📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

1Perché all'Onnipotente non restano nascosti i tempi, mentre i suoi fedeli non vedono i suoi giorni?

2I malvagi spostano i confini, rubano le greggi e le conducono al pascolo; 3portano via l'asino degli orfani, prendono in pegno il bue della vedova. 4Spingono i poveri fuori strada, tutti i miseri del paese devono nascondersi. 5Ecco, come asini selvatici nel deserto escono per il loro lavoro; di buon mattino vanno in cerca di cibo, la steppa offre pane per i loro figli. 6Mietono nel campo non loro, racimolano la vigna del malvagio. 7Nudi passano la notte, senza vestiti, non hanno da coprirsi contro il freddo. 8Dagli acquazzoni dei monti sono bagnati, per mancanza di rifugi si aggrappano alle rocce. 9Strappano l'orfano dal seno della madre e prendono in pegno il mantello del povero. 10Nudi se ne vanno, senza vestiti, e sopportando la fame portano i covoni. 11Sulle terrazze delle vigne frangono le olive, pigiano l'uva e soffrono la sete. 12Dalla città si alza il gemito dei moribondi e l'anima dei feriti grida aiuto, ma Dio non bada a queste suppliche.

13Vi sono di quelli che avversano la luce, non conoscono le sue vie né dimorano nei suoi sentieri. 14Quando non c'è luce si alza l'omicida per uccidere il misero e il povero; nella notte va in giro come un ladro. 15L'occhio dell'adultero attende il buio e pensa: “Nessun occhio mi osserva!”, e si pone un velo sul volto. 16Nelle tenebre forzano le case, mentre di giorno se ne stanno nascosti: non vogliono saperne della luce; 17infatti per loro l'alba è come spettro di morte, poiché sono abituati ai terrori del buio fondo.

18Fuggono veloci sul filo dell'acqua; maledetta è la loro porzione di campo sulla terra, non si incamminano più per la strada delle vigne. 19Come siccità e calore assorbono le acque nevose, così il regno dei morti il peccatore. 20Lo dimenticherà il seno materno, i vermi lo gusteranno, non sarà più ricordato e l'iniquità sarà spezzata come un albero. 21Maltratta la sterile che non genera, alla vedova non fa alcun bene. 22Con la sua forza egli trascina i potenti, risorge quando già disperava della vita. 23Dio gli concede sicurezza ed egli vi si appoggia, ma i suoi occhi sono sopra la sua condotta. 24Salgono in alto per un poco, poi non sono più, sono abbattuti, come tutti sono troncati via, falciati come la testa di una spiga.

25Non è forse così? Chi può smentirmi e ridurre a nulla le mie parole?“. _________________ Note

**24,2 ** spostano i confini: per ampliare i propri terreni. Era considerato un grave crimine (Dt 19,14; Pr 22,28; 23,10).

**24,18-24 probabilmente questi versetti, che descrivono la forza del giudizio divino, erano in origine inseriti nei discorsi degli amici di Giobbe, poiché qui sembrano interrompere la riflessione sulla situazione dell’empio, che Giobbe vede coronata dal successo.

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Approfondimenti

vv. 24,1. A questo punto Giobbe riprende la questione più ampia del benessere incontrastato degli empi, già dominante nel suo precedente discorso (cfr. 21,7-33).

vv. 2-12. Giobbe incalza nell'accusa e descrive le colpe efferate di cui sono responsabili i malvagi, essi che godono del favore divino. Pertanto enuncia in dettaglio innanzitutto le ingiustizie sociali perpetrate dagli empi. Ma questo modo ingiusto di agire, Dio non lo reputa un'ignominia (v. 12), o, secondo l'altra possibilità di lettura del testo, Dio non presta attenzione al grido dei miseri che periscono per le angherie dei malvagi. Giobbe dunque, ancora, denuncia: Dio non prende posizione, Dio non interviene.

vv. 13-17. Fra i malvagi c'è una differente tipologia a seconda del crimine: l'assassino, il ladro, l'adultero (cfr. Es 20,13-15), ma essi hanno in comune la ribellione e il rifiuto della luce mentre cercano, operano e dimorano indisturbati (cfr. al contrario Sal 139,11-12) nell'ombra, nelle tenebre. In 24,13, benché nel termine «luce» prevalga il senso proprio anche per lo stretto rapporto con ciò che segue, tuttavia non si può fare a meno di ascoltare un sottile richiamo simbolico a Dio (cfr. Sal 112,4) o alla sua parola (cfr. Sal 119,105; Prv 6,23).

vv. 18-24. Questa sezione è soggetta a diverse, contrastanti valutazioni. Essa contiene la descrizione della sorte infausta dell'empio che Giobbe ha presentato nel precedente discorso (cfr. 21,25) come evenienza per alcuni e non come sicuro castigo per tutti i malvagi, così come pensano, in modo unanime, gli amici. Pertanto alcuni interpreti hanno ritenuto che tale unità di argomentazione sia fuori posto e l'hanno trasposta più avanti, attribuendola a Bildad o a Sofar. Sicuramente il testo presenta alcune asperità, ma escludiamo che per questo esso debba essere assegnato a qualcuno degli amici. Le forme verbali e la costruzione sintattica consentono varie possibilità di interpretazione. Giobbe qui riprende il motivo della fine del malvagio con maggiori dettagli; è la fine tragica di cui egli ha sentito raccontare, o che ha potuto constatare per alcuni, ma non per tutti i malfattori, o che si auspica avvenga e che possa vedere. Ma, soprattutto, ciò che suscita lo sconcerto di Giobbe è il comportamento di Dio che usa tanta differenza e persino sostiene gli empi, acconsente alla loro prosperità, benché egli veda la loro condotta (v. 23) depravata e deprecabile. Tuttavia la prestanza dei malvagi è effimera perché sopraggiunge anche per loro la morte, che rende tutti uguali (v. 24; cfr. 3,17-19; 21,26).

vv. 25. Giobbe conclude lanciando una sfida agli amici, ma lo stesso lettore ne è interpellato. Preso dal turbamento e dallo sconcerto, Giobbe ha acuito la sua provocazione e l'accusa a Dio, e preme sempre più per una risposta.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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RISPOSTA DI GIOBBE A ELIFAZ 1Giobbe prese a dire:

2“Anche oggi il mio lamento è amaro e la sua mano pesa sopra i miei gemiti. 3Oh, potessi sapere dove trovarlo, potessi giungere fin dove risiede! 4Davanti a lui esporrei la mia causa e avrei piene le labbra di ragioni. 5Conoscerei le parole con le quali mi risponde e capirei che cosa mi deve dire. 6Dovrebbe forse con sfoggio di potenza contendere con me? Gli basterebbe solo ascoltarmi! 7Allora un giusto discuterebbe con lui e io per sempre sarei assolto dal mio giudice. 8Ma se vado a oriente, egli non c'è, se vado a occidente, non lo sento. 9A settentrione lo cerco e non lo scorgo, mi volgo a mezzogiorno e non lo vedo. 10Poiché egli conosce la mia condotta, se mi mette alla prova, come oro puro io ne esco. 11Alle sue orme si è attaccato il mio piede, al suo cammino mi sono attenuto e non ho deviato; 12dai comandi delle sue labbra non mi sono allontanato, ho riposto nel cuore i detti della sua bocca. 13Se egli decide, chi lo farà cambiare? Ciò che desidera egli lo fa. 14Egli esegue il decreto contro di me come pure i molti altri che ha in mente. 15Per questo davanti a lui io allibisco, al solo pensarci mi viene paura. 16Dio ha fiaccato il mio cuore, l'Onnipotente mi ha frastornato; 17ma non è a causa della tenebra che io perisco, né a causa dell'oscurità che ricopre il mio volto.

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Approfondimenti

RISPOSTA DI GIOBBE A ELIFAZ 23,1-24,25 In questo nuovo discorso Giobbe non si rivolge direttamente a Elifaz o agli amici, benché non manchino considerazioni contrarie alle loro asserzioni. Giobbe riprende e sviluppa due questioni fondamentali: il suo anelito di trovare Dio per contendere apertamente con lui (c. 23); la prosperità dei malvagi raggiunta con l'oppressione dei poveri, ma di tutto ciò Dio pare non occuparsi (c. 24).

vv. 23,2-7. Giobbe vorrebbe trovare Dio, recarsi nella dimora di Dio, per esporgli direttamente la sua causa e i suoi argomenti e conoscere e comprendere le ragioni di Dio. È significativo che Giobbe adesso attende dal confronto con Dio, prima di tutto, non una sentenza (come per es. in 9,20.28; 10,2; 13,18), che stabilisca chi ha ragione e chi ha torto, ma una rivelazione, vuole che Dio gli faccia conoscere ciò che a lui sfugge e che ora lo inquieta. Egli pensa pure che Dio in tale sede non prevarrà su di lui, non si avvarrà della sua forza per contendere (v. 6; cfr. 7,14; 9,4.19.34; 13,21), e quindi Giobbe potrà parlare apertamente certo di essere ascoltato. Potrà dare prova della sua integrità ed essere liberato da un giudizio che incombe su di lui con tanto impeto (v. 7).

vv. 8-12. Giobbe rivolge la sua ricerca in tutte le direzioni senza trovare Dio (vv. 8-9). Un accento particolare è posto sull'assenza di comprensione e di percezione, anche visiva, da parte di Giobbe (cfr. 9,11). Si è detto a questo proposito che Dio non può essere trovato in un luogo perché egli è in ogni luogo (cfr. Am 9,2-3; Sal 139,7-10), e talvolta ci si è anche stupiti del fatto che Giobbe non menzioni alcuna istituzione religiosa, cultuale. Ma Giobbe non nega né l'intervento né la presenza di Dio nel mondo. E altrove spesso ha riferito l'assedio di Dio nei suoi confronti (cfr. 3,23; 7,17-20; 16,7-14; ecc.). Ciò che qui è in questione è la relazione tra Dio e Giobbe, il fatto che Dio si mostri suo avversario (cfr. 10,2b), il turbamento che scaturisce dal nascondimento di Dio (cfr. 13,24; Sal 30,8). Per questo Giobbe desidera tanto trovare (v. 3), vedere Dio (v. 9; cfr. 19,26-27) e conoscerne gli argomenti. Tale appassionato anelito non rimarrà a lungo disatteso (cfr. 42,5). Ma da dove deriva la sicurezza con cui Giobbe pensa che Dio dopo averlo ascoltato lo libererà (v. 7), che egli saprà resistere alla prova (v. 10), e che la sua condotta è sostanzialmente integerrima (vv. 11-12)? C'è chi ha pensato che in tal modo Giobbe si colloca sullo stesso piano degli amici, e confida più sulla propria giustizia che su quella divina, e che dunque la fiducia di Giobbe in Dio è ancora in germe. Tuttavia l'esame a cui Giobbe sottopone la propria vita evidenzia il suo impegno costante per la fedeltà a Dio (cfr. 13,15; 16,17; 23,11-12; 29; 31), senza escludere il peccato (cfr. 7,20-21; 10,6; 13,26). Pertanto, in questa situazione in cui la sua stessa vita è compromessa, egli intende non rinunciare alla fedeltà a Dio (cfr. per es. 6,10). Nonostante tutto (cfr. 10,13), malgrado il silenzio di Dio, Giobbe vuole persistere nella fedeltà, in un tenace attaccamento a Dio; confida, non senza conflitto, nella fedeltà incommensurabile del Dio della vita.

vv. 13-17. Ora Giobbe considera l'unicità della determinazione divina (v. 13; cfr. Is 14,24.27; 45,23; 55,10-11) che compie ciò che desidera e opera ciò che ha stabilito, anche riguardo alla sua vicenda, e così gli sembra improponibile che qualcuno possa far recedere Dio da quanto ha disposto (cfr. 9,12; 11,10). Ciò che poco prima Giobbe presentava con certezza, ora è attraversato dal dubbio. Non solo; egli riferisce pure lo sgomento e i sentimenti di paura e spavento che Dio incute in lui (vv. 15-16). Dunque è Dio che provoca in Giobbe, e non i peccati, come voleva Elitaz (cfr. 22,10), uno sconvolgimento cosi lacerante. Tuttavia egli è colpito da Dio ma non distrutto (v. 17), e soprattutto ha una forte coscienza di tutto ciò, del ritrarsi di Dio o, forse, del fatto che Dio lo cerca, ma in un modo che gli rimane incomprensibile.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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TERZO DISCORSO DI ELIFAZ 1Elifaz di Teman prese a dire:

2“Può forse l'uomo giovare a Dio, dato che il saggio può giovare solo a se stesso? 3Quale interesse ne viene all'Onnipotente che tu sia giusto, o che vantaggio ha, se tieni una condotta integra? 4È forse per la tua pietà che ti punisce e ti convoca in giudizio? 5O non piuttosto per la tua grande malvagità e per le tue iniquità senza limite?

6Senza motivo infatti hai angariato i tuoi fratelli e delle vesti hai spogliato gli ignudi. 7Non hai dato da bere all'assetato e all'affamato hai rifiutato il pane. 8Ai prepotenti davi la terra e vi abitavano solo i tuoi favoriti. 9Le vedove rimandavi a mani vuote e spezzavi le braccia degli orfani. 10Ecco perché intorno a te ci sono lacci e un improvviso spavento ti sorprende, 11oppure l'oscurità ti impedisce di vedere e la piena delle acque ti sommerge.

12Ma Dio non è nell'alto dei cieli? Guarda quanto è lontano il vertice delle stelle! 13E tu dici: “Che cosa ne sa Dio? Come può giudicare attraverso l'oscurità delle nubi? 14Le nubi gli fanno velo e non vede quando passeggia sulla volta dei cieli”. 15Vuoi tu seguire il sentiero di un tempo, già battuto da persone perverse, 16che prematuramente furono portate via, quando un fiume si era riversato sulle loro fondamenta? 17Dicevano a Dio: “Allontànati da noi! Che cosa può fare a noi l'Onnipotente?“. 18Eppure è lui che ha riempito le loro case di beni, mentre il consiglio dei malvagi è lontano da lui! 19I giusti vedranno e ne gioiranno e l'innocente riderà di loro: 20“Finalmente sono annientati i loro averi e il fuoco ha divorato la loro opulenza!“.

21Su, riconcìliati con lui e tornerai felice, e avrai nuovamente il tuo benessere. 22Accogli la legge dalla sua bocca e poni le sue parole nel tuo cuore. 23Se ti rivolgerai all'Onnipotente, verrai ristabilito. Se allontanerai l'iniquità dalla tua tenda, 24se stimerai come polvere l'oro e come ciottoli dei fiumi l'oro di Ofir, 25allora l'Onnipotente sarà il tuo oro, sarà per te come mucchi d'argento. 26Allora sì, nell'Onnipotente ti delizierai e a Dio alzerai il tuo volto. 27Lo supplicherai ed egli ti esaudirà, e tu scioglierai i tuoi voti. 28Quando deciderai una cosa, ti riuscirà e sul tuo cammino brillerà la luce, 29perché egli umilia l'alterigia del superbo, ma soccorre chi ha lo sguardo dimesso. 30Egli libera chi è innocente, e tu sarai liberato per la purezza delle tue mani”. _________________ Note

22,24 Ofir: regione non meglio definita e di incerta localizzazione, celebre per il suo oro (vedi anche 28,16).

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Approfondimenti

TERZO DISCORSO DI ELIFAZ (22,1-30) Comincia l'ultima fase della Disputa con il consueto ordine degli interventi che però non verrà completato. Elifaz reagisce e risponde alla sfida inaugurata da Giobbe nel discorso appena compiuto. Così dopo aver affermato che Dio non trae alcun vantaggio dalla giustizia dell'uomo (vv. 2-5), Elifaz formula in modo diretto delle accuse a Giobbe, colpevole di presunte ingiustizie sociali (vv. 6-11) e di aver relegato Dio in un cielo così alto dal quale non si occupa dell'uomo (vv. 12-20). Mentre nei discorsi precedenti Elifaz aveva concluso in modo minaccioso, stavolta (vv. 21-30) rivolge a Giobbe un'appassionata esortazione a far ritorno a Dio.

vv. 2-5. L'esordio di Elifaz, caratterizzato da una serie di domande retoriche, è incentrato sui vantaggi della relazione e i motivi della contesa fra Dio e Giobbe. Pertanto egli sostiene che Dio non trae alcun profitto dal fatto che l'uomo, che Giobbe, sia giusto (vv. 2-3). L'idea viene espressa con il ripetuto uso del verbo skn, «giovare» (cfr. anche v. 21 e il precedente discorso di Elifaz in 15,3). Ci sono almeno due considerazioni che scaturiscono da questo avvio. La prima attiene all'insistenza di Elifaz sul disinteresse di Dio per la venerazione dell'uomo, che si accorda con la totale sfiducia che egli attribuisce a Dio nei confronti dell'uomo (cfr. 4,17-21; 15,15-16), e che qui egli afferma con tanta determinazione contro l'attesa, manifestata da Giobbe, di un intervento decisivo di Dio come suo gō’ēl (cfr. 19,25). La seconda riguarda la concezione utilitaristica, professata da Elifaz, del rapporto dell'uomo con Dio. Egli ritiene infatti che l'uomo, nel corrispondere alle esigenze connesse alla relazione con Dio, si procura il proprio beneficio (cfr. anche 21,15). È la posizione di Elifaz, e non di Giobbe, che pare dunque confermare la presunzione del Satan (cfr. 1,9), e che si rivela esponente di una fede interessata nei confronti di Dio. Ed Elifaz continua, prospettando che se Dio non ha alcun vantaggio dalla giustizia dell'uomo, neppure contende con l'uomo, con Giobbe, per il suo timore (v. 4; cfr. 1,1.8; 2,3; 4,6). Bensì Dio viene in giudizio a causa del grande peccato di Giobbe (v. 5). Non poteva essere diversamente nella logica di Elifaz, puntigliosamente argomentata e difesa in tutta la Disputa. La sventura che ha colpito Giobbe è conseguente e dimostra la sua colpa. Non si può fare a meno di notare l'ironia dell'autore sulle convinzioni dei suoi personaggi, e in questo caso di Elifaz, a cui anche il lettore partecipa. Infatti, dal Prologo emerge che Dio acconsente alla prova su Giobbe proprio sul timore che egli ha di Dio e sulla sua integrità, per verificarne l'autenticità e la gratuità. Tale dissonanza fra convincimenti e realtà (in questo caso, del racconto), ricorda che nella costruzione del significato intorno ai fatti, la prospettiva dell'uomo è parziale. Pertanto, solo a partire da questa consapevolezza si apre la possibilità di apprendere dagli eventi e avviarsi verso una conoscenza più profonda, oltre quella precostituita, e pertanto anche più congruente con la realtà e la complessità delle relazioni coinvolte. Un insegnamento in tal senso proviene dall'appassionato e tormentato itinerario di Giobbe che, in circostanze particolarmente avverse, esprime e si inoltra verso nuove dimensioni della relazione con Dio.

vv. 6-11. Elifaz enumera quindi le ingiustizie sociali delle quali Giobbe, a suo avviso, si è reso colpevole. Il fatto che un tempo Giobbe abbia goduto del benessere è indice, per Elifaz, che esso è stato ottenuto in modo fraudolento e con l'oppressione dei più deboli della società. Elifaz considera quella di Giobbe una ricchezza accumulata a detrimento dei poveri (cfr. 20,19-20). Tale denuncia presenta uno stile che ricorda numerosi detti profetici (cfr. Am 2,8; Is 58,7; Ez 18,7.16; Mic 2,1-2).

vv. 12-20. Non ancora soddisfatto, Elifaz sviluppa e completa la sua accusa con rilievi sull'atteggiamento di Giobbe verso Dio. Pertanto, capovolgendo anche i termini dell'ultimo discorso dell'amico (c. 21), egli imputa a Giobbe di aver relegato Dio in un cielo così alto dal quale non può vedere né conoscere quel che accade sulla terra (v. 12-14; così come pensano gli empi: Is 29,15; Ger 23,23-24; Ez 8,12; Sal 10,11; 73,11; 94,7), Elifaz comprende o riduce la protesta di Giobbe come negazione dell'intervento di Dio nella storia: Dio trascura o è indifferente alle vicende umane, a motivo della sua trascendenza che lo separa dal mondo. Preso dalle sue certezze, non si accorge che invece Giobbe ha messo in evidenza il fatto che l'uomo non conosce i criteri dell'agire di Dio nella storia, perciò si appella direttamente a Dio e, nonostante la tragedia, confida in lui. Elifaz travisa a tal punto il pensiero di Giobbe che lo avverte (vv. 15-20) di non ripercorrere il sentiero dei malvagi i quali hanno allontanato Dio dalla loro vita e non hanno riconosciuto i benefici con cui Dio ha riempito le loro case. Essi sono stati annientati.

vv. 21-30. Elifaz conclude il suo discorso con un'intensa esortazione a Giobbe, alla riconciliazione e al ritorno a Dio. All'interno della sezione è significativo l'invito di Elifaz a Giobbe ad accogliere la torah e a imprimerla nell'intimo (v. 22; cfr. Dt 6,6; 11,18) che egli stesso gli espone, proponendosi ancora una volta come mediatore di un insegnamento divino (cfr. 4,12-21; 15,11). Inoltre Elifaz include nella promessa a Giobbe anche il recupero dell'azione espiatrice per la sua giustizia e integrità (v. 30). Si noti bene: Dio è il soggetto, Dio salva, libera colui che ha peccato. Giobbe ha in passato operato l'espiazione per i figli (cfr. 1,5) e, in modo impensabile per Elifaz, Dio chiederà lo stesso da Giobbe per gli amici (cfr. 42,7-9). La sofferenza di Giobbe continua a rimanere per Elifaz la prova della sua colpevolezza. Elifaz ha giustificato il giudizio di Dio con l'enumerazione del peccati di Giobbe. E come nel suo primo discorso (cc. 4-5), Elifaz ha avvertito ed esortato Giobbe a ravvedersi come sicura garanzia di salvezza. Avvinto nelle sue rigide convinzioni, Elifaz non coglie o rifiuta il problema sollevato da Giobbe, non sull'intervento di Dio nella storia, ma sulla frammentaria conoscenza che l'uomo ha di esso.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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RISPOSTA DI GIOBBE A SOFAR 1Giobbe prese a dire:

2“Ascoltate bene la mia parola e sia questo almeno il conforto che mi date. 3Tollerate che io parli e, dopo che avrò parlato, deridetemi pure. 4Mi lamento forse di un uomo? E perché non dovrei perdere la pazienza? 5Statemi attenti e resterete stupiti, mettetevi la mano sulla bocca. 6Se io ci penso, rimango turbato e la mia carne è presa da un brivido.

7Perché i malvagi continuano a vivere, e invecchiando diventano più forti e più ricchi? 8La loro prole prospera insieme con loro, i loro rampolli crescono sotto i loro occhi. 9Le loro case sono tranquille e senza timori; il bastone di Dio non pesa su di loro. 10Il loro toro monta senza mai fallire, la mucca partorisce senza abortire. 11Mandano fuori, come un gregge, i loro ragazzi e i loro figli danzano in festa. 12Cantano al ritmo di tamburelli e di cetre, si divertono al suono dei flauti. 13Finiscono nel benessere i loro giorni e scendono tranquilli nel regno dei morti.

14Eppure dicevano a Dio: “Allontànati da noi, non vogliamo conoscere le tue vie. 15Chi è l'Onnipotente, perché dobbiamo servirlo? E che giova pregarlo?“. 16Essi hanno in mano il loro benessere e il consiglio degli empi è lontano da lui. 17Quante volte si spegne la lucerna degli empi, e la sventura piomba su di loro, e infligge loro castighi con ira? 18Sono essi come paglia sollevata al vento o come pula in preda all'uragano?

19“Dio – si dirà – riserva il castigo per i figli dell'empio”. No, lo subisca e lo senta lui il castigo! 20Veda con i suoi occhi la sua rovina e beva dell'ira dell'Onnipotente! 21Che cosa gli importa infatti della sua casa quando è morto, quando il numero dei suoi mesi è finito? 22S'insegna forse la scienza a Dio, a lui che giudica gli esseri celesti?

23Uno muore in piena salute, tutto tranquillo e prospero; 24i suoi fianchi sono coperti di grasso e il midollo delle sue ossa è ben nutrito. 25Un altro muore con l'amarezza in cuore, senza aver mai assaporato la gioia. 26Eppure entrambi giacciono insieme nella polvere e i vermi li ricoprono.

27Ecco, io conosco bene i vostri pensieri e i progetti che tramate contro di me! 28Infatti voi dite: “Dov'è la casa del nobile, dove sono le tende degli empi?“. 29Perché non avete chiesto a chi ha viaggiato e non avete considerato attentamente le loro prove? 30Cioè che nel giorno della sciagura è risparmiato il malvagio e nel giorno dell'ira egli trova scampo? 31Chi gli rimprovera in faccia la sua condotta e di quel che ha fatto chi lo ripaga? 32Egli sarà portato al sepolcro, sul suo tumulo si veglia 33e gli sono lievi le zolle della valle. Camminano dietro a lui tutti gli uomini e innanzi a sé ha una folla senza numero.

34E voi vorreste consolarmi con argomenti vani! Nelle vostre risposte non c'è altro che inganno”. _________________ Note

21,17 La lucerna è immagine di benessere e della benedizione di Dio (vedi anche 29,3).

21,20 e beva dell’ira: l’immagine della coppa, dalla quale si beve il vino della collera di Dio, è frequente nella Bibbia (ad es. Sal 75,9; Is 51,17; Ger 25,15).

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Approfondimenti

RISPOSTA DI GIOBBE A SOFAR (21,1-34) Sofar, ma anche Elifaz e Bildad, in questo secondo ciclo di discorsi, non hanno fatto altro che insistere, con raffinate variazioni, sull'inconsistenza del benessere del malvagio e sull'ineluttabile rovina predisposta per lui da Dio. Giobbe ora risponde, ma non difende più la sua innocenza, bensì ribatte e confuta le asserzioni degli amici. Così, inizialmente, Giobbe sollecita la loro attenzione (vv. 2-6) e descrive poi l'agiatezza e la soddisfazione dei malvagi (vv. 7-13), dove è escluso ogni intervento di Dio (vv. 14-18). Giobbe rimarca pure che il castigo dovrebbe raggiungere personalmente l'empio e non i discendenti (vv. 19-22), e osserva che la morte non costituisce affatto una punizione (vv. 23-26). Nella sventura l'empio è risparmiato e viene onorato anche nella sepoltura (vv. 27-33). Pertanto, alla prova dei fatti, le affermazioni degli amici si dimostrano, con tutta evidenza, vani argomenti di consolazione (v. 34). La prosperità degli empi non è transitoria e rimane impunita.

vv. 2-6. Giobbe avvia il suo discorso sollecitando l'attenzione degli amici. Egli contende con Dio che, pur conoscendo la sua rettitudine, non gli risponde, per questo egli non può tacere la sua amarezza. E gli amici dovrebbero rispettare e tacere, invece di intromettersi in questa contesa.

vv. 7-13. Giobbe sviluppa la questione enunciata nel v. 7 (cfr. 12,6) contestando la logica degli amici, e, indirettamente, continuando a interpellare Dio. Giobbe attinge dall'esperienza che la prosperità degli empi si manifesta nella sicurezza che godono con la loro discendenza, nel benessere della loro casa non turbata da alcuna correzione divina (espressa con la locuzione «il bastone di Dio», v. 9, cfr. 9,34); essi sono longevi, e muoiono in un istante, senza sofferenze. Tutto ciò contrasta con la fine prematura e disastrosa del malvagio, con la distruzione radicale delle sue ricchezze e della sua discendenza, sostenuta con tanta fermezza dagli amici.

vv. 14-18. Giobbe ritiene che gli empi godano dell'agiatezza nonostante abbiano apertamente respinto Dio e rifiutato di conoscere le sue vie, nonostante abbiano disdegnato di servirlo non intravedendo alcun vantaggio. Il rifiuto di servire (‘bd) Dio consiste evidentemente non solo nell'assenza del servizio cultuale, ma nel rifiuto di riconoscere Dio (e JHWH secondo la tradizione biblica, cfr. Dt 10,12) come Signore di tutta quanta la propria esistenza. E quale aggravante, il rifiuto viene connesso, nella riflessione degli empi riferita da Giobbe, alla mancanza di convenienza, di tornaconto. Tale religione dell'interesse è anche quella supposta dal Satan nel Prologo (cfr. 1,9), ma essa non ha alcuna presa tra gli empi che già dispongono di ogni soddisfazione.

vv. 19-22. Giobbe nega anche l'utilità che Dio colpisca la colpa del padre nei discendenti (v. 19a; secondo l'antica concezione riportata in Es 20,5; Dt 5,9), a cui gli amici hanno fatto riferimento come elemento supplementare nel castigo dell'empio (cfr. 5,4; 20,10). Infatti per il malvagio non ha alcuna importanza ciò che accadrà dopo la sua morte (v. 21). Giobbe invoca, al contrario (v. 19b), un castigo che colpisca l'empio personalmente (in sintonia con le acquisizioni dell'epoca esilica e postesilica, cfr. Ger 31,29-30; Ez 18,2.20; Lam 5,7), opponendosi a qualsiasi prolungamento di quella dissociazione nella storia fra causa ed effetto, fra colpa e punizione.

vv. 23-26. Tra i morti non c'è traccia delle inspiegabili differenze che hanno caratterizzato gli uomini durante la vita. La morte elimina le differenze (cfr. 3,13-19), ma non costituisce una punizione. Questa prospettiva appare una prova incontrovertibile per Giobbe a sostegno della sua argomentazione.

vv. 27-34. Giobbe ribadisce che sul malvagio non si abbatte, ineluttabile, la sventura (v. 30; contro 15,30; 18,14; 20,22). Addirittura dice che nel giorno dell'ira l'empio gode quasi di una protezione, è risparmiato. In tutto questo non viene menzionato Dio, ma il riferimento al «giorno dell'ira» («della sciagura») lo comprende. Con tale sintagma si richiama infatti la tradizione connessa allo yôm JHWH, «il giorno del Signore» (cfr. Is 13,6.9; Gl 1,15; 2,1; Am 5,18.20; Sof 1,7.14; Ml 3,23; ecc.), ma denominato, anche a motivo del contenuto, «il giorno dell'ira del Signore» (cfr. Sof 1,18; 2,2.3; ecc.), e designa il giudizio di JHWH al quale non ci si può in alcun modo sottrarre. Esso era rivolto contro i nemici di Dio e di Israele (cfr. Is 2,12-17; 13,6.9; Ger 46,10; Ez 30,3; ecc.), ma anche contro Israele (cfr. Am 5,18-20; Sof 1,14-18; ecc.). Dopo l'esilio, con un accentuazione sapienziale, si pensava che tale giudizio di Dio avrebbe assicurato il trionfo dei giusti e la rovina degli empi (cfr. Ml 3,19-21; Prv 11,4). Le parole di Giobbe (v. 30; ma anche cfr. 20,28) riflettono questa fase più recente di tale concezione, e tuttavia contengono un'intensa provocazione, un inaudito paradosso. Infatti nel giorno dell'ira, che, secondo la tradizione avrebbe arrecato la sventura ai nemici di Dio e la salvezza a coloro che gli appartengono, Giobbe rileva, invece, che gli empi sono risparmiati. In tal modo l'affermazione contiene un'implicita accusa a Dio che tralasciando gli empi, ancora una volta li favorisce (cfr. 9,24; 10,3; 12,6). E la tensione non si attenua poiché egli prosegue insistendo sull'impunità di cui gode il malvagio. La domanda presente nel v. 31a, può avere come riferimento Dio (chi annuncerà, chi denuncerà a Dio la condotta dell'empio?), o l'empio (chi contesterà, chi chiederà conto all'empio della sua condotta?). In entrambi i casi tuttavia non si verifica una rigida correlazione fra resoconto delle colpe e castigo. Ciò lascia aperta la questione riguardo a quando l'espiazione della colpa potrà avvenire, ma soprattutto, per Giobbe, questo è evidente: l'empio gode, senza timore, di tutto il benessere durante una lunga vita ed è onorato fino alla sepoltura. Dunque, tutti gli argomenti degli amici per consolare Giobbe si dimostrano irrimediabilmente vani e ingannevoli (v. 34).

Con questo discorso Giobbe mette in discussione radicalmente le certezze degli amici, le capovolge, le sconvolge, per giungere a evidenziare, non senza audaci richiami, che l'uomo non conosce né i criteri, né i tempi del giudizio di Dio. Tale discorso conclude pure il secondo ciclo di interventi, e apre l'ultimo. Questa fase della Disputa ha visto l'inasprimento delle posizioni, ma anche l'intensità di cui è capace la fede, quando, come per Giobbe, Dio, il Dio di Israele, è la ragione fondamentale di vita.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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SECONDO DISCORSO DI SOFAR 1Sofar di Naamà prese a dire:

2“Per questo i miei pensieri mi spingono a rispondere e c'è fretta dentro di me. 3Ho ascoltato un rimprovero per me offensivo, ma uno spirito, dal mio interno, mi spinge a replicare.

4Non sai tu che da sempre, da quando l'uomo fu posto sulla terra, 5il trionfo degli empi è breve e la gioia del perverso è di un istante? 6Anche se si innalzasse fino al cielo la sua statura e il suo capo toccasse le nubi, 7come il suo sterco sarebbe spazzato via per sempre e chi lo aveva visto direbbe: “Dov'è?”. 8Svanirà come un sogno, e non lo si troverà più, si dileguerà come visione notturna. 9L'occhio avvezzo a vederlo più non lo vedrà né più lo scorgerà la sua casa. 10I suoi figli dovranno risarcire i poveri e le sue stesse mani restituiranno le sue ricchezze. 11Le sue ossa erano piene di vigore giovanile, con lui ora giacciono nella polvere.

12Se alla sua bocca fu dolce il male, se lo teneva nascosto sotto la sua lingua, 13assaporandolo senza inghiottirlo, se lo tratteneva in mezzo al suo palato, 14il suo cibo gli si guasterà nelle viscere, gli si trasformerà in veleno di vipere. 15I beni che ha divorato, dovrà vomitarli, Dio glieli caccerà fuori dal ventre. 16Veleno di vipere ha succhiato, una lingua di aspide lo ucciderà. 17Non vedrà più ruscelli d'olio, fiumi di miele e fior di panna; 18darà ad altri il frutto della sua fatica senza mangiarne, come non godrà del frutto del suo commercio, 19perché ha oppresso e abbandonato i miseri, ha rubato case invece di costruirle; 20perché non ha saputo calmare il suo ventre, con i suoi tesori non si salverà. 21Nulla è sfuggito alla sua voracità, per questo non durerà il suo benessere. 22Nel colmo della sua abbondanza si troverà in miseria; ogni sorta di sciagura piomberà su di lui.

23Quando starà per riempire il suo ventre, Dio scaglierà su di lui la fiamma del suo sdegno e gli farà piovere addosso brace. 24Se sfuggirà all'arma di ferro, lo trafiggerà l'arco di bronzo. 25Se estrarrà la freccia dalla schiena, una spada lucente gli squarcerà il fegato. Lo assaliranno i terrori; 26le tenebre più fitte gli saranno riservate. Lo divorerà un fuoco non attizzato da uomo, esso consumerà quanto è rimasto nella sua tenda. 27Riveleranno i cieli la sua iniquità e la terra si alzerà contro di lui. 28Sparirà il raccolto della sua casa, tutto sarà disperso nel giorno della sua ira.

29Questa è la sorte che Dio riserva all'uomo malvagio, l'eredità che Dio gli ha decretato”.

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Approfondimenti

SECONDO DISCORSO DI SOFAR (20,1-29) Sofar prosegue le argomentazioni degli amici che lo hanno preceduto e si occupa della sorte del malvagio, ma dal punto di vista della brevità e illusorietà del suo benessere. Il discorso si apre con la giustificazione della sua necessità di parlare provocata dalle parole di Giobbe (vv. 2-3). Egli poi argomenta e sostiene (vv. 4-11) il carattere provvisorio della prosperità dei malvagi. Con una metafora sul cibo (vv. 12-22) sviluppa il concetto per cui il malvagio non trattiene ciò di cui si è appropriato, perciò la sua ricchezza non ha consistenza né durata. Infine ribadisce che l'empio non può sottrarsi al giudizio divino che si manifesterà contro di lui (vv. 23-28) e conclude (v. 29) proclamando che la sorte dell'empio da lui descritta è quella decretata da Dio stesso. Sofar, dunque, non è da meno degli amici nel minacciare duramente Giobbe.

vv. 2-3. Sofar risponde non solo perché provocato ma anche colpito dalla correzione umiliante di Giobbe agli amici. Dunque, non può trattenersi dal rispondere, ma nel farlo è mosso dall'indignazione. Sofar non avverte alcuna differenza nell'argomentazione di Giobbe. Ignora completamente l'appello di Giobbe (cfr. 19,21), parla per difendere la propria onorabilità, non si accorge della sofferenza e del travaglio dell'amico, le sue parole si preannunciano appesantite dalla rigidità con cui lo ha ascoltato.

vv. 4-11. Sofar presenta la sua tesi come una conoscenza risaputa fin dall'origine dell'uomo sulla terra, dunque dall'inizio della storia. Essa asserisce che il trionfo dei malvagi è breve e la gioia dell'empio è fugace (v. 5; cfr. Sal 73,19). La prosperità dei malvagi è apparente, non dura, l'empio svanisce come un sogno (v. 8; cfr. Sal 73,20). Colui che tanto si era innalzato diventa irriconoscibile per chi lo aveva conosciuto (vv. 6-7; cfr. Sal 37,35-36; Is 14,13; Ez 31,10). Egli e i suoi figli dovranno risarcire e restituire ai poveri le ricchezze accumulate in modo indebito e fraudolento. L'empio avrà una morte prematura (cfr. Sal 55,24) e la forza della sua giovinezza giacerà con lui nella polvere.

vv.12-22. Domina in questa sezione una metafora connessa all'alimentazione con il relativo vocabolario proprio di tale campo semantico. Con essa Sofar descrive la trasformazione in veleno del male che il malvagio ha tanto assaporato in bocca (vv. 12-14). Di sua iniziativa, ma anche con l'intervento di Dio, il suo ventre respingerà fuori i beni di cui si è appropriato (vv. 15-16). L'empio non conoscerà più l'agiatezza né la bontà che scaturisce nel mondo, dove l'idea di intensa fertilità è suggerita con la combinazione del linguaggio figurato e iperbolico (v. 17; cfr. 29,6). Peraltro concorrono nel delineare tale immagine due elementi che di solito designano la terra promessa (come il luogo dove scorre latte e miele, cfr. Es 3,8). Il malvagio sarà privato anche del frutto delle sue fatiche a motivo del risarcimento a cui deve provvedere per ciò che ha rubato (v. 18). Sofar adduce due cause scatenanti tale inevitabile sciagura: l'oppressione, unita all'abbandono dei poveri, e l'avidità (v. 19-20). Con la prima Sofar mette in rilievo l'ingiustizia sociale perpetrata dal malvagio con la violenza verso i poveri (cfr. Prv 14,31; 22,16; 28,3) e l'omissione di aiuto. Riguardo all'avidità e alla bramosia Sofar subito soggiunge che con i suoi tesori (cfr. Sal 39,12) l'empio non può salvarsi (cfr. Sal 89,49; Qo 8,8), o, anche, che egli non può conservare tali ricchezze. L'opulenza dell'empio non durerà e sarà volta in miseria all'improvviso, proprio quando non se lo aspetta (vv. 21-22).

vv. 23-28. Il malvagio non potrà sottrarsi in alcun modo al giudizio divino, caratterizzato dall'ira di Dio (vv. 23.28; cfr. 21,30; Am 5,18-20; Sof 1,14-18; Ml 3,19-21), la quale si manifesta nella saetta che ferisce mortalmente il corpo del malvagio (vv. 24-25), nel fuoco che consumerà quanto è rimasto nella sua dimora (v. 26), con il cielo e la terra che testimoniano contro di lui (v. 27), mentre si realizzerà la dispersione e l'estinzione di tutto quanto gli era appartenuto (v. 28). L'efficacia di tale evocazione si trova nell'aver associato quelle componenti che per Giobbe hanno già una dolorosa realtà, come l'ira di Dio (cfr. 16,9), le saette (cfr. 6,4; 16,13), i terrori (cfr. 9,34; 13,21), il fuoco divorante (cfr. 1,16), l'estendersi delle tenebre, preludio della morte (cfr. 17,13) e della discesa nello ṣɇ'ôl (cfr. 10,21). E mentre Giobbe aveva fatto appello alla terra perché consentisse al suo grido di raggiungere Dio in cielo, (cfr. 16,18-19), Sofar ora (v. 27) annuncia l'iniziativa del cielo e della terra come testimoni attivi contro l'empio.

Sul piano del contenuto anche Sofar, dunque, ha ripreso e contestato l'asserzione di Giobbe sulla sicurezza del malvagio (12,6), sostenendo il carattere precario del benessere dell'empio destinato alla totale rovina. Tuttavia proprio nella descrizione della calamità che colpisce l'empio, come indicazione della sua malvagità, si avvale di alcuni tratti della vicenda di Giobbe e pertanto, sul piano della relazione, insinua e ammonisce l'amico sulla sventura come eredità per il suo peccato.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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RISPOSTA DI GIOBBE A BILDAD 1Giobbe prese a dire:

2“Fino a quando mi tormenterete e mi opprimerete con le vostre parole? 3Sono dieci volte che mi insultate e mi maltrattate in modo sfacciato. 4È poi vero che io abbia sbagliato e che persista nel mio errore? 5Davvero voi pensate di prevalere su di me, rinfacciandomi la mia vergogna? 6Sappiate dunque che Dio mi ha schiacciato e mi ha avvolto nella sua rete. 7Ecco, grido: “Violenza!”, ma non ho risposta, chiedo aiuto, ma non c'è giustizia!

8Mi ha sbarrato la strada perché io non passi e sui miei sentieri ha disteso le tenebre. 9Mi ha spogliato della mia gloria e mi ha tolto dal capo la corona. 10Mi ha distrutto da ogni parte e io sparisco, ha strappato, come un albero, la mia speranza. 11Ha acceso contro di me la sua ira e mi considera come suo nemico. 12Insieme sono accorse le sue schiere e si sono tracciate la strada contro di me; si sono accampate intorno alla mia tenda.

13I miei fratelli si sono allontanati da me, persino i miei familiari mi sono diventati estranei. 14Sono scomparsi vicini e conoscenti, mi hanno dimenticato 15gli ospiti di casa; da estraneo mi trattano le mie ancelle, sono un forestiero ai loro occhi. 16Chiamo il mio servo ed egli non risponde, devo supplicarlo con la mia bocca. 17Il mio fiato è ripugnante per mia moglie e faccio ribrezzo ai figli del mio grembo. 18Anche i ragazzi mi disprezzano: se tento di alzarmi, mi coprono di insulti. 19Mi hanno in orrore tutti i miei confidenti: quelli che amavo si rivoltano contro di me. 20Alla pelle si attaccano le mie ossa e non mi resta che la pelle dei miei denti.

21Pietà, pietà di me, almeno voi, amici miei, perché la mano di Dio mi ha percosso! 22Perché vi accanite contro di me, come Dio, e non siete mai sazi della mia carne?

23Oh, se le mie parole si scrivessero, se si fissassero in un libro, 24fossero impresse con stilo di ferro e con piombo, per sempre s'incidessero sulla roccia! 25Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! 26Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio. 27Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro. Languisco dentro di me.

28Voi che dite: “Come lo perseguitiamo noi, se la radice del suo danno è in lui?“, 29temete per voi la spada, perché è la spada che punisce l'iniquità, e saprete che c'è un giudice”. _________________ Note

19,3 dieci volte: cioè molte volte.

19,22 e non siete mai sazi della mia carne: è un riferimento alla calunnia, che divora il buon nome del prossimo.

19,25 Il redentore (o vendicatore) è Dio stesso, che ristabilisce la giustizia e il diritto violati. Altrove, nel libro di Giobbe, è chiamato testimone e arbitro (16,19-21).

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Approfondimenti

RISPOSTA DI GIOBBE A BILDAD (19,1-29) Nel precedente intervento di Giobbe (cc. 16-17) era dominante lo sconforto, ora riaffiora con forza la sua fiducia fondamentale in Dio. Il nuovo discorso si apre (vv. 2-7) con un rimprovero di Giobbe agli amici che con le loro accuse lo oltraggiano, lo tormentano, mentre ribadisce che è Dio che ha sconvolto la sua vita. Egli descrive poi l'azione devastante di Dio su di lui (vv. 8-12) e intorno a lui (vv. 13-20), e per questo supplica la misericordia degli amici (vv. 21-22). Esprime il desiderio che le sue parole siano scritte per i posteri e ribadisce la sua tenace fiducia nel Dio che salva (vv. 23-27). A conclusione, Giobbe interpella di nuovo gli amici (vv. 28-29) perché desistano dal perseguitarlo e li ammonisce con un riferimento al giudizio di Dio.

vv. 2-7. Molte volte, come indica il numero pieno «dieci» (v. 3; cfr. Gn 31,7; Lv 26,26), Giobbe è stato maltrattato dagli amici che invece di prodigarsi a consolarlo, lo accusano, e non provano neppure turbamento per la sconvenienza delle loro derisioni. Pertanto, anche se Giobbe ha sbagliato, l'errore rimane con lui (v. 4). Questa affermazione può essere intesa in diversi modi:

  1. gli amici non gli sono d'aiuto a individuare tale errore;
  2. gli amici non hanno alcun potere sull'errore di Giobbe;
  3. solo Giobbe conosce il suo errore, pertanto ogni giudizio esterno è inopportuno.

Giobbe comunque vuole scoraggiare l'ulteriore, eventuale, iniziativa inquisitoria degli amici (v. 5) ai quali ribadisce che è Dio ad averlo sconvolto, circondandolo con la sua rete (v. 6). Non solo; egli è vittima anche dell'abbandono, perché al suo grido nessuno risponde (v. 7). Egli denuncia dunque, oltre l'atto, contrario all'idea di giustizia, anche l'abbandono da parte di Dio

vv. 8-12. Giobbe descrive agli amici (nel discorso precedente lo aveva fatto con Dio, cfr. 16,7-14) l'azione violenta di Dio su di lui come emerge dai verbi con i quali Giobbe riferisce l'azione divina, ma anche dal fatto che egli è stato privato di ciò che gli apparteneva e di alcuni tratti che caratterizzavano la sua identità. Peraltro Giobbe racconta la sua sventura come esclusiva iniziativa di Dio, non connessa ad alcuna sua colpa.

vv. 13-20. L'azione devastante di Dio si estende e coinvolge anche coloro che vivono accanto a Giobbe. Fra questa sezione e la precedente ricorre l'assonanza delle forme verbali e nominali che contengono il termine zār (vv. 13.15.17), con cui Giobbe delinea l'estraneità fra lui e i parenti con il sostantivo ṣār (v. 11) per mezzo del quale Giobbe ha riferito che Dio lo tratta come un avversario, un nemico. E evidente che, anche in tal modo, l'autore accosta e rafforza il carattere drammatico della percezione di Giobbe, della riprovazione da parte di Dio e degli uomini, con conseguenze di una gravità eccessiva per un uomo, quali l'abbandono di Dio e l'emarginazione, l'esclusione, dal consorzio umano.

vv.21-22. Giobbe quindi supplica la misericordia degli amici, la loro comprensione, la considerazione per la sua situazione, e non la persecuzione. Infatti è Dio che lo ha colpito, lo ha «toccato» («percosso»). Ancora una volta Giobbe, con l'uso del verbo «toccare» (ng‘, cfr. v. 21), si avvicina inconsapevolmente alle circostanze che hanno dato avvio alla sua disgrazia (cfr. 1,11; 2,5).

vv. 23-27. Giobbe vorrebbe che per i posteri fossero scritte le sue parole (cfr. Sal 102,19), che contengono la sua dichiarazione di innocenza, ma anche il turbamento della sua fiducia e, soprattutto, la sua attesa di Dio. Infatti Giobbe è certo, conosce, sa che il suo gō’ēl è vivo (v. 25). Riteniamo che, nel libro di Giobbe, il termine giuridico gō’ēl non si riferisca al gō’ēl haddām, colui che compie la vendetta del sangue, il «Vendicatore» (cfr. Es 21,13-14; Nm 35,9-34; Dt 19,1-13; Gs 20,1-9), bensì sia attinente allo sviluppo del significato connesso alla prassi giudiziaria del riscatto. Essa prevedeva che il parente più stretto pagasse il prezzo del riscatto dei beni o della persona del congiunto, ridotto in miseria o caduto in schiavitù, per restituirgli la proprietà e la libertà (cfr. Lv 25; Rt 4). Pertanto gō’ēl è il parente stretto, titolare del diritto di riscatto. Tale espressione ha anche assunto un rilievo teologico particolarmente significativo. Infatti l'annuncio del ritorno degli esuli da Babilonia viene caratterizzato (in Is 40-55) come liberazione o riscatto, con cui JHWH ricostituisce il suo popolo (cfr. Is 43,5-6; 48,20). Allora JHWH riceve l'attributo ed è chiamato gō’ēl, redentore (cfr. Is 41,14; 43,14; 44, 24; 48, 17; 49,7). JHWH fa valere il suo antico diritto su Israele; egli avanza una pretesa legittima, con una forte connotazione propria del diritto familiare, perché ha creato e scelto questo popolo e ne è il Signore. Questo attributo di JHWH viene ripreso anche altrove (cfr. Is 59,20; 60,16; 63,16; Ger 50,34), mentre tende ad assumere un senso ancora più ampio, che include l'intervento salvifico di Dio che libera il popolo o il singolo dalla violenza di una forza avversa (cfr. Ger 31,11; Mic 4,10; Sal 69,19; 72,14; 103,4; Prv 23,11). Riteniamo, pertanto, che la presenza del gō’ēl nel v. 25 sia da ricondurre a questa fondamentale tradizione e al suo sviluppo, e che dunque Giobbe si riferisca a Dio, parli di Dio come del suo gō’ēl. In precedenza Giobbe aveva infatti escluso decisamente l'esistenza di un qualsiasi mediatore fra lui e Dio (cfr. 9,32-33), e peraltro egli in ogni discorso accusa direttamente Dio come unico responsabile della sua catastrofe. Per Giobbe la questione attiene decisamente alla relazione fra lui e Dio. Perciò egli non lascia nulla di intentato e interpella Dio con tanta audacia, mosso proprio dalla fiducia fondamentale in Dio, nella fedeltà di Dio. Così nei suoi discorsi affiorano anche le tracce della speranza che ripone in Dio, designato come suo testimone (cfr. 16,19), e ora (19,25) come suo gō’ēl. L'acuta contesa di Giobbe con Dio non può essere dissociata dalla fiducia, dall'amore di Giobbe per Dio, radicati sulla promessa e sulla storia della fedeltà di Dio al suo popolo. Peraltro, l'alternanza fra l'accusa di Dio e l'affidamento a lui rivela quanto sia anche tormentato l'itinerario interiore di Giobbe, la lotta per proteggere la confidenza e l'intima comunione con Dio contro tutta la forza dell'evidenza opposta dei fatti. Il personaggio di Giobbe, che emerge dai discorsi, è costruito per riflettere la dialettica connessa a profonde questioni umane, riproducendone in modo esemplare, date le circostanze drammatiche, anche quel movimento interno da cui è attraversato l'uomo nel quale si avvicendano angoscia e fiducia, delusione e speranza, accusa e riconoscimento. Dunque Giobbe indica Dio come suo gō’ēl, e la sua attesa di riscatto, di salvezza è per il presente (vv. 25-27; cfr. Sal 19,15; 69,19; 72,14; 103,4; 119,154; Prv 23,11). Più volte, nei precedenti discorsi di Giobbe, è emerso che se la morte è una realtà definitiva, senza ritorno, che sopprime tutti i rapporti e i legami, di conseguenza solo la vita, la storia, è il luogo della realizzazione dell'uomo e della relazione con Dio. Pertanto, benché convinto dell'ineluttabilità della morte, Giobbe ha continuato a resistere e a lottare per la vita, soprattutto per l'affermazione di Dio nella sua vita. Egli ora (v. 26), proprio perché così provato e lacerato nella carne, ma vivo, ribadita la sua percezione del potere di Dio sulle sue creature, pensa che questo sia un segno per cui Dio gli rinnoverà la vita. Mentre tutti lo perseguitano e lo respingono, ultimo (cfr. Is 44,6; 48,12), Dio si alzerà (cfr. Sal 3,8; 7,7; 9,20; 76,10; ecc.) in suo favore e Giobbe lo vedrà con i suoi occhi (vv. 26b-27). La precisazione per cui asserisce che vedrà Dio wɇlō’-zār (v. 27), può essere attribuita a Giobbe (e non come o da straniero), o a Dio (e non uno straniero), e allude evidentemente all'ostilità di cui è oggetto da parte di Dio e anche dei suoi conoscenti (cfr. 19,11.13.14.17). A dispetto di quel che appare (cfr. 13,24; 19,11; 33,10), Giobbe crede che la realtà della sua relazione con Dio sia caratterizzata non dall'ostilità e dall'estraneità, bensì dall'intimità e dalla familiarità. Infatti l'attesa di Giobbe si indirizza con particolare intensità alla visione di Dio, che prima di tutto indica la volontà di ristabilire il contatto vitale (cfr. 10,12), rispetto al silenzio e al nascondimento di Dio (cfr. 13,24; Sal 28,1; 30,8), e di godere della vicinanza di Dio, espressione della benevolenza e della protezione divina, e fonte della vita. Tale fiducia di Giobbe troverà, peraltro, corrispondenza nella sua reazione all'evento determinante della teofania (cfr. 42,5).

Nella storia dell'interpretazione questa sezione è stata a lungo ritenuta come una prova della fede nella risurrezione. Di fatto tale lettura deriva solo da una retroproiezione operata da coloro che successivamente hanno sviluppato una tale fede e ne hanno intravisto un fondamento più antico. Il testo, come sempre, è aperto a diversi livelli di significato. Tuttavia, la speranza nella risurrezione non appartiene sicuramente al testo originale.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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SECONDO DISCORSO DI BILDAD 1Bildad di Suach prese a dire:

2“Quando porrai fine alle tue chiacchiere? Rifletti bene e poi parleremo. 3Perché ci consideri come bestie, ci fai passare per idioti ai tuoi occhi? 4Tu che ti rodi l'anima nel tuo furore, forse per causa tua sarà abbandonata la terra e le rupi si staccheranno dal loro posto?

5Certamente la luce del malvagio si spegnerà e più non brillerà la fiamma del suo focolare. 6La luce si offuscherà nella sua tenda e la lucerna si estinguerà sopra di lui. 7Il suo energico passo si accorcerà e i suoi progetti lo faranno precipitare, 8perché con i suoi piedi incapperà in una rete e tra le maglie camminerà. 9Un laccio l'afferrerà per il calcagno, un nodo scorsoio lo stringerà. 10Gli è nascosta per terra una fune e gli è tesa una trappola sul sentiero. 11Terrori lo spaventano da tutte le parti e gli stanno alle calcagna. 12Diventerà carestia la sua opulenza e la rovina è ritta al suo fianco. 13Un malanno divorerà la sua pelle, il primogenito della morte roderà le sue membra. 14Sarà tolto dalla tenda in cui fidava, per essere trascinato davanti al re dei terrori!

15Potresti abitare nella tenda che non è più sua; sulla sua dimora si spargerà zolfo. 16Al di sotto, le sue radici si seccheranno, sopra, appassiranno i suoi rami. 17Il suo ricordo sparirà dalla terra e il suo nome più non si udrà per la contrada. 18Lo getteranno dalla luce nel buio e dal mondo lo stermineranno. 19Non famiglia, non discendenza avrà nel suo popolo, non superstiti nei luoghi della sua residenza.

20Della sua fine stupirà l'occidente e l'oriente ne avrà orrore. 21Ecco qual è la sorte dell'iniquo: questa è la dimora di chi non riconosce Dio”. _________________ Note

18,13 il primogenito della morte: probabilmente è da intendere la peste, mentre il re dei terrori (v. 14) è la morte.

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Approfondimenti

SECONDO DISCORSO DI BILDAD (18,1-21) Il tono del secondo discorso di Bildad si attesta in continuità con quello di Elifaz. Il tentativo di persuadere Giobbe a riconoscere la sua colpa avviene, in questa fase della Disputa, prospettandogli la fine più drammatica e infamante. Essi per intimidirlo gli espongono le conseguenze ineluttabili a cui va incontro chi persiste nell'ostinazione, inutile, perché non può incidere in alcun modo sull'ordine divino degli eventi. Le sezioni maggiori in cui si articola il discorso di Bildad contengono: l'espressione del fastidio per la presunzione di Giobbe (vv. 2-4); la rovina inesorabile dell'empio e la distruzione di ciò in cui confidava (vv. 5-14); la scomparsa del ricordo dell'empio dalla memoria collettiva e la privazione di qualsiasi posterità (vv. 15-19). Le sentenze conclusive (vv. 20-21) riferiscono che questa è la sorte del malvagio e desta uno stupore generale.

vv. 2-4. Anche Bildad (come prima Elifaz, 15,2-3) si mostra infastidito dalle argomentazioni di Giobbe, perciò chiede che si parli in modo più avvertito; inoltre, sempre con una domanda retorica (v. 4), egli sottolinea l'inammissibilità e l'esclusione che a motivo della lacerazione interiore di Giobbe, la terra venga privata di ciò che è stabilito, che l'ordinamento vigente delle cose e degli eventi venga rimosso. Con questo, Bildad in parte ripropone l'argomento della stabilità delle disposizioni divine (cfr. 8,3), in parte accusa Giobbe che amplifica la sua afflizione al punto da presumere una ripercussione sul cosmo e su Dio. Non è da escludere infatti che nel v. 4c il sostantivo sûr, «roccia (le rupi)», venga usato anche come uno dei titoli con cui si designava Dio (cfr. Dt 32,4.15.18; 1Sam 2,2; 2Sam 22,32).

vv. 5-14. Bildad utilizza diverse immagini per descrivere la progressiva irruzione della rovina sul malvagio: l'estinzione della luce (vv. 5-6), le trappole (vv. 7-10), la malattia (vv. 11-14). Con la metafora della luce si fa riferimento al finire della vita e al venir meno della prosperità del malvagio (cfr. Prv 13,9; 20,20; 24,20). La cessazione di ogni movimento, segno della forza con cui l'uomo domina sulle cose, è descritta invece in relazione alla caduta nelle trappole alle quali il malvagio va incontro proprio con il suo consiglio (contro 10,3. Cfr. Sal 1,1; 9,16; 35,7-8; 57,7; Prv 5,22). Infine, sull'empio si avventerà il terrore (cfr. 27,20; 30,5; Sal 73,19; Is 17,14), la carestia, la malattia letale, strumenti efficaci della morte, che qui appare quasi personificata. Strappato dalla vita di prosperità che conduceva, il malvagio verrà infatti condotto alla morte, «al re dei terrori» (v. 14).

vv. 20-21. Le sentenze conclusive del discorso di Bildad delineano, con un merismo, lo sgomento e l'orrore di tutti. Niente infatti sopravviverà del malvagio, questa è la sua sorte. Bildad ha descritto la sorte dell'empio come una fatalità inesorabile, ineluttabile, senza alcun riferimento esplicito a un'azione divina. La rovina dell'empio è generata infatti dal proprio consiglio. Sul piano del contenuto, Bildad, che non si è avvalso di alcuna autorità o fatto straordinario per rafforzare la sua argomentazione, ribatte alle affermazioni di Giobbe sul benessere e sull'immunità di cui godono i malvagi (cfr. 10,3; 12,6), evidenziando invece il carattere apparente e temporaneo di una tale circostanza, destinata alla completa distruzione. Tuttavia, sul piano della relazione (come per Elifaz, cfr. c. 15), il discorso di Bildad sembra lanciare a Giobbe un monito, o persino, a tratti, rappresentare la sua stessa situazione, colpito, come l'empio, dalla rovina, raggiunto dai terrori e dalla malattia letale. Pertanto, la designazione finale dell'iniquo come colui che «misconosce Dio» (18,21; cfr. anche Is 1,3), può essere intesa come un indiretto riferimento (simile a quello in 8,13: «chi dimentica Dio») a Giobbe (cfr. 12,9; 13,2). Ed è evidente come tale insinuazione sia connessa alla questione della conoscenza, dato che all'interno della Disputa fra Giobbe e gli amici, l'oggetto e il modo del conoscere risultano, in una crescente tensione, sempre più contesi.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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1Il mio respiro è affannoso, i miei giorni si spengono; non c'è che la tomba per me! 2Non sono con me i beffardi? Fra i loro insulti veglia il mio occhio. 3Poni, ti prego, la mia cauzione presso di te; chi altri, se no, mi stringerebbe la mano? 4Poiché hai tolto il senno alla loro mente, per questo non li farai trionfare. 5Come chi invita a pranzo gli amici, mentre gli occhi dei suoi figli languiscono. 6Mi ha fatto diventare la favola dei popoli, sono oggetto di scherno davanti a loro. 7Si offusca per il dolore il mio occhio e le mie membra non sono che ombra.

8Gli onesti ne rimangono stupiti e l'innocente si sdegna contro l'empio. 9Ma il giusto si conferma nella sua condotta e chi ha le mani pure raddoppia gli sforzi. 10Su, venite tutti di nuovo: io non troverò un saggio fra voi. 11I miei giorni sono passati, svaniti i miei progetti, i desideri del mio cuore. 12Essi cambiano la notte in giorno: “La luce – dicono – è più vicina delle tenebre”. 13Se posso sperare qualche cosa, il regno dei morti è la mia casa, nelle tenebre distendo il mio giaciglio. 14Al sepolcro io grido: “Padre mio sei tu!” e ai vermi: “Madre mia, sorella mia voi siete!”. 15Dov'è, dunque, la mia speranza? Il mio bene chi lo vedrà? 16Caleranno le porte del regno dei morti, e insieme nella polvere sprofonderemo?“.

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Approfondimenti

17,1-7. Giobbe, ancora, supplica, chiede a Dio di volgersi a lui, di impegnarsi in suo favore (v. 3), poiché, nonostante la sua prossimità con la morte (vv. 1.7), è circondato da gente che lo deride e lo tormenta (v. 2). Particolare è inoltre la constatazione di Giobbe di essere diventato un proverbio (v. 6), di presentare dei tratti così caratteristici di cui tutti parlano, e con disprezzo (cfr. Dt 28,37; 1Re 9,7). Rimane aperta la questione su chi lo ha reso così (v. 6a). Il soggetto infatti volutamente non è esplicito. Pertanto può trattarsi di Dio (cfr. Sal 44,14-15), oppure si riferisce all'empio, ai beffardi dei vv. 2.5a.6b. (cfr. Sal 69,11-12). Infine può alludere all'afflizione, che Giobbe ha rappresentato come testimone d'accusa menzognera, in 16,8. Riteniamo che vada rispettata la significativa apertura del testo con la pluralità di possibilità riguardo al soggetto. La tragedia di Giobbe è resa più profonda, infatti, dal continuo concorrere di una pluralità di eventi contrari.

vv. 8-16. In precedenza Giobbe aveva considerato lo sconcerto (cfr. 16,7) da lui destato all'interno della sua comunità, ma ora (v. 8) afferma che i retti, pur nello sgomento per la sciagura, si ergono contro le accuse degli empi. Contro l'insinuazione di Elifaz (cfr. 15,4) Giobbe asserisce che colui che è giusto, anche nella sventura (propria o che colpisce un altro), persiste nell'integrità e accresce la sua forza nell'attesa di Dio (v. 9; cfr. Is 40,31; Sal 64,11). Invece, fra tutti coloro che, come gli amici di Giobbe, si reputano rappresentanti e detentori della conoscenza (v. 10; cfr. 15,9-10; Is 5,21) non si troverà un saggio. Le considerazioni di Giobbe sollevano delle questioni, sottese alla dinamica che la Disputa va evidenziando, di grande rillievo dal punto di vista gnoseologico e pertinenti all'evoluzione del dibattito sapienziale in Israele, a cui il libro di Giobbe offre un contributo essenziale. In particolare esse prospettano un confronto fra la conoscenza dell'uomo, anche riguardo a Dio, intesa come processo aperto ad apprendere dall'esperienza e dalle provocazioni dell'esistenza e della storia (come per Giobbe), o come un corpo ormai stabilito e regolato di informazioni e di cognizioni (come per gli amici di Giobbe). Le parole di Giobbe riaffermano che per lui la vita è il limite invalicabile entro il quale l'uomo raggiunge il suo significato e può godere della relazione con Dio (cfr. Sal 88,11-13), e per questo la morte, con il suo carattere definitivo, desta in lui un profondo sconforto.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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RISPOSTA DI GIOBBE A ELIFAZ 1Giobbe prese a dire:

2“Ne ho udite già molte di cose simili! Siete tutti consolatori molesti. 3Non avranno termine le parole campate in aria? O che cosa ti spinge a rispondere? 4Anch'io sarei capace di parlare come voi, se voi foste al mio posto: comporrei con eleganza parole contro di voi e scuoterei il mio capo su di voi. 5Vi potrei incoraggiare con la bocca e il movimento delle mie labbra potrebbe darvi sollievo. 6Ma se parlo, non si placa il mio dolore; se taccio, che cosa lo allontana da me?

7Ora però egli mi toglie le forze, ha distrutto tutti i miei congiunti 8e mi opprime. Si è costituito testimone ed è insorto contro di me: il mio calunniatore mi accusa in faccia. 9La sua collera mi dilania e mi perseguita; digrigna i denti contro di me, il mio nemico su di me aguzza gli occhi. 10Spalancano la bocca contro di me, mi schiaffeggiano con insulti, insieme si alleano contro di me. 11Dio mi consegna come preda all'empio, e mi getta nelle mani dei malvagi. 12Me ne stavo tranquillo ed egli mi ha scosso, mi ha afferrato per il collo e mi ha stritolato; ha fatto di me il suo bersaglio. 13I suoi arcieri mi circondano; mi trafigge le reni senza pietà, versa a terra il mio fiele, 14mi apre ferita su ferita, mi si avventa contro come un guerriero.

15Ho cucito un sacco sulla mia pelle e ho prostrato la fronte nella polvere. 16La mia faccia è rossa per il pianto e un'ombra mortale mi vela le palpebre, 17benché non ci sia violenza nelle mie mani e sia pura la mia preghiera. 18O terra, non coprire il mio sangue né un luogo segreto trattenga il mio grido! 19Ecco, fin d'ora il mio testimone è nei cieli, il mio difensore è lassù. 20I miei amici mi scherniscono, rivolto a Dio, versa lacrime il mio occhio, 21perché egli stesso sia arbitro fra l'uomo e Dio, come tra un figlio dell'uomo e il suo prossimo; 22poiché passano i miei anni che sono contati e me ne vado per una via senza ritorno. _________________ Note

16,9 digrigna i denti... aguzza gli occhi: allusioni alla violenza di chi infierisce sulla vittima.

16,15 sacco e polvere: segni di profonda umiliazione.

16,18-22 terra, non coprire il mio sangue: il sangue sparso e non coperto reclamava l’intervento di Dio (vedi Gen 4,10; 37,26; Is 26,21; Ez 24,7).

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Approfondimenti

RISPOSTA DI GIOBBE A ELIFAZ (16,1-17,16) Il nuovo discorso di Giobbe presenta, rispetto ai precedenti, una serie di caratteristiche formali (come il brusco passaggio di persone verbali, il frequente ricorso a costruzioni ellittiche sul piano sintattico e semantico), che determinano qui, ancora più che altrove, differenti possibilità di comprensione del testo, di traduzione, di interpretazione dello stesso, non disgiunte da molteplici opinioni riguardo alla struttura del discorso. Anche in questo caso, la nostra scelta rende conto, per ovvi motivi, solo di alcuni aspetti del testo, che come sempre rimane aperto a ulteriori possibilità di interpretazione. Pertanto è forse possibile intendere il travaglio formale del testo, espressamente voluto dall'autore, anche come un segnale narrativo, atto a rafforzare il movimento drammatico, a manifestare il flusso del pensiero di Giobbe, fortemente segnato dall'amarezza.

Giobbe dapprima (16,2-6), rivolgendosi agli amici, esprime fastidio e irritazione per i loro discorsi. Egli poi si sofferma e descrive la violenza di cui si sente oggetto da parte di Dio (16,7-14). Nondimeno si appella a Dio che sa testimone della sua innocenza (16,15-22). Ma poi, preso dalla morsa dell'angoscia, della derisione, dell'abbandono, prevale in Giobbe lo sconforto (17,1-7) e la consapevolezza della morte imminente, della discesa nello ṣɇ'ôl (17,8-16).

vv. 16,2-6. Alla disapprovazione e alla squalifica espressa da Elifaz (cfr. 15,2-6), Giobbe ribatte manifestando irritazione e sdegno per le parole degli amici che definisce «consolatori» fastidiosi, «molesti» (v. 2b). Per un momento Giobbe ipotizza l'inversione delle parti, in cui egli potrebbe rivolgersi a loro con parole e gesti di commiserazione, senza alcun turbamento. Questo voler cambiare le posizioni esprime l'amarezza di Giobbe per l'incomprensione degli amici, ma richiama anche il rispetto per chi è nel dolore, la cui sofferenza non può essere compresa se non dal di dentro, tentando di mettersi nei panni di chi la vive, per rintracciare insieme un insegnamento anche da tale evento, per ricomporre e identificare ulteriori ragioni di vita.

vv. 7-14. Giobbe, il quale ritiene Dio responsabile della sua situazione, con una forte tensione drammatica descrive con maggiori dettagli l'ostilità di Dio che si è avventato su di lui come un bersaglio (v. 12; cfr. 7,20). Egli riferisce l'azione devastante di Dio che lo ha condotto alla prostrazione e lo ha esposto al rifiuto e all'abbandono di chi lo conosce. Non solo; l'afflizione entro cui Dio lo ha costretto è diventata testimone di accusa contro di lui (v. 8). Infatti è dalla sua sventura che gli altri, a cominciare dagli amici, desumono la sua colpevolezza. Egli si sente preda della collera irriducibile di Dio (v. 9; cfr. 9,13). E Dio lo ha anche consegnato alla derisione e all'oltraggio degli empi (v. 10-11), che dunque si configurano come uno strumento di Dio nella prova dell'uomo. Peraltro questa concezione non è sconosciuta alla Scrittura. In precedenza il profeta Geremia aveva parlato di Nabucodonosor come «servo» di Dio (cfr. 27,4-8), come strumento del giudizio di Dio su Israele. Giobbe pertanto dice di Dio ciò che nella dinamica del racconto ha compiuto il Satan, accanito avversario dell'uomo. Per esprimere l'azione violenta di Dio nei suoi confronti, Giobbe si avvale di immagini come il leone (v. 9), l'arciere (vv. 12-13), il guerriero (v. 14): il discorso procede dunque per accumulazione di immagini, di azioni, di effetti, per esprimere, in tal modo, la gravità dell'intervento ostile di Dio.

vv. 15-22. Giobbe tuttavia non cessa di dichiarare la sua innocenza. Il riferimento all'assenza di violenza e alla purezza, all'autenticità della preghiera (v. 17) vuole ribadire la conformità della condotta di Giobbe rispetto alla comunità di appartenenza e la sua fedeltà a Dio (contro l'accusa di Elifaz, cfr. 15,4). E in questo contesto che affiora l'appello di Giobbe alla terra perché non copra il suo sangue e non assorba il suo grido, bensì giungano al cielo, a Dio (v. 18). Si può pensare che con esso Giobbe non si riferisca solo a una situazione dopo la morte (cfr. Gn 4,10; Is 26,21), ma al grido che egli incessantemente, ora, innalza. La piaga e l'afflizione che hanno colpito Giobbe rappresentano già un'irruzione della morte nella sua esistenza, una prefigurazione della morte (cfr. 17,1.14-16; Sal 18,5-6; 88,4-6). Così, mentre la sua vita appare irrimediabilmente adombrata e votata alla morte innocente, Giobbe grida, supplica Dio a fare vendetta (cfr. Sal 9,13; 79,10-11; Ger 15,15). Ciò che è paradossale, è che Giobbe chiede un intervento di Dio a suo favore, contro Dio. Avvalendosi di parole e sintagmi con una precisa denotazione giuridica, egli insiste, certo di avere in cielo il testimone a suo favore, Dio (v. 19). In precedenza Giobbe aveva escluso che ci potesse essere un arbitro fra lui e Dio (cfr. 9,33); pertanto, in una tale contesa, Dio appare, di volta in volta, come testimone (v. 19), accusato, accusatore e giudice (v. 21; cfr. 10,2). Ciò che è implicito in questa attesa di giustizia di Giobbe, è che il giudizio di Dio non consiste solo nel ripristinare la verità dal punto di vista formale, ma soprattutto nel ristabilire la relazione di comunione. Per questo Giobbe sollecita che ciò avvenga mentre egli è ancora in vita, visto che la morte è la dimensione ultima, irreparabile.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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SECONDO DISCORSO DI ELIFAZ 1 Elifaz di Teman prese a dire:

2“Potrebbe il saggio rispondere con ragioni campate in aria e riempirsi il ventre del vento d'oriente? 3Si difende egli con parole inutili e con discorsi inconcludenti? 4Ma tu distruggi la religione e abolisci la preghiera innanzi a Dio. 5Infatti la tua malizia istruisce la tua bocca e scegli il linguaggio degli astuti. 6Non io, ma la tua bocca ti condanna e le tue labbra attestano contro di te.

7Sei forse tu il primo uomo che è nato, o prima dei monti sei stato generato? 8Hai tu avuto accesso ai segreti consigli di Dio e ti sei appropriato tu solo della sapienza? 9Che cosa sai tu, che noi non sappiamo? Che cosa capisci, che non sia chiaro anche a noi? 10Sia il vecchio che il canuto sono fra di noi, carichi di anni più di tuo padre. 11Poca cosa sono per te le consolazioni di Dio e una parola moderata rivolta a te? 12Perché il tuo cuore ti stravolge, perché ammiccano i tuoi occhi, 13quando volgi contro Dio il tuo animo e fai uscire tali parole dalla tua bocca?

14Che cos'è l'uomo perché si ritenga puro, perché si dica giusto un nato da donna? 15Ecco, neppure nei suoi santi egli ha fiducia e i cieli non sono puri ai suoi occhi, 16tanto meno un essere abominevole e corrotto, l'uomo che beve l'iniquità come acqua.

17Voglio spiegartelo, ascoltami, ti racconterò quel che ho visto, 18quello che i saggi hanno riferito, che non hanno celato ad essi i loro padri; 19solo a loro fu concessa questa terra, né straniero alcuno era passato in mezzo a loro. 20Per tutti i giorni della vita il malvagio si tormenta; sono contati gli anni riservati al violento. 21Voci di spavento gli risuonano agli orecchi e in piena pace si vede assalito dal predone. 22Non crede di potersi sottrarre alle tenebre, egli si sente destinato alla spada. 23Abbandonato in pasto ai falchi, sa che gli è preparata la rovina. Un giorno tenebroso 24lo spaventa, la miseria e l'angoscia l'assalgono come un re pronto all'attacco, 25perché ha steso contro Dio la sua mano, ha osato farsi forte contro l'Onnipotente; 26correva contro di lui a testa alta, al riparo del curvo spessore del suo scudo, 27poiché aveva la faccia coperta di grasso e pinguedine intorno ai suoi fianchi. 28Avrà dimora in città diroccate, in case dove non si abita più, destinate a diventare macerie. 29Non si arricchirà, non durerà la sua fortuna, le sue proprietà non si estenderanno sulla terra. 30Alle tenebre non sfuggirà, il fuoco seccherà i suoi germogli e il vento porterà via i suoi fiori. 31Non si affidi alla vanità che è fallace, perché vanità sarà la sua ricompensa. 32Prima del tempo saranno disseccati, i suoi rami non rinverdiranno più. 33Sarà spogliato come vigna della sua uva ancora acerba e getterà via come ulivo i suoi fiori, 34poiché la stirpe dell'empio è sterile e il fuoco divora le tende dell'uomo venale. 35Concepisce malizia e genera sventura e nel suo seno alleva l'inganno”.

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Approfondimenti

SECONDO DISCORSO DI ELIFAZ (15,1-35) Il secondo discorso di Elifaz si presenta duro e minaccioso rispetto ai tratti esortativi contenuti nel primo intervento (cc. 4-5). È come se Elifaz non tollerasse la resistenza di Giobbe. Elifaz ribadisce la colpevolezza di Giobbe (vv. 2-6), lo interpella sull'infondatezza della sua conoscenza (vv. 7-13), ripropone la sfiducia di Dio anche sull'uomo, che non può essere puro dinanzi a lui (vv. 14-16), e, ricorrendo alla sapienza degli antichi, descrive le tribolazioni dell'empio la cui prosperità non ha consistenza, non può sussistere, poiché egli non può sottrarsi alla giustizia divina che inesorabilmente lo raggiunge nel corso della vita (vv. 17-35).

vv. 2-6. Elifaz qualifica l'argomentazione di Giobbe come priva di efficacia, inutile. Non solo; egli ritiene che Giobbe con le sue questioni e le sue affermazioni stia attentando alla relazione dell'uomo con Dio, distruggendo ciò che ne è al fondamento: il timore di Dio, la venerazione e la continua presenza al suo insegnamento. Il timore a cui allude e lascia intendere Elifaz è più preoccupato dell'uomo che di Dio, è mosso dalla paura, è teso a custodire la giusta distanza fra l'uomo e Dio, è interessato a una convivenza con Dio senza rischi, confida nella prevedibilità dell'agire di Dio in relazione al comportamento dell'uomo, si affida e soppesa le giuste misure fra Dio e l'uomo. Ben diverso è il timore che Giobbe ha di Dio (cfr. commento a 13,1-19), ma Elifaz non se ne accorge! Pertanto Elifaz non ha dubbi: è proprio il parlare di Giobbe, spregiudicato e irriverente verso Dio, che manifesta la sua colpevolezza.

vv. 7-13. Elifaz esprime anche la sua irritazione per la conoscenza che Giobbe pretende di avere. Elifaz, pur indagando, non trova differenze e rivendica per sé e per gli amici lo stesso grado di conoscenza di Giobbe (v. 9; cfr. 12,3; 13,2). Con questa forte rivendicazione di uguaglianza nella conoscenza, si delinea, come ormai in atto, fra Giobbe e gli amici, un'incalzante competizione simmetrica che porterà inesorabilmente a una conflittualità fra le parti, sempre più aperta, antitetica e inconciliabile. Così, Elifaz continua a valutare il comportamento di Giobbe incapace di apprezzare le consolazioni, i benefici che Dio gli ha concesso in passato e la parola che ora gli amici gli rivolgono.

vv. 14-16. Elifaz riprende il tema della radicale impurità dell'essere umano (cfr. 4,17; 14,4). L'argomentazione procede a maiore ad minus, come nell'intervento precedente (cfr. 4,17-19), e descrive l'assoluta sfiducia di Dio verso i suoi collaboratori (la corte celeste e il firmamento), e a maggior ragione nei confronti dell'uomo. Per Elifaz, l'essere umano, che dopo Adamo ed Eva è evidentemente un «nato di donna» (v. 14b; 14,1), non è più fondamentalmente «buono» secondo la volontà di Dio (cfr. Gn 1,31), ma segnato originariamente dall'inclinazione al male, per cui è anche irrimediabilmente colpevole. In questa visione di Elifaz, così pessimistica riguardo all'uomo e negativa dell'opera di Dio, non ci sono attenuanti per l'essere umano a motivo della sua caducità (cfr. 14,1-6). Inoltre, Elifaz chiaramente ribatte e respinge qualsiasi possibilità per l'uomo di contendere con Dio (cfr. 13,1-19).

vv.17-35. Nella seconda parte del discorso, Elifaz si occupa della sorte del rāšā‘, l'uomo empio, malvagio, colpevole (cfr. 9,24), per confutare, ma anche ammonire Giobbe. Elifaz presenta (vv. 17-19) la nuova argomentazione non solo come esito della sua osservazione, ma anche come insegnamento ricevuto dagli antichi e stavolta offre a Giobbe la sua esperienza che concorda (a differenza di Bildad, cfr. 8,9), con la dottrina dei saggi. Elifaz in tal modo sembra richiamare il valore e l'importanza di quanto sta per dire. Egli sostiene (vv. 20-24) che anche quando sembra che l'empio viva nella prosperità, in realtà è oggetto dell'angoscia e dell'angustia, è un uomo braccato dalle tenebre e dalla morte (v. 30; cfr. 20,26). La causa di questa situazione risiede, per Elifaz, nel fatto che l'empio si è contrapposto a Dio dal quale però non può sfuggire, benché riesca a sottrarsi agli uomini (cfr. vv. 25-28). Elifaz intravede come sicura la fine prematura dell'empio, che lo priverà della posterità e dei possessi (cfr. Sal 49,18). L'eredità dell'empio, infatti, è l'inconsistenza e la futilità che ha tramato. Il proverbio finale (v. 35; cfr. Is 59,4; Sal 7,15), con cui Elifaz conclude il suo discorso, ripropone dunque la relazione univoca fra il comportamento dell'uomo e la sua sorte (cfr. 5,6-7).

Al livello del contenuto, Elifaz si impegna con questo discorso a confutare l'opinione di Giobbe secondo la quale gli empi prosperano quasi godendo del favore di Dio (cfr. 9,24; 10,3; 12,6), ma, a livello della relazione, Elifaz esprime invece a Giobbe un avvertimento e una minaccia. In particolare ciò si realizza con il riferimento all'angoscia e all'opposizione a Dio, che esplicitamente vengono riferite all'empio, ma che di fatto caratterizzano Giobbe. Per Elifaz è intollerabile che Giobbe resista a Dio; egli lo considera un pericoloso istigatore contro le istituzioni religiose, contro Dio.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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