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DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

BOLLA DI PAPA INNOCENZO IV

Prologo

1 Innocenzo vescovo, servo dei servi di Dio. 2 Alle dilette figlie in Cristo Chiara abbadessa e alle altre suore del monastero di San Damiano d’Assisi, salute e apostolica benedizione. 3 La Sede apostolica è solita acconsentire ai pii voti e prestare un favore benevolo alle oneste richieste dei supplicanti. 4 Ora da parte vostra ci è stato richiesto umilmente che la forma di vita, nella quale dovete vivere in comune in unità di spirito e di povertà altissima, 5 datavi dal beato Francesco e da voi accettata spontaneamente, 6 e che il nostro venerabile fratello vescovo di Ostia e Velletri ha ritenuto fosse da approvare, come è detto con chiarezza nella lettera dello stesso vescovo, 7 noi dovessimo confermare con autorità apostolica. 8 Inclinati dunque alle richieste della vostra devozione, ritenendo legittimo e grato quanto sull’argomento ha fatto lo stesso vescovo, la confermiamo con autorità apostolica e con il patrocinio del presente scritto, 9 facendo inserire il tenore di quel testo verbalmente in questa bolla; il testo è questo: 10 Rinaldo*, per bontà divina vescovo di Ostia e di Velletri, alla sua carissima madre e figlia in Cristo donna Chiara, abbadessa di San Damiano d’Assisi 11 e alle sue suore, presenti e future, salute e paterna benedizione.

CAPITOLO I

NEL NOME DEL SIGNORE INIZIA LA FORMA DI VITA DELLE SORELLE POVERE 1 La forma di vita** dell’Ordine delle “Sorelle Povere”, istituito dal beato Francesco, è questa: 2 osservare il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo, vivendo in obbedienza, senza proprietà e in castità. 3 Chiara, indegna serva di Cristo e pianticella del beatissimo padre Francesco,*** promette obbedienza e riverenza al signor papa Innocenzo e ai suoi legittimi successori e alla Chiesa romana. 4 E come all’inizio della sua conversione, insieme alle sue sorelle, promise obbedienza al beato Francesco, così promette di mantenerla inviolabilmente ai suoi successori. 5 Le altre suore siano sempre tenute ad obbedire ai successori del beato Francesco, a suor Chiara e alle altre abbadesse elette canonicamente. ___________________ Note al Prologo e al CAP. I *Rinaldo di Ienne, (fino a qualche decennio fa era più noto come dei Conti di Segni), cardinale protettore del monastero di S. Damiano e degli altri monasteri ad esso ispirati; fu anche protettore dei Frati minori. Ienne si trova nel Lazio, più precisamente sull’Aniene, a sud-est di Subiaco. Rinaldo, eletto papa col nome di Alessandro IV (1254-1261), canonizzerà Chiara.

**Forma di vita, o “Forma vivendi”, è l’espressione usata da S. Francesco (RCla 6,2); anche il card. Ugolino la definisce fin dall’inizio “Forma” (2Ugo 1,5: FC 2209) e non “Regola”, forse a motivo del Concilio Lateranense IV che vietava di creare altre Regule (CLat 13,1: FC 2200). Questa “forma” è esemplata sulla Regola bollata dei Frati minori: Chiara testimonia non a caso di essersi continuamente nutrita dei precetti e delle ammonizioni di Francesco.

***“Ancella di Cristo” e “Pianticella di Francesco”, sono due termini cari a Chiara: indicano i due aspetti della sua umile e grata relazione con Cristo e Francesco.

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Approfondimenti

Chiara si vide approvare la sua “Regola” con la stessa Bolla (“Solet annuere”), con la quale, nel 1223, era stata approvata quella di Francesco. Chiara desiderava ardentemente che la sua Regola fosse approvata prima della sua morte, e di questo parlò personalmente con Innocenzo IV che le fece visita nel monastero di San Damiano. Il papa concederà la sua approvazione, da Assisi. Tutto avvenne nei seguenti giorni del mese di agosto 1253: sabato 9 (firma della bolla), domenica 10 (consegna della bolla a Chiara), lunedì 11 (morte di Chiara).

È la prima “Regola”, nella storia della Chiesa, ad essere stata scritta da una donna per altre donne, e questo è importante, non solo come primato storico, ma anche perché lo scritto è pervaso da una sensibilità, che manca in altri documenti giuridici della stessa epoca.

Infatti, mentre Chiara vive quello che prescrive nella sua “Regola”, lo stesso non accadeva per i pontefici, che emanavano le altre (Ugolino e Innocenzo IV). Ad esempio, a proposito della clausura, nella “Regola di Chiara” si parla del silenzio e della cura delle ammalate o di altri aspetti della vita comune, con una capacità di adattamento affidata alla discrezione della abbadessa, che non appare negli altri testi, quasi irrigiditi nel loro “giuridismo”.

Un altro esempio, il confronto con le “Costituzioni di Montargis”, che furono utilizzate, nello stesso periodo, da monasteri di domenicane. In dette “Costituzioni” una larga parte è lasciata a una specie di “codice di punizioni”, nel quale si prevedono tutti i casi di colpa leggera, grave, gravissima per le pene corrispondenti. Nella “Regola di Chiara” non c'è nulla di tutto questo: prevale, invece, lo spirito di fiducia verso le “sorores” (“sorelle”), che dovranno vivere quanto si prescrive: vi è uno spirito esortativo, non impositivo, e il suo linguaggio è più spirituale ed evangelico che giuridico.

Tanto è vero che Chiara non usò mai la parola “Regola”, preferendo, invece, l'espressione “Forma di vita delle sorelle povere”.

Tratto da: Clarisse di Padova ● Gli scritti di S. Chiara d'Assisi


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CAPITOLO XII – DI COLORO CHE VANNO TRA I SARACENI E TRA GLI ALTRI INFEDELI

1 Quei frati che, per divina ispirazione, vorranno andare tra i Saraceni e tra gli altri infedeli, ne chiedano il permesso ai loro ministri provinciali. 2 I ministri poi non concedano a nessuno il permesso di andarvi se non a quelli che riterranno idonei ad essere mandati. 3 Inoltre, impongo per obbedienza ai ministri che chiedano al signor Papa uno dei cardinali della santa Chiesa romana, il quale sia governatore, protettore e correttore di questa fraternità, 4 affinché, sempre sudditi e soggetti ai piedi della medesima santa Chiesa, stabili nella fede cattolica, osserviamo la povertà, l’umiltà e il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo, che abbiamo fermamente promesso.

Pertanto a nessuno, in alcun modo, sia lecito di invalidare questo scritto della nostra conferma o di opporsi ad esso con audacia e temerarietà. Se poi qualcuno presumerà di tentarlo, sappia che incorrerà nello sdegno di Dio onnipotente e dei suoi beati apostoli Pietro e Paolo.

papa Onorio III

Dal Laterano, il 29 novembre 1223, anno ottavo del nostro pontificato.

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Approfondimenti

Prima di ogni cosa Francesco sottolinea con forza e chiarezza che per andare in missione occorre la divina ispirazione, ossia mettersi nelle condizioni di ascoltare la voce di Dio e cogliere il suo divino volere. La dedizione all’attività missionaria verso popoli stranieri e comunità non cristiane è sempre frutto di un serio discernimento che l’autorità propone a coloro che sentono particolarmente questa vocazione apostolica.

Le condizioni richieste per andare tra i saraceni e gli altri infedeli sono le seguenti: avere il permesso del ministro provinciale ed essere idonei per questo tipo di missione. Sono indicazioni abbastanza generiche che lasciano intravedere il riconoscimento di un ruolo normativo più forte da parte del ministro provinciale, il quale non solo esercita un certo margine di discrezionalità per la valutazione dei frati candidati alla missione, ma è soprattutto il rappresentante della Chiesa e della stessa fraternità nel cui nome i missionari sono inviati. Verso la fine del XIII secolo, l’invio dei frati missionari divenne di competenza diretta del ministro generale. Tuttavia, molte volte alcuni frati erano direttamente designati dal papa e scelti per missioni abbastanza particolari, di natura anche diplomatica.

I frati non potevano improvvisarsi missionari, in quanto l’idoneità alla missione comportava una debita preparazione dottrinale da verificarsi con un esame da parte del ministro provinciale. Sicuramente, era necessario verificare anche lo stato di salute fisica dei frati che si aprivano alla missione.

Nel progetto di una fraternità in missione, l’andare tra i saraceni è una forma e una conseguenza dell’andare per il mondo che caratterizza in modo fondamentale lo stato di vita francescano. L’annuncio rivolto ai saraceni rientra in un progetto più grande di fraternità che si apre alla missione verso il mondo non cristiano. Questa collocazione è completamente persa nella Regola bollata perché il capitolo XII chiude completamente la Regola definitiva senza essere preceduto o seguito da un richiamo alla predicazione e alla missione. Non siamo a conoscenza del motivo dello spostamento avvenuto nella Regola definitiva. Forse si è voluto evidenziare lo stretto rapporto tra l’attività missionaria e i tempi più importanti della vita francescana, cioè la cattolicità, l’evangelicità e la povertà-umiltà. Difatti, il capitolo XII si occupa anche del particolare legame dell’Ordine con la Chiesa romana e offre una sintesi della stessa vita francescana.

Non possiamo e non dobbiamo negare il grande influsso che ebbe il cardinale Ugolino vescovo di Ostia (poi papa Gregorio IX) nelle origini e nell’evoluzione delle istituzioni francescane; il suo intervento si fece sentire fortemente nello sviluppo dell’Ordine e nella redazione della Regola definitiva; inoltre si prodigò come intermediario anche per diverse questioni nate all’interno delle prime comunità di frati e nei rapporti con la Curia romana. Pur convenendo con Francesco nella sostanza del suo ideale, egli aveva una visione molto diversa da quella del Poverello – che amava e venerava come inviato di Dio –, a proposito della vita fraterna, della missione dei frati e della loro presenza nelle istituzioni ecclesiastiche. Infine il cardinale di Ostia ottenne ai frati lettere commendatizie per poter essere accolti da tutti i prelati della Chiesa universale come cattolici e fedeli: questo, unitamente alla divisione in Provincie, permise all’Ordine di crescere e ai frati di maturare un’esperienza di missione e di fraternità allargata più convinta e significativa.

C’è una visione universale dell’Ordine minoritico che prende forma a partire dall’urgenza di annunciare il Vangelo e che si ricollega a un’immagine di Chiesa aperta verso il mondo e gli altri popoli. Francesco fece propria la visione di una Chiesa aperta al mondo e di una missione incompiuta, ritrovando, così, nelle diversità culturali e religiose, una possibile sfida e una grande risorsa per l’annuncio stesso del Vangelo.

Per quanto concerne la figura del cardinale protettore e l’obbedienza alla Chiesa, di cui ci parla nei vv. 3-4 di Regola bollata XII, possiamo dire che, ritornato dall’Oriente, Francesco prese atto delle difficoltà che insidiavano dall’esterno e ancor più dall’interno il cammino dell’Ordine. Così, durante il colloquio con papa Onorio III, chiese come cardinale protettore Ugolino di Ostia; tale richiesta assicurava lo stretto legame con la Chiesa cattolica e la continuità della Regola all’interno dell’Ordine. L’autorità del cardinale protettore fu limitata, nel tempo, a tre ambiti specifici: l’abbandono o l’allontanamento dalla fede cattolica; l’allontanamento dell’Ordine dall’obbedienza alla Santa Sede; la decadenza dell’osservanza della propria Regola. In tal senso, la figura autorevole del cardinale protettore è al servizio della comunione fraterna ed ecclesiale. È il caso proprio in cui l’istituzione garantisce l’affermarsi dinamico e positivo del carisma nella storia e nella vita della Chiesa.

La Regola si conclude proprio richiamando al senso di fedeltà totale verso la Chiesa di cui Francesco si preoccupò molto, specialmente negli ultimi anni di vita.

Tratto da: FRATI MINORI di Canepanova – Pavia ● Centenari francescani: la Regola bollata


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CAPITOLO XI – CHE I FRATI NON ENTRINO NEI MONASTERI DELLE MONACHE

1 Comando fermamente a tutti i frati di non avere rapporti o conversazioni sospette con donne, 2 e di non entrare in monasteri di monache, eccetto quelli ai quali è stata data dalla Sede Apostolica una speciale licenza. 3 Né si facciano padrini di uomini o di donne affinché per questa occasione non sorga scandalo tra i frati o riguardo ai frati.

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Approfondimenti

Questo testo è introdotto da un fermo comando di Francesco espresso in prima persona e rivolto a tutti i frati senza distinzione alcuna: «Comando fermamente a tutti i frati». Tale espressione è presente altrove nella Regola per vietare ai frati di ricevere denaro o pecunia [Rb IV, 1: FF 87] e per prescrivere loro di obbedire ai propri ministri [Rb X, 3: FF 101]. Nel Testamento il Santo rafforza tale formula di comando aggiungendo “per obbedienza” nel proibire ai frati di chiedere privilegi alla Curia romana [2Test 25: FF 123] e nel vietare ai frati sia chierici che laici di aggiungere spiegazioni alla Regola [Test 38: FF 130].

È importante notare subito che l’Assisiate non vieta i rapporti dei frati con le donne: il divieto riguarda solo relazioni o conversazioni sospette. È tale aggettivo, infatti, a chiarire il tenore di questa prima prescrizione, che non va intesa come una totale chiusura verso le donne, motivata da sfiducia o da percezione negativa delle stesse da parte di Francesco. Ciò che la Regola vuole preservare è la vita casta dei frati, proibendo loro situazioni sospette con donne che potrebbero metterla in pericolo e generare scandalo. Infatti la vita itinerante dei frati li poneva in situazione che potevano metterne a rischio la castità professata.

Il secondo divieto che Francesco rivolge a tutti i frati in Rb XI è quello di non entrare nei monasteri delle monache: tale norma fa riferimento alla legislazione conciliare e monastica. Si tratta di una problematica della Chiesa di ogni tempo e regolata da norme comuni, tese a preservare monaci e monache da pericoli contro la castità. In ogni caso, il problema si pone con una certa peculiarità per l’Ordine dei frati minori, dal momento che fin dai primordi dell’esperienza evangelica di Francesco si unirono a lui e ai suoi frati Chiara e le altre donne. Il divieto di Rb XI, tuttavia, non può essere inteso come un riferimento diretto alla comunità di Chiara o ai monasteri ad esso collegati, ma alla stregua di un divieto riguardante tutti i monasteri di monache, come voleva la tradizione canonica della Chiesa.

Il terzo divieto di Rb XI rivolto ai frati è che non si facciamo padrini di uomini e di donne. Quest’ultima norma, come le due precedenti, è assunta dal diritto e dalla tradizione monastica ed è finalizzata a tutelare la castità dei frati e la loro libertà verso i rapporti familiari e gli obblighi conseguenti. I frati dovevano evitare ogni ombra di scandalo, essere fedeli alle norme della Chiesa e rinunciare ad ogni forma di parentela, come conseguenza della sequela del Signore Gesù. È importante notare come l’affermazione «affinché per questa occasione non sorga scandalo tra i frati o riguardo ai frati» riguardi soltanto l’ultimo divieto e non tutto il capitolo.

Per Francesco i frati non solo non devono dare scandalo ma sono chiamati a dare il buon esempio, attraverso il santo operare che gli permette di generare il Signore portandolo nel loro cuore e nel loro corpo, vivendo cioè una maternità di lui che li mette in grado di donarlo agli altri attraverso l’esempio, appunto, della loro vita [1Lf 10: FF 178/2]. Ciò che invece allontana o distoglie dal Signore e dalla sua sequela è considerato cattivo esempio [Amm III, 11: FF 151; Rnb VI, 6: FF 14]. Il cattivo esempio è una pietra di inciampo sul cammino della sequela. Cattivo esempio e scandalo non sono equivalenti né sinonimi, ma il primo può generare il secondo quando colui che ne è colpito inciampa o cade nel cammino di sequela e nel vivere la propria vocazione (tra cattivo esempio e scandalo c’è dunque una relazione di causa-effetto). Nel caso di Rb XI lo scandalo tra i frati e circa i frati impedirebbe loro di vivere totalmente e liberamente il Vangelo così come prescritto dalla Regola professata. La lettura Rb XI non può pertanto che aprirsi a questi temi più ampi della sequela del Signore, pena il rischio di rimanere imprigionati nei divieti e nei precetti. Del resto, questi non sono fine a se stessi, ma hanno come unico obiettivo di aiutare i frati a vivere il vangelo in obbedienza, senza nulla di proprio e in castità.

Oggi, per grazia di Dio, viviamo in una società che non frappone barriere fra uomo e donna: si lavora insieme, ci si confronta, si intrecciano relazioni ed amicizie, ci si frequenta per stare insieme e condividere gioie e fatiche. La sfida per noi oggi è altrettanto o ancor più impegnativa che per il frate medievale. Internet, ad esempio, con le sue risorse e potenzialità, da una parte rappresenta una grande opportunità facilitando il lavoro e le relazioni, dall’altra apre al rischio di una estraniazione dalla realtà per rifugiarsi in relazioni virtuali, sottraendo tempo prezioso ai fratelli in carne ed ossa, e in definitiva al Signore, con conseguenze negative sulla vita affettiva e religiosa dei frati.

Tratto da: FRATI MINORI di Canepanova – Pavia ● Centenari francescani: la Regola bollata


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CAPITOLO X – DELL’AMMONIZIONE E DELLA CORREZIONE DEI FRATI

1 I frati, che sono ministri e servi degli altri frati, visitino ed ammoniscano i loro frati e li correggano con umiltà e carità, non comandando ad essi niente che sia contro alla loro anima e alla nostra Regola. 2 I frati, poi, che sono sudditi, si ricordino che per Dio hanno rinnegato la propria volontà. 3 Perciò comando loro fermamente di obbedire ai loro ministri in tutte quelle cose che promisero al Signore di osservare e non sono contrarie all’anima e alla nostra Regola. 4 E dovunque vi siano dei frati che si rendono conto e riconoscano di non poter osservare spiritualmente la Regola, debbano e possono ricorrere ai loro ministri. 5 I ministri, poi, li accolgano con carità e benevolenza e li trattino con tale familiarità che quelli possano parlare e fare con essi così come parlano e fanno i padroni con i loro servi; 6 infatti, così deve essere, che i ministri siano i servi di tutti i frati. 7 Ammonisco, poi, ed esorto nel Signore Gesù Cristo, che si guardino i frati da ogni superbia, vana gloria, invidia, avarizia, cure o preoccupazioni di questo mondo, dalla detrazione e dalla mormorazione. 8 E coloro che non sanno di lettere, non si preoccupino di apprenderle, ma facciano attenzione che ciò che devono desiderare sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione, 9 di pregarlo sempre con cuore puro e di avere umiltà, pazienza nella persecuzione e nella infermità, 10 e di amare quelli che ci perseguitano e ci riprendono e ci calunniano, poiché dice il Signore: «Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano e vi calunniano; 11 beati quelli che sopportano persecuzione a causa della giustizia, poiché di essi è il regno dei cieli. 12 E chi persevererà fino alla fine, questi sarà salvo».

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Approfondimenti

Questo testo è il risultato di una rielaborazione di più passaggi della Regola non bollata. L’operazione effettuata dal redattore è abbastanza chiara: riunire in un unico testo i passaggi riguardanti la vita fraterna dispersi nella Regola precedente. L’elaborazione è guidata da una sostanziale conferma del materiale precedente, rispetto al quale è presente solo qualche aggiunta che non cambia, ma ribadisce e amplia il precedente dettato. Nel nostro testo si evidenziano chiaramente due parti: la prima (vv. 1-6) è il risultato dell’unione di Rnb IV e VI, nei quali erano già state trattate le questioni relative alla vita fraterna. La seconda parte (vv. 7-12) organizzata invece su due livelli, assumendo così la struttura binaria della Rnb XVII, dove si contrapponeva lo spirito della carne e lo spirito del Signore. In sintesi possiamo affermare che per realizzare i rapporti fraterni richiesti nella prima parte occorre che i singoli frati, indipendentemente dal ruolo svolto, siano uomini evangelici, liberi da certi vizi e forti di certe virtù.

Tre sono gli elementi che emergono dal testo riguardo ai ministri: la loro qualifica: I frati che sono ministri e servi degli altri frati; il loro compito: visitino ed ammoniscano i loro fratelli e li correggano con umiltà e carità; i limiti della loro azione di autorità: non comandando ad essi niente che sia contro la loro anima e la nostra Regola.

Sia per il primo che per il secondo gruppo della fraternità, l’accento è posto sulla qualifica identitaria di frati, cui poi si aggiunge la diversificazione dei ruoli: ministri-servi e sudditi. L’elemento guida della formulazione del testo è la parità tra i due gruppi, essenzialmente accomunati da una stessa natura di fratelli, anche se caratterizzati da una diversità funzionale. Interessante è la fedeltà del linguaggio impiegato dal Santo nei testi legislativi: termini quali abate, priore, prelato, superiore, non solo sono sempre assenti, ma persino vietati. Al contrario, i due termini ministri e servi rappresentano le uniche e costanti qualifiche utilizzate da Francesco per i frati posti in posizione d’autorità sugli altri.

La richiesta fatta ai ministri di visitare i frati, determina la natura del loro servizio e inverte tutta la cultura feudale, dove era il servo che doveva muoversi e non il padrone. Infatti, suggerisce il Santo, chi è servo ha l’obbligo di scomodarsi mettendosi in cammino verso colui che è tenuto a servire. In queste visite i ministri ammoniscano e correggano i frati, ma questo sia fatto con umiltà e carità. A seguire si specificano i confini del potere di intervento del ministro: non comandando ad essi niente che sia contro la loro anima e la nostra Regola. Il comandare e l’ubbidire dovevano essere esercitati nell’ambito degli stessi parametri validi sia per i ministri che per i sudditi, cioè all’interno dell’elemento oggettivo che è la Regola, con le sue specifiche richieste, e dell’elemento soggettivo, rappresentato dall’anima del singolo. Le scelte che non sono contro l’anima non implicano sempre una scelta tra il bene e il male, ma anche tra fedeltà e infedeltà alla propria vocazione minoritica. La proposta del Santo si fonda su una visione antropologica per cui l’altro non è un sottoposto, ma un pari grado, secondo la quale il ministro non sarà mai un padrone, ma sempre un fratello il quale, prima di richiedere l’obbedienza, dovrà avere rispetto dei suoi compagni, ascoltando con attenzione e sottomissione i bisogni oggettivi della situazione e quelli dei suoi fratelli, sempre nel rispetto delle diversità e unicità della loro anima.

L’affermazione “comando loro fermamente di obbedire”, formulata in prima persona da Francesco, può essere accolta e realizzata solo se i frati si ricordano la loro fondamentale scelta, quella che per Dio hanno rinnegato la propria volontà. L’obbedienza al ministro non è assoluta e indiscriminata, ma è richiesta solo riguardo alle cose di Dio, cioè agli ambiti in cui si realizza la propria consegna al Signore. Nel fare l’obbedienza, il suddito deve chiedersi se la richiesta del ministro rientri tra le cose che egli aveva promesso a Dio e che non si oppongono alla sua anima e alla Regola. Insomma, il frate deve restare vigile e responsabile nell’obbedire, deve cioè essere capace di ascoltare la Regola e la propria anima in una modalità che lo porterà ad esiti diversi, eppure tutti manifestazioni dello stesso desiderio di fare la volontà di Dio in obbedienza ai fratelli.

La visione della Regola sull’obbedienza è essenzialmente dialettica e circolare, dove l’uno è servo, l’altro suddito, e reciprocamente sono disposti a lavarsi i piedi. Tale struttura circolare delle relazioni fraterne, tese ad un’obbedienza reciproca per il mutuo servizio, ha la sua verifica o la sua occasione per essere praticata quando insorgono difficoltà: se il frate si trova nella difficoltà di non poter osservare la Regola secondo lo Spirito ricorra al ministro.

L’espressione secondo lo Spirito sarà da intendere: osservare la Regola secondo lo Spirito che la traduce in vita, attuando il programma di umiltà e povertà, preghiera ininterrotta, pazienza e carità evangelica esposto nella seconda parte del capitolo. Si può ritenere che la lettura spirituale della Regola e la sua osservanza implichi il coinvolgimento del singolo in una relazione con il testo fatta di responsabilità e ascolto, nella quale la sua identità vocazionale trovi il riferimento oggettivo per poter rispondere a Dio e farne la sua volontà.

Il dover e poter ricorrere al ministro quando il frate percepisce di non poter vivere spiritualmente la Regola indica e implica indubbiamente uno stato di confidenza e di reciprocità tra i due. La libertà da parte del frate di potersi rivolgere al suo ministro per renderlo partecipe delle sue difficoltà, ha in quest’ultimo il soggetto fondamentale per compiere un simile processo di affidamento. Francesco esorta il ministro a mostrarsi familiare con i frati in difficoltà, ribaltando la logica dominante del servo e del padrone: i padroni sono i frati in difficoltà, i servi son invece i loro ministri. Di fatto, si abolisce ogni logica di potere istituzionale per innescarne una nuova, fondata sul vangelo: il primo sia il servo di tutti.

Ma perché questa visione circolare dei rapporti, preferita a quella piramidale medievale, possa essere realizzata, si stabiliscono le qualità dei singoli frati, elencando una serie di vizi da evitare e di virtù da custodire. Ogni compito giuridico assegnato ai singoli sarebbe del tutto inutile e vano se ciascun frate non fuggisse una serie di vizi legati all’esteriorità dell’apparire e non coltivasse, invece, l’autenticità del cuore. Il progetto evangelico della fraternità è importante, ma senza la qualità altrettanto evangelica dei singoli tutto sarebbe impossibile e senza verità.

Il Santo esorta i suoi frati a evitare una serie di vizi, i quali girano attorno al centro nucleare dello spirito della carne. L’uomo che vive nella carne è guidato da un unico criterio: fare della propria persona il centro del mondo. L’uomo, che vive dell’esteriorità, nel desiderio spasmodico di essere riconosciuto e onorato, sarà superbo e vanaglorioso se otterrà quanto cercato o invece invidioso se vedrà nelle mani degli altri quanto agogna; quell’uomo sarà roso da una grande avarizia nel condividere i beni o costantemente preoccupato dalle cose del mondo e vivrà sicuramente rapporti difficili con gli altri, con i quali si relazionerà secondo un atteggiamento improntato alla mormorazione e detrazione. Quest’uomo non solo vive la propria vita senza Dio, ma anche nella solitudine, cioè senza la possibilità di godere di rapporti autentici di fraternità.

È chiaro, allora, che un frate animato dallo spirito della carne non potrà mai realizzare il progetto evangelico di una fraternità in cui regni la responsabilità e il rispetto tra i fratelli. Quell’uomo vivrà il mandato di ministro come potere personale, accumulando per sé un tesoro fraudolento a pericolo della sua anima o vivrà la sua vocazione minoritica nell’incapacità di donare la propria persona agli altri vagando sempre fuori dall’obbedienza.

La richiesta del Santo di non preoccuparsi di imparare a coloro che non sanno leggere, si presenta come una specificazione particolare del pericolo di esteriorità e di ricerca di successo che corrono i frati. Lo studio era divenuto ormai una scelta strategica e necessaria che, per quanto importante, costituiva al tempo stesso un rischio e un pericolo per l’anima minoritica: la scienza come modo di apparire agli occhi degli altri e su di essi dominare. La richiesta di Francesco rivolta a coloro che non sanno leggere non costituiva indubbiamente un rifiuto o una proibizione degli studi, come se essi fossero assolutamente contrari allo spirito minoritico. Tuttavia, con il richiamo agli illetterati di non preoccuparsi di imparare a leggere, egli ricordava implicitamente l’elemento caratteristico dell’iniziale ispirazione dei primi frati ad essere illetterati e sottomessi a tutti. Se da una parte gli studi erano uno strumento necessario e buono, dall’altra il loro utilizzo era però anche rischioso e pericoloso. Il Santo era convinto che per colui che non sapeva leggere sarebbe stato più facile restare un frate minore libero dal desiderio di potere e teso verso il servizio umile degli altri. Lo sforzo supremo e unico a cui deve tendere il frate minore è quello di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione: questo significa poter riattuare in sé quegli stessi sentimenti di Cristo, quando ha assunto la condizione di servo ponendosi a servizio di tutti coloro che erano diventati suoi nemici. Solo guardando a Dio e al suo modo di agire il frate minore potrà avere dei sentimenti adeguati e fraterni verso coloro che sembrerebbero non essere fratelli.

In tal senso, il pregare sempre costituisce non tanto un’azione religiosa-rituale di tipo ininterrotto, quanto un atteggiamento di riferimento costante e continuato a Cristo a cui conformare la propria vita. Il cuore puro è la condizione preliminare per vedere e accogliere questa logica divina manifestata da Dio in Cristo: solo i puri di cuore potranno vedere e adorare lo Spirito del Signore e compiere la sua santa operazione. A di fuori da questa logica, ogni atto religioso-cultuale di preghiera non solo è inutile, ma anche menzognero.

Inoltre c’è un chiaro invito ad amare i nemici: nei testi di Francesco i persecutori e gli avversari non sono mai i cattivi di fuori, ma sempre i frati stessi, le cui relazioni interne possono diventare a volte difficili e contraddittorie, al punto da farne dei nemici. È solo guardando a Cristo che si potrà continuare ad essere fratello nella pazienza e nell’umiltà.

L’uomo evangelico che si rivolge a Cristo, aderendo al suo Spirito che genera relazioni fraterne, è colui che non pretende nulla e dona tutto, che non mantiene nulla per sé e restituisce tutto. Quest’uomo soltanto potrà essere costruttore di una vera fraternità, perché innanzitutto la costruisce e realizza in sé, mantenendo la sua identità di frate in una situazione che sembra altrimenti negarla; inoltre, è cosciente che essa costituisce l’unica possibilità per ricreare rapporti nuovamente fraterni.

La conclusione del capitolo X, caratterizzata da una serie di testi biblici, rappresenta un’eccezione nella rielaborazione giuridica del testo, eppure era necessaria se si voleva dare consistenza giuridica a quanto in precedenza Francesco esortava a fare ai suoi frati, spingendoli a vivere la pazienza e l’umiltà nei confronti dei persecutori e ad amare i loro nemici. Solo l’accoglienza assoluta della parola di Cristo può permettere di entrare nel suo Spirito e rendere un uomo frate minore, cioè forte di una logica nuova che produce un’operazione santa nei confronti degli altri fratelli trasformatisi in nemici.

Il primo testo invita ad amare i nemici e pregare per coloro che ci perseguitano. Il comando ha la sua forza e validità soltanto in base alla parola di Cristo, il quale non dà altra spiegazione che la sua persona: “ma io vi dico”. Si entra così al centro della novità evangelica fondata su di una legge che è anzitutto una persona, la cui sequela permette di abbracciare uno stile di vita nuovo e originale.

I secondi due testi sottolineano come non si tratta di seguire Gesù per la morte, ma per la vita: chi avrà sopportato la persecuzione per la giustizia avrà il Regno di Dio e chi persevererà otterrà la salvezza. E la via della vita passa attraverso il dono completo di sé, unica possibilità per ribaltare la logica della violenza e dell’ingiustizia fonte di morte. Solo un uomo evangelico, che si pone alla sequela di Cristo, può essere un uomo fraterno. Non si tratta dunque di far funzionare dei meccanismi relazionali fondati sulla giustizia e sull’equa distribuzione, ma di avere il coraggio personale di restare fratelli di coloro che smettono di esserlo e assumono una logica di sopraffazione e rivalità. Solo in quel momento, quando si viene traditi nel progetto abbracciato comunitariamente, il singolo può effettivamente verificare e proclamare di essere un vero frate minore che muore per i suoi fratelli, realizzando così in sé uno spazio vitale offerto agli altri per una possibile rinascita delle relazioni evangeliche.

Tratto da: FRATI MINORI di Canepanova – Pavia ● Centenari francescani: la Regola bollata


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CAPITOLO IX – DEI PREDICATORI

1 I frati non predichino nella diocesi di alcun vescovo qualora dallo stesso vescovo sia stato loro proibito. 2 E nessun frate osi affatto predicare al popolo, se prima non sia stato esaminato ed approvato dal ministro generale di questa fraternità e non abbia ricevuto dal medesimo l’ufficio della predicazione. 3 Ammonisco anche ed esorto gli stessi frati che, nella loro predicazione, le loro parole siano ponderate e caste, a utilità e a edificazione del popolo, annunciando ai fedeli i vizi e le virtù, la pena e la gloria con brevità di discorso, poiché il Signore sulla terra parlò con parole brevi.

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Approfondimenti

Il capitolo IX relativo alla predicazione trasmette e regola uno degli aspetti costitutivi del primo gruppo raccolto attorno a frate Francesco, in un contesto mutato e rapidamente evolutosi negli anni dal 1221 al 1223: l’esperienza dell’esortazione rivolta a tutti, tematizzata nel capitolo XVII della Regola non bollata, è diventato un testo asciutto e ben preciso nelle indicazioni giuridiche, nella modalità della predicazione accogliendo le emergenti esperienze pastorali in merito. Un capitolo sulla predicazione costituisce, inoltre, una novità nel quadro delle Regole del tempo e può parzialmente collegarsi al capitolo XII della Regola bollata per quanti vanno tra i saraceni e gli infedeli, nel momento in cui, «quando vedranno che piace a Dio, annunzino la parola di Dio» (Rnb XVI, 7: FF 43).

Il testo si articola semplicemente in quattro versetti: i primi due con espressioni al negativo, di derivazione giuridica; i secondi due con espressioni esortative, in uno stile in cui è rintracciabile ancora il tocco di Francesco, non solo dei due verbi espressi in prima persona, ma anche nella successione incalzante dei termini.

Il divieto con cui si apre il capitolo accoglie quanto era stato formulato nella costituzione terza e decima del Concilio Lateranense IV, deciso a intervenire sulla cattolicità dei predicatori con un vigilante controllo da parte dei vescovi, ai quali, per primi, spettava il compito della predicazione, direttamente esercitato o delegandolo a persone di sicura fede ortodossa, affinché fosse annunciata la parola e l’esemplarità della vita. Sembra quasi crearsi uno sdoppiamento tra una parola riservata ai predicatori e un’esemplarità predicata con la propria testimonianza possibile da parte di tutti i frati. La predicazione non è più solo un’esortazione che poteva essere affidata a tutti, ma un ufficio di cui si è investiti dalla competente autorità, necessitando abilità specifiche.

Il secondo divieto di questo capitolo riguarda il permesso che i predicatori devono avere da parte del ministro e servo di tutta la fraternità. Il capitolo IX si apre dunque con due norme tassative che dicono della rapida evoluzione che c’è stata nel passaggio dalla esortazione alla predicazione sottoposta al controllo episcopale per evitare ogni pericolo ereticale e affidata, secondo le disposizioni lateranensi, alla categoria specializzata dei predicatori e non più a tutti i frati, che possono comunque esortare con parole alla conversione testimoniandola con la propria esemplarità.

Nei due versetti che aprono la seconda sezione del capitolo IX, appare esplicita la presenza del Santo con i due verbi coniugati in prima persona, oscillanti tra il negativo – ammonisco – e il positivo – esorto –, segno del suo intervento diretto nell’elaborazione della Regola bollata, frutto della collaborazione dei ministri e del cardinale Ugolino. Un primo dittico si rivolge esplicitamente ai frati impegnati nella predicazione, articolato nella qualità delle parole: esaminate e caste. La Regola esorta i predicatori ad annunciare solo “le santissime parole divine” (2Test 13: FF 115), che prima di essere proposte, devono riscaldarsi interiormente perché non siano fredde (2Cel 163: FF 747); parole provate al fuoco della passione, liberate da una sapienza carnale che si riempie di se stessa (Am VII: FF 156), e che diventa casta perché purificata dallo Spirito, così come Francesco definiva casta la cenere perché purificata dal fuoco (3Comp 15: FF 1414).

Un secondo dittico – utilità ed edificazione – specifica la finalità della predicazione rivolta al popolo. Il termine utilità si riferisce alla recezione della parola nell’esperienza personale dell’uditore che l’accoglie; un ascolto personale, capace di ampliarsi e di generare l’edificazione dell’intero popolo cristiano. Riscontriamo il tema evangelico dell’edificare la propria fede sulla roccia che è Cristo (Mt 7,24-27), con rimandi alla letteratura paolina laddove si parla di cristiani edificati sul fondamento degli apostoli e dei profeti, con Cristo pietra angolare (Ef 2,20). Un’unità con funzioni differenziate, ma con lo scopo di edificare il corpo di Cristo (Ef 4,20). Il dono che ognuno può avere si colloca in una gerarchia di carismi in vista della comune utilità ed edificazione di tutta la comunità cristiana (1Cor 14,1-5), evitando parole cattive, “ma piuttosto parole buone che possano servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano” (Ef 4,29).

I frati predicatori devono rivolgere ai fedeli un annuncio di tipo kerigmatico, con un forte appello alla conversione, che interpella il vissuto cristiano in vista di scelte decisive. Ad essere annunciati sono i vizi e le virtù, la pena e la gloria: quattro elementi in doppia coppia antitetica, che offrono uno spazio ben preciso della predicazione: due virtù morali – vizi e virtù –, in una prospettiva escatologica – pena e gloria –, dove il primo binomio antitetico è in connessione con il secondo binomio, altrettanto opposto. Sono tematiche classiche della predicazione medievale, con abbondanza di riferimenti patristici, ripresi nell’omiletica, e con significativi apporti derivanti dalle cerchie parigine a cui contribuì lo stesso Innocenzo III e il successore Onorio III. Il tema è caro a frate Francesco, lo riprende altrove nei suoi Scritti (Am XXVII: FF 177; Salvir: FF 256-258): la freschezza che il Santo apporta non sta tanto nella novità del tema che è ricorrente, quanto nella sua rielaborazione teologica-spirituale. È, infine, un annuncio kerigmatico da farsi nella essenzialità delle parole, senza disperderne o consumarne se non necessarie.

Tratto da: FRATI MINORI di Canepanova – Pavia ● Centenari francescani: la Regola bollata


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CAPITOLO VIII – DELLA ELEZIONE DEL MINISTRO GENERALE DI QUESTA FRATERNITÀ E DEL CAPITOLO DI PENTECOSTE

1 Tutti i frati siano tenuti ad avere sempre uno dei frati di quest’Ordine come ministro generale e servo di tutta la fraternità e a lui devono fermamente obbedire. 2 Alla sua morte, l’elezione del successore sia fatta dai ministri provinciali e dai custodi nel Capitolo di Pentecoste, al quale i ministri provinciali siano tenuti sempre ad intervenire, dovunque sarà stabilito dal ministro generale; 3 e questo, una volta ogni tre anni o entro un termine maggiore o minore, così come dal predetto ministro sarà ordinato. 4 E se talora ai ministri provinciali ed ai custodi all’unanimità sembrasse che detto ministro non fosse idoneo al servizio e alla comune utilità dei frati, i predetti frati ai quali è commessa l’elezione, siano tenuti, nel nome del Signore, ad eleggersi un altro come loro custode. 5 Dopo il Capitolo di Pentecoste, i singoli ministri e custodi possano, se vogliono e lo credono opportuno, convocare, nello stesso anno, nei loro territori, una volta i loro frati a capitolo.

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Approfondimenti

Ciò che viene in primo luogo comandata è l’opportunità che i frati si diano un ministro generale e servo, al quale tutti dovranno sottostare in ferma obbedienza. Si passa poi a considerare il Capitolo generale, ma soltanto limitatamente al suo compito di provvedere ad eleggere il ministro generale alla sua morte; è in tale contesto che viene dichiarata l’opportunità dell’assemblea generale, costituita dai ministri provinciali e dai custodi, lasciando al ministro generale la facoltà di scegliere sia il luogo in cui convenire, sia la scansione temporale con cui dev’essere celebrato il Capitolo stesso: ogni tre anni, oppure, come gli sembrerà opportuno, a scadenza maggiore o minore. L’attenzione torna poi a focalizzarsi sulla figura del ministro generale, presentando la possibilità di destituirlo dal suo ufficio di governo nel caso in cui egli fosse valutato, da parte dei ministri provinciali e dai custodi, non sufficiente per adempiere in maniera adeguata il suo incarico. Il capitolo si conclude dando la facoltà ai singoli ministri e custodi di radunare i frati delle loro giurisdizioni dopo Pentecoste, successivamente alla conclusione del Capitolo generale, ogniqualvolta esso venga celebrato.

“Ministro e servo”, costituisce un’espressione nuova soltanto in parte; tuttavia l’aggiunta della parola “servo” a “ministro” accentua maggiormente l’inclinazione al servizio che dovrebbe connotare l’ufficio di questa figura di governo. Il frate ministro che è stato posto al di sopra di tutti gli altri, vive un servizio temporaneo a favore di tutta la Fraternità, caratterizzato da un atteggiamento di espropriazione radicale. Il ministro e servo generale, chiamato a vivere un legame di obbedienza nei confronti del papa, convoca l’assemblea capitolare generale e stabilisce sia il luogo che il tempo preciso in cui essa debba tenersi, al servizio e alla comune utilità dei frati. Non si possono evidenziare altri compiti connessi con l’autorità di governo del ministro e servo generale; altre facoltà sono di pertinenza dei ministri provinciali, così come si possono evidenziare alcune attenzioni concrete che i ministri debbono avere nei confronti dei frati: attenzioni che, probabilmente, accomunano i ministri sia generali che provinciali. Il Santo raccomanda loro di prendersi cura sollecita, così come sembrerà opportuno sulla base delle effettive necessità, dei frati ammalati; di visitare e ammonire i frati che sono loro sottomessi, eventualmente correggendoli con umiltà e carità, evitando di comandare qualcosa che sia contrario all’anima e alla Regola; di mostrarsi accoglienti e familiari nei confronti di quei frati che si recheranno presso di loro per esprimere la propria situazione di impossibilità nell’osservare la Regola secondo lo Spirito; di ammettere coloro che domandano di intraprendere questa vita; di imporre la penitenza con misericordia a quei frati che avranno fatto ricorso a loro al fine di ricevere il perdono dei peccati per i quali ciò è stato ordinato e se tuttavia non sono sacerdoti, la faranno imporre da parte di altri sacerdoti dell’Ordine; di concedere ai frati che riterranno idonei il permesso di andare tra i saraceni e tra gli altri infedeli.

Non una via facile, ma votata al dono di sé mediante l’obbedienza ad altri è quella che i frati debbono percorrere, soprattutto quando il contesto attuale bolla come poco convincente la strana necessità del sacrificio. La diffusa mentalità efficientista e tecnocratica pare conferire credibilità soltanto a ciò che immediatamente produce e sin da subito funziona. Laddove, invece, non vi sia la possibilità di una misurazione quasi immediata dei risultati ottenuti e, soprattutto, qualora siano richiesti un certo sforzo e la pazienza dell’attesa, spesso l’impresa viene troppo precipitosamente dichiarata inutile, se non addirittura fallimentare. Le possibilità vitali connesse con il “patire obbedienza”, in realtà, mostrano tutta la vitalità racchiusa nei percorsi di chi sa consegnarsi fiduciosamente all’altro. A questo proposito possiamo citare un passaggio della Lettera agli Ebrei, dove appare chiaro il legame stretto con l’esperienza del patire, da cui scaturisce il frutto dell’obbedienza: lo stesso Signore Gesù «pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti quelli che gli obbediscono» (Eb 5,8-9). Il Figlio impara a dire il suo sì al Padre assumendo pienamente il rischio di un abbandono difficile, e tale adesione ricade a beneficio di salvezza su tutti coloro che sapranno adeguatamente reinterpretare nella loro esistenza questa obbedienza.

L’identità evocata dal nome di “Ministro generale” attribuito a colui che sta a capo dell’Ordine evidenzia come il ministro e servo generale debba fondamentalmente sapersi proporre quale espressione di una Fraternità di cui si pone a servizio. L’obbedienza richiesta anche da parte del ministro generale offre a lui stesso la possibilità di mettere in atto l’arte difficile e coraggiosa di interpretare le nuove domande che possono nascere anche presso i frati. A tal riguardo potrebbe essere opportuno chiedersi se il rischio di soggettivismo che si può manifestare in ragione delle iniziative dei singoli frati non possa verificarsi in misura inversamente proporzionale alla capacità del ministro di mantenersi autenticamente in ascolto.

Tratto da: FRATI MINORI di Canepanova – Pavia ● Centenari francescani: la Regola bollata


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CAPITOLO VII – DELLA PENITENZA DA IMPORRE AI FRATI CHE PECCANO

1 Se dei frati, per istigazione del nemico, avranno mortalmente peccato, per quei peccati per i quali sarà stato ordinato tra i frati di ricorrere ai soli ministri provinciali, i predetti frati siano tenuti a ricorrere ad essi, quanto prima potranno senza indugio. 2 I ministri, poi, se sono sacerdoti, loro stessi impongano con misericordia ad essi la penitenza; se invece non sono sacerdoti, la facciano imporre da altri sacerdoti dell’Ordine, così come sembrerà ad essi più opportuno, secondo Dio. 3 E devono guardarsi dall’adirarsi e turbarsi per il peccato di qualcuno, perché l’ira ed il turbamento impediscono la carità in sé e negli altri.

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Approfondimenti

Il testo di questo capitolo, piuttosto breve, vuole dare indicazioni su come regolarsi nei casi di gravi colpe pubbliche dei frati: si rivolge anzitutto ai frati che hanno peccato, invitandoli a ricorrere ai ministri; e in secondo luogo dà indicazioni ai ministri sul comportamento da tenere con questi fratelli.

Tra le parole significative del nostro testo, merita attenzione l’espressione “per istigazione del nemico”, perché il riferimento al “nemico” tentatore ritorna anche altrove negli Scritti di Francesco, sia con l’identica espressione usata nella Lettera a un ministro, sia parlando di “istigazione del diavolo” (Rnb XIII, 1: FF 39), sia parlando ripetutamente della sua instancabile attività (Am XXVII, 5: FF 177; Rnb V, 7: FF 18; VII, 10: FF 25; VIII, 4: FF 28; XXII, 13: FF 58). Nemico può essere anche “il corpo, per mezzo del quale pecchiamo”, al quale vengono subito accostati “altri nemici visibili e invisibili” (Am 10, 2.4: FF 159), e nemici dell’uomo posso essere anche “la carne, il mondo e il diavolo” (1Lf II, 11: FF 178/5; 2Lf 69: FF 204).

Per tre volte, nei suoi Scritti, il Santo parla dei “peccati mortali” (Cant 29: FF 263; 1Lf II, 15: FF 178/6; 2Lf 82: FF 205), mostrando una acuta coscienza della loro gravità, e moltissime volte parla di peccati: ricordiamo soltanto quella volta in cui all’inizio del Testamento usa la concisa espressione “essere nei peccati” per indicare la propria condizione, prima dell’incontro con i lebbrosi che gli cambiò la vita. Emerge in lui una profonda consapevolezza della umana condizione di peccatori, a fronte della chiara percezione della bontà di Dio, che è il solo bene; ma quella che potrebbe essere una negativa percezione dell’uomo è invece una cristiana intuizione, per cui ci si vede come peccatori salvati, redenti dalla bontà di Dio. È la fede profonda nell’azione di salvezza di Dio che permette di riconoscere con tanta chiarezza la condizione di peccato da cui l’uomo è stato salvato. L’aggiunta dell’aggettivo “mortale” o dell’avverbio “mortalmente”, come nel nostro caso, esplicita quel legame tra peccato e morte che viene già annunciato nei primi capitoli della Genesi e che è una ferma convinzione della fede cristiana, che proclama in Gesù il salvatore dal peccato e dalla morte.

Merita attenzione l’espressione «quei peccati per i quali è stato ordinato tra i frati di ricorrere ai soli ministri provinciali»: di che peccati si tratta? Gregorio IX nella bolla Quo Elongati chiarisce che si tratta solo di peccati pubblici e manifesti (Bolla “Quo elongati” di Gregorio IX: FF 2735). Le Costituzioni Narbonensi, la prima raccolta organica di quelle norme attuative della Regola chiamate Costituzioni, danno un contenuto a questi peccati pubblici, citando espressamente cinque casi: «per il delitto di lussuria, di disobbedienza contumace, di accettazione del denaro contro la Regola, di per se stessi o per mezzo di un’altra persona, di grave furto e di violenta percossa di un altro». Comprendiamo come con il passare degli anni si rende sempre più necessario ricorrere a delle norme esplicative, quali le Costituzioni, per attuare e fornire indicazioni più specifiche al dettato della Regola, unitamente a cercare di applicare ai diversi tempi e alle diverse situazioni le indicazioni della stessa.

Il nostro testo, parlando del ricorso ai ministri, prevede che essi possano essere o non essere sacerdoti. Si fa qui riferimento alla situazione degli inizi e dei primi decenni dell’Ordine, quando le cariche di governo potevano essere ricoperte da qualsiasi frate, sacerdote o laico che fosse. Nel nostro testo, se i ministri non sono sacerdoti, sono invitati a far imporre la penitenza “dai sacerdoti dell’Ordine”: si può dunque dedurre che nel 1223, quando viene stesa la norma della Regola, i frati sacerdoti erano già presenti in numero sufficiente da permettere che ad essi si potesse fare normalmente ricorso. Con questa prescrizione la Regola viene incontro alla disposizione del Concilio Lateranense IV che invitava i fedeli a confessare almeno una volta all’anno, al proprio parroco, i loro peccati, mentre se per giusto motivo volevano rivolgersi ad un altro sacerdote dovevano ottenere licenza dal proprio parroco. Si comprende il riferimento esplicito nel nostro testo ai “sacerdoti dell’Ordine”.

L’amministrazione della penitenza è regolata dalle espressioni “con misericordia e secondo Dio”, che caratterizzano in senso tipicamente francescano la correzione fraterna. Non è importante sapere soltanto che cosa fare con i fratelli che peccano, ma è altrettanto importante sapere come comportarsi con loro. “Misericordia” è una parola importante nel vocabolario francescano. Essa è la caratteristica di Dio, ma diventa anche il tratto che caratterizza i suoi fedeli, in particolare quando si tratta della misericordia da avere verso i fratelli, nel contesto di relazioni difficoltose. In questi contesti la misericordia rimane l’unica vera indicazione importante, che manifesta nel comportamento del discepolo le qualità del maestro. Mentre per comprendere meglio l’espressione “secondo Dio”, potremmo confrontarla con le molte volte in cui Francesco dice di comportarsi “secondo il Vangelo” o “secondo la forma del santo Vangelo”, o anche “secondo quel che dice il Signore”. Il dato che emerge da queste espressioni è la volontà di conformarsi a una forma che non ci diamo da noi stessi ma che accogliamo da Dio, attraverso le vie che egli ha scelto per rivelarsi a noi.

La frase finale del nostro capitolo mette in guardia dall’ira e dal turbamento nei confronti del peccato del fratello, atteggiamenti da evitare perché contrastano radicalmente con quello che deve essere il criterio fondamentale: la carità. Va segnalato che la coppia “ira e turbamento” ricorre altrove negli Scritti del Santo (Rb VII, 3: FF 95; Rnb V, 7: FF 18; Rnb X, 4: FF 35) e normalmente segnala un peccato che potrebbe definirsi di appropriazione: si tratta di un atteggiamento che spesso scatta di fronte al peccato altrui e che è l’esatto contrario di quello che Francesco chiama “il vivere senza nulla di proprio” (Cfr. Am XI: FF 160), che consiste nel riconoscere e assecondare l’azione del Signore nel bene che facciamo, senza appropriarcene indebitamente, pensando di possedere il bene che facciamo. Oltre che dei beni che appartengono al Signore, ci si può appropriare anche del male che è nel fratello: forma triste di appropriazione, alla quale il povero evangelico si oppone con la forza della carità.

Tratto da: FRATI MINORI di Canepanova – Pavia ● Centenari francescani: la Regola bollata


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CAPITOLO VI – CHE I FRATI DI NIENTE SI APPROPRINO, E DEL CHIEDERE L’ELEMOSINA E DEI FRATI INFERMI

1 I frati non si approprino di nulla, né casa, né luogo, né alcuna altra cosa. 2 E come pellegrini e forestieri in questo mondo, servendo al Signore in povertà ed umiltà, vadano per l’elemosina con fiducia. 3 Né devono vergognarsi, perché il Signore si è fatto povero per noi in questo mondo. 4 Questa è la sublimità dell’altissima povertà quella che ha costituito voi, fratelli miei carissimi, eredi e re del regno dei cieli, vi ha fatto poveri di cose e ricchi di virtù. 5 Questa sia la vostra parte di eredità, quella che conduce fino alla terra dei viventi. 6 E, aderendo totalmente a questa povertà, fratelli carissimi, non vogliate possedere niente altro in perpetuo sotto il cielo, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo. 7 E ovunque sono e si incontreranno i frati, si mostrino familiari tra loro reciprocamente. 8 E ciascuno manifesti con fiducia all’altro le sue necessità, poiché se la madre nutre e ama il suo figlio carnale, quanto più premurosamente uno deve amare e nutrire il suo fratello spirituale? 9 E se uno di essi cadrà malato, gli altri frati lo devono servire come vorrebbero essere serviti essi stessi.

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Approfondimenti

La sequela della vita povera condivisa con Gesù dalla sua santissima madre, la Vergine Maria, appartiene al carisma originario di Francesco, che lo ripropone anche all’intera comunità ecclesiale: «Lui, che era ricco sopra ogni cosa, volle scegliere in questo mondo, insieme alla beatissima Vergine, sua madre, la povertà» (2Lf 5: FF 182). L’annientamento di Cristo nell’umiltà della natura umana e il mistero della sua passione e morte, non potevano non richiamare alla memoria di Francesco la suprema kenosi del figlio di Dio nel sacrificio eucaristico. Per il Santo la celebrazione eucaristica non è un semplice ricordo del sacrificio di Cristo, ma un memoriale nel senso ebraico di un evento che, pur avvenuto in passato, si rende presente sull’altare nelle mani del sacerdote, vale a dire, attraverso i segni liturgici posti dal sacerdote, il quale nel pane e vino consacrati offre ai nostri occhi di credenti il santissimo corpo e sangue vivo e vero di Cristo (cf Am I, 16-21: FF 144).

Non basta espropriarsi dei beni di famiglia. Entrando a far parte della fraternità francescana, oltre ai beni posseduti nel secolo è necessario non appropriarsi dei beni posti al servizio comune dei frati: «I frati non si approprino di nulla, né casa, né luogo né alcuna cosa». Dovendo andare per il mondo, i frati non potevano disporre di una dimora stabile perché dovevano vivere nel mondo «come pellegrini e forestieri» (cf 1Pt 2,11).

Non solo Francesco e i suoi frati, ma tutti gli uomini, essendo chiamati a partecipare al futuro di Dio, non devono avere in questo mondo fissa dimora né attaccarsi alle cose terrene e caduche. Per il sostentamento dei suoi frati, Francesco pone il lavoro al primo posto, ma in ordine alla sussistenza dei frati non esclude il ricorso all’elemosina con fiducia. Attraverso l’elemosina, intesa come «mensa del Signore» (2Test 22: FF 120), il Santo mette in evidenza il motivo ascetico di questa attività, in quanto permette ai frati di conformarsi a Cristo il quale, assieme alla vergine Maria e a suoi discepoli, sarebbe vissuto di elemosine. È stato notato che qui il serafico padre si allontana dai testi sacri, perché non risulta dai vangeli che Cristo andasse a chiedere l’elemosina o che inviasse i suoi discepoli a questo scopo, anzi è certo che, dalla cassa custodita da Giuda Iscariota, essi prelevavano il denaro per comperare i viveri e distribuirne in elemosina ai poveri. Oltre che esercizio delle virtù evangeliche dell’umiltà, della mansuetudine e della mortificazione, fare la questua per il sostentamento della propria comunità è, secondo Francesco, un diritto acquistato da Cristo povero per i suoi seguaci (Rnb IX, 7-9: FF 31).

Il programma di «altissima povertà» e di servizio vicendevole, modellato sull’esempio di Cristo, lascia trasparire un concetto ricorrente nei pensieri e nei detti di Francesco: la fiducia dei figli di Dio deve radicarsi non nel possesso delle cose, ma nell’amore provvidente del Padre e nell’amore “materno” – cioè oblativo, gratuito, concreto – scambiato all’interno della fraternità. Francesco d’Assisi, uomo della fratellanza universale, che chiamava fratelli e sorelle tutte le cose, nelle quali vedeva risplendere la bontà di Dio e la sua eterna bellezza, volle che i suoi seguaci si chiamassero fratelli o frati, denominazione che era certamente una novità. Il Figlio di Dio con la sua incarnazione e il suo sacrificio ha reso fratelli tutti gli uomini. È a questa unione tra fratelli, non più carnale o sociale, ma spirituale, che il serafico padre allude nei suoi Scritti. Essa consiste nell’accettare Dio come padre e l’uomo come fratello, da amare con la tenerezza di una madre.

Francesco viveva una reale maternità nei confronti dei frati (li amava con la tenerezza di una madre), un’affezione profonda e volta ad affermare il vero bene del fratello. Nella Lettera a frate Leone – giunta a noi autografa e conservata a Spoleto – si coglie bene questa tensione: «Frate Leone, il tuo frate Francesco ti augura salute e pace. Così dico a te, figlio mio, come madre». Francesco sottolinea come il vero amore fraterno contiene in sé la delicatezza confidente e la concretezza generosa dell’amore materno. La maternità è intesa da Francesco come il suo servizio, il suo vero ministero nei confronti dei fratelli e di tutti gli uomini.

Questo tipo di amore, delicato e cordiale, egli l’ha voluto lasciare in eredità ai propri frati, come leggiamo nel Testamento di Siena: «in segno e memoria della mia benedizione e del mio testamento, sempre [i frati] si amino gli uni gli altri».

Se Francesco era duro con se stesso, al contrario era tenero con i fratelli. Se veniva a conoscenza di frati che strapazzavano il proprio corpo praticando aspri digiuni, rinunciando a dormire o a ripararsi dal freddo, interveniva esortandoli alla prudenza e alla moderazione. Nel caso specifico delle malattie, il Santo chiede ai frati sani di essere particolarmente solleciti nell’apprestare le cure adeguate ai confratelli infermi, ma nello stesso tempo ammonisce questi ultimi a sopportare pazientemente i disagi della malattia e a non essere troppo esigenti nel chiedere «con insistenza medicine, desiderando troppo di liberare la carne che presto dovrà morire, e che è nemica dell’anima». Egli prega perciò «il frate infermo di rendere grazie di tutto al Creatore; e quale lo vuole il Signore, tale desideri di essere, sia sano che malato, poiché tutti coloro che Dio ha preordinato alla vita eterna, li educa con i richiami stimolanti dei flagelli e delle infermità e con lo spirito di compunzione» (Rnb X, 3: FF 35).

Si noti anche l’insistenza del santo sul servire così come vorrebbero essere serviti essi stessi: c’è un chiaro invito a piegare l’amore che ognuno attende per sé a diventare misura e strumento del servizio verso il fratello.

Oltre che all’espropriazione dai beni materiali, è frequente negli Scritti di Francesco il concetto di restituzione al Signore dei propri talenti, perché Dio è il datore di ogni bene e se ogni cosa appartiene a Dio, deve essergli restituito tutto quello che da lui abbiamo ricevuto; secondo il Santo, è infatti necessario che si giunga alla completa espropriazione di sé, nulla riservando a se stessi, ma donando tutto in un totale atto di amore. Questo tipo di restituzione o espropriazione conserva la sua validità spirituale ancora oggi: tutto ciò di cui l’uomo dispone, lo ha ricevuto da Dio. «Che cosa possiedi che tu non l’abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l’avessi ricevuto?» (1Cor 4,7) La via sicura da seguire per spogliarsi di tutto, cioè non attaccare il cuore alle cose terrene, persino alle proprie doti morali. È l’atteggiamento che, secondo l’insegnamento del serafico padre, deve tenere il religioso e chiunque voglia vivere in profondità la vita cristiana.

Tratto da: FRATI MINORI di Canepanova – Pavia ● Centenari francescani: la Regola bollata


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CAPITOLO V – DEL MODO DI LAVORARE

1 Quei frati ai quali il Signore ha concesso la grazia di lavorare, lavorino con fedeltà e con devozione 2 così che, allontanato l’ozio, nemico dell’anima, non spengano lo spirito della santa orazione e devozione, al quale devono servire tutte le altre cose temporali. 3 Come ricompensa del lavoro ricevano le cose necessarie al corpo, per sé e per i loro fratelli, eccetto denari o pecunia, 4 e questo umilmente, come conviene a servi di Dio e a seguaci della santissima povertà.

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Approfondimenti

In quanto grazia, il lavoro deve essere svolto con fedeltà e con devozione. È fedele chi accoglie con fede e realizza con perseveranza il suo lavoro, che è grazia del Signore. La fedeltà implica impegno costante, svolto con rettitudine; ma non basta: al lavoro si deve devozione, perché è un servizio, che esige dedizione. È devoto chi rende quotidianamente al Signore anche il lavoro e la fatica delle proprie mani, riconoscendo che Dio e non l’uomo è autore di ogni bene. Il termine devozione, però, ha anche un altro significato nell’accezione corrente dell’epoca: è quell’atteggiamento interiore di fervido slancio che innalza l’animo e lo predispone alla contemplazione. Anche il lavoro, dunque, deve essere orientato all’elevazione spirituale: il supremo impegno dei frati è, e deve essere, quello di coltivare lo spirito della santa orazione e devozione, che non deve assolutamente essere estinto e soffocato da incombenze, le quali, se troppo coinvolgenti, rischiano di diventare fine a se stesse, spegnendo qualsiasi afflato e slancio spirituale. In questa prospettiva, nessun lavoro interno o esterno alla fraternità può sfuggire alle grandi motivazioni della vita evangelica e francescana: povertà, spirito di servizio, minorità, fedeltà umile e paziente, rendimento di grazie, sempre come conviene a servi di Dio.

Il lavoro, oltre che per guadagnarsi il pane con la propria fatica, serve anche ad allontanare l’ozio. Si sottolinea con forza che lo spirito della santa orazione e devozione deve prevalere su tutto: a esso devono servire tutte le altre cose temporali. Il Santo ammonisce i suoi frati perché il primato del Signore sia custodito, ovvero l’atteggiamento interiore di orante e devoto rapporto con Dio resti assolutamente prevalente.

Ma ci sono cose temporali che urgono come le cose necessarie al corpo: a queste, e strettamente a queste, deve essere finalizzata la ricompensa del lavoro. Chi riceve tale mercede è invitato alla condivisione con i fratelli. Rimane esclusa non solo la retribuzione in denaro, ma anche quella in beni di scambio: la pecunia. La ricompensa deve essere finalizzata direttamente ed esclusivamente alle necessarie sussistenze. È questo un preciso obbligo della povertà minoritica: come conviene a servi di Dio e a seguaci della santissima povertà, che evangelicamente esclude qualsiasi forma di accumulo e di capitalizzazione; un obbligo assoluto che non ammette eccezioni. In un’epoca di passaggio progressivo dall’economia del baratto a quella del denaro, i frati devono ritornare a quella che possiamo chiamare “economia evangelica”: la libertà derivante dal non preoccuparsi per il domani e dalla cupidigia di accumulare tesori sulla terra.

L’accenno alla ricompensa lascia intuire che il lavoro si svolgesse, almeno in parte, presso terzi e che questo passo della Regola si riferisse ad attività pratiche non ancora “conventualizzate”. Di fatto, nei primi anni Venti i frati non dimoravano in maniera definitiva in sedi stabili ed esclusivamente a loro riservate. Ma questa situazione evolve velocemente verso la costituzione di comunità minoritiche con una propria sede stabile e riservata, con la conseguenza dell’emergere della tendenza all’abbandono del faticoso impegno quotidiano, è confermato dalle prescrizioni data da Francesco stesso nel suo Testamento: «Ed io lavoravo con le mie mani e voglio lavorare; e voglio fermamente che tutti gli altri frati lavorino di un lavoro quale si conviene all'onestà. E quelli che non sanno, imparino, non per la cupidigia di ricevere la ricompensa del lavoro, ma per dare l'esempio e tener lontano l'ozio» (2Test 20-21: FF 119). Il frate deve lavorare con fedeltà verso il prossimo, con dedizione verso Dio, con modestia verso se stesso. Egli deve accedere alla mensa del Signore, il mondo, non per cupidigia della ricompensa, ma per manifestare lo Spirito del Signore e la sua santa operazione, cui devono servire tutte le cose. Più chiaramente si potrebbe dire che, tra il necessario mendicato e quello acquistato con il lavoro, Francesco preferisce il primo, non quale sostentamento, ma per provocare il prossimo alla carità, chiedendo il pane per amore di Dio.

Tratto da: FRATI MINORI di Canepanova – Pavia ● Centenari francescani: la Regola bollata


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CAPITOLO IV – CHE I FRATI NON RICEVANO DENARI

1 Comando fermamente a tutti i frati che in nessun modo ricevano denari o pecunia, direttamente o per interposta persona. 2 Tuttavia, i ministri e i custodi, ed essi soltanto, per mezzo di amici spirituali, si prendano sollecita cura per le necessità dei malati e per vestire gli altri frati, secondo i luoghi e i tempi e i paesi freddi, così come sembrerà convenire alla necessità, 3 salvo sempre il principio, come è stato detto, che non ricevano denari o pecunia.

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Approfondimenti

È utile richiamare come il Santo all’inizio del suo cammino di conversione si spogliò di tutti i suoi beni, donandoli ai poveri, e si incamminò povero dietro il Cristo povero. Questa stessa scelta di lasciare tutto la consegnava a coloro che gli chiedevano di poter condividere la sua vita e missione. La vita semplice della prima fraternità comportava il dover lavorare per mantenersi, evitando in ogni modo l’attaccamento al denaro e l’assumere incarichi che non permettevano di vivere da minori e sottomessi a tutti. Francesco e i suoi frati iniziarono il loro viaggio comune separandosi da relazioni e da possedimenti che li legavano all’interno della società e si incamminarono su quella che compresero essere la via del Signore. Vissero tra la gente come uomini di pace e di servizio, diffondendo la luce che portavano dentro.

Questo capitolo è più restrittivo rispetto a quello di Rnb VII, infatti nel 1221 viene esplicitamente proibito ai frati di usare o ricevere denaro per procurarsi vestiti o libri, come ricompensa del lavoro, per qualunque casa o luogo o per qualsiasi altro scopo. Solo un’eccezione è ammessa: per la manifesta necessità dei malati, i frati possono usare denaro. Questa eccezione non è più prevista nel 1223, dove la proibizione del denaro è assoluta. I casi, nei quali per lo più si doveva usare denaro, necessità dei malati e vestiti, vennero regolati in modo che i ministri e i custodi, ed essi soli, dovessero pregare gli amici spirituali di pagare le spese.

Per amici spirituali si intendono quei benefattori che, essendo legati ai frati, erano disposti ad aiutarli con i loro beni. In questo modo si ottiene che i frati stessi non fossero obbligati ad usare denaro [con il termine denaro possiamo supporre che si facesse riferimento al denaro grosso] o pecunia [pecunia non è solo il denaro contante, ma ogni cosa della quale gli uomini sono soliti usare, quando serve come prezzo delle cose da pagare, o che si dà o si riceve in luogo di denaro contante], ma si rivolgevano agli amici spirituali per un aiuto esclusivamente a favore dei frati infermi. Entrambe queste precisazioni riguardo al denaro e agli amici spirituali presumono che i frati vivessero in gruppi piccoli come dei nuclei familiari e che non si appropriassero di ciò che avevano e che utilizzavano. Nel capitolo V della Rb la proibizione del denaro viene riferita al caso specifico della ricompensa del lavoro: “Come ricompensa del lavoro ricevano le cose necessarie al corpo, per sé e per i loro fratelli, eccetto denari o pecunia” (Rb V, 4: FF 88).

La proibizione del denaro nella pratica provocò una serie di questioni di carattere giuridico, soprattutto a riguardo del ricorso all’amico spirituale. Nel 1230 i frati riuniti nel loro Capitolo generale discussero animatamente sulla Regola, enucleando alcune affermazioni di dubbia interpretazione, che sottoposero all’interpretazione di Gregorio IX perché sciogliesse i dubbi; tuttavia la questione degli amici spirituali non compariva tra quelle presentate. Con la bolla papale Quo elongati, i superiori si trovano affiancati da un agente finanziario che funzionava da mediatore tra l’Ordine e i suoi benefattori.

Dal punto di vista giuridico o anche materiale, come la proibizione giuridica di possedere, così anche la proibizione del denaro poteva venire osservata soltanto con l’implicazione di persone che vivevano al di fuori dell’Ordine.

Tratto da: FRATI MINORI di Canepanova – Pavia ● Centenari francescani: la Regola bollata


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