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DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

CAPITOLO III – DEL DIVINO UFFICIO E DEL DIGIUNO, E COME I FRATI DEBBANO ANDARE PER IL MONDO

1 I chierici recitino il divino ufficio, secondo il rito della santa Chiesa romana, eccetto il salterio, 2 e perciò potranno avere i breviari. 3 I laici, invece, dicano ventiquattro Pater noster per il mattutino, cinque per le lodi; per prima, terza, sesta, nona, per ciascuna di queste ore, sette; per il Vespro dodici; per compieta sette; 4 e preghino per i defunti. 5 E digiunino dalla festa di Tutti i Santi fino alla Natività del Signore. 6 La santa Quaresima, invece, che incomincia dall’Epifania e dura ininterrottamente per quaranta giorni, quella che il Signore consacrò con il suo santo digiuno, coloro che volontariamente la digiunano siano benedetti dal Signore, e coloro che non vogliono non vi siano obbligati. 7 Ma l’altra, fino alla Resurrezione del Signore, la digiunino. 8 Negli altri tempi non siano tenuti a digiunare, se non il venerdì. 9 Ma in caso di manifesta necessità i frati non siano tenuti al digiuno corporale. 10 Consiglio invece, ammonisco ed esorto i miei frati nel Signore Gesù Cristo che, quando vanno per il mondo, non litighino ed evitino le dispute di parole, e non giudichino gli altri; 11 ma siano miti, pacifici e modesti, mansueti e umili, parlando onestamente con tutti, così come conviene. 12 E non debbano cavalcare se non siano costretti da evidente necessità o infermità. 13 In qualunque casa entreranno dicano, prima di tutto: Pace a questa casa; 14 e, secondo il santo Vangelo, è loro lecito mangiare di tutti i cibi che saranno loro presentati.

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Approfondimenti

Questo capitolo riflette molto bene il modo associativo di scrivere proprio di Francesco, fenomeno che contribuisce a dimostrare il suo intervento nella redazione della Regola definitiva. Infatti, dopo aver presentato i fondamenti evangelici ed ecclesiali della forma di vita dei frati e le disposizioni sui candidati che arrivano alla fraternità, la durata del noviziato, il significato della professione e il modo di vestire, la Regola dedica una buona parte del capitolo III alla preghiera ufficiale e al digiuno, quindi di come i frati debbano andare per il mondo, dedicandosi in particolare al modo di essere minori.

Nel medioevo i termini chierici e laici, avevano essenzialmente un significato culturale, legato al fatto di sapere leggere, e non al fatto di aver ricevuto o meno il sacramento dell’Ordine. La normativa della Regola dei frati minori riguardante l’Ufficio divino presenta un forte contrasto con la precedente legislazione monastica, la quale descrive nei dettagli la forma e il contenuto del celebrare l’opus Dei. Si tratta di una normativa che si colloca in un contesto molto variegato, dato che al momento di scrivere la Regola non esisteva nella Chiesa occidentale una legislazione unitaria sulla celebrazione dell’ufficio divino. Papa Innocenzo III, probabilmente al tempo del Concilio Lateranense IV (1215), aveva introdotto per il clero romano un ufficio divino raccolto in un solo volume e abbreviato (da cui breviario). L’adozione del rito della santa Chiesa romana comportava l’uso di un breviario molto più leggero, che rendeva più comodi gli spostamenti dei frati nelle diverse regioni d’Europa ed evitava loro la scomodità di adattarsi alle liturgie proprie d’ogni luogo in cui arrivavano. L’unica eccezione al rito della Chiesa romana fatta dalla Regola è l’uso del salterio. In questo caso si fa riferimento al cosiddetto salterio romano, sostituito con quello più diffuso nelle diverse diocesi dell’Europa occidentale conosciuto come il salterio gallicano, che molti frati sapevano a memoria, dato che in esso avevano imparato a leggere. L’adozione di questo salterio si deve quindi ad una ragione pratica. La prima conseguenza della normativa che presenta la Regola bollata a proposito dell’Ufficio divino dei chierici è che a partire da allora l’Ordine incominciò ad avere un breviario proprio. L’effetto più evidente di questa norma è stato senz’altro l’unità dell’Ordine nella maniera di pregare, nonostante i frati si trovassero in luoghi tanto distanti; l’Ufficio si costituì in preghiera della fraternità perché era il medesimo per tutto l’Ordine. Infine il forte invito “e preghino per i defunti”, anche se non fa menzione del soggetto, sembra essere rivolto sia ai chierici che ai laici. Non si specifica né che cosa, né come si deve pregare per i defunti: questo lascia uno spazio per la creatività. La sobrietà di questo testo racchiude un principio di grande importanza che s’ispira al mistero della Comunione dei santi e, ancora una volta, per esprimere e stimolare l’unità dell’Ordine.

Le norme sul digiuno, collocate nella Regola come continuazione di quelle che riguardano l’Ufficio divino, acquistano uno speciale significato cultuale e teologico, tanto più che appaiono come preparazione ai momenti liturgici più importanti dell’anno. I destinatari delle disposizioni sul digiuno sono tutti i frati, chierici e laici, e il verbo digiunare, usato qui dalla Regola, significava normalmente mangiare una sola volta al giorno. La prassi del digiuno è sempre stata presente nella tradizione cristiana e occupa un posto di rilievo nell’ambiente monastico.

Il termine mondo e il sinonimo secolo, di solito avevano nella letteratura monastica del Medioevo un significato negativo; evocavano la fragilità e l’instabilità delle cose create, o il regno del peccato che si oppone alla grazia. Per tale motivo la vita monastica era concepita come una fuga mundi, come momento di conversione identificata con l’espressione exire de saeculo, che poi divenne un termine tecnico per designare l’ingresso nella Religione o la professione dei voti nella vita monastica. In contrasto con questa visione, la proposta di Francesco cerca di vivere la penitenza in mezzo al mondo, per cui egli prevede norme di comportamento per i frati quando vanno per il mondo. Se i frati lasciano il mondo come situazione di peccato, sono inviati al mondo come scenario della loro attività di penitenza e del loro contributo all’evangelizzazione. Il trittico dei verbi consiglio, ammonisco, esorto non presentano notevoli differenze di significato, ma esprimono il tipico linguaggio moltiplicativo che usava Francesco quando un argomento gli stava molto a cuore. L’andare per il mondo ha un significato reale, in quanto fa riferimento agli spostamenti che i frati devono fare normalmente nella loro forma di vita, che si realizza nel mondo, tra la gente, perché essi costituiscono una fraternità in missione. Questa missione avviene nel Signore Gesù Cristo: i frati sono chiamati a viverne i tratti della mitezza e dell’umiltà, evitando quindi i conflitti tra di loro e con chiunque incontrassero nel loro cammino.

L’augurio evangelico di pace, suggella uno stile di itineranza per il mondo ispirato alle beatitudini evangeliche e improntato da apertura colloquiale verso tutti. Infine si presenta la libertà dei frati che vanno per il mondo di fronte agli alimenti che gli vengono presentati, condividendo la situazione della gente in mezzo alla quale si trovano, quindi condizionati dalle possibilità di sussistenza che ogni luogo offre loro. È una libertà che deriva da una vera fiducia nella Provvidenza e comporta il realismo della povertà quando si va nell’esercizio della missione.

Tratto da: FRATI MINORI di Canepanova – Pavia ● Centenari francescani: la Regola bollata


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CAPITOLO II – DI COLORO CHE VOGLIONO INTRAPRENDERE QUESTA VITA E COME DEVONO ESSERE RICEVUTI

1 Se alcuni vorranno intraprendere questa vita e verranno dai nostri frati, questi li mandino dai loro ministri provinciali, ai quali soltanto e non ad altri sia concesso di ammettere i frati. 2 I ministri, poi, diligentemente li esaminino intorno alla fede cattolica e ai sacramenti della Chiesa 3 e se credono tutte queste cose e le vogliono fedelmente professare e osservare fermamente fino alla fine; 4 e non hanno mogli o, qualora le abbiano, esse siano già entrate in monastero o abbiano dato loro il permesso con l’autorizzazione del vescovo diocesano, dopo aver fatto voto di castità; e le mogli siano di tale età che non possa nascere su di loro alcun sospetto; 5 dicano ad essi la parola del santo Vangelo, che «vadano e vendano tutto quello che posseggono e procurino di darlo ai poveri». 6 Se non potranno farlo, basta ad essi la buona volontà. 7 E badino i frati e i loro ministri di non essere solleciti delle loro cose temporali, affinché dispongano delle loro cose liberamente, secondo l’ispirazione del Signore. 8 Se tuttavia fosse loro chiesto un consiglio i ministri abbiano la facoltà di mandarli da persone timorate di Dio, perché con il loro consiglio i beni vengano elargiti ai poveri. 9 Poi concedano loro i panni della prova cioè due tonache senza cappuccio e il cingolo e i pantaloni e il capperone fino al cingolo 10 a meno che qualche volta ai ministri non sembri diversamente secondo Dio. 11 Terminato, poi, l’anno della prova, siano ricevuti all’obbedienza, promettendo di osservare sempre questa vita e Regola. 12 E in nessun modo sarà loro lecito di uscire da questa Religione, secondo il decreto del signor Papa; 13 poiché, come dice il Vangelo, «nessuno che mette la mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio». 14 E coloro che hanno già promesso obbedienza, abbiano una tonaca con il cappuccio e un’altra senza, coloro che la vorranno avere. 15 E coloro che sono costretti da necessità possano portare calzature. 16 E tutti i frati si vestano di abiti vili e possano rattopparli con sacco e altre pezze con la benedizione di Dio. 17 Li ammonisco, però, e li esorto a non disprezzare e a non giudicare gli uomini che vedono vestiti di abiti molli e colorati ed usare cibi e bevande delicate, ma piuttosto ciascuno giudichi e disprezzi se stesso.

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Approfondimenti

Il capitolo II è il più esteso di tutta la Regola. A differenza di altri capitoli, però, riguarda una tematica unitaria: parla “di coloro che vogliono intraprendere questa vita e come devono essere ricevuti”. Il legame con il capitolo precedente è evidente nell’uso di alcune parole ricorrenti, come: questa vita, santo vangelo, frati, obbedienza. Nonostante questo, è tuttavia possibile notare una forte differenza nello stile: se il primo capitolo è quasi la porta della Regola, con il secondo si forniscono le condizioni dell’entrata, che appaiono particolarmente severe: “se credono...; se vogliono...; se non hanno mogli o, qualora le abbiano...; se non potranno farlo...”. Questa casistica differenzia notevolmente la prima sezione del capitolo II dall’intero capitolo I e rivela l’intervento di qualche giurista. Pur tuttavia, fatta eccezione per il v. 4, il capitolo II appare abbastanza lineare e consono allo stile semplice del Poverello e dei suoi compagni.

Per quanto riguarda la voce di Francesco, diversamente dal capitolo I, in cui frate Francesco viene nominato due volte, il capitolo II non lo cita affatto; tuttavia, sentiamo la sua voce: “Li ammonisco e li esorto”.

Coloro che chiedevano di essere ricevuti all’obbedienza non mettevano i loro beni in comune ma li distribuivano ai poveri, secondo Mt 19,21. Del modo in cui gli aspiranti alla vita evangelica francescana davano attuazione a questo precetto non doveva interessare né ai ministri né agli altri frati. Questo perché è il Signore che ispira i candidati e, per tale motivo, non sono i frati e, meno ancora, i ministri che debbano interferire in tale ispirazione. Per Francesco, l’arrivo di nuovi candidati non è frutto di una pastorale vocazionale, ma un dono dello Spirito santo. “Il Signore mi dette dei fratelli”, confessa alla fine della sua vita. La sua fede nell’ispirazione divina gli dà anche la libertà di non insistere sul fatto che i novizi vendano i loro beni ai poveri, ma fa dipendere questa scelta da una decisione volontaria e dalla capacità spirituale del candidato.

Condizionato dal contesto del tempo e della realtà climatica umbra è senza dubbio la scelta del vestiario. L’abito in forma di tonaca, più o meno corta, era in uso presso i contadini e anche gli uomini dei ceti superiori. Quello che portavano i frati minori poteva esser utile anche ad altra gente. La differenza non sta quindi negli indumenti in sé, quanto nella loro forma, qualità e apparenza, che dovevano essere più o meno uguali per tutti.

La Regola non dice niente sul contenuto o sui principi della formazione dei novizi, né fa riferimento ad una persona che li diriga. All’inizio possiamo ipotizzare che fosse Francesco stesso il formatore, considerato che era lui che accoglieva i nuovi candidati. L’obiettivo dell’anno della prova fu quello di proporre e spiegare questa vita e Regola non solo in teoria, ma anche in pratica, in modo da fare assimilare ai novizi la vita evangelica. Punti cardini di questa vita sono l’orazione privata e comune, la penitenza, il lavoro e il servizio tra i poveri. Il servizio nei lebbrosari era un impegno sistematico e prolungato di ogni frate minore, prendendo dimora tra i lebbrosi e fungeva sia come criterio di accoglienza sia come iter formativo dei candidati.

Chi ha fatto la professione, è definitivamente entrato nel gruppo dei frati minori; egli ha promesso di osservare per tutta la vita la Regola di quest’Ordine, ma anche questo si è obbligato da parte sua a provvedere per tutto il necessario, oltre a sostegno, sicurezza e calore umano.

Quanto più cresce il numero di aderenti e aumenta la stima e l’influsso dell’Ordine, tanto più ci si sente sicuri a farne parte. Era questo il caso dell’Ordine minoritico, cresciuto da una fraternità di dodici compagni nel 1209 ad un Ordine di tre-cinquemila frati nel 1223, anno della redazione della Rb. All’inizio avevano bisogno di essere incoraggiati a continuare il loro audace stile di vita malgrado il dispetto degli altri, ma nel 1223 dovevano essere messi in guardia di non gloriarsi del loro successo e di non disprezzare quanto vivevano diversamente. Se all’inizio furono disprezzati, ora erano loro a subire la tentazione di disprezzare gli altri.

Tratto da: FRATI MINORI di Canepanova – Pavia ● Centenari francescani: la Regola bollata


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REGOLA BOLLATA approvata da Papa Onorio III il 29 novembre 1223 Onorio, vescovo, servo dei servi di Dio, ai diletti figli, frate Francesco e agli altri frati dell’Ordine dei frati minori, salute e apostolica benedizione. La Sede Apostolica suole accondiscendere ai pii voti e accordare benevolo favore agli onesti desideri dei richiedenti. Pertanto, diletti figli nel Signore, noi, accogliendo le vostre pie suppliche, vi confermiamo con l’autorità apostolica, la Regola del vostro Ordine, approvata dal nostro predecessore papa Innocenzo, di buona memoria e qui trascritta, e l’avvaloriamo con il patrocinio del presente scritto. La Regola è questa:

CAPITOLO I Nel nome del Signore! Incomincia la vita dei frati minori. 1 La Regola e vita dei frati minori è questa, cioè osservare il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo, vivendo in obbedienza, senza nulla di proprio e in castità. 2 Frate Francesco promette obbedienza e reverenza al signor papa Onorio e ai suoi successori canonicamente eletti e alla Chiesa romana. 3 E gli altri frati siano tenuti a obbedire a frate Francesco e ai suoi successori.

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Approfondimenti

La Regola bollata, testo fondativo dei frati minori, è inclusa nella lettera Solet annuere, con la quale papa Onorio III la approvava definitivamente il 29 novembre 1223. La Regola bollata resta racchiusa tra le due parti della bolla e non esiste se non in quanto testo inserito nella lettera pontificia, dove Onorio III precisava con parole ponderatissime che non si trattava di una “approvazione”, ma della “conferma” di una Regola già “approvata” dal predecessore Innocenzo III, come d’altronde lasciava intendere il prologo della Regola non bollata del 1221. La bolla Solet annuere segnò l’ingresso della Regola francescana nel numero delle grandi Regole religiose, quali quelle di san Basilio, sant’Agostino e san Benedetto. Il testo della Regola si apre e si chiude con l’ardua affermazione che i frati sono tenuti ad osservare il vangelo. Tutto il dettato sembra dunque una grande inclusione, che trova in quest’impegno la chiave ermeneutica per comprenderne il senso autentico. La dichiarazione esplicita di obbedienza alla Chiesa romana (assente nel Prologo della Regola non bollata) è il primo indizio di una crescente preoccupazione di cattolicità, che viene ribadita nella conclusione e riaffiorerà con forza nei due Testamenti di S. Francesco. La vita della fraternità si concretizza dunque nel programma di osservare la povertà e l’umiltà e il vangelo di Gesù Cristo, in comunione con la Chiesa e nell’obbedienza ad essa. “La Regola e vita” che il Santo propone ai suoi frati è un modo di vivere ispirato al vangelo, una vita secondo il vangelo di Gesù Cristo. Per Francesco, il vangelo è l’unico e assoluto punto di riferimento. È il vangelo di Gesù Cristo: è lui che parla oggi attraverso di esso. La vita dei frati dovrà conformarsi fedelmente alla vita del Signore e nella misura in cui la vita dei frati è conforme al vangelo di Gesù Cristo, essa è anche il luogo in cui esso vive. Il Vangelo è uno scritto che indica la via per la vita eterna: conoscerlo e studiarlo deve servire a viverlo, altrimenti non serve a nulla, anzi è dannoso. Per Francesco, il Vangelo non è un testo letterario, ma qualcosa di vivente: le parole evangeliche sono espressione viva di Gesù Cristo, che è presente e vive nel vangelo. La vita dei frati è vita secondo il vangelo e vita del vangelo: dunque in essa vive Gesù Cristo. Seguire il vangelo è seguire Gesù Cristo, custodire il vangelo è rimanere in Cristo; il vangelo è Gesù Cristo che parla a noi oggi. Quella dei frati è una vita secondo il vangelo di Gesù Cristo: i frati debbono vivere il vangelo di Gesù Cristo. La vita evangelica dei frati è vita del vangelo di Gesù Cristo: il vangelo di Gesù Cristo vive nella vita dei frati. È in essa, infatti, che il vangelo passa alla vita esperienziale: la via diventa percorsa e visibile, la verità è accolta e continua a rivelare, la vita diventa esperienza incontrabile. Il vangelo per il Santo non costituiva una dottrina, ma era la testimonianza della vita di Cristo, che per gli uomini è Via, Verità e Vita. È proprio perché il vangelo è voce sempre viva della persona di Cristo, Francesco arriva ad una conclusione paradossale: l’unica interpretazione autentica del vangelo è la vita vissuta.

È interessante notare come sembra esserci una sostanziale convertibilità tra vita del vangelo e la professione dei tre voti religiosi, infatti nel cap I della Regola bollata e della Regola non bollata viene detto che la Regola consiste nell’osservare il vangelo vivendo in obbedienza, in castità e senza nulla di proprio. Il riferimento ai tre consigli evangelici per indicare tecnicamente la vita religiosa pare nasca proprio nel periodo che va dall’XI al XIII secolo. Francesco accoglie questa formulazione ecclesiastica e la mette accanto a quella che lui predilige “osservare il santo vangelo del Signore nostro Gesù Cristo”. La vera obbedienza va sempre a Dio, e richiede innanzitutto di perseverare nei comandamenti del Signore e nella forma di vita promessa, attuando all’interno della fraternità quella santa obbedienza del Signore nostro Gesù Cristo che consiste nell’amore, nel servizio e nell’obbedienza vicendevole, pronti nel mondo ad essere minori e sottomessi a tutti e nella Chiesa ad obbedire al signor papa e ai chierici, costituiti signori e amministratori in quelle cose che riguardano la salvezza dell’anima. Parallelamente, vivere in castità per i frati non significa solo evitare la malizia dell’occhio e del cuore e il comportamento peccaminoso, ma mostrarsi con le opere l’amore che hanno fra di loro, mantenendo sempre la mente e il cuore rivolti al Signore Iddio. Quanto al vivere senza nulla di proprio, esso implica l’abbandono dei propri beni, il rifiuto delle proprietà e del denaro per vivere di lavoro e di elemosina, l’impegno a seguire l’umiltà e la povertà del Signore nostro Gesù Cristo e della beata Vergine e dei discepoli, coronando il tutto con la restituzione al Signore di ogni bene personale e spirituale e di tutto il corpo, tutta l’anima e tutta la vita.

Fin dall’inizio, la Regola di Francesco viene presentata come una vita grata e gioiosa per la bella notizia di vivere una vita evangelica ricalcando le orme del Signore nostro Gesù Cristo. Nel testo del Santo emerge una consapevolezza molto forte che la Regola non sostituisce il vangelo, ma è come una lente per meglio leggerlo e soprattutto per meglio osservarlo o anche, come egli diceva, è “midollo del Vangelo”.

Tratto da: FRATI MINORI di Canepanova – Pavia ● Centenari francescani: la Regola bollata


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Capitolo LXXII – Il buon zelo dei monaci

1 Come c’è un cattivo zelo, pieno di amarezza, che separa da Dio e porta all’inferno, 2 così ce n’è uno buono, che allontana dal peccato e conduce a Dio e alla vita eterna. 3 Ed è proprio in quest’ultimo che i monaci devono esercitarsi con la più ardente carità 4 e cioè: si prevengano l’un l’altro nel rendersi onore; 5 sopportino con grandissima pazienza le rispettive miserie fisiche e morali; 6 gareggino nell’obbedirsi scambievolmente; 7 nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma piuttosto ciò che giudica utile per gli altri; 8 si portino a vicenda un amore fraterno e scevro da ogni egoismo; 9 temano filialmente Dio; 10 amino il loro abate con sincera e umile carità; 11 non antepongano assolutamente nulla a Cristo, 12 che ci conduca tutti insieme alla vita eterna.

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Approfondimenti

Il TESTAMENTO SPIRITUALE di S.Benedetto Con ragione il c. 72 è stato considerato sempre come una delle pagine più preziose della Regola. È certamente il capitolo più soave del codice monastico, sintesi del suo contenuto, compendio della perfezione monastica. Chiudendo la Regola il S. Patriarca non sa meglio sintetizzare il suo insegnamento se non nella parola con cui Gesù compendia e corona la sua dottrina: la CARITÀ.

RB 72 è stato chiamato il “testamento spirituale” di S. Benedetto. Si presenta in effetti con le caratteristiche di un capitolo conclusivo: esortazione, sentenze spirituali, frase finale in forma di augurio e di preghiera; veramente appare chiaro che ci troviamo di fronte alle “ultime parole” ultima verba del Santo Padre. D'altronde è abbastanza evidente che il c. 73 era stato composto prima e si trovava subito dopo il c. 66, e fu posto dopo il c. 72 nella redazione definitiva della Regola, a guisa di epilogo, quale è in realtà.

Quindi le ultime frasi che uscirono dalla penna di SB possiamo ritenerle queste sullo “zelo buono”. È stato scritto: “La cosa più importante di questo capitolo è il fatto di offrire la prospettiva in cui si deve leggere la Regola. Appare come SB, dopo essere vissuto per lungo tempo con i suoi monaci in una vita di preghiera e di osservanze monastiche, sia giunto a questa convinzione: la dimensione della carità, lo zelo buono; che ne è il segno e il risultato, è la cosa più importante per il monaco” (J. E. Bamberger).

Il testamento spirituale di SB costituisce la canonizzazione – per così dire – delle relazioni interpersonali: i fratelli che vivono in uno stesso monastero e formano una sola famiglia spirituale, debbono stimare sopra ogni altra cosa e coltivare con zelo queste relazioni interpersonali. Questa pagina così densa e soave, non può essere frutto solo di teoria, di letture, di fonti che possono avere influito; si tratta soprattutto dell'esperienza personale di SB, uomo di Dio e padre spirituale: veramente egli parla “ex abundantia cordis” (dalla sovrabbondanza del cuore). Tuttavia possiamo notare in generale l'influsso di Agostino e reminiscenze soprattutto di S. Paolo, nonché della meravigliosa Collazione 16 di Cassiano sulla “amicizia spirituale”.

Schema del capitolo Come altri legislatori, SB stende il suo testamento spirituale in forma concisa, con massime brevi e precise. Definisce prima lo “zelo buono” (vv. 1-2); esorta ad esercitarlo (v. 3); enumera otto massime in cui esso deve manifestarsi (vv. 4-11); conclude con un augurio e una preghiera (v. 12).

1-2: Lo zelo buono La parola “ZELO” viene dal greco, da una radice che significa “essere caldo”, in ebollizione; quindi si tratta di una “passione”, e comprende ira, invidia, gelosia, ecc. In latino “zelum” significa gelosia, sentimenti di rivalità, che opera da agente disgregatore della comunità, S. Paolo lo include tra le opere delle tenebre (Gal 5,20-21; cf Gc 3,14 “zelum amarum”). Anche SB usa il termine nel senso di invidia, gelosia: RB 4,66; 65,22. Tutto questo è uno zelo cattivo, amaro (v. 1). Ma la Scrittura conosce un altro genere di gelosia, quella che si applica a Dio, quando dice che “JHWH si chiama Geloso; egli è un Dio Geloso” (Es 34,14), che non tollera rivali nell'onore e nell'amore a Lui dovuti. Da questa gelosia divina deriva lo zelo che animava gli uomini di Dio; “lo zelo della tua casa mi divora” (Sal 68,10) venne in mente agli apostoli quando videro Gesù scacciare i venditori dal tempio (Gv 2,17); nello stesso senso S. Paolo scriveva ai Corinzi: “Io sono geloso di voi, della gelosia di Dio, avendovi promesso a un unico sposo per presentarvi quale vergine casta a Cristo” (2Cor 11,2). È questo lo “zelo buono che allontana dai vizi e conduce a Dio e alla vita eterna” (v. 2).

In questo senso la parola ha il significato di ardore, fervore, come in RB 64,6; anche a proposito del portinaio si parla di fervor caritatis (fervore di carità, RB 66,4). Il doppio zelo richiama la dottrina delle due vie, come spesso nell'AT e nel discorso della montagna, Mt 7,13-14. È interessante notare che questo zelo buono che conduce a Dio e alla vita eterna si esplicita, come vedremo subito, nelle manifestazioni della carità fraterna; cioè: quella purificazione dei vizi e raggiungimento della vita eterna che SB aveva prima attribuito a tutto il cammino dell'umiltà (RB 7,67-70), qui è attribuito all'amore fraterno, quindi l'unione dell'amore di Dio e dell'amore del prossimo.

Ha scritto DeVogué: “(...) l'ascetismo monastico (...) si arricchisce qui di una nuova dimensione. L'itinerario del monaco, dal timor di Dio fino alla carità perfetta, attraverso l'obbedienza, la pazienza, l'apertura della propria coscienza, l'umiltà, il silenzio, la compunzione – per non citare che le prime tappe –, nelle quali il discepolo camminava sempre solo dietro le orme del suo maestro, si allarga e completa con un nuovo tracciato, finora poco indicato. All'ascetismo individuale praticato sotto la direzione di un superiore, si aggiunge un elemento nuovo: le relazioni fraterne”.

3-11: Le massime dello zelo buono SB raccomanda dunque che “a questo zelo buono debbono darsi i monaci”, cioé agire ferventissimo amore (con ardore di carità, con intenso amore, v. 3). E passa ad enunciare alcune manifestazioni. Le otto massime, concise, sono enunziate quasi tutte col medesimo schema: all'inizio il termine principale, alla fine il verbo in forma esortativa. Le prime cinque massime si riferiscono all'amore fraterno, con varie modalità; le ultime tre all'amore a Dio, all'abate, a Cristo. Sono una specie di apoftegmi meravigliosamente espressivi.

1. (v.4) È il testo di S. Paolo (Rm 12,10) già citato in RB 63,17; però qui non si allude affatto all'ordine di precedenza, si onora il fratello senza guardare se è superiore o un inferiore: il fervore di carità non fa caso a queste distinzioni. 2. (v.5) Norma quanto mai necessaria per una vera convivenza nella carità. Chi è così perfetto da non avere qualcosa da far sopportare al vicino? In ogni comunità la massima è di costante applicazione. (L'espressione ricorda Cassiano, Coll. 19,9). 3 (v.6) Su questo tema dell'obbedienza reciproca SB ha parlato nel c. 71. Ma qui non si allude all'ordine di precedenza; e c'è anche l'avverbio “certatim” (a gara), cioé si deve proprio sentire il gusto, il compiacimento di obbedirsi a vicenda. 4. È di chiaro sapore paolino: cf 1Cor 10,24.33; 13,5; Fil 2,4. Si tratta della sollecitudine dettata dalla vera carità, e nel monastero ci sono tante occasioni di sacrificare i propri interessi, riposo, piccole comodità, ritagli di tempo, ecc. Tale pratica costante richiede una continua abnegazione e può significare spesso un vero eroismo, nascosto, ma genuino. 5. (v.8) Anche questa è ispirata a S. Paolo: cf Rm 12,10; 1Tess 4,9; cf. anche Eb 13,1 e 1Pt 1,22. L'avverbio “caste” (con amore puro, castamente), significa l'amore soprannaturale, gratuito, disinteressato, non cioé l'affetto sensibile e naturale. I monaci devono sapersi voler bene di quell'amore che scaturisce dall'amore di Cristo. Come commento ai vv. 7-8, si legga tutto il brano di S. Paolo ai Filippesi 2,1-5 (prima dell'inno cristologico sulla “kenosis” di Gesù). 6. (v.9) Da questo versetto di lascia un po' la dimensione orizzontale per elevarsi, da questa piattaforma dell'amore fraterno, verso l'alto, all'amore di Dio, dell'abate, di Cristo. “Temeranno Dio con amore”: comunemente amore e timore si interpretano come due termini antitetici. Gli antichi la pensavano diversamente (nella Scrittura il “timore di Dio” è una realtà molto complessa che significa tutto il fenomeno religioso, tutta l'esperienza di Dio, fino all'amore). S. Cipriano ha “amore e timore” nella stessa frase (preghiera del Signore, 15); nel Sacramentario Leoniano (XXX,1104) abbiamo la medesima espressione di SB: amore te timeant (ti temano con amore); secondo Cassiano, il timore amoroso di Dio, “timore di amore”, è il grado più alto e sublime a cui possono arrivare i perfetti (Coll. 11,15). 7. (v.10) È un precetto formale, anche se non del tutto nuovo; SB ha parlato dell'amore per l'abate per amore di Cristo (RB 63,13); all'abate raccomanda di farsi più amare che temere (RB 64,15); l'abate deve amare tutti i fratelli (RB 2,17). Ora chiaramente si dice che i fratelli devono amare l'abate con sincerità. Nella RM questa idea manca del tutto, lo schema è molto più verticale: per il loro maestro i discepoli non possono nutrire se non fede e obbedienza. La RB pone l'amore reciproco tra monaci e abate, nella stessa corrente di carità verso Dio: “misura del cenobitismo à la relazione mutua che unisce i fratelli all'abate in Cristo” (DeVogué). 8. (v.11) Il nome di Cristo non era ancora apparso nel testamento spirituale di SB; è stato lasciato alla fine come coronamento. L'espressione è presa da S. Cipriano: “Non antepongano assolutamente nulla a Cristo, perché Egli non antepose nulla a noi” (La Preghiera del Signore, 15); anche S. Agostino ha: “Nihil praeponant Christo” (Espos. sul Salmo 29,9). SB ha già posto una simile massima tra gli strumenti delle buone opere: “Niente anteporre all'amore di Cristo” (RB 4,91). Qui la rafforza con un energico “omnino” . Il monaco ha posto l'amore di Cristo al di sopra di ogni altro amore; “Christo omnino nihil praeponant” è l'anima e l'anelito di tutta la Regola come di tutta la vita di S. Benedetto.

12: Orazione conclusiva La frase che esprime un desiderio, un augurio, un voto, una speranza, non solo chiude il capitolo, ma, nella mente del legislatore, tutta l'appendice (cc. 67-72) e quindi tutta la Regola. SB ha parlato di tante cose, ha dato tante disposizioni, consigli, esortazioni: certo, tutto si deve cercare di fare, e il monaco può attraversare tanti momenti di scoraggiamento, può sperimentare la difficoltà del cammino. E allora il S. Padre termina con una orazione breve, intensa, significativa, in prospettiva escatologica. Si tratta di arrivare alla “vita eterna”, alla patria celeste tante volte intravista e sospirata nel corso della Regola (cf Prol. 17,41; RB 4,46; 5,3.10; 7,11; 72,2): a Cristo e solo a Cristo il monaco affida la capacità di poter trionfare definitivamente nella sua “ricerca di Dio” (RB 58,7); ed Egli solo ci potrà condurre alla vita eterna, “pariter” (tutti insieme). E notiamo questo “tutti insieme”: non si tratta di un'impresa solitaria, di un cammino desertico, ma insieme: i cenobiti camminano alla pari, formando una carovana con Cristo in testa che guida e ci conduce alla vita eterna.

Conclusione Tale è il testamento spirituale di SB; un capitolo in cui scompaiono – diciamo così – le precedenze, la disciplina regolare, le difficoltà del cammino ascetico; un capitolo ridondante tutto di amore, amore a Dio, a Cristo, all'abate, in particolare dell'amore reciproco tra i fratelli: una nuova dimensione che completa, arricchisce, e in un certo senso modifica l'ascetismo monastico descritto nei primi capitoli della Regola. SB ha scoperto (nella linea di Agostino) tutto il valore umano e cristiano della comunità; è giunto alla ferma convinzione che i monaci cenobiti non vivono insieme in monastero solo per essere discepoli di uno stesso maestro, l'abate, ma che la stessa vita di comunità, la comunione di spirito costituisce un fine in sé, nello stesso tempo che è il mezzo proprio di questo genere di monaci, per correre verso la vita eterna. Perciò al termine della Regola SB dà tanta importanza alle relazioni interpersonali, alla comunione dei fratelli tra loro, con l'abate e con Cristo in Dio. Ecco allora lo zelo buono, la “gelosia” buona: “una emulazione per amore nelle diverse manifestazioni dell'amore” (DeVogué).

Concludiamo con una citazione del grande maestro della vita comune, il “Dottore della carità”, S. Agostino. Parlando delle comunità di Roma e di Milano, egli scrive: “Vi si osserva principalmente la carità. Alla carità si ispira e si adatta il loro cibo, la loro conversazione, il loro vestito, il loro ambiente. Tutto è indirizzato e coordinato verso la carità. Sanno che Cristo e gli Apostoli la raccomandarono tanto che, se essa manca, nulla conta, e, se essa è presente, tutto acquista la sua pienezza”. (De Moribus Ecclesiae Catholicae 33,73). Non ci sono parole più belle per esprimere l'ideale comunitario di S. Benedetto.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LXXI – L’obbedienza fraterna

1 La virtù dell’obbedienza non dev’essere solo esercitata da tutti nei confronti dell’abate, ma bisogna anche che i fratelli si obbediscano tra loro, 2 nella piena consapevolezza che è proprio per questa via dell’obbedienza che andranno a Dio. 3 Dunque, dopo aver dato l’assoluta precedenza al comando dell’abate o dei superiori da lui designati, a cui non permettiamo che si preferiscano ordini privati, 4 per il resto i più giovani obbediscano ai confratelli più anziani con la massima carità e premura. 5 Se qualcuno dà prova di un carattere litigioso sia debitamente corretto. 6 Se poi un monaco viene comunque rimproverato dall’abate o da qualsiasi anziano per un qualunque motivo 7 o si accorge semplicemente che un anziano è sdegnato o anche leggermente alterato nei suoi riguardi, 8 si inginocchi subito dinanzi a lui, senza la minima esitazione, e rimanga così per riparare, finché la benedizione dell’altro non sani quel lieve dissenso. 9 Se qualcuno si rifiutasse altezzosamente di farlo, sia sottoposto a un castigo corporale e, se si ostina in questo atteggiamento di ribellione, sia scacciato dal monastero.

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Approfondimenti

1-5: Obbedienza reciproca tra i fratelli Quante volte e in quanti modi SB ha parlato già dell'obbedienza! Soprattutto nel Prologo, nei cc. 5, 7 e 68 ne ha trattato e vi ha insistito in mille maniere: veramente in essa egli assomma praticamente tutta l'ascesi monastica. Sembrerebbe che non ci sia nulla da aggiungere. Ed invece ecco qui un altro capitolo, con un taglio in parte diverso. È stato notato che i monaci lungo la Regola appaiono come semplici discepoli sotto la direzione e il magistero dell'abate e dei suoi collaboratori. Dal c. 63 in poi possiamo notare un'atmosfera diversa: tutti sono responsabili dell'educazione dei fanciulli oblati (RB 63,9; 70,4); nel c. 71 si parla poi di obbedienza reciproca. Praticamente si nota un'evoluzione della figura del monaco nella mente di SB: i monaci non sono semplici scolari, ma persone adulte, mature e che debbono essere considerate come tali.

Ancora un'altra osservazione: si apre un altro aspetto dell'obbedienza. All'abate, vicario di Cristo, si obbedisce perché manifesta la volontà di Dio, quindi il monaco è sicuro così di realizzare ciò che Dio gli chiede; nel c. 71 l'obbedienza reciproca che si inculca prescinde dal contenuto oggettivo: è un bene comune, il cammino per andare a Dio. La frase è diventata una delle sentenze più sintetiche e luminose della Regola: scientes per hanc oboedientiae viam se ituros ad Deum (persuasi che per questa via dell'obbedienza andranno a Dio, v.2). Anche S. Basilio (Reg. 13; 64) e Cassiano parlano di obbedienza reciproca. Anzi Cassiano dedica la Coll. 16 all'obbedienza reciproca senza distinzione di gradi.

Questa obbedienza ha pertanto un valore in se stessa, in quanto implica l'imitazione di Cristo (cf. tutta la dottrine sull'obbedienza nella RB, soprattutto nel c. 7 sull'umiltà); ma al tempo stesso è una manifestazione di carità, di amore fraterno, un vincolo nuovo tra i monaci, i quali debbono obbedirsi con ogni carità e sollecitudine (v. 4), cercare non quello che è il proprio tornaconto, ma quello degli altri. Tale genere di obbedienza potrebbe causare confusione nella comunità e SB, sempre preoccupato della pace e dell'ordine del cenobio stabilisce una certa gerarchia in questa obbedienza reciproca (vv. 3-5): obbedienza ai comandi dell'abate e dei suoi collaboratori, quindi obbedienza dei fratelli l'un l'altro, tenendo conto dell'ingresso in monastero (questo è il senso di “anziano”; vedremo poi che nel capitolo seguente si pralerà di gara nell'obbedirsi a vicenda, senza più distinzione tra anziani e giovani (cf RB 72,6).

In senso generale, come riflessione per noi oggi su questo capitolo della Regola, sarà bene richiamarci tutti a ciò che si direbbe oggi rispetto reciproco della personalità di ciascuno, aiuto vicendevole, disponibilità l'uno verso l'altro: è una legge ineludibile del cenobitismo benedettino, un modo di vivere sempre e comunque l'oboedientae bonum (il bene dell'obbedienza)!

6-9: Contegno dinanzi alle riprensioni SB passa a parlare dell'atteggiamento di fronte alla riprensione. Per conservare la pace e l'armonia nella comunità, il S. Patriarca dà ai più anziani il “diritto-dovere” di correggere gli altri fratelli verbalmente (la scomunica e le altre pene sono riservate all'abate, cf RB 70,2) e vuole nei monaci tanta umiltà e docilità che sappiano accettare e chiedere scusa (vv. 6-8); anzi appare fin troppo severo per chi fosse così pieno di orgoglio da rifiutare un atto di sottomissione e di umiltà (v. 9). È senza dubbio un rimedio drastico per mantenere la pace e l'armonia in comunità di uomini rudi e violenti, quali erano gli immediati destinatari della Regola.

Ciò che deve essere valido per noi oggi è questo senso dell'importanza della comunione fraterna che appare in SB: malintesi, rivalità, dispute, certe “guerre fredde”, quel vivere quasi da estranei in comunità..., sono cose che possono succedere nei monasteri: chiarirsi l'un l'atro i motivi di certe tensioni, chiedersi scusa per ristabilire la serenità, sono valori perenni che vanno conservati a costo di qualunque sacrificio.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LXX – Divieto di arrogarsi la riprensione dei confratelli

1 Nel monastero si deve sopprimere decisamente ogni occasione di arbitri e di soprusi; 2 perciò dichiariamo che non è permesso ad alcuno di infliggere la scomunica o un castigo corporale a un confratello, senza l’autorizzazione dell’abate. 3 I colpevoli di tale trasgressione siano rimproverati alla presenza dell’intera comunità, affinché anche gli altri ne abbiano timore. 4 I ragazzi, però, rimangano fino a quindici anni sotto la disciplina e l’oculata vigilanza di tutti, 5 ma sempre con grande moderazione e buon senso. 6 Chi poi si arrogasse una qualsiasi autorità sugli adulti, senza il comando dell’abate, o si inquietasse irragionevolmente con i ragazzi, sia sottoposto alla punizione prevista dalla Regola, 7 perché sta scritto: «Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te».

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Approfondimenti

1-3: Non punire arbitrariamente i fratelli Il capitolo comincia col ribadire l'assoluta inammissibilità di un potere indebito, di atti arbitrari, di arroganza (c'è nel testo la famosa parola praesumptio). SB, in RB 23,4-5, ha parlato espressamente delle due pene: scomunica e battiture; qui ribadisce che può infliggerle solo che ne ha l'autorità. Certo, a noi appare un po' strano che un semplice monaco potesse così semplicemente scomunicare un altro!

4-5: Disciplina dei fanciulli SB torna ad occuparsi dei fanciulli. Nel monastero c'era una perfetta comunione di vita tra vecchi, adulti, adolescenti e fanciulli, i quali pregavano, mangiavano lavoravano, dormivano tutti insieme. Certamente la natura stessa porta a delle differenze di cui si tiene conto, com'è logico; anche la Regola fa oggetto di particolare attenzione vecchi e fanciulli (RB 37; cf. anche 22,7; 30; 45,3) e ha ordinato che i fanciulli siano sotto la vigilanza e la disciplina (RB 63,18-19) e che questa sia un'incombenza di tutti i monaci adulti (RB 63,9). In questo capitolo SB specifica ancora questa disposizione (vv. 4-5): per i fanciulli fino ai 15 anni, tutti i monaci si devono sentire educatori; si stabilisce così un'altra dimensione nelle relazioni fraterne: i monaci adulti siano educatori dei loro fratelli più piccoli. E si noti che SB raccomanda in ciò “mensura et ratio” (equilibrio e moderazione), qualità raccomandate all'abate nel suo esercizio di correzione (cf RB 64).

6-7: Pene per i trasgressori Chi usa senza discrezione, senza misura, la correzione nei confronti dei fanciulli, o chi si arroga il diritto nei confronti di altri monaci adulti, sia punito; e la motivazione SB la prende dall'assioma chiamato la “regola d'oro”, che in Mt 7,12 e in Lc 6,31 è in forma positiva (come in Tobia 4,15): “Non fare agli altri...”; la troviamo per la terza volta nella RB (qui, 4,9 e 16,4): cioè castigare i fratelli senza autorizzazione e i fanciulli senza discrezione sono mancanze contro la carità fraterna.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LXIX – Divieto di arrogarsi le difese dei confratelli

1 Bisogna evitare in tutti i modi che per qualsiasi motivo un monaco si provi a difendere un altro o ad assumerne in certo modo la protezione, 2 anche se ci fosse tra loro un qualsiasi vincolo di parentela. 3 I monaci si guardino assolutamente da un simile abuso, che può costituire una pericolosissima occasione di disordini o di scandali. 4 Se qualcuno trasgredisse queste norme, sia punito con la massima severità.

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Approfondimenti

Questo e il capitolo seguente sono un tutt'uno: parlano di due atteggiamenti opposti che possono gravemente disturbare le relazioni fraterne ed offendere la carità. Ci sono infatti nei monasteri dei temperamenti istintivi portati per natura ad assumersi il ruolo di “avvocato difensore” e di giustiziere; seguendo la propria indole, costoro si arrogano delle funzioni che non sono di loro competenza e possono turbare l'armonia della comunità con interventi senza discrezione. Il c. 69 condanna perciò con fermezza qualsiasi intervento di un monaco in difesa di un altro; il c. 70 stabilisce in modo deciso che la riprensione (grave e pubblica) e il castigo compete solo all'abate e a pochi altri autorizzati da lui. Dal punto di vista delle relazioni fraterne, potremmo dire che il c. 69 mette in guardia i monaci da comportamenti fuori luogo dettati da simpatia, il c. 70 da eccessi a cui può condurre l'antipatia e anche lo zelo immoderato. Su SB ci saranno stati, sì, degli influssi letterari della tradizione pacomiana, ma è stato detto – giustamente – che sono dettati soprattutto dall'esperienza. Il tono di particolare severità, l'asprezza delle espressioni, il citare il caso particolare della consanguineità in RB 69,2, fanno capire che SB ha in mente fatti concreti che gli erano capitati e che lo spinsero ad aggiungere questi due capitoli. Solo poche parole di commento.

1-4: Non difendere un altro Notiamo tre volte (titolo, v. 1, v. 3) il verbo praesumere (ardire, osare) che c'è spesso nella Regola per indicare l'usurpazione di un potere altrui (in questo caso il compito dei superiori). Il v. 3: “Possono nascere gravissime occasioni di scandali”. Notiamo la gravità delle parole “gravissime” e “scandali”. Dall'appoggio di un “avvocato” fuori posto, il monaco si sente incoraggiato a respingere un'obbedienza, a resistere contro l'abate e altri confratelli, ed ecco simpatie, antipatie, pettegolezzi, gelosie, discordie... Il v. 4: “Sia punito molto severamente”. Anche S. Pacomio in questi casi prescrive una riprensione severissima (Reg. 176) e S. Basilio è molto rigido, perché il fratello difeso indebitamente si confermava nella colpa.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LVIII – Le obbedienze impossibili

1 Anche se a un monaco viene imposta un’obbedienza molto gravosa, o addirittura impossibile a eseguirsi, il comando del superiore dev’essere accolto da lui con assoluta sottomissione e soprannaturale obbedienza. 2 Ma se proprio si accorgesse che si tratta di un carico, il cui peso è decisamente superiore alle sue forze, esponga al superiore i motivi della sua impossibilità con molta calma e senso di opportunità, 3 senza assumere un atteggiamento arrogante, riluttante o contestatore. 4 Se poi, dopo questa schietta e umile dichiarazione, l’abate restasse fermo nella sua convinzione, insistendo nel comando, il monaco sia pur certo che per lui è bene così 5 e obbedisca per amore di Dio, confidando nel Suo aiuto.

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Approfondimenti

Questo capitolo, uno dei più belli di tutta la Regola, fa parte della serie degli ultimi capitoli (67-73) propri di SB, i quali – secondo Delatte – possono considerarsi il testamento spirituale del santo Patriarca e sono interamente immersi nella luce di Dio e impregnati della sua dolcezza; e – secondo De Vogué, di altra generazione e di altra scuola – il capitolo 68 uno dei passi più caratteristici e più preziosi della RB; dopo tanti commenti conviene fermarsi ad ammirare la sua dottrina tanto ferma e insieme tanto armoniosa, tanto soprannaturale e insieme tanto umana. SB torna ad occuparsi dell'obbedienza sino alla fine della sua Regola. Non si tratta di una ritrattazione o rettifica di certe cose, come potrebbe dirsi in qualche modo del capitolo 64 rispetto al capitolo 2 per quanto riguarda l'abate; si tratta invece di una appendice, di una precisazione molto interessante.

Diversità dal capitolo 5 Ci troviamo di fronte a una caso estremo di obbedienza: come deve reagire in situazioni difficilissime il monaco desideroso di obbedire? A risolvere la questione ci si presenta un autore con un linguaggio e una mentalità certamente diversi dal capitolo 5; o non è la stessa persona o è talmente maturata in età, esperienza, saggezza da non sembrare la stessa. Si può dire, giustamente, che nel capitolo 5 l'obbedienza è messa a fuoco dal punto di vista dell'abate, mentre nel capitolo 68 dal punto di vista del discepolo. Tuttavia ciò non è sufficiente ad eliminare la distanza tra i due capitoli: nel primo una dottrina austera, esigente, teorica; nel secondo un insegnamento altrettanto soprannaturale e in fondo anche più esigente, però nello stesso tempo pieno di umanità, di comprensione, di finezza psicologica. È veramente una perla tra le più fini della RB, un capitolo meraviglioso non solo sotto l'aspetto dottrinale, ma anche letterario.

Fonti Non si trovano paralleli del capitolo 68 in quanto tale; niente del sapere e della mentalità del capitolo nella RM secondo la quale l'obiezione del fratello ad accettare ed eseguire immediatamente un ordine, merita subito la scomunica e la pena (RM 57,14-16). Si possono tuttavia considerare i seguenti testi: la Regola di S. Basilio 69; Pseudo-Basilio: Ammonizione al figlio spirituale 6; S. Cesario di Arles: Discorso 233,7; e sopratutto Cassiano: Istituzioni 4,10. Quest'ultimo, a proposito di monaci obbedienti, aggiunge che essi “non solo ricevono con fede e devozione comandi umanamente impossibili, ma si sforzano anche di adempierli senza alcuna esitazione del cuore, non misurando l'impossibilità per riverenza e sottomissione al loro seniore”. Probabilmente questo passo, con il richiamo alle cose impossibili, avrà ispirato SB; ma in esso manca completamente il processo psicologico-pedagogico, meravigliosamente descritto nel capitolo 68 della RB.

STRUTTURA di RB 68 Il capitolo non presenta difficoltà d'interpretazione; basta leggerlo e seguirlo parola per parola. È come un piccolo dramma, piccolo per durata ma grande per intensità e profondità, in tre atti:

  1. il monaco riceve un ordine estremamente difficile e lo accetta con perfetta docilità e sottomissione (v.1);
  2. se, soppesato il tutto, vede che sembra superare le sue forze, il monaco è autorizzato a presentare le ragioni della sua impossibilità (vv.2-3);
  3. se il superiore non cambia parere, il monaco sappia che gli conviene obbedire e obbedisca (vv.4-5)

1: Il caso difficile Nonostante la prudenza e la discrezione raccomandata da SB all'abate (specie nel capitolo 64), nonostante la retta intenzione del superiore di dare ordini ragionevoli, può anche avvenire che il comando appaia insopportabile. Gravia aut impossibilia: significa qualcosa di difficile o addirittura di impossibile. Difficile: significa “troppo pesante per le proprie forze”. Impossibile: non nel senso in cui allude Cassiano nel testo citato sopra (Ist. 4,10), cioè di cose che il superiore stesso conosce impossibili e comanda solo per provare il monaco e distruggere ogni attaccamento alla propria volontà, ma nel senso che paiono impossibili a chi li riceve. Si può notare inoltre che spesso una cosa sembra impossibile solo finché non la si fa. SB vuole che all'inizio, anche in casi così ardui per la debolezza umana, si riceva l'ordine con perfetta docilità e sottomissione.

2-3: dialogo filiale con il superiore Il monaco soppesa l'ordine ricevuto e conclude che veramente è superiore alle sue forze. Ed ecco allora il tocco paterno di SB e la larghezza del suo spirito: non si irrigidisce subito sulla esecuzione del comando, ma permette che il monaco suggerat (faccia presente) la sua difficoltà; la voce del monaco può illuminare anche il superiore e indurlo a modificare o a ritirare il comando. Però SB insiste: “con sottomissione e a tempo opportuno” – due qualità positive – “senza arroganza, puntiglio od opposizione – tre note negative –. È l'atteggiamento proprio dell'umiltà; anche il verbo “suggerat” indica il parlare sommesso e umile di chi accenna appena, fa presente con calma.

4-5: Obbedienza eroica per amore Ma anche dopo l'esposizione delle difficoltà, il superiore può avere ancora le sue valide ragioni per persistere nell'ordine dato. È il momento in cui viene messo alla prova tutto il fondo soprannaturale che ispira l'obbedienza, è il momento della fede di Abramo, dell'obbedienza eroica. “Sappia...” Con questo verbo SB introduce un'ammonizione di grave importanza. Ricordi bene il monaco che, nonostante tutto, gli conviene abbracciare la via dell'obbedienza: la mente si ribella, il cuore sanguina, ma Dio può chiedere questa testimonianza d'amore.

Bello il v. 5, anche letterariamente, pare quasi ritmato a tre cadenze: et ex caritateconfidens de adiutorio Deioboediat. “E per amore” – “confidando nell'aiuto di Dio” – “obbedisca”.

  • per amore: l'amore rende possibile e meritorio tutto. SB ha già detto nel capitolo 5 che l'obbedienza è propria di quelli che non hanno nulla più caro di Cristo, e che sono incalzati dall'amore per la vita eterna.
  • confidando nell'aiuto di Dio: allo scoraggiamento viene in soccorso la fiducia che Dio è vicino per sorreggere e aiutare.
  • obbedisca: bellissimo questo “obbedisca”, alla fine: sembra un grido di vittoria.

CONCLUSIONE Senza togliere nulla alla dottrina dell'obbedienza, SB in questo capitolo l'ha umanizzata e posta al livello del cuore del discepolo. Un momento nuovo – il suggerat (faccia presente) – si è introdotto nello schema dell'obbedienza e conferisce a questa un valore più alto, quello dell'atto compiuto in piena luce in cui il superiore e il suddito agiscono ormai ambedue in piena conoscenza di causa. La considerazione della persona del monaco e della impossibilità soggettiva da lui sperimentata approfondisce e arricchisce il tema dell'obbedienza, dà luogo a un approfondimento psicologico, a uno sforzo educativo che prende come punto di partenza la ripugnanza interiore e la trasforma in profitto spirituale per il monaco (De Vogué).

È facile osservare quanto la prospettiva di SB sia conforme agli insegnamenti del Vaticano II. Non si nomina Cristo in tutto il capitolo. Però sappiamo che l'obbedienza perfetta che insegna la RB non vuole essere una prodezza ascetica; tutta la sua forza proviene dall'esempio di Cristo.

H.U. Von Balthasar fa notare la presenza, invisibile ma certa, di Gesù Cristo in questo luogo. «Solo l'esempio di Cristo – ha scritto – giustifica il mirabile capitolo 68 di SB. Dato che il Padre chiese al Figlio cose impossibili – che prendesse su di sé tutto ciò che presso Dio è impossibile, esecrabile, cioè il peccato – il Figlio muore sulla croce. Però prima il Figlio espose al Padre le ragioni della sua impossibilità ad obbedire: “Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice. Però non come voglio io, ma come vuoi tu” (Mt 26,39). Se il monaco, secondo la Regola, presenta al superiore umilmente, senza atteggiamento di contraddizione, i motivi della sua ripugnanza all'ordine ricevuto, non fa altro che seguire l'esempio di Cristo nel Getsemani; e se, nonostante l'abate mantiene il suo ordine, il monaco obbediente seguirà Cristo fino alla croce». (H.U. Von Balthasar)

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LXVII – I monaci mandati in viaggio

1 I monaci, che sono mandati in viaggio, si raccomandino alle preghiere di tutti i confratelli e dell’abate; 2 e nell’orazione conclusiva dell’Ufficio divino si ricordino sempre tutti gli assenti. 3 Quelli, poi, che rientrano, nel giorno stesso del loro ritorno si prostrino in coro al termine di tutte le Ore canoniche, 4 implorando dalla comunità una preghiera per riparare le mancanze eventualmente commesse durante il viaggio, guardando o ascoltando qualcosa di male o perdendosi in chiacchiere. 5 E nessuno si permetta di riferire ad altri quello che ha visto o udito fuori del monastero, perché questo sarebbe veramente rovinoso. 6 Se poi qualcuno si provasse a farlo, sia sottoposto al castigo previsto dalla Regola. 7 Allo stesso modo sia punito chi osasse oltrepassare i confini del monastero o andare in qualunque luogo o fare qualsiasi cosa, sia pur minima, senza il consenso dell’abate.

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Approfondimenti

Norme per i fratelli in viaggio I viaggi senza dubbio sono inevitabili. È curioso notare che proprio immediatamente dopo il c. 66 che insiste rigorosamente nulla necessità di rimanere in monastero, il primo dei capitoli aggiunti (ricordiamo che i cc. 67-73 sono stati aggiunti dopo la prima redazione della Regola che terminava al c. 66) parla dei fratelli mandati in viaggio. Necessità di apostolato, di carità, di interessi del monastero e anche di famiglia possono esigere che i fratelli viaggino. RB. 67 si limitava comunque a far notare i pericoli spirituali a cui può andare incontro il monaco fuori del suo ambiente più naturale, e SB richiama continuamente l'aiuto soprannaturale. I partenti si raccomandano alla preghiera della comunità (v. 1); essi poi durante l'assenza vengono ricordati alla fine dell'ufficio (v. 2: questo si fa ancor oggi con il “Divinum auxilium...); al ritorno chiedono perdono delle eventuali colpe commesse fuori (vv. 3-4). In questo contesto si comprende la prescrizione seguente (vv. 5-6), di non riferire le cose viste o udite fuori ai fratelli rimasti dentro, sempre per evitare il pericolo di far entrare la mentalità del mondo nel monastero. Il v. 7 aggiunge la pena regolare per chi esce dal monastero senza il permesso dell'abate, o per chi compie qualsiasi cosa (l'interpretazione secondo il contesto sembra essere: qualsiasi cosa fuori dal monastero), senza il permesso dell'abate. Il santo Patriarca non perde occasione per riaffermare l'autorità del “padre del monastero”. Tuttavia SB non prescrive niente di straordinario: i Regolamenti di Pacomio hanno disposizioni molto simili. Anche per questo brano va tenuto conto, oggi, della nostra situazione diversa; va interpretato secondo quanto già detto al capitolo precedente.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LXVI – I portinai del monastero

1 Alla porta del monastero sia destinato un monaco anziano e assennato, che sappia ricevere e riportare le commissioni e sia abbastanza maturo da non disperdersi, andando in giro a destra e a sinistra. 2 Questo portinaio deve avere la sua residenza presso la porta, in modo che le persone che arrivano trovino sempre un monaco pronto a rispondere. 3 Quindi, appena qualcuno bussa o un povero chiede la carità, risponda: «Deo gratias!» oppure: «Benedicite!» 4. e con tutta la delicatezza che ispira il timor di Dio venga incontro alle richieste del nuovo arrivato, dimostrando una grande premura e un’ardente carità. 5 Lo stesso portinaio, se ha bisogno di aiuto, sia coadiuvato da un fratello più giovane. 6 Il monastero, poi, dev’essere possibilmente organizzato in modo che al suo interno si trovi tutto l’occorrente, ossia l’acqua, il mulino, l’orto e i vari laboratori, 7 per togliere ai monaci ogni necessità di girellare fuori, il che non giova affatto alle loro anime. 8 Infine vogliamo che questa Regola sia letta spesso in comunità, perché nessuno possa giustificarsi con il pretesto dell’ignoranza.

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Approfondimenti

Il monastero nella primitiva tradizione era considerato come un luogo chiuso, separato dal mondo, costituito – secondo la RM – da “santi”, da “fratelli spirituali” che non si debbono mescolare ai secolari. I fratelli perciò vivevano tutta la loro vita nei “recinti” del monastero, ai margini della vita del mondo. Così per anacoreti e cenobiti, cominciando dai pacomiani. Tuttavia anche per il monastero di RM e di RB, alcune relazioni con l'esterno sono inevitabili: accogliere poveri e pellegrini, quindi l'importanza dell'ufficio del portinaio (RB 66), ricevere tutti gli ospiti (RB 53 e 56), uscire per breve tempo per qualche commissione (RB 51) o anche per viaggi più lunghi (RB 67). Il capitolo sui portinai del monastero ci testimonia – come si è detto – di tutta una mentalità sulla concezione del monastero come unità auto-sufficiente, separato dal mondo, ecc. Difatti non si limita a tracciare le qualità del portiere (vv. 1-5), ma ricorda che il cenobio deve essere organizzato con ogni cosa all'interno (vv. 6-7); una nota finale prescrive la lettura frequente della Regola in comunità (v.8).

1-5: Persone e ufficio del portinaio L'ufficio del portinaio, secondo la Regola, è molto importante e delicato: il portinaio è intermediario tra il monastero e il mondo, è il guardiano della pace dei monaci e, nello stesso tempo, il rappresentante della comunità; il primo contatto della gente col monastero avviene attraverso il portinaio, anzi a volte (almeno nelle brevi visite, non in caso di ospitalità), egli è il solo monaco avvicinato e conosciuto; spesso dal suo modo di rispondere e di trattare dipende l'edificazione degli estranei e il buon nome del monastero. Gli antichi davano grande importanza a tale ufficio e sceglievano per esso i migliori monaci. A Montecassino SB spesso fu trovato a leggere presso la porta (II Dial. 31); e lì pure S .Willebaldo (sec. VIII) fu per parecchi anni portinaio.

La Regola enumera alcune qualità: saggezza, assennatezza, prontezza e sollecitudine nel rispondere “con tutta gentilezza e fervore di carità”. Si parla di “saggio” come per l'abate (RB 27,2; 28,2), per il celleraio (RB 31,1), per il foresterario e in generale per quanti amministrano la “casa di Dio” che è il monastero (RB 53,22). Notiamo che alla fine del v. 1 alcuni codici danno vagari, altri vacari, e il senso sarebbe: “la cui età non gli permetta di rimanere “ozioso” (vacari); oppure: “la cui età matura non gli permetta di andare gironzolando” (vagari).

Nota per l'oggi Oggi molti monasteri per l'ufficio di portinaio viene assunto un laico; però nella riscoperta che oggi si sta facendo del monastero come luogo di accoglienza, non sarebbe male ripensare la cosa e rifare all'ufficio del portinaio quel posto delicato e importante che gli dà la Regola. Così pure sarà bene rieducare tutti alla disponibilità e gentilezza nel rispondere alla porta e al telefono; anche rispondere subito e con delicatezza al telefono può essere oggi un'ottima forma di accoglienza.

6-7: Clausura Già alla fine del c. 4 SB ha ricordato che tutti gli strumenti dell'arte spirituale enumerati vanno usati nell'“officina” che è il recinto del monastero e la stabilità. Perciò ora aggiunge che il cenobio deve essere provvisto di tutto il necessario – enumera difatti alcune cose principali – per ridurre al minimo le uscite, “cosa questa che non giova affatto alle loro anime” (v. 7). (La frase riecheggia alcune espressioni della “Historia Monachorum in Aegypto”). Ricordiamo anche come SB ha parlato male dei monaci girovaghi (RB 1,10-11). Già Antonio il Grande diceva che “un monaco fuori del monastero è come un pesce fuor d'acqua” (Vita, 85; Apoftegmi, Antonio, 10).

Nota per l'oggi Certamente l'evoluzione storica, le circostanze, il ritmo di vita diverso, i segni dei tempi, ecc., inducono a una rilettura di questo brano e a una concezione diversa dei contatti con l'esterno. Oggi non è più possibile, e neanche opportuno, organizzarsi in un sistema economico chiuso e in una vita completamente avulsa dal contesto sociale ed ecclesiale. Però non è fuori di luogo richiamare a noi il principio generale che i monaci devono abitualmente stare in monastero. E questo non come indizio di una mentalità ristretta e meschina (che potrebbe affiorare in noi) che il “mondo” è la sentina di tutti i vizi e il monastero il luogo dei santi, dei puri, cosa che non è nello spirito di SB e della genuina tradizione monastica. Nei Detti dei Padri, spesso si trova il fatto del santo eremita, vissuto per lungo tempo nella solitudine, a cui viene rivelato che in città c'era un semplice e comune artigiano che era più santo di lui; e Gregorio ci presenta SB avere dei rapporti semplici e liberi con le persone di fuori. Si tratta semplicemente di coerenza con il proprio stato di vita: una certa separazione dal mondo può considerarsi come una componente essenziale della professione monastica, ma naturalmente la cosiddetta “fuga-mundi” deve essere rettamente intesa. Per quanto possa sembrare paradossale, questo modo di essere tutto di Dio senza alcun pensiero in cuore al di fuori di quello della sua presenza è il modo più pieno e assoluto di essere tutto dei fratelli. “Monaco è colui che è separato da tutti e unito a tutti”, dice Evagrio. E per irradiare genuinamente Cristo (anche nel lavoro pastorale, per alcuni monasteri) il modo migliore è questa fedeltà a un certo distacco, a una certa separazione, a una vita “più nascosta in Dio”.

8: Prescrizione di leggere la Regola in comunità Questa nota finale prescrive la lettura frequente della Regola in pubblico, anche se non specifica i modi e i tempi. Secondo la RM (RM 24,15), tale lettura si faceva a refettorio durante il pasto. Da questa finale si deduce che qui terminava la prima stesura della RB: difatti RB 66 corrisponde a RM 95, sempre sui portinai, che è l'ultimo capitolo della RM.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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