📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

L’Amore centro delle intenzioni di Dio e della sua azione 8. Se dunque Cristo è venuto soprattutto perché l’uomo sappia quanto è amato da Dio, se questa conoscenza ha lo scopo di suscitare nell’uomo l’amore verso colui che l’ha amato per primo e, per suo ordine e seguendo il suo esempio, verso il prossimo: dal momento che Dio s’è fatto, per amore, prossimo dell’uomo che si era allontanato da lui; se tutto l’antico testamento fu scritto per annunciare la venuta del Signore, e tutto ciò che fu poi scritto e confermato con l’autorità di Dio parla di Gesù, e invita all’amore: è chiaro che non solo tutt’intera la legge e i profeti (la sola Scrittura esistente allora, quando Gesù parlava) sono contenuti in quei due comandamenti dell’amore di Dio e del prossimo, ma anche tutti i libri della Scrittura che in seguito furono scritti e mandati a memoria.

Perciò nell’antico testamento è nascosto il nuovo, e nel nuovo si manifesta l’antico.

Legati ad una visione terrena che non riconosce quella nascosta presenza, sia allora come adesso gli uomini carnali restano sotto la paura del castigo.

Gli uomini spirituali invece, sia quelli che allora erano in atteggiamento di ricerca religiosa, e a cui Dio rivelò i suoi segreti, sia quelli che cercano ora con cuore sincero e umile — perché Dio ai superbi non si rivela — vengono liberati dalla paura per l’amore gratuito di Dio.

E siccome nulla più dell’odio è contrario all’amore e madre dell’odio è la superbia, Cristo Gesù, signore nostro, Dio e uomo, è per noi al tempo stesso segno dell’amore di Dio e modello di umana umiltà: cosicché il nostro orgoglio viene guarito da una proporzionata medicina. Se un uomo superbo è una grande miseria, un Dio umile è una più grande misericordia.

Proponiti dunque questo amore, e orienta lì tutto il discorso; e quanto insegni, insegnalo in modo che chi ascolta creda, e credendo abbia speranza, e sperando ami. __________________________

«DE CATECHIZANDIS RUDIBUS» LETTERA AI CATECHISTI di Sant'Agostino di Ippona con introduzione e note a cura di GIOVANNI GIUSTI Ed. EDB – © 1981 Centro Editoriale Dehoniano Bologna https://www.canoniciregolari-ic.com/s-agostino-catechesi/


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IV – La legge dell’amore

7. Il principale motivo della venuta del Signore è quello di rivelare l’amore di Dio per noi e di inculcarcelo profondamente. Quando noi eravamo ancora nemici, Cristo è morto per noi (Rm 5,6-9). Perciò lo scopo della legge e la sua piena realizzazione è la carità (1Tm 1,5; Rm 13,10): noi dobbiamo amarci, «e come egli ha dato la vita per noi, così noi dobbiamo darla per i fratelli» (1Gv 3,16); e, se prima ci era difficile amare Dio, almeno dovrebbe riuscirci facile ora ricambiare l’amore di Dio, che ci ha amati per primo (Rm 4,10) e non ha risparmiato il suo Figlio, ma lo ha dato per noi tutti (Rm 8,32).

Non c’è modo migliore per farsi amare che il prendere l’iniziativa di amare. Se il cuore di chi non è capace di prendere l’iniziativa di amare è freddo, addirittura di ghiaccio è l’animo di chi non vuole rispondere all’amore.

Anche nelle avventure amorose più scandalose e squallide vediamo che chi vuol essere amato non fa altro che ostentar in tutti i modi quanto ami; e così tenta di dimostrare alla persona da conquistare che vale la pena di corrispondere alle sue attenzioni; e arde più ancora, quando si accorge che quella comincia a sentirsi attratta verso di lui.

Ma se il cuore che stava intorpidito si sveglia quando si accorge di essere amato, e il cuore di chi ama brucia ancor di più, quando sente di essere corrisposto, è evidente che nulla sollecita o aumenta di più l’amore che il sapere di essere amato, per chi non ama ancora, o la speranza o l’esperienza di essere corrisposto, per chi ha preso l’iniziativa di amare.

Ma se questo avviene negli amori disonesti, quanto più deve verificarsi nell’amicizia?

Che cosa dovrebbe maggiormente preoccuparci se vogliamo conservare la nostra amicizia, se non di evitare che l’amico dubiti del nostro amore, o che possa pensare che lo amiamo meno di quanto ci ami lui? Se dovesse pensare così, la sua amicizia si raffredderà e ci darà minore familiarità. Oppure se la sua amicizia non è così debole da potersi raffreddare per l’offesa, resterà amico per offrire amicizia, senza gustarne il contraccambio.

Teniamo inoltre conto che, se è vero che i superiori desiderano essere amati dai subalterni, e provano gusto a essere onorati da essi, e tanto più sono disposti ad amarli quanto più se ne accorgono, è anche vero che un subalterno è più disposto a corrispondere se si accorge di essere amato dal superiore. Se poi chi ama non è miserabile, ma è ricco e rende partecipe dei suoi beni la persona amata, allora la riconoscenza è ancora più grande.

L’amore del povero verso il ricco può nascere dalla miseria; l’amore del ricco nasce dalla generosità. (5)

E se l’inferiore neppure poteva pensare di essere amato dal superiore, più grande sarà il suo amore, quando il superiore dimostrerà quanto bene voglia a colui che neppure osava ritenersene degno.

Ma chi è più grande di Dio che giudicherà? E chi ha minor diritto di sperare dell’uomo peccatore?

Quest’uomo tanto più s’era affidato e abbandonato al potere dell’orgoglio, da cui non può venire gioia alcuna, quanto meno sperava di esser trattato con amore da colui che invece non è grande per la cattiveria, ma vuole esserlo per la bontà.

__________________________ Note

(5) Beninteso, nella presunzione che l'amore del povero e del ricco sia amore vero, e non da parte del ricco paternalismo, o da parte del povero desiderio dei benefici derivanti dall'amicizia del ricco. __________________________

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Il centro della catechesi: Gesù e l’amore. 6. Nel nostro discorso non è sufficiente che abbiamo di mira il comandamento della carità, che nasce dal cuore puro, dalla coscienza onesta e da una fede senza finzioni, ma dobbiamo anche preoccuparci del nostro catechizzando, affinché la sua attenzione e ricerca siano orientate in quella direzione.

Tutto quel che leggiamo nelle Scritture sante dell’AT fu scritto per preparar la venuta del Signore e per anticipare la figura della chiesa, che è il suo corpo, popolo di Dio radunato tra tutti i popoli, e che si aggrega tutti i santi (gli onesti), compresi quelli che prima della sua venuta ebbero fede in lui, come l’abbiamo ora noi, dopo che egli è venuto.

Anche Giacobbe (4), al momento di uscir dal grembo materno, mandò innanzi prima di tutto la mano, con cui teneva il piede del fratello, che nasceva prima di lui, e poi la testa e le altre membra: ora la testa vale di più, non solo delle membra che uscirono dopo dal grembo materno, ma anche della mano che era uscita prima. E vale di più non perché sia uscita prima, ma per la maggiore importanza della sua funzione.

Così Gesù Cristo nostro Signore, che è il sommo Dio benedetto per l’eternità, quando decise di venire tra noi come uomo ed essere mediatore tra Dio e gli uomini, uscì come dal seno del suo mistero.

Ma prima di presentarsi personalmente mandò davanti a sé, nei santi patriarchi e nei profeti, quasi una parte del suo corpo, come fossero la mano che preannunciava la sua nascita; e, tenendo legato con la Legge, come Giacobbe tratteneva con le cinque dita il piede del fratello, il popolo superbo che lo precedeva, lo soppiantò. Per continuare il simbolo, noteremo che cinque — come le dita di Giacobbe — furono anche le epoche della attesa del Salvatore, in cui Dio non cessò di annunciare e profetizzare la sua venuta; e cinque i libri che Mosè scrisse dopo aver ricevuto da Dio la Legge.

Così il Cristo, per i superbi che non vollero la sua giustizia ma pretendevano di stabilire la propria, non aprì la mano benedicente, ma la tenne chiusa e stretta, per cui quelli, trattenuti ai piedi, inciamparono e caddero, mentre noi ci siamo alzati e stiamo in piedi (salmo 19).

Pur avendo quindi mandato avanti a sé quei santi a preparare la sua venuta, il capo del corpo della chiesa è lui, il Cristo; e costoro, che con fede lo preannunciarono, costituiscono l’inizio del corpo cui egli è il capo.

L’essere venuti prima non li esclude dal farne parte; mentre l’averlo riconosciuto li inserisce in lui. Allo stesso modo la mano può essere mandata avanti alla testa, ma resta soggetta alla testa.

Come vedi, tutto ciò che prima fu scritto, fu scritto a nostro insegnamento (Rm 15,4) e ci ha prefigurato. «Ciò che accadeva loro, era in figura; e fu scritto per noi, che viviamo ora che i tempi sono giunti alla loro pienezza» (1Cor 10,11).

__________________________ Note

(4) Così dice la Scrittura: «Isacco supplicò il Signore per sua moglie, perché era sterile e il Signore lo esaudì, cosicché sua moglie Rebecca divenne incinta. Ora i figli si urtavano nel suo grembo ed essa esclamò: “se è così, perché questo?” Andò a consultare il Signore. Il Signore le rispose: “Due nazioni sono nel tuo seno, e due popoli dal tuo grembo si disperderanno: un popolo sarà più forte dell'altro e il maggiore servirà il più piccolo”. Quando poi si compì per lei il tempo di partorire, ecco due gemelli erano nel suo grembo. Uscì il primo; rossiccio e tutto come un mantello di pelo, e fu chiamato Esaù. Subito dopo, uscì il fratello, e teneva in mano il calcagno di Esaù. Fu chiamato Giacobbe» (Gn 25,21-26a). __________________________

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III – La storia della salvezza come cammino di fede

5. Il discorso catechistico è completo quando comincia da: «In principio Dio creò il cielo e la terra», e giunge fino alla chiesa attuale. Ciò non significa che si debba dire a memoria o spiegare con parole nostre tutto il Pentateuco, i libri dei Giudici o dei Re e di Esdra, tutto il vangelo e il libro degli Atti degli apostoli. Ci mancherebbe il tempo e d’altra parte neppure è necessario. Occorre invece abbracciare l’insieme con uno sguardo generale e scegliere poi alcuni episodi che s’ascoltano più volentieri e che rappresentano come i punti-chiave della storia. Ma bisogna evitare di accennarvi troppo fugacemente e subito dopo levarli dalla vista. Occorre invece spiegarli, approfondirli e in qualche modo saperli rendere presenti e vivi all’ammirazione degli uditori. Gli altri avvenimenti devono essere collegati e inseriti nella trama generale con brevi raccordi.

Così le verità, che intendiamo mettere in maggiore evidenza risaltano dal fatto che mettiamo in secondo piano le altre. In tal modo colui che vogliamo istruire non si annoia e non si confonde. __________________________

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4. La tensione di quelli che vengono ad ascoltarmi mi dice invece che il mio discorso non è così freddo come sembra a me, e dalla loro gioia arguisco che vi trovano utilità; e perciò faccio del mio meglio per non rifiutare l’esercizio di questo ministero, quando mi accorgo che accettano volentieri ciò che offro loro.

Così è per te: dal momento che così spesso le persone desiderose di essere istruite vengono indirizzate a te, è evidente che il tuo discorso non è sgradito agli altri com’è sgradito a te. Non devi quindi considerarti inutile per il fatto che non ti riesce di spiegare come desideri ciò che sai; a parte il fatto che neppure riesci a capire le cose come vorresti.

Fintanto che siamo in questo mondo, infatti, non vediamo se non «in enigma, come nello specchio» (1Cor 13,12). Neppure l’amore è tanto potente da infrangere il velo opaco della carne per penetrare nel sereno del cielo, da dove prendono luce anche queste cose che passano.

Siccome chi vive di fede si avvicina ogni giorno di più alla visione di una luce che non conosce l’alterno ritmo del giorno e della notte, e che «occhio non vide, né orecchio udì, né entrò in mente umana» (ivi 2,9), il vero motivo che ci fa percepire come noioso il nostro discorso di iniziazione è proprio il desiderio di veder sempre cose nuove e il tedio di dir quelle vecchie.

L’esperienza dice però che ci facciamo ascoltare molto più volentieri, quando facciamo con gioia quel che facciamo: se la trama del nostro discorso è pervasa dalla nostra gioia, essa riesce più spedita e accetta.

Di conseguenza, il problema maggiore non è di saper di dove cominciare o fin dove condurre il discorso su quel che si insegna, né quello di saper se prolungarlo o abbreviarlo senza comprometterne la completezza, e tanto meno di vedere quando abbreviarlo o prolungarlo. La preoccupazione più grande deve essere quella di trovar il modo di catechizzare gioiosamente: e quanto più ci riusciremo, tanto più piacevole sarà il nostro discorso.

L’esigenza è lampante: «Dio ama chi dà con gioia»; e se ciò è vero riguardo all’elemosina, lo è tanto più riguardo ai doni dello Spirito.

Ma l’aver questa gioiosità (3) al momento opportuno dipende dalla misericordia di colui che ci fa obbligo di usarla.

E allora con l’aiuto di Dio parleremo anzitutto di queste tre cose:

  • del metodo da seguire nella esposizione della dottrina;
  • dei doveri e delle direttive da suggerire;
  • del modo infine di procurarsi la necessaria gioiosità.

__________________________ Note

(3) Gioiosità è il termine che usiamo per tradurre il termine latino «hilaritas». Preso nel suo contesto, ci pare che il termine voglia dire non semplicemente che l’educatore è allegro (l’allegria potrebbe anche essere dovuta a incoscienza!), ma che la sua gioia, per quanto controllata, ha solidi motivi, che provengono dalla fede alla quale sta introducendo il postulante. Si tratta quindi di una gioia tanto intensa da poter essere comunicata. Il termine italiano gioiosità pare indichi appunto questa capacità di contagio derivante dalla fede. È certo comunque che nessun termine di nessuna lingua esprime di solito esattamente il corrispettivo di un’altra. __________________________

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II – Osservazioni preliminari

3. Non vorrei però, tornando al tuo problema personale, che tu ti trovassi in difficoltà per il fatto che il tuo discorso ti appare banale e pesante. Può darsi invece che non appaia tale al suo destinatario; ma siccome non sei soddisfatto di te, pensi che anche gli altri siano insoddisfatti.

Anche a me il mio parlare non piace quasi mai. Vorrei tanto esprimermi meglio, come sento interiormente le cose prima di rivestirle con le parole; e se non riesco ad esprimermi a livello di quel che sento, mi rattristo, perché la parola non corrisponde all’intenzione.

Vorrei che chi mi ascolta capisse tutto quel che capisco io, e mi accorgo di non ottenerlo col mio discorso, specie perché l’intuizione è un lampo passeggero, mentre il parlare è lento e prolisso; e mentre il discorso si snoda, l’intuizione si dissolve.

Tuttavia, mentre moduliamo le sillabe, permangono misteriosamente nella memoria labili impronte da cui ci moviamo per formulare i segni fonetici, pronunciandoli o no, nelle varie lingue: il latino, il greco, l’ebraico... Di per sé, l’impronta della memoria non è né latina, né greca, né ebraica, ma è un prodotto dello spirito, come il corpo si esprime attraverso il viso.

Per fare un esempio, l’ira si esprime in latino con un vocabolo, in greco con un altro, e con altri termini ancora in altre lingue, dato che l’adirarsi non è esclusivo né dei greci né dei latini. Però quando si dice «iratus sum», capiscono solo i latini; mentre se l’ira si dipinge sul volto, tutti si accorgono che uno è adirato.

Resta il fatto che le nostre parole non sono in grado di esprimere e rendere quasi palpabile ciò che la memoria conserva della intuizione originale, come invece il volto esprime i nostri sentimenti: dato che l’intuizione è dentro, nella profondità dello spirito, mentre il volto è fuori, nel corpo. Questa distanza tra l’espressione e l’intuizione diventa evidente, se ci rendiamo conto con quale difficoltà si riesce ad avvicinarsi anche solo alla traccia rimasta nella memoria.(2)

Desiderosi di esser utili quanto più possiamo a chi ci ascolta, e non potendo comunicare con la mente, vorremmo parlargli così come comprendiamo: e non riuscendovi, ci angustiamo e siamo disgustati come se faticassimo per nulla.

Ma proprio questa angustia rende il nostro discorso più fiacco e banale di quanto non fosse prima che il motivo del disgusto si manifestasse.

__________________________ Note

(2) Perché non sia indotto allo scoraggiamento, Agostino mette in pace l'educatore sui limiti che fanno parte naturalmente della nostra capacità di capire e di esprimerci.

Quando vogliamo esprimere un'idea, non possiamo evitare alcuni passaggi.

  • C'è anzitutto l'intuizione; e anche questa, per quanto splendida, non è mai perfetta come la realtà del mistero da cui parte, anche perché dura un solo istante e non si radica facilmente.
  • C'è poi l'impronta rimasta nella memoria dopo il lampo della intuizione: e questa impronta è già limitata quanto lo è sempre una immagine, ed è inoltre soggetta ai limiti della memoria di ciascuno.
  • Infine c'è il discorso che tentiamo di formulare per esprimere agli altri quanto abbiamo compreso noi.

La velocità della intuizione, la labilità della memoria, e la inadeguatezza dell'espressione, rendono impossibile a chiunque un discorso perfetto. Agostino ricorderà più avanti che Gesù ha scelto proprio questa situazione di limite per esprimere il mistero di Dio (c. X, n.15) __________________________

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I – Occasione e scopo del trattato

1. Caro fratello Deógratias, m’hai chiesto di scriverti qualcosa di utile sul modo di introdurre alla vita di fede i postulanti. (1) Tu eserciti il diaconato a Cartagine, e mi dici che spesso ti vengono presentate persone da iniziare alla vita cristiana, perché hai fama di essere un ottimo catechista, sia per la ricchezza della dottrina che per il fascino della parola. Ma aggiungi che, nel presentar le motivazioni della fede, ti trovi quasi sempre in difficoltà. E ti chiedi: «Qual è il metodo più sicuro? Da dove si comincia e fin dove si porta avanti il discorso? E al termine del discorso si deve porre una esortazione, o basta presentare le norme di comportamento che il postulante dovrà ritener necessarie per vivere autenticamente la vita cristiana?».

Mi confidi con un certo disagio che spesso, dopo un discorso lungo e poco entusiasta, ti vergogni e sei infastidito, ma di te stesso, non di colui che istruisci; e infastidito sei tu, non quelli che ti stanno ad ascoltare. Tutto questo ti ha indotto ad approfittare della mia amicizia e a sollecitarmi di scriverti sull’argomento, nonostante le molte cose che ho da fare e pretendendo che non accusi il peso di un lavoro in più.

2. Per parte mia, mi ritengo obbligato ad accettare l’invito, non solo per l’amicizia che porto a te, ma anche per l’amore e il servizio cui sono impegnato per tutta la chiesa. Se Dio m’ha dato qualche dono, non posso rifiutar di adoperarlo per aiutare con esso anche i miei fratelli. Quanto più desidero che si diffonda il dono della conoscenza di Dio, tanto più, nei limiti delle mie possibilità, devo impegnarmi affinché i miei confratelli, che nel dispensare questo dono si trovano in difficoltà, riescano a farlo con facilità e scioltezza pari alla diligenza e allo zelo che vi pongono.

__________________________ Note

(1) I «postulanti» sono coloro che chiedono di essere introdotti a partecipare alla vita cristiana. Il testo di Agostino parla di «rudes», intendendo con questo termine quegli adulti non battezzati i quali, chiedendo di entrare nella chiesa, hanno bisogno di essere istruiti su che cosa comporti una tale decisione. Quantunque la parola «rudes» richiami il mondo agricolo e indichi un ambiente culturalmente limitato, Agostino la usa nel significato di «scarsa conoscenza del cristianesimo», e la applica sia agli illetterati che ai frequentanti le scuole di retorica e agli intellettuali (cf. c. VIII n. 12). Varrà la pena di tener conto che ai tempi di Agostino buona parte di coloro che componevano l’impero romano erano ancora pagani, e il battesimo veniva dato in prevalenza ad adulti. Ciò tuttavia non rende troppo diversi dagli attuali i problemi che si presentavano ai catechisti di allora. Nel seguito della lettura del presente libro sarà facile costatarlo. __________________________

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PREGHIERA DI GESÙ FIGLIO DI SIRA (51,1-30)

Inno di ringraziamento 1Ti loderò, Signore, re, e ti canterò, Dio, mio salvatore, loderò il tuo nome, 2perché sei stato mio riparo e mio aiuto, salvando il mio corpo dalla perdizione, dal laccio di una lingua calunniatrice, dalle labbra di quelli che proferiscono menzogna, e di fronte a quanti mi circondavano sei stato il mio aiuto. 3e mi hai liberato, secondo la grandezza della tua misericordia e del tuo nome, dai morsi di chi stava per divorarmi, dalla mano di quelli che insidiavano la mia vita, dalle molte tribolazioni di cui soffrivo, 4dal soffocamento di una fiamma avvolgente e dal fuoco che non avevo acceso, 5dal profondo del seno degl'inferi, dalla lingua impura e dalla parola falsa 6e dal colpo di una lingua ingiusta. La mia anima era vicina alla morte, la mia vita era giù, vicino agl'inferi. 7Mi assalivano da ogni parte e nessuno mi aiutava; mi rivolsi al soccorso degli uomini, e non c'era. 8Allora mi ricordai della tua misericordia, Signore, e dei tuoi benefici da sempre, perché tu liberi quelli che sperano in te e li salvi dalla mano dei nemici. 9Innalzai dalla terra la mia supplica e pregai per la liberazione dalla morte. 10Esclamai: “Signore, padre del mio signore, non mi abbandonare nei giorni della tribolazione, quando sono senz'aiuto, nel tempo dell'arroganza. 11Io loderò incessantemente il tuo nome, canterò inni a te con riconoscenza”. La mia supplica fu esaudita: 12tu infatti mi salvasti dalla rovina e mi strappasti da una cattiva condizione. Per questo ti loderò e ti canterò, e benedirò il nome del Signore.


12a Rendete grazie al Signore perché è buono, perché il suo amore è per sempre. 12b Rendete grazie al Dio delle lodi, perché il suo amore è per sempre. 12c Rendete grazie al custode d’Israele, perché il suo amore è per sempre. 12d Rendete grazie al creatore dell’universo, perché il suo amore è per sempre. 12e Rendete grazie al redentore d’Israele, perché il suo amore è per sempre. 12f Rendete grazie a colui che raduna i dispersi d’Israele, perché il suo amore è per sempre. 12g Rendete grazie a colui che ricostruisce la sua città e il suo santuario, perché il suo amore è per sempre. 12h Rendete grazie a colui che fa germogliare una forza per la casa di Davide, perché il suo amore è per sempre. 12i Rendete grazie a colui che ha scelto i figli di Sadoc per il sacerdozio, perché il suo amore è per sempre. 12j Rendete grazie allo scudo di Abramo, perché il suo amore è per sempre. 12k Rendete grazie alla roccia d’Israele, perché il suo amore è per sempre. 12l Rendete grazie al potente di Giacobbe, perché il suo amore è per sempre. 12m Rendete grazie a colui che ha scelto Sion, perché il suo amore è per sempre. 12n Rendete grazie al re dei re dei re, perché il suo amore è per sempre. 12o Ha accresciuto la potenza del suo popolo, egli è la lode per tutti i suoi fedeli, per i figli d’Israele, popolo a lui vicino.


La ricerca della sapienza 13Quand'ero ancora giovane, prima di andare errando, ricercai assiduamente la sapienza nella mia preghiera. 14Davanti al tempio ho pregato per essa, e sino alla fine la ricercherò. 15Del suo fiorire, come uva vicina a maturare, il mio cuore si rallegrò. Il mio piede s'incamminò per la via retta, fin da giovane ho seguìto la sua traccia. 16Chinai un poco l'orecchio, l'accolsi e vi trovai per me un insegnamento abbondante. 17Con essa feci progresso; onorerò chi mi ha concesso la sapienza. 18Ho deciso infatti di metterla in pratica, sono stato zelante nel bene e non me ne vergogno. 19La mia anima si è allenata in essa, sono stato diligente nel praticare la legge. Ho steso le mie mani verso l'alto e ho deplorato che venga ignorata. 20A essa ho rivolto la mia anima e l'ho trovata nella purezza. In essa ho acquistato senno fin da principio, per questo non l'abbandonerò. 21Le mie viscere si sono commosse nel ricercarla, per questo ho fatto un acquisto prezioso. 22Il Signore mi ha dato come mia ricompensa una lingua e con essa non cesserò di lodarlo. 23Avvicinatevi a me, voi che siete senza istruzione, prendete dimora nella mia scuola. 24Perché volete privarvi di queste cose, mentre le vostre anime sono tanto assetate? 25Ho aperto la mia bocca e ho parlato: “Acquistatela per voi senza denaro. 26Sottoponete il collo al suo giogo e la vostra anima accolga l'istruzione: essa è vicina a chi la cerca. 27Con i vostri occhi vedete che ho faticato poco e ho trovato per me un grande tesoro. 28Acquistate l'istruzione con grande quantità d'argento e con essa otterrete molto oro. 29L'anima vostra si diletti della misericordia di lui, non vergognatevi di lodarlo. 30Compite la vostra opera per tempo ed egli a suo tempo vi ricompenserà”.

_________________ Note

51,1 L’autore pone questo salmo autobiografico dopo la conclusione del libro. Alcuni lo considerano un’appendice, opera di altra mano. È probabile che lo stile autobiografico sia un espediente letterario e che questo salmo sia più antico del Siracide, e sia stato usato da lui per il suo insegnamento. L’inno ricalca temi caratteristici dei Salmi (vedi Sal 18,5-7; 30,4; 40,3; 88,7; 120,2; 142,5).

51,9-12 In questa parte il testo ebraico differisce alquanto dal greco, inserendo diverse aggiunte. Dopo il v. 12 l’ebraico aggiunge una serie di invocazioni a forma di litania, sullo stile del Sal 136-

51,13-30 Nell’originale ebraico questo componimento ha la forma letteraria dell’acrostico, ossia della composizione “alfabetica” (vedi anche Pr 31,10-31).

51,23 nella mia scuola: in ebraico bet midrash (casa di studio), il luogo dove ci si dedica allo studio della legge.

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Approfondimenti

vv. 1-12. Dopo la “firma”, troviamo ancora la preghiera di «Gesù, figlio di Sirach» (vv. 1-12), ed un componimento autobiografico sulla ricerca della sapienza (vv. 13-30). Secondo autorevoli esegeti, questi testi – per contenuto e stile, oltre che per la ricca attestazione dei codici – sono sicuramente autentici. Comunque sono canonici. Tra i vv. 12 e 13 si trova – solo nel ms. B – una lode litanica, forse non autentica, sconosciuta alla tradizione testuale greca e siriaca. La preghiera (vv. 1-12) è un salmo di ringraziamento individuale, aperto e chiuso dal proposito di confessare pubblicamente le lodi del Signore che salva (vv. 1.12). La lode ha tre motivi principali:

  • a) la gravità del pericolo da cui è stato liberato. Oltre dodici volte la preposizione «da» (ek-apo/min) introduce realtà negative da cui è stato salvato: un'insidia mortale, causata da calunnie di «lingua ingiusta» (v. 6a). È un cerchio mortale, di «perdizione» (vv. 2b.12a);
  • b) l'assenza di ogni aiuto umano (v. 7);
  • c) la sollecitudine di Dio, fedele al suo stile di salvatore misericordioso (v. 8), a venire in aiuto (vv. 3ab) di quanti lo invocano (vv. 10-11).

Il nome di JHWH (vv. 1.12) fa da cornice a un'esperienza di radicale maturazione di fede, simile a quelle raccontate dai salmi: la necessità della liberazione (vv. 2-6), il ricordo del passato (vv. 7-8); l'invocazione dell'aiuto (vv. 9-10); l'impegno per la lode (v. 11), a futura memoria dell'opera salvifica del Signore (v. 12).

vv. 13-30. La ricerca della sapienza (cfr. 6,27; 24,34; 33,18; 39,1) è oggetto di questo poema alfabetico, simile nella forma a Pr 31, 10-31. Il testo ebr. del Cairo (ms. B) non è ben conservato: tuttavia i frammenti trovati a Qumran nel 1956, risalenti alla prima metà del I secolo, confermano l'esistenza dell'acrostico (cfr. altri esempi in Sal 25; 37; 119; oltre i poemi di 22 distici di Sir 1,11-30; 6,18-37). Il gr. è più vicino all'ebr. di Qumran, mentre il ms. B sembra ritradotto dal siriaco. La tesi secondo cui il gr. spiritualizzerebbe il rapporto tra il discepolo e la sapienza, smorzando il linguaggio erotico del testo di Qumran, soprattutto nei vv. 17-21, sembra piuttosto forzata. Il testo di Qumran testimonia che Ben Sira stesso, se non è autore, può avere inserito, in appendice al suo libro, questo poema, ritenendolo consono al suo modo di intendere la ricerca della sapienza: un rapporto intenso, che la preghiera e l'impegno assiduo fanno progredire (v. 17a). II poema si presenta composto di due parti:

  • a) nella prima l'autore descrive (vv. 13-22) gli sforzi per trovare e far conoscere la sapienza: dopo molti viaggi – simbolo anche di smarrimento – e assidue preghiere, s'incammina sulla retta via della sapienza, cresce ascoltandola e mettendola in pratica, comincia a godere della sua compagnia e si dispone a farla conoscere;
  • b) nella seconda parte (vv. 23-30), poi, l'autore invita ad andare alla sua scuola – prima comparsa di bêt midraš (v. 23b) – e a portare a compimento in tempo debito la ricerca della sapienza (v. 30a). Si tratta di dissetare, finalmente, la propria anima, vincendo la pigrizia e la riluttanza alla fatica, ma anche l'attaccamento frenante e cieco al denaro. È un invito a trovare la gioia nella misericordia del Signore e ad abbandonare la vergogna di lodarlo. La ricompensa non si farà attendere. Da notare le immagini collegate con il corpo umano: cuore (vv. 15.20), piede (v. 15), orecchio (v. 16), mani (v. 19), ventre (v. 21), lingua (v. 22), bocca (v. 25), collo (v. 26), occhi (v. 27).

Conclusione. La ricerca-possesso della sapienza esige un coinvolgimento totale. Non è un esercizio intellettuale, ma un'esperienza vitale, unitaria, riconciliante a livello somatico e psichico, religioso e sociale. L'asse del movimento è antropologico-teologico. L'amore di Ben Sira per l'uomo e per Dio lo spinge a insegnare e a scrivere: lavora non solo per sé (24,34), convinto che è possibile, anche in tempi diversi da quelli dei padri, cercare le vie della saggezza quotidiana e della misericordia biblica, come senso del vivere e vera difesa dall'asservimento culturale, religioso e politico a idoli e potenze straniere. La ricompensa di Dio verrà a suo tempo. Sono le parole conclusive di un libro – e di un'esperienza – che continua a seminare speranza e simpatia, pur nell'orizzonte limitato della sua esistenza e del suo sapere. Colui, alla cui scuola abbiamo imparato la fedeltà alla pena di ogni giorno (Mt 6,34), il nuovo Adamo, confermerà le orme tracciate dal manuale di fede e di morale di Ben Sira e porterà anche i lettori moderni oltre l'interessante ma fragile sapienza del qui ed ora, mediante la stoltezza della sua croce e risurrezione (1Cor 1,24-25).

(cf. PIETRO FRANGELLI, Siracide – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Il sommo sacerdote Simone 1Simone, figlio di Onia, sommo sacerdote, nella sua vita riparò il tempio e nei suoi giorni consolidò il santuario. 2Da lui furono poste le fondamenta del doppio muro, l'elevato contrafforte della cinta del tempio. 3Nei suoi giorni fu scavato il deposito per le acque, un serbatoio grande come il mare. 4Avendo premura d'impedire la caduta del suo popolo, fortificò la città nell'assedio. 5Com'era glorioso quando si affacciava dal tempio, quando usciva dal santuario dietro il velo! 6Come astro mattutino in mezzo alle nubi, come la luna nei giorni in cui è piena, 7come sole sfolgorante sul tempio dell'Altissimo, come arcobaleno splendente fra nubi di gloria, 8come rosa fiorita nei giorni di primavera, come giglio lungo i corsi d'acqua, come germoglio del Libano nei giorni d'estate, 9come fuoco e incenso su un braciere, come vaso d'oro massiccio, ornato con ogni specie di pietre preziose, 10come ulivo che fa germogliare i frutti e come cipresso svettante tra le nuvole. 11Quando indossava i paramenti gloriosi, egli era rivestito di perfetto splendore, quando saliva il santo altare dei sacrifici, riempiva di gloria l'intero santuario. 12Quando riceveva le parti delle vittime dalle mani dei sacerdoti, egli stava presso il braciere dell'altare: intorno a lui c'era la corona di fratelli, simili a fronde di cedri nel Libano, che lo circondavano come fusti di palme; 13tutti i figli di Aronne nella loro gloria, e con le offerte del Signore nelle loro mani, stavano davanti a tutta l'assemblea d'Israele, 14ed egli compiva il rito liturgico sugli altari, preparando l'offerta dell'Altissimo onnipotente. 15Egli stendeva la sua mano sulla coppa e versava sangue di uva, lo spargeva alle basi dell'altare come profumo soave all'Altissimo, re di tutte le cose. 16Allora i figli di Aronne alzavano la voce, suonavano le trombe di metallo lavorato e facevano udire un suono potente come memoriale davanti all'Altissimo. 17Allora tutto il popolo insieme si affrettava e si prostravano con la faccia a terra, per adorare il loro Signore, Dio onnipotente e altissimo. 18E i cantori intonavano canti di lodi, e grandioso risuonava il canto e pieno di dolcezza. 19Il popolo supplicava il Signore altissimo, in preghiera davanti al Misericordioso, finché fosse compiuto il servizio del Signore e fosse terminata la sua liturgia. 20Allora, scendendo, egli alzava le sue mani su tutta l'assemblea dei figli d'Israele, per dare con le sue labbra la benedizione del Signore e per gloriarsi del nome di lui. 21Tutti si prostravano di nuovo per ricevere la benedizione dell'Altissimo.

Invito alla lode 22E ora benedite il Dio dell'universo, che compie in ogni luogo grandi cose, che fa crescere i nostri giorni fin dal seno materno, e agisce con noi secondo la sua misericordia. 23Ci conceda la gioia del cuore e ci sia pace nei nostri giorni in Israele, ora e sempre. 24La sua misericordia resti fedelmente con noi e ci riscatti nei nostri giorni.

Tre popoli detestati 25Contro due popoli la mia anima è irritata, il terzo non è neppure un popolo: 26quanti abitano sul monte di Samaria e i Filistei e il popolo stolto che abita a Sichem.

Conclusione del libro 27Una dottrina d'intelligenza e di scienza ha condensato in questo libro Gesù, figlio di Sira, figlio di Eleàzaro, di Gerusalemme, che ha riversato come pioggia la sapienza dal cuore. 28Beato chi medita queste cose e colui che, fissandole nel suo cuore, diventa saggio; 29se le metterà in pratica, sarà forte in tutto, perché la luce del Signore sarà la sua strada. ⌈A chi gli è fedele egli dà la sapienza. Benedetto il Signore per sempre. Amen, amen.⌉

_________________ Note

50,1 Nell’elogio degli antenati viene inserito anche il sommo sacerdote Simone, che esercitò il ministero tra il 220 e il 195 circa. Viene lodato per le sue grandi opere (vv. 1-4) ma soprattutto per lo splendore che traspare dalla sua figura sacerdotale. Il testo ebraico reca: “Simone, figlio di Iohanan, il sacerdote”.

50,24a Il testo ebraico reca: “La sua misericordia resti fedelmente con Simone”.

50,25-26 Questa inaspettata polemica, espressa con un proverbio numerico, è rivolta contro popoli che erano nemici storici d’Israele.

50,26 Gli abitanti di Sichem sono i Samaritani. Nel testo greco si citano così due volte gli stessi Samaritani; probabilmente c’è un errore di trascrizione. Il testo ebraico, invece di sul monte di Samaria, reca Seir, ossia Edom.

50,27-29 L’autore presenta se stesso (cosa singolare nell’AT), indicando il proprio nome e la propria funzione di maestro.

50,27c Il testo ebraico reca: “Simone, figlio di Gesù, figlio di Eleàzaro, figlio di Sira”.

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Approfondimenti

vv. 1-21. La lode dei padri si conclude con il lungo panegirico del sommo sacerdote Simone II, figlio di Onia II, vissuto tra il 219 e il 196 a.C. È detto “giusto”, perché fu l'ultimo della casa sacerdotale di Zadok a osservare fedelmente la legge. Ben Sira, dopo aver esaltato la gloria di Adamo (49,16b), usa lo stesso termine (ebr. tiperet) per qualificare questo contemporaneo, «grande tra i fratelli e gloria del suo popolo» (50,1a ebr.). Dopo l'introduzione storica, con l'elenco delle benemerenze sociali ed urbanistiche (vv. 1-4), l'elogio si sviluppa in tre momenti:

  • a) l'uscita splendida dal tempio (vv. 5-10);
  • b) lo svolgimento dei riti (vv. 11-15);
  • c) le reazioni di sacerdoti, popolo e cantori (vv. 16-19).

Da ultimo la benedizione nel nome del Signore, che conclude insieme il profilo di Simone e l'elogio dei padri (vv. 20-21).

Ben Sira ha conosciuto i tempi di Simone e il suo impegno nel rinnovare il tempio con fortificazioni e piani rialzati (vv. 1-2). Forse il testo allude ai lavori autorizzati da Antioco III il Grande (223-187), tra il 199, anno della vittoria a Panion contro i Lagidi, ed il 195, anno della morte dello stesso Simone. La notizia viene da Giuseppe Flavio (Antichità Giudaiche XII,3,3). Come Ezechia (48,17), anche Simone si occupa di dotare la città di acqua, per prevenire gli assedi (cfr. 1Mac 1,20-24.29-32). Poi il profilo passa a descrivere l'attività sacerdotale. Di quale funzione si tratta? Abitualmente si pensa al solenne giorno dell'espiazione (cfr. Lv 16), l'unico nel quale il sommo sacerdote va oltre il velo nel Santo dei Santi (v. 5b) e pronuncia il “nome di JHWH” per la benedizione (vv. 20-21). Non manca, però, chi sostiene trattarsi dei sacrifici quotidiani, mattutino e serale, a motivo del parallelo tra i vv. 5-21 ed il loro rituale descritto nel trattato Tamid (VI,3-VII,3). Ma è probabile che i due cerimoniali – quello annuale e quello quotidiano – siano fusi con una certa libertà spirituale e letteraria: al centro (vv. 11-16) prevale l'attenzione ai sacrifici quotidiani, all'inizio e alla fine a quello annuale (vv. 5.20-21). Ben Sira appare in linea con i farisei, non con i sadducei: dà valore anche alla tradizione orale, non solo alla legge scritta. Le dieci metafore per descrivere lo splendore del sommo sacerdote provengono dall'astronomia (vv. 6-7; cfr. Sal 148,3), dal mondo agricolo (vv. 8.10; cfr. 24,13-17) e dalla liturgia (v. 9; cfr. 49,1; Lv 2,1-2). Circa oggetti ed abiti preziosi (vv. 9bc.11), cfr. la descrizione di Aronne (45,8-11). Dopo la deposizione delle parti delle vittime sull'altare (vv. 12-14) ed il rito della libazione con vino (v. 15), i sacerdoti suonano la tromba ed il popolo si prostra e supplica il misericordioso, mentre i cantori e la musica accompagnano la liturgia. I vari riferimenti al popolo ed il ricco vocabolario teologico (l'Altissimo, il re di tutte le cose, Signore Dio onnipotente, misericordioso) rivelano che Ben Sira, da scriba laico, non rievoca solo il gusto per esperienze religiose più o meno estetizzanti, ma manifesta un convincimento di fede verso il sacerdozio, visto come l'istituzione-ponte tra il passato ed il futuro di Israele. Il fascino religioso-storico di Simeone si prolungherà nel tempo. La tradizione giudaica lo esalterà come contemporaneo di Alessandro Magno: questi, durante una sua spedizione in Israele, si sarebbe inchinato alla vista del gran sacerdote ed avrebbe poi spiegato le ragioni del gesto ai suoi nobili e funzionari.

vv. 22-24. La conclusione contiene un invito (v. 22) e un augurio (23-24). È ora di benedire il Dio dell'universo (ebr.: «JHWH, Dio di Israele»), autore di opere grandiose (cfr. Sal 136,4a) in ogni luogo (ebr.: «sulla terra»): è lui che esalta i nostri giorni (ebr.: «Adam», l'uomo) sin dal grembo a motivo della sua «misericordia» (ebr.: «volontà»). La traduzione universalizza i dati di fede di Ben Sira. L'augurio chiede la «gioia del cuore», volgendo lo sguardo dai giorni presenti a quelli futuri (o dell'eternità) e affidandosi alla misericordia divina che riscatta. Segno, questo, di una nuova situazione di dolore? Il testo ebraico, abbastanza diverso, augura che Dio «conceda la sapienza del cuore e la pace» (v. 23) ai lettori. La speranza di Ben Sira è che la misericordia divina rimanga con Simone (in pratica coi suoi discendenti, essendo egli già morto) e dia compimento all'alleanza di Pincas. Si sa che la speranza di una continuità del sacerdozio nella famiglia di Simone si interrompe con l'assassinio di Onia III (cfr. 2Mac 4,34).

vv. 25-26. È un proverbio numerico, contenente un violento attacco a tre popoli nemici:

  • a) gli Edomiti (Seir), rei di avere aiutato i Babilonesi nell'assedio di Gerusalemme nel 586, nemici storici anche dopo;
  • b) i Filistei, abitanti della costa sottomessi da Davide (cfr. 2Sam 5,18-25), rei di paganesimo, insieme con quanti hanno ceduto all'ellenizzazione;
  • c) i Samaritani (Sichem), eretici discendenti del ribelle regno del Nord e fautori di un culto separatista sul monte Garizim, in un santuario che i Giudei distrussero nel 128 a.C.

vv. 27-29. La conclusione contiene i dati dell'autore ed un'esortazione a prendere sul serio il contenuto del libro. In modo non usuale per l'AT, l'autore esce dall'anonimato, contento di avere messo per iscritto (v. 27b: charassein significa incidere pietre o metalli, coniare, fare solchi) la sua istruzione/sapienza, facendola scaturire come pioggia dal cuore (v. 27). Per un diverso riferimento all'autore nei libri sapienziali cfr. Prv 1,1-3; Qo 1,1.12; 12,9-10. Il futuro discepolo sarà felice se assumerà tre atteggiamenti fondamentali:

  • a) fare attenzione e meditare la sapienza scritta del Maestro;
  • b) tenere fisso il cuore e la memoria su di essa;
  • c) metterla in pratica.

In questo modo egli conseguirà la forza necessaria per essere fedele alla propria identità e storia in un contesto culturale e religioso confuso e schiacciante, quale doveva apparire quello ellenistico ai pii Ebrei. La «luce» (ebr. «il timore»: v. 29b; cfr. 1,14a) del Signore farà da strada. Sia egli benedetto!

(cf. PIETRO FRANGELLI, Siracide – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Giosia e Geremia 1Il ricordo di Giosia è come una mistura d'incenso, preparata dall'arte del profumiere. In ogni bocca è dolce come il miele, come musica in un banchetto. 2Egli si dedicò alla riforma del popolo e sradicò gli abomini dell'empietà. 3Diresse il suo cuore verso il Signore, in un'epoca d'iniqui riaffermò la pietà.

4Se si eccettuano Davide, Ezechia e Giosia, tutti agirono perversamente; poiché avevano abbandonato la legge dell'Altissimo, i re di Giuda scomparvero. 5Lasciarono infatti il loro potere ad altri, la loro gloria a una nazione straniera. 6I nemici incendiarono l'eletta città del santuario, resero deserte le sue strade, 7secondo la parola di Geremia, che essi però maltrattarono, benché fosse stato consacrato profeta nel seno materno, per estirpare, distruggere e mandare in rovina, ma anche per costruire e piantare.

Ezechiele e i Dodici profeti 8Ezechiele contemplò una visione di gloria, che Dio gli mostrò sul carro dei cherubini. 9Si ricordò dei nemici nell'uragano, beneficò quanti camminavano nella retta via. 10Le ossa dei dodici profeti rifioriscano dalla loro tomba, perché essi hanno consolato Giacobbe, lo hanno riscattato con la loro confidente speranza.

Zorobabele, Giosuè e Neemia 11Come elogiare Zorobabele? Egli è come un sigillo nella mano destra; 12così anche Giosuè figlio di Iosedek: nei loro giorni hanno riedificato la casa, hanno elevato al Signore un tempio santo, destinato a una gloria eterna. 13Anche la memoria di Neemia durerà a lungo; egli rialzò le nostre mura demolite, vi pose porte e sbarre e fece risorgere le nostre case.

Enoc, Giuseppe, Sem, Set, Adamo 14Nessuno sulla terra fu creato eguale a Enoc; difatti egli fu assunto dalla terra. 15Non nacque un altro uomo come Giuseppe, guida dei fratelli, sostegno del popolo; perfino le sue ossa furono onorate⊥. 16Sem e Set furono glorificati fra gli uomini, ma, nella creazione, superiore a ogni vivente è Adamo.

_________________ Note

49,11-13 Questi personaggi vengono lodati come artefici della ricostruzione di Gerusalemme e delle sue mura. Giosuè è il sommo sacerdote che rientrò in Gerusalemme con Zorobabele dopo l’esilio e curò la rinascita spirituale dei rimpatriati (vedi Esd 2,2; Ne 7,7).

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Approfondimenti

vv. 1-10. Ben Sira, saltando i re Manasse e Amon, passa da Ezechia (715-687 a.C.) a Giosia (640-609 a.C.), il cui ricordo è prezioso come profumo riservato al Signore (v. 1ab; cfr. Es 30,34-38 e anche Sir 47,2 per Davide), ma anche come miele e musica (v. 1cd). Le immagini della vita liturgica e sociale avvicinano il re pio e deciso al popolo che finalmente si converte (v. 2a; cfr. 47,15a). Con la riforma religiosa deuteronomica del 621, dopo la scoperta del libro della legge, Giosia supera i meriti di ogni altro re: «Tenne fisso il cuore verso il Signore e rese forte la pietà in tempi di empietà» (così più fedelmente il v. 3). Segue il giudizio sintetico sui re di Giuda: positivo solo per Davide, Ezechia e Giosia; condannati anche Asa e Giosafat, contro l'opinione del Cronista (cfr. 2Cr 14,1-4; 17,3-6). Per aver abbandonato la legge dell'Altissimo, essi hanno consegnato la loro gloria agli stranieri (v. 5), ai Babilonesi, che bruciano la città ed il tempio (v. 6). In ebr. il soggetto è Dio, che li punisce lasciando la loro gloria agli stranieri. Seguono gli ultimi profeti: Geremia (v. 10), Ezechiele (vv. 8-9) e i dodici minori (v. 7). Il primo riceve del male e non è ascoltato: la sua missione è ricordata con le parole dei LXX, versione che doveva già esistere quando il nipote traduceva in greco l'opera di Ben Sira. Il secondo, legato al tempo dell'esilio, è ricordato per la visione di Dio (la «gloria»: v. 8), la tempesta contro i nemici (forse allusione alla profezia contro Gog in Ez 38-39) e il premio per i giusti (v. 9). I dodici profeti sono considerati come un unico libro, collocato dopo i tre grandi. Manca il libro di Daniele, forse non ancora completo. Dei dodici profeti Ben Sira ricorda solo un messaggio globale di consolante speranza (v. 10; cfr. 48,24-25). Per il tema del rifiorire delle ossa, cfr. 46,12.

vv. 11-16. Del dopo-esilio si lodano solo Zorobabele, Giosuè e Neemia (vv. 11-13; cfr. Esd 3,1-6, 22; Ne 2,17-7,3), benemeriti per la ricostruzione della casa del Signore (v. 12), destinata a gloria eterna (riferimento messianico), e quella degli Israeliti, difesa da nuove mura (v. 13). Ignorato lo scriba Esdra. Poi Ben Sira ritorna al punto di partenza, Enoch (v. 14; cfr. 44,16) ed aggiunge Giuseppe (v. 15), Sem, Set e Adamo (v. 16). L'elogio dei padri di Israele si chiude con un respiro universalistico, consono al giudaismo ellenistico, che definisce Adamo «padre del mondo, formato per primo da Dio» (Sap 10,1). La genealogia di Gesù secondo Luca, risalendo oltre Abramo fino ad Adamo, assume questo clima universalistico (Lc 3,38): l'idealizzazione di Adamo – «più su di ogni vivente» – nuova per la letteratura giudaica, sembra preludere allo sviluppo della dottrina messianica del nuovo Adamo (1Cor 15,45-49; Rm 5,14-15).

(cf. PIETRO FRANGELLI, Siracide – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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