anche l'orfano 18– poiché fin dall'infanzia come un padre io l'ho allevato e, appena generato, gli ho fatto da guida –, 19se mai ho visto un misero senza vestito o un indigente che non aveva di che coprirsi, 20se non mi hanno benedetto i suoi fianchi, riscaldàti con la lana dei miei agnelli, 21se contro l'orfano ho alzato la mano, perché avevo in tribunale chi mi favoriva, 22mi si stacchi la scapola dalla spalla e si rompa al gomito il mio braccio, 23perché mi incute timore il castigo di Dio e davanti alla sua maestà non posso resistere. 24Se ho riposto la mia speranza nell'oro e all'oro fino ho detto: “Tu sei la mia fiducia”, 25se ho goduto perché grandi erano i miei beni e guadagnava molto la mia mano, 26se, vedendo il sole risplendere e la luna avanzare smagliante, 27si è lasciato sedurre in segreto il mio cuore e con la mano alla bocca ho mandato un bacio, 28anche questo sarebbe stato un delitto da denunciare, perché avrei rinnegato Dio, che sta in alto. 29Ho gioito forse della disgrazia del mio nemico? Ho esultato perché lo colpiva la sventura? 30Ho permesso alla mia lingua di peccare, augurandogli la morte con imprecazioni? 31La gente della mia tenda esclamava: “A chi non ha dato le sue carni per saziarsi?”. 32All'aperto non passava la notte il forestiero e al viandante aprivo le mie porte. 33Non ho nascosto come uomo la mia colpa, tenendo celato nel mio petto il mio delitto, 34come se temessi molto la folla e il disprezzo delle famiglie mi spaventasse, tanto da starmene zitto, senza uscire di casa.

35Se contro di me grida la mia terra e i suoi solchi piangono a una sola voce, 36se ho mangiato il suo frutto senza pagare e ho fatto sospirare i suoi coltivatori, 37in luogo di frumento mi crescano spini ed erbaccia al posto dell'orzo.

38Oh, avessi uno che mi ascoltasse! Ecco qui la mia firma! L'Onnipotente mi risponda! Il documento scritto dal mio avversario 39vorrei certo portarlo sulle mie spalle e cingerlo come mio diadema! 40Gli renderò conto di tutti i miei passi, mi presenterei a lui come un principe”.

40b Sono finite le parole di Giobbe. _________________ Note

31,9-10 Se il mio cuore si lasciò sedurre: l’adulterio era punito con la morte. mia moglie macini: alla macinazione erano addetti gli schiavi.

31,27 Il bacio va qui inteso come gesto idolatrico..

31,38 la mia firma: alla lettera “il mio tau”. Il tau, ultima lettera dell’alfabeto ebraico (in antico a forma di croce), era usato dagli illetterati come firma. L’ordine di questi versetti è cambiato, per una migliore comprensione del testo.

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Approfondimenti

31,1-4. Giobbe richiama innanzitutto il suo impegno riguardo agli occhi, nella loro connotazione del desiderio (31,1,7; cfr. Gn 3,6; Nm 15,39; Ger 22,17; Ez. 20,7.8; Qo 2,10), e ne riferisce l'esercizio di una fondamentale moderazione e disciplina. Egli con una certa enfasi nota però che su di lui si è abbattuta la sciagura che dovrebbe essere assegnata di solito al malvagio (v. 3). Dunque Giobbe segnala un'incongruenza. Queste considerazioni ribadiscono che il problema è in Dio e nel suo agire sconcertante.

vv. 5-6. Giobbe, immune dalla menzogna, si rimette sicuro alla giustizia di Dio, rappresentata con l'immagine della bilancia (cfr. Prv 11,1; 16,2; 20,10; 21,2; 34,12). Giobbe non può sapere che Dio già prima della tragedia aveva ripetutamente apprezzato la sua rettitudine (cfr. 1,8; 2,3).

vv. 7.8. Avviata ormai la sfida diretta di Giobbe a Dio, la dichiarazione d'innocenza prosegue (31,7-23) nella particolare forma del giuramento con imprecazioni su di sé (cfr. Sal 7,4-6).

vv. 9-12. In caso di adulterio (cfr. Es 20,17; Dt 22,22-24; Prv 6,29.32-35), la maledizione colpirà Giobbe sempre in ciò che gli appartiene, e stavolta si tratta della moglie (cfr. Dt 28,30; 2Sam 12,11), che era considerata proprietà dell'uomo.

vv. 13-15. Dell'eventuale violazione, negazione del diritto dei propri servi (cfr. Es 21,2-11.20-21.26-27; Lv 25,39-55; Dt 15,12-18), Giobbe ritiene che si debba rispondere dinanzi a Dio, perché padrone e schiavo sono accomunati dalla stessa natura umana che Dio ha creato (cfr. Prv 22,2; Sap 6,7). Dio ha formato e intessuto entrambi nel grembo materno (cfr. Sal 139,13).

vv. 16-23. L'attenzione di Giobbe si volge ora ai diseredati (il povero, la vedova e l'orfano) e al soccorso prestato loro nella forma del cibo e della veste (cfr. 24,7.10; Is 58,7), che evidentemente costituivano l'aiuto primario che poteva garantire la loro sopravvivenza. Egli riferisce che tale sollecitudine (cfr. 29,12-17) lo ha guidato fin dalla sua giovinezza, replicando anche, in modo definitivo, alle accuse infamanti di Elifaz (cfr. 22,6-9). Tuttavia, se in qualche modo fosse venuto meno a tale protezione e cura, o avesse inteso opprimere il debole, Giobbe invoca su di sé un castigo che comporti la privazione di quella parte del suo corpo che si è resa colpevole. L'imprecazione segue strettamente il principio «occhio per occhio» (cfr. Es 21,23-24; Lv 24,19-20; Dt 19,21).

vv. 24-28. In questa breve sezione ricorre una forte attestazione della fede di Giobbe nell'unico Dio, il Dio di Israele. Una particolare attenzione merita, nel contesto della sezione, il riferimento al «confidare», più precisamente, al motivo del confidare. Si deve tener conto che il termine usato (v. 24b: mibṭāḥ, come pure il verbo bṭḥ) ha, in ambito biblico, una predominante denotazione religiosa (cfr. Ger 17,7; Sal 40,5; 65,6; 71,5); pertanto le parole di Giobbe assumono un nuovo rilievo. Giobbe in una forma sicuramente originale nega di aver posto la sua fiducia nell'oro: non ha stabilito la sua sicurezza di vita né ha cercato protezione in esso, che a questo punto si presenta come una forte allusione agli idoli di metallo fuso fatti dall'uomo (cfr. Es 32; Sal 115,4.8; 135,15.18). Dunque Giobbe respinge di avere, in qualche modo, venerato degli idoli, così come di aver reso omaggio e culto alle divinità astrali, al sole e alla luna per la loro luminosità (vv. 26-27; cfr. Dt 4,19). Si tratta di divinità onorate, pur con altri attributi, dai popoli della Mesopotamia, ma non mancano testimonianze sul loro culto anche in Israele (cfr. per es. 2Re 21,3.5; 23,4-5; Ger 8,2; Ez 8,16-17). Giobbe pertanto ripudia l'idolatria in tutte le sue manifestazioni, reputandola come apostasia (v. 28).

vv. 33-34. Giobbe giura di non aver nascosto o negato il suo peccato (cfr. Gn 3,10), dunque di aver ammesso le proprie trasgressioni (cfr. 7,21; Sal 32,5; 69,6) senza sottrarsi alla disapprovazione, allo sdegno della gente. Pertanto la sua proclamazione di innocenza non è ipocrisia, non è negazione del peccato.

vv. 35-37. L'ultimo giuramento con imprecazione di Giobbe riguarda la terra, nell'eventuale violazione dei ritmi per essa stabiliti (cfr. Es 23,10-11; Lv 25,2-7), e la mancata retribuzione di chi vi ha lavorato (cfr. Lv 19, 9-10.13). Gran parte dei commentatori moderni hanno ritenuto questi versetti fuori posto, come una conclusione incongruente. Come BC, molti spostano questi versetti dopo il v. 34, ma senza basi testuali e con motivazioni non decisive. Tale conclusione, aperta, contribuisce invece a rendere l'ultimo discorso di Giobbe una sfida diretta a Dio, ma non un ultimatum, una sfida dalla quale Dio non può esimersi. In qualunque modo, tuttavia, Dio intervenga, l'evento costituirà per Giobbe non un atto dovuto, ma una manifestazione di benevolenza, la riconferma dell'inestimabile benevolenza di Dio.

vv. 38-40a. La sfida di Giobbe a Dio raggiunge a questo punto il suo culmine. La dichiarazione volge ormai al termine; egli vi pone il suo sigillo. Riguardo allo scritto di accusa della parte avversa, gli amici, suoi contendenti, Giobbe pensa di portarlo sulla spalla come un trofeo, e di cingerselo come un diadema. Così si presenterebbe a Dio per narrargli la sua vita, e come un principe (nāgîd), dunque con una dignità regale. Riaffiora quindi la certezza di Giobbe: se Dio gli prestasse attenzione, sicuramente riconoscerebbe la sua integrità (cfr. 23,3-7; Sal 17; 26). Egli ritiene pure che le accuse degli amici concorrono a stabilire e mettere in evidenza la sua rettitudine, che è fedeltà alle vie di Dio (cfr. 23,11-12). Attende, oltre la persecuzione e la prova, l'evento della rinnovata vicinanza di Dio (cfr. Sal 73,28).

v. 40b. L'informazione della fine dei discorsi di Giobbe, viene riferita e utilizzata dal narratore come un antefatto, una circostanza che gli permette di porre in rilievo altri fatti: che gli amici hanno cessato di rispondere a Giobbe e, soprattutto, che un nuovo personaggio, Eliu, mosso, dallo sdegno, si appresta ad intervenire (32,1-5). Se si considera che l'inserzione dei discorsi di Eliu (cc. 32-37) è avvenuta in un momento successivo alla composizione principale del libro, non si può far a meno di riconoscere, anche nella cura prestata ai passaggi fra le diverse tappe del poema, la singolare raffinatezza della tecnica narrativa.

La conclusione dei discorsi di Giobbe segna in modo definitivo la fine della Disputa. Essa è stata aperta e chiusa dai monologhi di Giobbe. Nel primo monologo Giobbe preferiva la morte alla vita (c. 3), nell'ultimo (cc. 29-31) giunge a sfidare Dio, sottoponendo la sua vita a una verifica in relazione all'istruzione divina. All'inizio, Giobbe chiedeva la morte come estremo atto in cui poteva affermare la fedeltà a Dio (cfr. 6,8-10), e alla fine, dopo aver sostenuto la sua permanente integrità, egli chiede che Dio lo ascolti e gli risponda, che lo avvicini a sé in una riconfermata comunione di vita (cfr. 31,35-37). La vita e la storia sono il luogo in cui Giobbe attende l'intervento di Dio.

È evidente, ormai, come la Disputa rappresenti, nello sviluppo narrativo, la “complicazione”. Essa costituisce, infatti, il tentativo di spiegare le ragioni della tragedia che si è abbattuta su Giobbe, nel Prologo, e proprio questo tentativo di spiegare e risolvere la situazione di Giobbe conduce, con le questioni sollevate, a un ampliamento dell'intreccio narrativo. All'iniziale intreccio di risoluzione è andato affiancandosi l'intreccio di rivelazione, centrato su un'assenza di conoscenza che deve essere colmata. La Disputa, infatti, ha messo in evidenza, peraltro confermandolo anche con il suo fallimento, la finitezza della conoscenza umana sull'ordine dell'universo, e, soprattutto, riguardo a Dio, al nascondimento e al silenzio di Dio.

Giobbe si delinea, nel corso della Disputa, attraverso il forte contrasto con gli amici, come un personaggio complesso, umano, che esprime questioni drammatiche fra l'uomo e Dio, dà voce al grido che emerge nella tragedia del singolo (cfr. Sal 88; ecc.), del popolo (cfr. Sal 44; 74; 79; 80; ecc.). Egli osa chiedere conto a Dio del suo agire, osa sfidare Dio, perché non intende rinunciare a lui, alla vicinanza, alla comunione di vita con lui. L'incalzante progressione dell'argomentazione di Giobbe esige una presa di posizione, apre all'attesa di un pronunciamento di Dio, ormai inevitabile, in risposta alla sete di conoscenza e di comunione. L'imprevista svolta narrativa, con i discorsi di un nuovo personaggio, Eliu (cc. 32-37), ne ritarderà il momento, rendendo, tuttavia, ancora più acuta l'attesa di Dio.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Giobbe rievoca la sua attuale situazione di infelicità 1 Ora, invece, si burlano di me i più giovani di me in età, i cui padri non avrei degnato di mettere tra i cani del mio gregge. 2Anche la forza delle loro mani a che mi giova? Hanno perduto ogni vigore; 3disfatti dall'indigenza e dalla fame, brucano per l'arido deserto, da lungo tempo regione desolata, 4raccogliendo erbe amare accanto ai cespugli e radici di ginestra per loro cibo. 5Espulsi dalla società, si grida dietro a loro come al ladro; 6dimorano perciò in orrendi dirupi, nelle grotte della terra e nelle rupi. 7In mezzo alle macchie urlano accalcandosi sotto i roveti, 8razza ignobile, razza senza nome, cacciati via dalla terra. 9Ora, invece, io sono la loro canzone, sono diventato la loro favola! 10Hanno orrore di me e mi schivano né si trattengono dallo sputarmi in faccia! 11Egli infatti ha allentato il mio arco e mi ha abbattuto, ed essi di fronte a me hanno rotto ogni freno. 12A destra insorge la plebaglia, per far inciampare i miei piedi e tracciare contro di me la strada dello sterminio. 13Hanno sconvolto il mio sentiero, cospirando per la mia rovina, e nessuno si oppone a loro. 14Irrompono come da una larga breccia, sbucano in mezzo alle macerie. 15I terrori si sono volti contro di me; si è dileguata, come vento, la mia dignità e come nube è svanita la mia felicità. 16Ed ora mi consumo, mi hanno colto giorni funesti. 17Di notte mi sento trafiggere le ossa e i dolori che mi rodono non mi danno riposo. 18A gran forza egli mi afferra per la veste, mi stringe come il collo della mia tunica. 19Mi ha gettato nel fango: sono diventato come polvere e cenere. 20Io grido a te, ma tu non mi rispondi, insisto, ma tu non mi dai retta. 21Sei diventato crudele con me e con la forza delle tue mani mi perseguiti; 22mi sollevi e mi poni a cavallo del vento e mi fai sballottare dalla bufera. 23So bene che mi conduci alla morte, alla casa dove convengono tutti i viventi. 24Nella disgrazia non si tendono forse le braccia e non si invoca aiuto nella sventura? 25Non ho forse pianto con chi aveva una vita dura e non mi sono afflitto per chi era povero? 26Speravo il bene ed è venuto il male, aspettavo la luce ed è venuto il buio. 27Le mie viscere ribollono senza posa e giorni d'affanno mi hanno raggiunto. 28Avanzo con il volto scuro, senza conforto, nell'assemblea mi alzo per invocare aiuto. 29Sono divenuto fratello degli sciacalli e compagno degli struzzi. 30La mia pelle annerita si stacca, le mie ossa bruciano per la febbre. 31La mia cetra accompagna lamenti e il mio flauto la voce di chi piange. _________________ Note

30,4 erbe amare e radici: gli unici alimenti che si potevano trovare in tempo di carestia.

30,29 sciacalli e struzzi: considerati animali impuri e nemici dell’uomo. In 39,13-18 lo struzzo è presentato come animale stupido e crudele.

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Approfondimenti

30,1-31. Alla nostalgica rievocazione del passato, Giobbe contrappone l'amarezza del presente caratterizzato dal radicale capovolgimento della condizione precedente. Egli è disprezzato e deriso dagli scellerati (30,1-8); è attaccato e aggredito da ogni parte (30,9-15); è in grave pericolo di vita (30,16-19); è perseguitato da Dio (30,20-23); ormai stremato dall'afflizione grida aiuto (30, 24-31).

30,1-8. All'onore del passato si oppone la constatazione di Giobbe per il presente, del disprezzo e della derisione da parte addirittura dei delinquenti, gente infame, senza nome, bandita dal consorzio umano (cfr. 24,5), che egli stesso detesta.

vv. 9-15. Giobbe individua la ragione di questo cambiamento senza alcun dubbio nell'agire di Dio che ha indebolito la sua forza (v. 11; al contrario di quel che si aspettava in 29,20), così che da ogni parte egli è aggredito e molestato (vv. 12-14; cfr. 19,12). L'assedio non è solo intorno a Giobbe, all'esterno, ma si estende anche all'interno, dentro di lui; infatti aspri terrori lo assalgono (v. 15a), che di solito sono connessi alla fine sciagurata degli empi (cfr. 18,11.14; 24,17; 27,20; Sal 73,19).

vv. 16-19. A motivo di così tanta e persistente tribolazione ora la vita di Giobbe è in pericolo, dilaniata da una sofferenza ininterrotta (vv. 16-17; cfr. 7,3-7; 17,1.7; Sal 22,15). Egli bruscamente è stato spogliato della veste che mostrava la giustizia (cfr, 29,14) per indossare quella dell'afflizione (v. 18; cfr. 16,15), Dio lo ha gettato nel fango, lo ha trattato da malvagio, (cfr. 27,16) ed egli è diventato come polvere e cenere (v. 19; cfr. 42,6), evidente riferimento non solo alle espressioni di lutto (cfr. 2,8.12; 16,15b), ma anche alla prossimità con la morte (cfr. 7,21; 17,16). Un'altra possibilità è che Giobbe si consideri davanti a Dio come Abramo, che designò se stesso come polvere e cenere (cfr. Gn 18,27), dunque consapevole della propria natura creaturale, della sproporzione delle parti, nella relazione fra Dio e l'uomo. Si osservi che la coppia di parole «fango, argilla» (ḥōmer) / «polvere» (‘āpār), ricorre, in 10,9, in rapporto alla creazione dell'uomo nella sua originaria precarietà. Le stesse parole vengono ora usate (v. 19) per mettere in risalto che la precarietà umana appare ulteriormente acuita e aggravata dall'incomprensibile avversione di Dio all'uomo, a Giobbe.

vv. 20-23. Consapevole della propria strutturale condizione di inferiorità, Giobbe grida, con un nuovo accenno sporge querela a Dio sulla violenza in atto (cfr. 19,7), rivendica che la giustizia, il diritto vengano ristabiliti. Ma ciò che continua a destare più sconcerto è il silenzio di Dio; nonostante l'insistenza, benché Giobbe persista, Dio non gli risponde. Pertanto, Giobbe interpreta ciò non come indifferenza (cfr. 24,12), bensì come aperta opposizione di Dio che si mostra suo spietato avversario (cfr. 6,4; 9,17-18; 16,12-14; 19,10-12) e che con tutta la sua forza lo perseguita (cfr. 16,9). L'insistente invocazione di aiuto di Giobbe, con la quale sollecita l'intervento di Dio, sfocia in un'aperta sfida a Dio, un'ulteriore intensa attestazione, l'ultima, per incalzare Dio e premere perché si pronunci. Dopo aver ripetutamente accusato Dio della sua sciagura (ancora una volta nei vv. 18-23), Giobbe argomenta ora (c. 31) dettagliatamente la sua rettitudine avvalendosi della predominante metafora legale di una deposizione sotto giuramento, con imprecazioni su di sé (cfr. Es 22,9-10; Nm 5,20-22; 1Re 8,31-32); è la sua estrema dichiarazione di innocenza, a rischio della vita (cfr. 13,14-15).

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Giobbe rimpiange la felicità e la prosperità di un tempo

1 Giobbe continuò il suo discorso dicendo: 2“Potessi tornare com'ero ai mesi andati, ai giorni in cui Dio vegliava su di me, 3quando brillava la sua lucerna sopra il mio capo e alla sua luce camminavo in mezzo alle tenebre; 4com'ero nei giorni del mio rigoglio, quando Dio proteggeva la mia tenda, 5quando l'Onnipotente stava ancora con me e i miei giovani mi circondavano, 6quando mi lavavo i piedi nella panna e la roccia mi versava ruscelli d'olio! 7Quando uscivo verso la porta della città e sulla piazza ponevo il mio seggio, 8vedendomi, i giovani si ritiravano e i vecchi si alzavano in piedi, 9i notabili sospendevano i loro discorsi e si mettevano la mano alla bocca, 10la voce dei capi si smorzava e la loro lingua restava fissa al palato; 11infatti con gli orecchi ascoltavano e mi dicevano felice, con gli occhi vedevano e mi rendevano testimonianza, 12perché soccorrevo il povero che chiedeva aiuto e l'orfano che ne era privo. 13La benedizione del disperato scendeva su di me e al cuore della vedova infondevo la gioia. 14Ero rivestito di giustizia come di un abito, come mantello e turbante era la mia equità. 15Io ero gli occhi per il cieco, ero i piedi per lo zoppo. 16Padre io ero per i poveri ed esaminavo la causa dello sconosciuto, 17spezzavo le mascelle al perverso e dai suoi denti strappavo la preda. 18Pensavo: “Spirerò nel mio nido e moltiplicherò i miei giorni come la fenice. 19Le mie radici si estenderanno fino all'acqua e la rugiada di notte si poserà sul mio ramo. 20La mia gloria si rinnoverà in me e il mio arco si rinforzerà nella mia mano”. 21Mi ascoltavano in attesa fiduciosa e tacevano per udire il mio consiglio. 22Dopo le mie parole non replicavano, e su di loro stillava il mio dire. 23Le attendevano come si attende la pioggia e aprivano la bocca come ad acqua primaverile. 24Se a loro sorridevo, non osavano crederlo, non si lasciavano sfuggire la benevolenza del mio volto. 25Indicavo loro la via da seguire e sedevo come capo, e vi rimanevo come un re fra le sue schiere o come un consolatore di afflitti. _________________ Note

29,6 la roccia che versa l’olio: il frantoio per le olive, che era di pietra.

29,7 la porta della città: era il luogo dove si amministrava la giustizia e si concludevano gli affari più importanti.

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Approfondimenti

Il grido e la sfida di Giobbe a Dio 29,1-31,40 Il fatto che Giobbe prenda di nuovo la parola suppone un tempo di silenzio dopo l'elogio della sapienza, e l'attesa di una replica da parte degli amici ai quali egli ha rivolto la sua istruzione. Ma essi tacciono, nessuno più risponde. In questo modo giunge un'ulteriore conferma della fine del dibattito. Giobbe dunque continua a parlare, non ha esaurito le sue argomentazioni. L'unico suo interlocutore è ormai solo Dio, dato il ritiro, nell'ombra, degli amici. Si tratta di un monologo, è il discorso più lungo di Giobbe (cc. 29-31). Esso contiene l'appello e la sfida con cui Giobbe sollecita intensamente l'intervento di Dio. Giobbe rievoca il suo passato caratterizzato dalla comunione con Dio e dal trionfo della sua giustizia (c. 29); rileva il contrasto con il presente sconvolto dall'amarezza e dalla riprovazione di Dio e degli uomini, anche di coloro che egli aveva soccorso (c. 30); infine, un grande spazio è occupato da una dichiarazione d'innocenza espressa in parte nella singolare forma di un giuramento con imprecazione (c. 31). La confessione di Dio anche nella prova costituisce la testimonianza della fede di Giobbe.

29,2-6. Giobbe ricorda con nostalgia, con desiderio, il suo inizio caratterizzato dalla protezione e dalla benedizione di Dio. Era il tempo in cui Dio lo proteggeva (šmr, v. 2b) e non lo sorvegliava (šmr, cfr. 10,14; 13,27; 14,16) per punire il suo peccato. Allora, Dio era fonte di luce; Dio era con lui e non contro di lui. Quel tempo era «l'autunno» della vita (v. 4a); come in Prv 20,4 «autunno» pare indicare il principio dell'anno, il tempo del primo raccolto e della semina, e dunque riferirsi metaforicamente alla giovinezza. L'immagine iperbolica che conclude la sezione (v. 6; cfr. 20,17; Es 3,8; Dt 32,13; 33,24; Sal 81,17) è tesa a mettere in risalto il diletto e il gaudio di Giobbe, e la sovrabbondanza di beni connessi all'inesauribile benevolenza di Dio (cfr. 10,12).

vv.7-11. La presenza salvifica e la prossimità di Dio comportavano la realizzazione umana e il successo. Pertanto ora Giobbe descrive l'onore che la sua gente gli rendeva. I tratti patriarcali della presentazione iniziale di Giobbe (cfr. 1,3-4) vanno dunque completati in relazione all'articolato tessuto sociale urbano, nel quale egli vive, con le sue istituzioni e consuetudini, con le sue regole e ideali di vita. Giobbe infatti rammenta che disponeva del seggio alla porta della città (v. 7; cfr. Rt 4,1a; Prv 31,23), la sede in cui abitualmente gli anziani si radunavano per dirimere le varie questioni di ordine giudiziario o per altri affari ed eventi pubblici (cfr. 31,21; Dt 21,19; 22,15; 25,7; Gs 20,4; Rt 4,11; ecc.). La stima per Giobbe era unanime e senza riserve da parte di tutti (cfr. vv. 21-25).

vv. 12-17 Giobbe si distingueva nell'impegno per il diritto dei poveri, nel compimento della giustizia, che è ciò di cui asserisce essersi rivestito (v. 14) e a cui egli, ora, non intende rinunciare (cfr. 27,5-6). Di grande rilievo è il titolo che Giobbe si attribuisce: «padre per i poveri» (v. 16a). Esso rimanda alla tradizione degli epiteti regali nel Vicino Oriente Antico. I titoli che i re dei popoli della Mesopotamia, fin dal terzo millennio a.C., si attribuivano nelle loro iscrizioni, riferiscono della loro potenza e della designazione divina, talvolta rivelano le ambizioni di conquista, e di frequente vi ricorre un riferimento all'impegno del re in favore dei sudditi socialmente deboli (come le vedove e gli orfani), oltre alla preoccupazione per l'amministrazione della giustizia nel paese, come per incarico proveniente da un'investitura divina. Tali titoli regali sono stati riferiti, in Israele, a JHWH (cfr. Dt 10,17-18; Sal 68,6) che viene designato come re (cfr. Es 15,18; Is 52,7) e che sempre rende giustizia agli oppressi e li salva dal sopruso dei prepotenti (cfr. Es 22,21-22; 1Sam 2,8). Pertanto Giobbe sembra attribuirsi un epiteto regale, così come più avanti, per esprimere il suo ruolo di guida tra la sua gente, userà una similitudine centrata sulla figura del re (cfr. 29,25). Il concomitante convergere di tali elementi nel contesto di questo discorso pare non essere casuale, ma rispecchiare un preciso ideale, quello regale.

vv. 21-25. Ora Giobbe mette in risalto la qualità del suo insegnamento, riferendo gli effetti e le reazioni dei suoi uditori (vv. 21-23. Sulla similitudine dell'attesa della parola come acqua che stilla cfr. Dt 32,2; Os 6,3; Is 55, 10-11). Ancora una volta si ha la percezione che la capacità di Giobbe, la premura per la sua gente, scaturivano dalla fondamentale presenza e benevolenza di Dio nella sua vita, e si configuravano come partecipazione alla sollecitudine di Dio per il suo popolo, per l'uomo.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Il timore del Signore, questo è sapienza 1 Certo, l'argento ha le sue miniere e l'oro un luogo dove si raffina. 2Il ferro lo si estrae dal suolo, il rame si libera fondendo le rocce. 3L'uomo pone un termine alle tenebre e fruga fino all'estremo limite, fino alle rocce nel buio più fondo. 4In luoghi remoti scavano gallerie dimenticate dai passanti; penzolano sospesi lontano dagli uomini. 5La terra, da cui si trae pane, di sotto è sconvolta come dal fuoco. 6Sede di zaffìri sono le sue pietre e vi si trova polvere d'oro. 7L'uccello rapace ne ignora il sentiero, non lo scorge neppure l'occhio del falco, 8non lo calpestano le bestie feroci, non passa su di esso il leone. 9Contro la selce l'uomo stende la mano, sconvolge i monti fin dalle radici. 10Nelle rocce scava canali e su quanto è prezioso posa l'occhio. 11Scandaglia il fondo dei fiumi e quel che vi è nascosto porta alla luce. 12Ma la sapienza da dove si estrae? E il luogo dell'intelligenza dov'è? 13L'uomo non ne conosce la via, essa non si trova sulla terra dei viventi. 14L'oceano dice: “Non è in me!” e il mare dice: “Neppure presso di me!”. 15Non si scambia con l'oro migliore né per comprarla si pesa l'argento. 16Non si acquista con l'oro di Ofir né con l'ònice prezioso o con lo zaffìro. 17Non la eguagliano l'oro e il cristallo né si permuta con vasi di oro fino. 18Coralli e perle non meritano menzione: l'acquisto della sapienza non si fa con le gemme. 19Non la eguaglia il topazio d'Etiopia, con l'oro puro non si può acquistare. 20Ma da dove viene la sapienza? E il luogo dell'intelligenza dov'è? 21È nascosta agli occhi di ogni vivente, è ignota agli uccelli del cielo. 22L'abisso e la morte dicono: “Con i nostri orecchi ne udimmo la fama”. 23Dio solo ne discerne la via, lui solo sa dove si trovi, 24perché lui solo volge lo sguardo fino alle estremità della terra, vede tutto ciò che è sotto la volta del cielo. 25Quando diede al vento un peso e delimitò le acque con la misura, 26quando stabilì una legge alla pioggia e una via al lampo tonante, 27allora la vide e la misurò, la fondò e la scrutò appieno, 28e disse all'uomo: “Ecco, il timore del Signore, questo è sapienza, evitare il male, questo è intelligenza”“. _________________ Note

_28,1 A questo punto si interrompe il monologo di Giobbe e l’autore stesso dell’opera interviene, presentando in un inno la sua riflessione sulla sapienza.

28,16-19 Nei libri sapienziali è frequente il paragone tra il valore della sapienza e il valore delle pietre preziose (vedi ad es. Sap 7,9).

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Approfondimenti

Il timore del Signore, questo è sapienza 28,1-28 Questo poema presenta una sua peculiare configurazione e pertanto suscita sempre diversi interrogativi. Lo stile e soprattutto lo sviluppo originale del tema pongono la questione dell'origine dell'inno. Infatti si parla della sapienza, della ḥokmâ, non come patrimonio e conquista dell'uomo, ma come evento divino. L'inno celebra la sapienza di Dio inaccessibile all'uomo, e di fatto rappresenta una tappa iniziale nella riflessione che ha portato, all'interno della singolare tradizione di Israele, alla personificazione della sapienza e alla sua identificazione con il dono della torah (cfr. Prv 8; Sir 24; Bar 3,9-4,4). Si tratta di un itinerario che, dalla conoscenza esperienziale dell'ordine del mondo, ha portato in Israele a riconoscere la sapienza dapprima come l'ordine della creazione operata da Dio, e infine a identificarla con l'evento della rivelazione di JHWH al suo popolo, con il piano salvifico di Dio. Diversi commentatori hanno notato non solo che il tema dell'inno contrasta con le argomentazioni precedenti, non presentando alcuna connessione ovvia né con la Disputa, né con il Prologo, ma che l'inno in bocca a Giobbe anticipa anche, e dunque rende vani, i discorsi di Dio (cc. 38,1-40,2; 40,6-41,26). Essi pertanto lo considerano un'aggiunta posteriore. Altri studiosi, pur ammettendo l'originaria appartenenza del poema al libro di Giobbe, lo reputano un intermezzo o interludio, di carattere riflessivo, pronunciato dall'autore o da un altro locutore anonimo (per es. un coro), che, dopo l'intensità drammatica della Disputa, consente al lettore una pausa e un riposo. È indispensabile prendere sul serio il fatto che, dal punto di vista narrativo, l'elogio della sapienza si presenta come una continuazione del discorso di Giobbe (c. 27). Il narratore apre il discorso di Giobbe in 27,1, e il suo successivo intervento ricorre in 29,1, con una nuova introduzione. Dunque tra la fine del c. 27 e l'inizio del c. 28 non c'è alcuna cesura da parte del narratore, ma uno straordinario cambio di argomento nel discorso di Giobbe. Peraltro la particolare struttura del c. 28 e la modalità con cui il tema viene progressivamente sviluppato, conferiscono al poema un forte carattere unitario in sé compiuto. Nondimeno, il poema ha una finalità evidentemente didattica, sottolineata dal messaggio conclusivo indirizzato all'uomo (cfr. 28,28), e pertanto si accorda con l'intenzione di Giobbe che ha dichiarato (in 27,12) di voler istruire gli amici sull'azione di Dio. Inoltre il poema presenta un significativo tratto di stile che si ritrova in altre parti del corpo poetico dell'opera. Consiste in una forma particolare della tecnica dell'espansione, ed è caratterizzata da una serie di versetti in cui l'autore elenca delle copie di parole che significano a grandi linee la stessa cosa, o che hanno qualcosa a che fare con lo stesso argomento, o presentano una qualche attinenza con esso (cfr. 4,10-11; 18,8-10; 19,13-15; 41,18-22). Compare all'inizio del poema in 28,1-2 e più avanti in 28,15-19, dove ben dieci linee consecutive sono organizzate secondo questa tecnica. Anche la sorpresa che in tale caso il poema suscita, per la novità con cui l'argomento della sapienza viene proposto, appartiene alla raffinata creatività dell'autore. Un altro esempio emblematico in questo senso, e al quale rimandiamo, è riscontrabile nel contenuto, così originale, dei discorsi di JHWH nella teofania finale. Pertanto, la collocazione del poema appare particolarmente congruente con la dinamica della narrazione. Ponendo la questione del “luogo” della sapienza (28,12.20), Giobbe contesta la pretesa degli amici che spesso inutilmente si sono appellati all'esperienza (cfr. 4,8; 5,27; 8,8; 15,17-18) e che sono convinti di essere depositari della sapienza divina (cfr. 11,6; 15,8-9). D'altra parte Giobbe nei suoi discorsi ha ripetutamente affermato l'ignoranza dell'uomo al quale sfugge il senso di ciò che accade, e nel poema ribadisce che la sapienza resta inaccessibile all'uomo, ma appartiene al dominio di Dio (28,21-27). Le precedenti critiche di Giobbe a Dio pertanto non negano, ma suppongono un piano di Dio. E la sapienza sembra essere per Giobbe il piano di Dio su tutte le cose, che sorpassa infinitamente l'intelligenza umana. I discorsi di Dio confermeranno questa prospettiva che ora Giobbe sostiene contro le presunzioni degli amici e nel contesto dei molteplici interrogativi a Dio. Per queste ragioni siamo propensi a ritenere che questo poema (c. 28) sia stato composto per il libro di Giobbe dallo stesso autore che ha dato la fondamentale impostazione e consistenza all'opera (cfr. Introduzione), e che in modo pertinente lo ha posto a conclusione della Disputa. Il poema sulla sapienza presenta un'organizzazione tripartita, in relazione al motivo conduttore che pone la questione del “luogo” della sapienza, dove l'uomo può trovarla (28,12), poi ripresa più avanti (28,20) con la significativa variante sulla provenienza della sapienza.

vv. 28,1-11. In questa prima parte ricorre l'elogio dell'homo faber che con la sua investigazione e la sua tecnica sa trarre dalle oscure profondità della terra tutto ciò che è prezioso: metalli e pietre di grande valore (vv. 1-6). L'immagine della miniera sottolinea l'intraprendenza, l'impegno dell'uomo che va in cerca e carpisce alla terra il suo tesoro. L'uomo non ha antagonisti in questa attività. Infatti gli animali, per quanto feroci o perspicaci, non ne conoscono, né scorgono il sentiero (vv. 7-8). Solo l'uomo con il suo ingegno riconosce e porta alla luce quei materiali pregiati che la terra nasconde (vv. 9-11).

v. 12. Giunge a questo punto l'interrogativo fondamentale del poema (che sarà ripreso nel v. 20). L'uomo, di sua iniziativa e con la sua intelligenza conosce, recupera e si appropria di quanto è prezioso nella terra, ma dove si trova il luogo della sapienza, da dove egli può ricavarla?

vv. 13-19. La seconda parte del poema si apre con la risposta negativa, per l'uomo, alla questione sollevata. Infatti Giobbe sostiene che la sapienza non si trova sulla terra dei viventi (v. 13b), e non si raggiunge neanche nel mare o nelle sue profondità, nell'abisso (v. 14; cfr. 38,16; Prv 8,28-29). La sapienza non ha una fonte fisica, così che distruggendo la fonte anch'essa venga distrutta. La sapienza, inoltre, non solo non ha un luogo nel mondo, ma essa non ha alcun termine di confronto e di paragone; l'uomo non ne conosce il valore (v. 13a), né può procurarsela con lo scambio, il commercio, il mercato (vv. 15-19). Una prima conseguenza è dunque la sottile distinzione per cui l'uomo dispone della conoscenza tecnica e dell'abilità nello scambio delle risorse, ma non della sapienza.

v. 20. La questione del “luogo” della sapienza rimane ancora aperta e dunque ritorna. Ora però viene ripresa con l'importante variante che pone l'accento sulla provenienza della sapienza. Ma di quale sapienza si tratta? In che cosa consiste la sapienza di cui si parla? Infatti anche qui (come in 28,12) si dice hahokmâ, la sapienza, come un termine determinato con un significato ben conosciuto, mentre la sua definizione, di fatto, va ancora delineandosi. Ciò che intanto si può dire è che essa costituisce una realtà che si impone alla riflessione dell'uomo, ma che ne oltrepassa la capacità conoscitiva, benché dotata di grande ingegno.

vv. 21-28. Nella terza parte del poema la questione ottiene la soluzione. La sapienza si sottrae alla visione di tutti i viventi (v. 21; cfr. 28,7.13), e solo Dio comprende e conosce la via e il luogo della sapienza, perché è il creatore di tutto, perché è il Dio che vede (v. 24), che interviene negli avvenimenti, che compie ciò che è necessario per la vita delle sue creature. La regola e la misura che Dio ha fissato per gli elementi naturali (vv. 25-26) di fatto consentono l'esistenza permanente del mondo, che altrimenti andrebbe distrutto (cfr. Gn 6,13; 9,11; Is 54,9-10) e ricadrebbe nella situazione di informe desolazione delle origini (Gn 1,2). Ebbene, Dio si è avvalso della sapienza quando ha stabilito l'ordine dell'universo (v. 27; cfr. Prv 3,19-20; 8,27-31). La sapienza pertanto corrisponde al progetto della creazione di Dio, è il principio, il fondamento dell'organizzazione e dell'ordine cosmico. Essa è la ragione di essere del mondo, il segreto dell'ordine del mondo. La sapienza appare così concepita come una dimensione distinta da Dio, ma che tuttavia Dio solo conosce, possiede e di cui dispone. Essa, inoltre, è anteriore, preesiste e trascende la creazione, ma anche si realizza nel creato e nella storia umana, manifestando la continua benevolenza e fedeltà di Dio (cfr. Sal 136,5; 146,6). Alle investigazioni e speculazioni umane rimane inaccessibile la sapienza divina, ma essa viene all'uomo come dono di Dio. Infatti Dio, nell'evento della sua parola, rivela all'uomo la via della sapienza: essa non può essere raggiunta se non con il timore del Signore (cfr. v. 28; Sal 111,10; Prv 1,7; 9,10; 15,33; Qo 12, 13; Sir 1,14; 21,11). Peraltro il contenuto e la modalità con cui la sapienza viene proposta come parola rivelata da Dio e come parola vicina a ogni uomo (lā’ādām) richiamano indirettamente il dono sublime della torah (cfr. Dt 4,6-8; 30,11-14). In una fase successiva e più avanzata della riflessione in Israele, giungerà l'esplicita identificazione della sapienza con la torah (cfr. Sir 24,23; Bar 4,1). La sapienza per l'uomo, dunque, consiste nella partecipazione alla sapienza di Dio. Il timore del Signore costituisce infatti un atto di penetrazione in un significato più grande di sé, per cui si diventa capaci di guardare le cose dal punto di vista di Dio (cfr. Ger 9,22-23). Peraltro, ripetutamente, l'espressione «temere Dio ed essere alieni dal male» è stata usata, come un attributo di Giobbe, dal narratore (cfr. 1,1) e da Dio (cfr. 1,8; 2 3), e pur con delle variazioni vi hanno in qualche modo fatto riferimento gli amici (cfr. 4,6; 15,4) e lo stesso protagonista (cfr. 6,14). Tuttavia, solo ora è evidente che si tratta, prima di tutto, di un insegnamento divino che guida l'uomo alla sapienza. Esso attribuisce alla fede in Dio una funzione essenziale per il sapere, quella di porre l'uomo in un corretto rapporto con gli oggetti della sua conoscenza. Una differenza essenziale è che Giobbe aderisce a questo insegnamento in modo dinamico, itinerante, come in relazione a una promessa; per questo osa con Dio l'impensabile, mentre gli amici hanno ridotto ormai la conoscenza e il timore di Dio a un rigido calcolo razionalistico di osservazioni e di comportamenti, con i quali pretendono di stabilire come garantirsi il favore di Dio. Si comprende allora perché Giobbe non intende rinunciare (cfr. 27,2-6) al bene inestimabile della sapienza, per seguire le deviazioni degli amici. La funzione del poema si dispiega ormai chiaramente. A conclusione della Disputa, Giobbe respinge, in modo radicale e definitivo, la pretesa degli amici di essere rappresentanti e depositari della sapienza umana e divina. La sapienza infatti è presso Dio e in Dio, e con essa Dio ha stabilito il mondo. Il riconoscimento della sapienza divina non elimina, tuttavia, le questioni sollevate. Pertanto proprio perché solo Dio conosce il significato pieno degli avvenimenti, Giobbe rivolgerà, ancora, a Dio il suo appello appassionato. Infine, la presenza del poema, a questo punto della Disputa, evidenzia, se ancora fosse necessario, che ciò che è in discussione è il rapporto di Dio con l'uomo e con l'ordine cosmico. Esso tuttavia non può essere ridotto a una semplice questione di giustificazione di Dio di fronte all'esistenza del male (teodicea), o di giustificazione dell'uomo (antropodicea), bensì si propone come un problema innanzitutto gnoseologico, che mette a nudo la finitezza della conoscenza umana, e quindi teologico, che esplora la dialettica inesauribile tra rivelazione e nascondimento di Dio.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Giustizia di Giobbe ed elogio della sapienza 1 Giobbe continuò il suo discorso dicendo: 2“Per la vita di Dio, che mi ha privato del mio diritto, per l'Onnipotente che mi ha amareggiato l'animo, 3finché ci sarà in me un soffio di vita, e l'alito di Dio nelle mie narici, 4mai le mie labbra diranno falsità e mai la mia lingua mormorerà menzogna! 5Lontano da me darvi ragione; fino alla morte non rinuncerò alla mia integrità. 6Mi terrò saldo nella mia giustizia senza cedere, la mia coscienza non mi rimprovera nessuno dei miei giorni. 7Sia trattato come reo il mio nemico e il mio avversario come un ingiusto. 8Che cosa infatti può sperare l'empio, quando finirà, quando Dio gli toglierà la vita? 9Ascolterà forse Dio il suo grido, quando la sventura piomberà su di lui? 10Troverà forse il suo conforto nell'Onnipotente? Potrà invocare Dio in ogni momento? 11Io vi istruirò sul potere di Dio, non vi nasconderò i pensieri dell'Onnipotente. 12Ecco, voi tutti lo vedete bene: perché dunque vi perdete in cose vane? 13Questa è la sorte che Dio riserva all'uomo malvagio, l'eredità che i violenti ricevono dall'Onnipotente. 14Se ha molti figli, saranno destinati alla spada e i suoi discendenti non avranno pane da sfamarsi; 15i suoi superstiti saranno sepolti dalla peste e le loro vedove non potranno fare lamento. 16Se ammassa argento come la polvere e ammucchia vestiti come fango, 17egli li prepara, ma il giusto li indosserà, e l'argento lo erediterà l'innocente. 18Ha costruito la casa come una tela di ragno e come una capanna fatta da un guardiano. 19Si corica ricco, ma per l'ultima volta, quando apre gli occhi, non avrà più nulla. 20Come acque il terrore lo assale, di notte se lo rapisce l'uragano; 21il vento d'oriente lo solleva e se ne va, lo sradica dalla sua dimora, 22lo bersaglia senza pietà ed egli tenterà di sfuggire alla sua presa. 23Si battono le mani contro di lui e si fischia di scherno su di lui ovunque si trovi. _________________ Note

27,1 Nei cc. 27-31 (escludendo il c. 28) si sviluppa, sotto forma di monologo, una lunga riflessione di Giobbe, nella quale egli ribadisce quanto ha sempre sostenuto di fronte alle accuse dei tre amici.

27,2-23 Giobbe sostiene la propria innocenza. Per la vita di Dio: formula di giuramento. Questa formula compariva solitamente all’inizio di una solenne affermazione, chiamata “giuramento di innocenza”.

27,13-23 Questi versetti, nei quali vengono descritti i mali che colpiscono l’empio, sono considerati da alcuni come il terzo discorso mancante di Sofar (che continuerebbe con 24,18-24).

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Approfondimenti

Giustizia di Giobbe ed elogio della sapienza (27,1-28,28) Il collaudato svolgimento della Disputa prevedeva a questo punto l'intervento di Sofar. Giobbe e anche il lettore lo aspettavano. Invece Sofar non prende più la parola, e così Elifaz e Bildad dopo di lui. Il silenzio di Sofar è il segnale decisivo della fine di questa fase della narrazione. Il silenzio dei tre amici determina il cessare della Disputa e prepara, provoca altre svolte narrative (cfr. cc. 29-31 e poi, soprattutto, cc. 32-37). I tre amici hanno esaurito i loro argomenti, ma non Giobbe. Essi tacciono (cfr. 5,16; 11,2-3; 32,1-3.15-20; Sal 31,18-19; 107,42) esausti, sconfitti. Non solo hanno fallito nel loro intento primario, quello di consolare Giobbe (cfr. 2,11; 15,11), ma sono stati vinti dalla resistenza dell'amico. Giobbe ha difeso strenuamente la sua integrità fino a contendere con Dio; gli amici invece ritengono che ogni uomo è peccatore, e hanno sostenuto con vigore che la sua sofferenza è la dimostrazione incontrovertibile della colpevolezza, reputando inoltre il suo comportamento come una funesta ribellione all'ordine di idee e di eventi da loro presentato come divino. La Disputa ha messo in evidenza il graduale, progressivo radicalizzarsi delle posizioni. Elifaz, Bildad e Sofar convergono nel medesimo punto di vista, sono rappresentanti della stessa corrente di pensiero.

I loro argomenti godevano originariamente di un'approvazione sicuramente superiore rispetto a quella che il lettore moderno è disposto ad accordare loro. Essi sono esponenti di una sapienza tradizionale, proverbiale, che trae prevalentemente la propria conoscenza dall'osservazione di vicende che si ripetono. Inoltre, pur avvalendosi, di elementi del patrimonio storico e vitale di Israele con il suo Dio, hanno ridotto ormai la relazione tra l'uomo e Dio ad un calcolo interessato. Il punto di partenza e di arrivo dei tre amici, che dunque fa da inclusione dei loro discorsi, consiste nell'impossibilità per l'uomo di essere giusto davanti a Dio (cfr. 4,17 e 25,4; ma anche 15,14): un argomento che insiste sulla sfiducia definitiva nei confronti dell'uomo, ed esprime una sostanziale diffidenza nel rapporto fra Dio e l'uomo, come il Satan nel Prologo. Inoltre, poiché essi sono più preoccupati di conservare e di confermare le loro certezze, piuttosto che lasciarsi interpellare dagli interrogativi scomodi e senza precedenti di Giobbe, si manifesta nella Disputa la loro crescente insofferenza e il loro irrigidimento fino all'aperta conflittualità con Giobbe. Peraltro, la soluzione che essi prospettano a Giobbe, cioè di riconoscere il suo peccato, di accettare la correzione divina e soprattutto di rinunciare alla pretesa di una propria giustizia, a garanzia di una prosperità che Dio rinnoverà nei suoi confronti, propende in fondo al modo in cui trarre il proprio beneficio da Dio. Essi non sanno prescindere dalle proprie divisioni e classificazioni (colpevole/innocente, giusto/empio) e non si lasciano raggiungere dalla realtà che la tragedia di Giobbe mette a nudo: l'ignoranza dell'uomo sugli eventi della vita la difficoltà di decifrare l'agire di Dio. Pertanto essi rifiutano, al contrario di Giobbe, di inoltrarsi nelle dimensioni ancora inesplorate della comunicazione, della relazione e della conoscenza di Dio. Nondimeno la serrata opposizione dei tre amici ha contribuito alla maturazione, allo sviluppo di quel movimento e itinerario interiore di Giobbe, il quale si appella e lotta perché sa che Dio può dare risposta al suo grido.

Alcuni commentatori hanno ritenuto di individuare il terzo discorso di Sofar in 27,13-23 (e talvolta anche in 27,7-12), dove ricorre la descrizione della sorte dell'empio che presenta alcune affinità lessicali e tematiche con il suo ultimo intervento (cfr. c. 20). Ma la ripresa di tale argomento, spesso predominante nei discorsi degli amici, ha una funzione tutta particolare in questo discorso di Giobbe (cc. 27-28), ormai verso la conclusione della Disputa, Infatti Giobbe dapprima difende la sua integrità (27,2-6), e poi riconosce nei suoi avversari (27,7-10), negli amici (27, 11-12), gli empi per i quali Dio riserva una fine ineluttabile (27,13-23). Dunque Giobbe prospetta proprio agli amici, quasi con le stesse parole, quella sorte degli empi, che essi tanto hanno usato come argomento di intimidazione. Infine, Giobbe termina con l'esaltazione della sapienza (c. 28).

27,1. Giobbe riprende a parlare e il narratore lo mette in rilievo anche con una differente formula di introduzione del discorso: Giobbe «continua a parlare», più precisamente a pronunciare il suo māšāl. Ricorre dunque, da parte del narratore, una definizione di ciò che segue, il riferimento a una figura del linguaggio poetico prevalentemente dell'ambito sapienziale (cfr. Sal 49,5; 78,2).

vv. 2-6. Giobbe argomenta che il suo lēbāb (v. 6), il cuore, l'intimo, là dove si prendono le decisioni profonde e se ne assume la responsabilità, la coscienza, non gli rimprovera come ha vissuto. Pertanto, non si tratta per Giobbe solo di affermare la propria innocenza in modo incidentale date le circostanze, ma di un orientamento fondamentale di vita perseguito nel tempo, con perseveranza e disciplina che non viene meno nelle avversità. Il richiamo di Giobbe alla sua integrità (cfr. anche Sal 41,13) e alla sua giustizia, appare a questo punto, soprattutto, un'espressione di fedeltà, un atto di fede. Benché subisca un'ingiustizia da parte di Dio, Giobbe giura proprio per Dio.

vv. 7-10. Dopo la proclamazione della sua innocenza e giustizia, Giobbe procede all'identificazione degli accusatori come colpevoli, come malvagi ed empi (v. 7; cfr. Sal 35; 58; 109; 140). Egli chiede la condanna di coloro in potere dei quali Dio stesso lo ha gettato (cfr. 16,11), che lo hanno insultato e deriso. Inoltre lascia intendere che, benché pensi che l'uomo giusto e il malvagio possano essere colpiti dalle stesse sciagure, egli non si volge all'empietà (cfr. Sal 1,1; 37; 40,5; 73; Prv 23,17-18), perché nella sventura il malvagio non ha alcuna speranza, mentre l'uomo retto può ancora sperare le delizie di Dio. Il malvagio nella tribolazione è incapace di fidarsi di Dio (v. 10; cfr. 22,26), né invoca continuamente Dio. Dunque tra Dio e l'empio c'è una distanza estrema. Per Giobbe, il poter gridare e confidare in Dio, anche nella tragedia, e persino contendere con Dio, esige la scelta persistente delle vie di Dio, suppone il precedente godimento della familiarità, della comunione, della benevolenza di Dio (cfr. 10, 12).

vv. 13-23. Giobbe descrive la sorte che Dio ha riservato al malvagio. La caratteristica di questa presentazione consiste nella ripresa, come annunciato nel v. 12, di un tema sul quale gli amici si sono a lungo soffermati. Tuttavia essi lo hanno usato come argomento di intimidazione e di minaccia per l'amico, irritati dal suo atteggiamento critico e deviante, rispetto alle convinzioni religiose da loro concordemente sostenute. Anche Giobbe li aveva esortati e avvisati a non ingannare Dio, e a considerare che anche per loro ci sarebbe stato il momento della prova (cfr. 13,7-12). Ma ora Giobbe si avvale del loro linguaggio, nel vocabolario e nelle immagini, per rimandare agli amici l'idea che su di essi incombe una tale sventura. Essi hanno pronunciato una condanna dalla quale non sono esclusi: è la loro condanna in quanto spietati prevaricatori (cfr. anche 6,27), accusatori menzogneri, persecutori del giusto, empi. Giobbe introduce la descrizione della fine che Dio ha disposto per l'empio, con le parole conclusive dell'ultimo discorso di Sofar (v. 13; cfr. 20,29), pur apportando lievi varianti che come sempre, nella narrativa biblica, caratterizzano la tecnica della ripetizione. Per quanto siano gravi le affermazioni di Giobbe, il quale prospetta agli amici il fatale ritorcersi delle loro sentenze annientamento da parte di Dio, non si avverte in lui alcuna particolare animosità e aggressività, come in altri momenti della Disputa. Giobbe indirizza ai suoi molesti interlocutori un'istruzione che affida soprattutto alla loro riflessione. Ma l'istruzione di Giobbe non è conclusa, e si direbbe anche che la descrizione appena svolta non sia ciò che riscuote il maggior rilievo rispetto all'interesse riposto in ciò che segue. Infatti il discorso di Giobbe continua con una solenne apologia della sapienza (c. 28).

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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RISPOSTA DI GIOBBE A BILDAD 1Giobbe prese a dire:

2“Che aiuto hai dato al debole e che soccorso hai prestato al braccio senza forza! 3Quanti consigli hai dato all'ignorante, e con quanta abbondanza hai manifestato la saggezza! 4A chi hai rivolto le tue parole e l'ispirazione da chi ti è venuta?

5Le ombre dei morti tremano sotto le acque e i loro abitanti. 6Davanti a lui nudo è il regno dei morti e senza velo è l'abisso. 7Egli distende il cielo sopra il vuoto, sospende la terra sopra il nulla. 8Rinchiude le acque dentro le nubi e la nuvola non si squarcia sotto il loro peso. 9Copre la vista del suo trono stendendovi sopra la sua nuvola. 10Ha tracciato un cerchio sulle acque, sino al confine tra la luce e le tenebre. 11Le colonne del cielo si scuotono, alla sua minaccia sono prese da terrore. 12Con forza agita il mare e con astuzia abbatte Raab. 13Al suo soffio si rasserenano i cieli, la sua mano trafigge il serpente tortuoso.

14Ecco, questi sono solo i contorni delle sue opere; quanto lieve è il sussurro che ne percepiamo! Ma il tuono della sua potenza chi può comprenderlo?“. _________________ Note 26,5-14 Questo inno di lode alla potenza di Dio secondo alcuni sarebbe da porre sulle labbra di Bildad e si collegherebbe allora con il testo di 25,1-6.

26,7-13 Egli distende il cielo: descrizione poetica della creazione del cosmo, che si ispira a immagini molto familiari agli antichi. Il serpente tortuoso (v. 13) è il Leviatàn (vedi la sua descrizione anche in 3,8; 40,25).

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Approfondimenti

RISPOSTA DI GIOBBE A BILDAD (26,1-14) La replica di Giobbe contiene una critica radicale al contributo inefficace di Bildad (vv. 2-4), l'esaltazione della grandezza di Dio (v. 5-13), la constatazione del limite della conoscenza dell'uomo (v. 14).

vv. 5-13. Giobbe avanza nel discorso con un inno che magnifica la grandezza di Dio, ne mette in rilievo l'azione potente e la straordinaria opera creatrice. Per un momento è riattivata quella competizione simmetrica che si è già verificata nello svolgimento della Disputa, alla fine del primo e durante il secondo ciclo di discorsi. In questo caso, prima Bildad ha messo in rilievo l'onnipotenza divina (25,2-3), e adesso Giobbe gli risponde con una descrizione della potenza del Dio creatore. Evidentemente però non solo i tratti presi in considerazione sono diversi, ma soprattutto le conclusioni che essi traggono sono differenti. Per Bildad era importante affermare il carattere pervasivo ed efficace della potenza divina, per Giobbe dimostrare che l'uomo conosce solo dei frammenti della grandezza di Dio. Bildad aveva riferito l'onnipotenza divina in relazione all'opera di Dio nelle altezze celesti; Giobbe, con maggiori dettagli, ne evidenzia il governo sul mondo. Prima di tutto nota che la potenza divina raggiunge lo ṣɇ'ôl (vv. 5-6; cfr. Am 9,2; Sal 139,8; Prv 15,11), il mondo sotterraneo e il regno dei morti, i rɇpā’îm (cfr. Is 14,9; 26,14.19; ecc). Giobbe accenna poi all'azione creatrice di Dio nel mondo: qui l'uso in ebraico del participio sembra voler sottolineare che si tratta di un'azione divina che ancora continua (vv. 7-9). Ma la potenza creatrice di Dio manifesta, per Giobbe, anche i suoi tratti vigorosi sulla natura e sugli esseri viventi. Così Dio, tracciando l'orizzonte, ha separato la luce dalle tenebre (v. 10; cfr. Prv 8,27) e con il suo rimprovero ha reso stabili le colonne del cielo (v. 11). Altrove si parla delle fondamenta del cielo (cfr. 1Sam 22,8), e delle colonne della terra, sulle quali, secondo un'altra concezione, si appoggia la terra (cfr. 1Sam 2,8; Sal 75,4; 104,5): Giobbe riferisce inoltre che Dio, con la sua forza, ha agitato il mare (v. 12; cfr. Is 51,15; Ger 31,35) e ha colpito Raab, che a una prima lettura sembra indicare un mostro marino (cfr. 3,8; 7,12; 9,13). In tal modo dunque Giobbe esalta il dominio di Dio sulle forze della natura, anche quelle ostili all'uomo (così pure nel v. 13). Tuttavia l'associazione fra il movimento del mare provocato da Dio e il fatto che pure ha schiacciato Raab, altrove usato come designazione dell'Egitto per la sua insolenza (cfr. Is 30,7; Sal 87,4; 89,11), insieme all'uso, nel testo ebraico, dei verbi al perfetto (che descrivono dunque delle azioni già compiute), induce a cogliere in questa affermazione di Giobbe (come in Is 51,9-10) una raffinata allusione anche al passaggio del mare, all'esodo (cfr. Es 14, 15-31), evento inaudito che Dio ha compiuto per Israele.

v. 14. Nella visione cosmologica di Giobbe tutto deriva ed è sottomesso alla potenza di Dio creatore. Giobbe, a conclusione, considera però che l'uomo percepisce solo una traccia, un sussurro (cfr. 4,12) del potente agire divino. La conoscenza dell'uomo è limitata, in gran parte non comprende le vie, le opere, le ragioni di Dio.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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TERZO DISCORSO DI BILDAD 1Bildad di Suach prese a dire:

2“Dominio e terrore sono con lui, che impone la pace nell'alto dei cieli. 3Si possono forse contare le sue schiere? E su chi non sorge la sua luce? 4Come può essere giusto un uomo davanti a Dio e come può essere puro un nato da donna? 5Ecco, la luna stessa manca di chiarore e le stelle non sono pure ai suoi occhi: 6tanto meno l'uomo, che è un verme, l'essere umano, che è una larva”.

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Approfondimenti

TERZO DISCORSO DI BILDAD (25,1-6) Questo terzo discorso di Bildad è particolarmente breve. Pertanto, alcuni commentatori hanno indicato in 26,2-4 e 26,5-14 rispettivamente l'introduzione e la continuazione del discorso, con una conseguente alterazione del significato delle singole unità, rispetto alla loro attuale collocazione. Noi seguiamo il TM, e riteniamo che l'assenza di un'introduzione non rappresenti un problema, considerando l'immediatezza e la crescente tensione a cui è pervenuto il dibattito e anche il progressivo ridursi, soprattutto nel terzo ciclo di discorsi, di preliminari e premesse, per dare maggiore spazio all'esposizione dei contenuti. Inoltre, la brevità del discorso di Bildad costituisce un forte segnale narrativo, l'esaurimento delle argomentazioni da parte degli amici, proprio mentre Giobbe accresce, invece, i suoi interrogativi e le sue considerazioni.

vv. 2-3. A Dio appartiene la sovranità indiscussa su tutto il creato (v. 2; cfr. Sal 103,19-22). Ma il dominio di Dio è per Bildad accompagnato dal terrore, dalla paura che incute. Il termine paḥad indica infatti quello stato emotivo caratterizzato da un senso di insicurezza, di smarrimento, di ansia, che, nell'ambito religioso, si può provare davanti a Dio (cfr. 23,15), in relazione con le potenti azioni divine nella storia (cfr. per es. Es 15,16) o che può essere provocato da Dio stesso (cfr. 13,11; 31,23) e, come in questo caso, è collegato alla maestà divina (cfr. anche Is 2,10.19.21). Il terrore, che Bildad mette in rilievo, costituisce dunque uno strumento con cui Dio esercita il suo dominio. Bildad riferisce inoltre l'azione pacificatrice divina nelle altezze celesti, nelle regioni eccelse (v. 2b; cfr. 16,19; 31,2; Sal 148,1). Essa richiama l'ordine stabilito da Dio nell'universo (Gn 1), oppure si può cogliere un riferimento alla corte celeste (cfr. 1,6; 2,1) che Dio presiede e di cui talvolta si avvale nel suo governo. Ciò che comunque è decisivo per Bildad, e che propone con un linguaggio metaforico, è che se Dio governa nell'alto dei cieli, inaccessibile all'uomo, a maggior ragione la sua luce raggiunge tutte le altre creature (v. 3b; cfr. 24,13). Benché gli empi agiscano nell'oscurità, nella notte, nelle tenebre (cfr. 24,14-17) che assicurano loro una maggiore impunibilità (cfr. 22,13; Es 22,1-2; 1Re 3,19-20; Is 29,15; Ger 49,9; Ez 8,12), essi non possono sottrarsi allo sguardo divino (cfr. Sal 11,2.4; Sir 23,18-21). Tutto ciò dimostra la suprema potenza di Dio che si estende sul creato in modo efficace, e a cui nulla si sottrae.

vv. 4-6. L'altra questione che Bildad reputa particolarmente importante riguarda l'impossibilità per l'uomo di essere giusto davanti a Dio. E Bildad lo asserisce con le stesse parole di Giobbe (cfr. v. 4a e 9,2b). Tuttavia, Giobbe lo esprimeva ritenendo pure che Dio conoscesse la sua giustizia (cfr. 10,7; 23,10-12). Certamente non così è per Bildad che, come Elifaz (cfr. 4,17; 15,14) e con lo stesso tipo di ragionamento a maiore ad minus (vv. 5-6; cfr. 4,18-19; 15,15-16), sostiene la sfiducia radicale verso l'uomo, la congenita tendenza dell'uomo verso il male (cfr. Gn 8, 21; Prv 20, 9; Sal 51,7), l'irriducibile distanza fra Dio e l'uomo. Bildad ed Elifaz, a loro insaputa, sono sulla stessa posizione del Satan, strenuo avversario dell'uomo (cfr. 1,9-11; 2,4-6), tutti impegnati a opporre Dio all'uomo, a umiliare l'uomo come neppure Dio ha mai fatto, a rendere Dio quale scrupoloso e diffidente sorvegliante dell'uomo pronto solo a premiare o a punire. Bildad pertanto riprende e ripropone questo argomento per contrastare la fiducia manifestata da Giobbe (cfr. 23,3-7.10-12), che, nonostante il tormento, resiste e che, invece di confessare la propria colpa pretende l'inaudito: un aperto confronto con Dio. Quindi, malgrado la brevità del discorso, Bildad ribatte all'amico con argomenti di grande rilievo che tuttavia non estinguono, ma accrescono, le questioni di Giobbe.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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1Perché all'Onnipotente non restano nascosti i tempi, mentre i suoi fedeli non vedono i suoi giorni?

2I malvagi spostano i confini, rubano le greggi e le conducono al pascolo; 3portano via l'asino degli orfani, prendono in pegno il bue della vedova. 4Spingono i poveri fuori strada, tutti i miseri del paese devono nascondersi. 5Ecco, come asini selvatici nel deserto escono per il loro lavoro; di buon mattino vanno in cerca di cibo, la steppa offre pane per i loro figli. 6Mietono nel campo non loro, racimolano la vigna del malvagio. 7Nudi passano la notte, senza vestiti, non hanno da coprirsi contro il freddo. 8Dagli acquazzoni dei monti sono bagnati, per mancanza di rifugi si aggrappano alle rocce. 9Strappano l'orfano dal seno della madre e prendono in pegno il mantello del povero. 10Nudi se ne vanno, senza vestiti, e sopportando la fame portano i covoni. 11Sulle terrazze delle vigne frangono le olive, pigiano l'uva e soffrono la sete. 12Dalla città si alza il gemito dei moribondi e l'anima dei feriti grida aiuto, ma Dio non bada a queste suppliche.

13Vi sono di quelli che avversano la luce, non conoscono le sue vie né dimorano nei suoi sentieri. 14Quando non c'è luce si alza l'omicida per uccidere il misero e il povero; nella notte va in giro come un ladro. 15L'occhio dell'adultero attende il buio e pensa: “Nessun occhio mi osserva!”, e si pone un velo sul volto. 16Nelle tenebre forzano le case, mentre di giorno se ne stanno nascosti: non vogliono saperne della luce; 17infatti per loro l'alba è come spettro di morte, poiché sono abituati ai terrori del buio fondo.

18Fuggono veloci sul filo dell'acqua; maledetta è la loro porzione di campo sulla terra, non si incamminano più per la strada delle vigne. 19Come siccità e calore assorbono le acque nevose, così il regno dei morti il peccatore. 20Lo dimenticherà il seno materno, i vermi lo gusteranno, non sarà più ricordato e l'iniquità sarà spezzata come un albero. 21Maltratta la sterile che non genera, alla vedova non fa alcun bene. 22Con la sua forza egli trascina i potenti, risorge quando già disperava della vita. 23Dio gli concede sicurezza ed egli vi si appoggia, ma i suoi occhi sono sopra la sua condotta. 24Salgono in alto per un poco, poi non sono più, sono abbattuti, come tutti sono troncati via, falciati come la testa di una spiga.

25Non è forse così? Chi può smentirmi e ridurre a nulla le mie parole?“. _________________ Note

**24,2 ** spostano i confini: per ampliare i propri terreni. Era considerato un grave crimine (Dt 19,14; Pr 22,28; 23,10).

**24,18-24 probabilmente questi versetti, che descrivono la forza del giudizio divino, erano in origine inseriti nei discorsi degli amici di Giobbe, poiché qui sembrano interrompere la riflessione sulla situazione dell’empio, che Giobbe vede coronata dal successo.

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Approfondimenti

vv. 24,1. A questo punto Giobbe riprende la questione più ampia del benessere incontrastato degli empi, già dominante nel suo precedente discorso (cfr. 21,7-33).

vv. 2-12. Giobbe incalza nell'accusa e descrive le colpe efferate di cui sono responsabili i malvagi, essi che godono del favore divino. Pertanto enuncia in dettaglio innanzitutto le ingiustizie sociali perpetrate dagli empi. Ma questo modo ingiusto di agire, Dio non lo reputa un'ignominia (v. 12), o, secondo l'altra possibilità di lettura del testo, Dio non presta attenzione al grido dei miseri che periscono per le angherie dei malvagi. Giobbe dunque, ancora, denuncia: Dio non prende posizione, Dio non interviene.

vv. 13-17. Fra i malvagi c'è una differente tipologia a seconda del crimine: l'assassino, il ladro, l'adultero (cfr. Es 20,13-15), ma essi hanno in comune la ribellione e il rifiuto della luce mentre cercano, operano e dimorano indisturbati (cfr. al contrario Sal 139,11-12) nell'ombra, nelle tenebre. In 24,13, benché nel termine «luce» prevalga il senso proprio anche per lo stretto rapporto con ciò che segue, tuttavia non si può fare a meno di ascoltare un sottile richiamo simbolico a Dio (cfr. Sal 112,4) o alla sua parola (cfr. Sal 119,105; Prv 6,23).

vv. 18-24. Questa sezione è soggetta a diverse, contrastanti valutazioni. Essa contiene la descrizione della sorte infausta dell'empio che Giobbe ha presentato nel precedente discorso (cfr. 21,25) come evenienza per alcuni e non come sicuro castigo per tutti i malvagi, così come pensano, in modo unanime, gli amici. Pertanto alcuni interpreti hanno ritenuto che tale unità di argomentazione sia fuori posto e l'hanno trasposta più avanti, attribuendola a Bildad o a Sofar. Sicuramente il testo presenta alcune asperità, ma escludiamo che per questo esso debba essere assegnato a qualcuno degli amici. Le forme verbali e la costruzione sintattica consentono varie possibilità di interpretazione. Giobbe qui riprende il motivo della fine del malvagio con maggiori dettagli; è la fine tragica di cui egli ha sentito raccontare, o che ha potuto constatare per alcuni, ma non per tutti i malfattori, o che si auspica avvenga e che possa vedere. Ma, soprattutto, ciò che suscita lo sconcerto di Giobbe è il comportamento di Dio che usa tanta differenza e persino sostiene gli empi, acconsente alla loro prosperità, benché egli veda la loro condotta (v. 23) depravata e deprecabile. Tuttavia la prestanza dei malvagi è effimera perché sopraggiunge anche per loro la morte, che rende tutti uguali (v. 24; cfr. 3,17-19; 21,26).

vv. 25. Giobbe conclude lanciando una sfida agli amici, ma lo stesso lettore ne è interpellato. Preso dal turbamento e dallo sconcerto, Giobbe ha acuito la sua provocazione e l'accusa a Dio, e preme sempre più per una risposta.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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RISPOSTA DI GIOBBE A ELIFAZ 1Giobbe prese a dire:

2“Anche oggi il mio lamento è amaro e la sua mano pesa sopra i miei gemiti. 3Oh, potessi sapere dove trovarlo, potessi giungere fin dove risiede! 4Davanti a lui esporrei la mia causa e avrei piene le labbra di ragioni. 5Conoscerei le parole con le quali mi risponde e capirei che cosa mi deve dire. 6Dovrebbe forse con sfoggio di potenza contendere con me? Gli basterebbe solo ascoltarmi! 7Allora un giusto discuterebbe con lui e io per sempre sarei assolto dal mio giudice. 8Ma se vado a oriente, egli non c'è, se vado a occidente, non lo sento. 9A settentrione lo cerco e non lo scorgo, mi volgo a mezzogiorno e non lo vedo. 10Poiché egli conosce la mia condotta, se mi mette alla prova, come oro puro io ne esco. 11Alle sue orme si è attaccato il mio piede, al suo cammino mi sono attenuto e non ho deviato; 12dai comandi delle sue labbra non mi sono allontanato, ho riposto nel cuore i detti della sua bocca. 13Se egli decide, chi lo farà cambiare? Ciò che desidera egli lo fa. 14Egli esegue il decreto contro di me come pure i molti altri che ha in mente. 15Per questo davanti a lui io allibisco, al solo pensarci mi viene paura. 16Dio ha fiaccato il mio cuore, l'Onnipotente mi ha frastornato; 17ma non è a causa della tenebra che io perisco, né a causa dell'oscurità che ricopre il mio volto.

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Approfondimenti

RISPOSTA DI GIOBBE A ELIFAZ 23,1-24,25 In questo nuovo discorso Giobbe non si rivolge direttamente a Elifaz o agli amici, benché non manchino considerazioni contrarie alle loro asserzioni. Giobbe riprende e sviluppa due questioni fondamentali: il suo anelito di trovare Dio per contendere apertamente con lui (c. 23); la prosperità dei malvagi raggiunta con l'oppressione dei poveri, ma di tutto ciò Dio pare non occuparsi (c. 24).

vv. 23,2-7. Giobbe vorrebbe trovare Dio, recarsi nella dimora di Dio, per esporgli direttamente la sua causa e i suoi argomenti e conoscere e comprendere le ragioni di Dio. È significativo che Giobbe adesso attende dal confronto con Dio, prima di tutto, non una sentenza (come per es. in 9,20.28; 10,2; 13,18), che stabilisca chi ha ragione e chi ha torto, ma una rivelazione, vuole che Dio gli faccia conoscere ciò che a lui sfugge e che ora lo inquieta. Egli pensa pure che Dio in tale sede non prevarrà su di lui, non si avvarrà della sua forza per contendere (v. 6; cfr. 7,14; 9,4.19.34; 13,21), e quindi Giobbe potrà parlare apertamente certo di essere ascoltato. Potrà dare prova della sua integrità ed essere liberato da un giudizio che incombe su di lui con tanto impeto (v. 7).

vv. 8-12. Giobbe rivolge la sua ricerca in tutte le direzioni senza trovare Dio (vv. 8-9). Un accento particolare è posto sull'assenza di comprensione e di percezione, anche visiva, da parte di Giobbe (cfr. 9,11). Si è detto a questo proposito che Dio non può essere trovato in un luogo perché egli è in ogni luogo (cfr. Am 9,2-3; Sal 139,7-10), e talvolta ci si è anche stupiti del fatto che Giobbe non menzioni alcuna istituzione religiosa, cultuale. Ma Giobbe non nega né l'intervento né la presenza di Dio nel mondo. E altrove spesso ha riferito l'assedio di Dio nei suoi confronti (cfr. 3,23; 7,17-20; 16,7-14; ecc.). Ciò che qui è in questione è la relazione tra Dio e Giobbe, il fatto che Dio si mostri suo avversario (cfr. 10,2b), il turbamento che scaturisce dal nascondimento di Dio (cfr. 13,24; Sal 30,8). Per questo Giobbe desidera tanto trovare (v. 3), vedere Dio (v. 9; cfr. 19,26-27) e conoscerne gli argomenti. Tale appassionato anelito non rimarrà a lungo disatteso (cfr. 42,5). Ma da dove deriva la sicurezza con cui Giobbe pensa che Dio dopo averlo ascoltato lo libererà (v. 7), che egli saprà resistere alla prova (v. 10), e che la sua condotta è sostanzialmente integerrima (vv. 11-12)? C'è chi ha pensato che in tal modo Giobbe si colloca sullo stesso piano degli amici, e confida più sulla propria giustizia che su quella divina, e che dunque la fiducia di Giobbe in Dio è ancora in germe. Tuttavia l'esame a cui Giobbe sottopone la propria vita evidenzia il suo impegno costante per la fedeltà a Dio (cfr. 13,15; 16,17; 23,11-12; 29; 31), senza escludere il peccato (cfr. 7,20-21; 10,6; 13,26). Pertanto, in questa situazione in cui la sua stessa vita è compromessa, egli intende non rinunciare alla fedeltà a Dio (cfr. per es. 6,10). Nonostante tutto (cfr. 10,13), malgrado il silenzio di Dio, Giobbe vuole persistere nella fedeltà, in un tenace attaccamento a Dio; confida, non senza conflitto, nella fedeltà incommensurabile del Dio della vita.

vv. 13-17. Ora Giobbe considera l'unicità della determinazione divina (v. 13; cfr. Is 14,24.27; 45,23; 55,10-11) che compie ciò che desidera e opera ciò che ha stabilito, anche riguardo alla sua vicenda, e così gli sembra improponibile che qualcuno possa far recedere Dio da quanto ha disposto (cfr. 9,12; 11,10). Ciò che poco prima Giobbe presentava con certezza, ora è attraversato dal dubbio. Non solo; egli riferisce pure lo sgomento e i sentimenti di paura e spavento che Dio incute in lui (vv. 15-16). Dunque è Dio che provoca in Giobbe, e non i peccati, come voleva Elitaz (cfr. 22,10), uno sconvolgimento cosi lacerante. Tuttavia egli è colpito da Dio ma non distrutto (v. 17), e soprattutto ha una forte coscienza di tutto ciò, del ritrarsi di Dio o, forse, del fatto che Dio lo cerca, ma in un modo che gli rimane incomprensibile.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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