📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

Il banchetto della vita 1O voi tutti assetati, venite all’acqua, voi che non avete denaro, venite, comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte. 2Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti. 3Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete. Io stabilirò per voi un’alleanza eterna, i favori assicurati a Davide. 4Ecco, l’ho costituito testimone fra i popoli, principe e sovrano sulle nazioni. 5Ecco, tu chiamerai gente che non conoscevi; accorreranno a te nazioni che non ti conoscevano a causa del Signore, tuo Dio, del Santo d’Israele, che ti onora.

I pensieri del Signore 6Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino. 7L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona. 8Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore. 9Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri.

La parola del Signore 10Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, 11così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata. 12Voi dunque partirete con gioia, sarete ricondotti in pace. I monti e i colli davanti a voi eromperanno in grida di gioia e tutti gli alberi dei campi batteranno le mani. 13Invece di spini cresceranno cipressi, invece di ortiche cresceranno mirti; ciò sarà a gloria del Signore, un segno eterno che non sarà distrutto.

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Approfondimenti

Il banchetto della vita 55,1-5 La pericope è composta di due parti. La prima (v. 1-3a) richiama, per la forma, l'invito della sapienza a partecipare al suo banchetto per avere la pienezza della vita (cfr. Prv 9,5-6; Sir 24,19-21). Nel nostro caso, però, non è la sapienza a invitare, ma il Signore stesso. La seconda parte (3b-5) interpreta questa pienezza di vita nella prospettiva della fedeltà del Signore all'alleanza davidica.

1-3a. Gli inviti divini a «tutti gli assetati» sono accompagnati da un'espressione che sottolinea la gratuità dei doni promessi, offerti a «chi non ha denaro» e dei quali chi è «senza denaro» può partecipare «senza spesa». Ora il Signore dona gratuitamente i beni fondamentali della vita (acqua e pane) e quelli che simboleggiano l'abbondanza e quindi la pienezza della vita («vino e latte»). Il testo inizia con il vocativo «assetati» per sviluppare non il simbolismo dell'«acqua», ma quello della sete. Questa esigenza, fondamentale per ogni vivente, nella scrittura esprime simbolicamente l'anelito ardente e la tensione appassionata del credente verso Dio che, nella fede, è sperimentato come unica e insostituibile sorgente di vita (cfr. Sal 36,10; 42,2; 63,2).

3b-5. Il Signore annuncia che «stabilirà un'alleanza eterna», consistente nella realizzazione dei suoi «favori» che hanno come riferimento Davide e la sua discendenza (cfr. Sal 89,50). La locuzione «i favori assicurati da Davide» prova che l'annuncio riguarda la promessa della discendenza o del nuovo Davide (cfr. Ez 34,23). L'«alleanza eterna» che il Signore stabilisce con il popolo consiste nell'assicurazione che le promesse relative al nuovo Davide si compiranno. Il futuro Davide è delineato in una funzione universale analoga a quella del servo di JHWH (cfr. Sal 18,1). Egli è costituito da Dio come «testimone» per i popoli tra i quali proclama le lodi di JHwH (cfr. Sal 18,50-51; 2Sam 22,50). Per questo egli opera non solo come capo di Israele (cfr. 1Cr 17,7), ma come «sovrano» dei popoli (v. 4). Nel tempo del nuovo Davide il popolo della nuova Gerusalemme potrà accogliere tutti i popoli che accorrono (v. 5; cfr. 54,2-3) per partecipare della salvezza che Dio farà risplendere sul suo popolo.

I pensieri del Signore 55,6-9 Nell'ultima parte del c. 55 sono particolarmente visibili i segni dell'attività redazionale che ha inteso i cc. 40-55 come un'unità sviluppatasi intorno al messaggio del Deuteroisaia e all'annuncio della nuova Gerusalemme. Così in 55,6-13 incontriamo i principali temi introdotti nel c. 40:

  • la potenza della parola del Signore (40,8 e 55,10-11);
  • il perdono (40, 2 e 55, 6-7);
  • il ritorno (40, 3-5 e 55, 12a);
  • la partecipazione della natura alla salvezza del popolo (40, 4 e 55, 12b).

La nostra pericope risale al tempo del Cronista. Ciò è confermato da vari motivi: il tema della ricerca del Signore, che nell'opera del Cronista ha il valore di comandamento fondamentale (cfr. 2Cr 12,14; 14,3.6; 15,2.4.12-15; 16,12; 17,3-4; 19,3; 20,33; 22,9; 26,5); la connessione della ricerca del Signore con la sicurezza che egli si lascia trovare (cfr. 2Cr 15,1-5); infine la dimensione esistenziale della ricerca del Signore che si esprime nella fedeltà della vita (cfr. 2Cr 12,14; 20,32-33; 26,4-5).

6-7. L'invito all'ascolto del Signore (vv. 1-5) si arricchisce ora con l'esortazione profetica a «cercare il Signore», Dio dell'alleanza. Se l'espressione in origine aveva un significato cultuale (cfr. Gn 25,22; 1Re 22,5ss.; 2Re 3,11; Ger 37,7; Ez 14,7; 2Cr 1,5), essa aveva assunto, lungo la storia di Israele, una connotazione profonda, indicando sia la dimensione esistenziale della fede che si concretizza in una vita di giustizia e fraternità (cfr. Am 5,4.6; Os 10,12; Is 9,12; 31,1), sia l'atteggiamento di chi conosce il Signore e perciò non abbandona lui, fonte di acqua viva, ma accoglie il dono dell'alleanza incarnandolo in ogni situazione della storia (cfr. Ger 10,21), sia infine l'apertura incondizionata al Signore in un cammino di totale fedeltà a lui (Dt 4,29). Con questo denso significato l'espressione al tempo del Cronista serve per indicare l'esigenza del comandamento fondamentale.

La parola del Signore 55,10-13 Nell'ultima pericope dei cc. 40-55 si incontra un detto del Deuterosaia, che è stato collocato a questo punto in modo da formare un'inclusione con 40,6-8. La parola del Signore costituisce l'arco che avvolge sia la promessa dell'uscita da Babilonia che l'annuncio della nuova Gerusalemme, simbolo di un futuro nel quale il popolo, rinnovato dal perdono, vive nell'alleanza della «pace». La pericope si divide in due parti. I vv. 10-11 descrivono l'efficacia della parola del Signore, mentre i vv. 12-13 annunciano, come conseguenza, l'uscita del popolo dalla sua schiavitù.

10-11. La pioggia e la neve, che scendono dal cielo, non vi ritornano senza aver compiuto un'opera fondamentale alla vita sul nostro pianeta: esse «irrigano» la terra, la rendono feconda, favoriscono la germinazione in modo da assicurare l'attività produttiva dell'uomo. La descrizione si manifesta nella sua valenza simbolica in rapporto alla discesa della parola del Signore. La parola, che esce dalla bocca di JHWH (cfr. Dt 8,3), compie in coloro che l'accolgono la sua opera efficace e feconda. Essa non ritorna al Signore “vuota”; al contrario realizza l'opera che costituisce l'oggetto della compiacenza divina e l'obiettivo stesso per il quale è stata mandata, ossia la liberazione del popolo e la sua vita nell'alleanza con il suo Dio (v. 11).

12-13. Alla sicura efficacia della parola si deve la certezza dell'esodo, che qui è descritto in modo da costituire la solenne conclusione dei cc. 40-55. Il “Voi” del v. 12 riguarda anzitutto gli esuli, ma nella redazione finale del libro si rivolge anche al popolo che accoglie la parola come promessa del Signore, Il profeta contempla gli esuli che sperimentano l'esodo perché sono guidati dal Signore e dalla sua parola nel cammino della propria libertà. L'esodo salvifico dei redenti è in profondità l'opera per la quale il Signore manda la sua parola. Perciò la sua realizzazione manifesta il nome del Signore che appare come il Dio fedele che guida la storia secondo il suo disegno di amore e di salvezza. In quest'ottica l'esodo da Babilonia (anzi ogni esodo) è un segno eterno di colui che rivela il suo nome operando la salvezza dell'uomo: un segno che non potrà mai scomparire.

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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L'alleanza di pace 1Esulta, o sterile che non hai partorito, prorompi in grida di giubilo e di gioia, tu che non hai provato i dolori, perché più numerosi sono i figli dell’abbandonata che i figli della maritata, dice il Signore. 2Allarga lo spazio della tua tenda, stendi i teli della tua dimora senza risparmio, allunga le cordicelle, rinforza i tuoi paletti, 3poiché ti allargherai a destra e a sinistra e la tua discendenza possederà le nazioni, popolerà le città un tempo deserte. 4Non temere, perché non dovrai più arrossire; non vergognarti, perché non sarai più disonorata; anzi, dimenticherai la vergogna della tua giovinezza e non ricorderai più il disonore della tua vedovanza. 5Poiché tuo sposo è il tuo creatore, Signore degli eserciti è il suo nome; tuo redentore è il Santo d’Israele, è chiamato Dio di tutta la terra. 6Come una donna abbandonata e con l’animo afflitto, ti ha richiamata il Signore. Viene forse ripudiata la donna sposata in gioventù? – dice il tuo Dio. 7Per un breve istante ti ho abbandonata, ma ti raccoglierò con immenso amore. 8In un impeto di collera ti ho nascosto per un poco il mio volto; ma con affetto perenne ho avuto pietà di te, dice il tuo redentore, il Signore. 9Ora è per me come ai giorni di Noè, quando giurai che non avrei più riversato le acque di Noè sulla terra; così ora giuro di non più adirarmi con te e di non più minacciarti. 10Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace, dice il Signore che ti usa misericordia.

Gerusalemme ricostruita e sicura 11Afflitta, percossa dal turbine, sconsolata, ecco io pongo sullo stibio le tue pietre e sugli zaffìri pongo le tue fondamenta. 12Farò di rubini la tua merlatura, le tue porte saranno di berilli, tutta la tua cinta sarà di pietre preziose. 13Tutti i tuoi figli saranno discepoli del Signore, grande sarà la prosperità dei tuoi figli; 14sarai fondata sulla giustizia. Tieniti lontana dall’oppressione, perché non dovrai temere, dallo spavento, perché non ti si accosterà. 15Ecco, se ci sarà un attacco, non sarà da parte mia. Chi ti attacca cadrà contro di te. 16Ecco, io ho creato il fabbro che soffia sul fuoco delle braci e ne trae gli strumenti per il suo lavoro, e io ho creato anche il distruttore per devastare. 17Nessun’arma affilata contro di te avrà successo, condannerai ogni lingua che si alzerà contro di te in giudizio. Questa è la sorte dei servi del Signore, quanto spetta a loro da parte mia. Oracolo del Signore.

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Approfondimenti

L'alleanza di pace 54,1-10 Attraversato da forti imperativi e da armoniose paranomasie, il brano si rivolge a Sion che, senza essere nominata, è contemplata come la sposa del Signore (cfr. 49,14-21; 50,1; 51,1-3; 51,17-52,9). Il capitolo si collega così, tematicamente, al c. 52 formando un'inclusione che ingloba il quarto canto del servo del Signore. La discendenza del servo è dunque la comunità di Gerusalemme che, rinnovata dalla salvezza, vive per sempre nell'esperienza dell'amore sponsale del suo Dio. La presente pericope, che risale forse al tempo di Neemia, si divide in quattro parti: Sion, già sterile, diventa madre di una posterità innumerevole (vv. 1-3); essa sperimenta così l'amore creatore del suo sposo (vv. 4-5), che la riprende con immensa tenerezza (vv. 6-8) e la unisce a sé in un'eterna «alleanza di pace» (vv. 9-10).

1-3. Con l'esilio e le sue amare conseguenze, Sion, priva dei propri figli e di un futuro, ha sperimentato la sterilità. Ora, però, il Signore, suo sposo, rinnova in lei l'intervento prodigioso che diede la maternità alla matriarca.

4-5. Sion «non dovrà più arrossire» perché dimenticherà sia «la vergogna della sua giovinezza» che «il disonore della sua vedovanza». La prima immagine evoca la condizione di Israele prima del suo incontro con il Signore sigillato dall'alleanza del Sinai (cfr. Os 2,17; Ger 2,2; Ez 16,8), mentre la seconda connota l'infedeltà all'alleanza che ha avuto il suo contrassegno nella caduta di Gerusalemme e nell'esilio babilonese con tutte le conseguenze che ne derivarono. Nel primo caso Sion si trovava nel «disonore» di non avere ancora lo sposo, nel secondo caso era nella «vergogna» per il suo peccato che l'aveva separata dallo sposo.

6-8. L'immagine di una donna «abbandonata e con l'animo afflitto» esprime la profonda comprensione che il profeta ha della storia del suo popolo. Anche se il popolo ha abbandonato il Signore, nell'amarezza della sua condizione (esilio; condizioni difficili del periodo postesilico) si sente abbandonato dal suo Dio. La parola del Signore si rivolge proprio a lui, che vive questa amara esperienza di abbandono, per rinnovargli la gioia della prima chiamata e del primo amore.

9-10. La promessa che Dio fa alla sua sposa ha il suo parallelo nel giuramento fatto a Noè di non mandare più le acque del diluvio sulla terra (v. 9). Anzi la promessa divina ha una stabilità ancora più forte e profonda. L'esistenza del mondo testimonia la fedeltà del Signore all'alleanza stipulata con Noè. Però, come afferma il v. 10, con una costruzione parallela di grande effetto, anche nell'ipotesi che si ritirassero i monti e «vacillassero i colli», l'amore del Signore non si ritirerà mai dal suo popolo, né vacillerà la sua «alleanza di pace». Il termine tradotto con «alleanza» (berît) nel nostro contesto ha lo stesso significato di «promessa» che esso presenta nell'opera Sacerdotale (cfr. Es 6,2-8). Poiché il brano prospetta una situazione salvifica permanente, la promessa dischiude un rapporto stabile che si realizza tra il Signore e il suo popolo, un rapporto che è caratterizzato dal dono della salvezza con tutti i suoi effetti di vita, libertà, benessere, gioia e sicurezza.

Gerusalemme ricostruita e sicura 54,11-17 La pericope si divide in due parti: la prima (vv. 11-13) riguarda lo splendore della nuova Gerusalemme; la seconda (vv. 14-17) prospetta alla città ricostruita la stabilità interna nella giustizia e la sicurezza esterna dai nemici.

11-13. Il tema della ricostruzione della città presenta notevoli affinità con Ezechiele (cfr. Ez 43,1-9), ma non contiene nessun riferimento al tempio, un chiaro indizio che il brano va collocato probabilmente al tempo di Neemia. L'autore vede nella sicurezza raggiunta dalla città con la ricostruzione delle sue mura il segno di un nuovo futuro. E difficile identificare tutti i metalli preziosi che formano la nuova Gerusalemme. Invece è chiaro l'intento simbolico di questa descrizione. Lo splendore della città, le cui fondamenta riflettono il verde e l'azzurro cupo del cielo, mentre l'oro delle porte richiama il fulgore del sole, sottolinea che la nuova Gerusalemme è opera del Signore. L'intervento prodigioso di JHWH si esprime soprattutto nei figli di Sion che sono «discepoli del Signore». Questa espressione, che si richiama a Ger 31,34, segna il passaggio dalla descrizione simbolica all'annuncio teologico. La nuova Gerusalemme è la città della nuova alleanza nella quale tutti sono «discepoli» del Signore (cfr. Is 50,4), vivono nell'accoglienza del suo amore e dei suoi doni e perciò sperimentano in forma abbondante la nuova condizione di sicurezza, libertà, benessere e prosperità (pace).

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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1Chi avrebbe creduto al nostro annuncio? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore? 2È cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. 3Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. 4Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. 5Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. 6Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti. 7Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca. 8Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua posterità? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu percosso a morte. 9Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno nella sua bocca. 10Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. 11Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. 12Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli.

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Approfondimenti

La morte salvifica del servo 52,13-53,12 53,1-3. Il v. 1 funge da transizione che lega la conclusione del prologo («ciò che mai avevano udito») con quanto ora viene fatto udire dall'annuncio di un gruppo anonimo nel quale la voce dell'autore si confonde con quella della sua comunità e di coloro che ne condivideranno l'esperienza di fede. Ora inizia la descrizione del servo (v. 2). Egli cresce alla presenza del Signore come virgulto e come radice. Queste immagini rievocano le promesse messianiche, in particolare Is 11, 1-4 (cfr. Ger 23,5; Ez 17,6.22; Zc 3,8). Fin da questo richiamo, però, si sprigiona la novità. Il protagonista del nostro poema non può sviluppare la gloria e la potenza perché è come «una radice in terra arida» che non offre possibilità di sviluppo; non ha né bellezza né splendore e perciò è privo dei segni della benedizione divina (cfr. Gn 39,6; 1 Sam 16,18 e, soprattutto, Sal 45,3-4). Il quadro desolato si riempie ora con l'accenno alle sue sofferenze (v. 3) che sono descritte con il linguaggio proprio delle lamentazioni. L'inclusione costituita dal termine «disprezzato» orienta a vedere nel disprezzo e nel rifiuto degli uomini l'elemento che caratterizza in modo determinante le sofferenze del protagonista. Egli è «uomo dei dolori che ben conosce il patire» perché vive nella propria persona il dramma dell'abbandono e della perdita di ogni stima che rendono la sua presenza nella comunità priva di significato e di valore.

4-6. La seconda strofa contiene la spiegazione dell'enigma del servo. La riflessione parte dal gruppo che si identifica con il “noi” (v. 4), si dirige sul protagonista (“Egli”, v. 5), per ritornare al “Noi” (v. 6a) e culminare nella confessione dell'opera del Signore (v. 6b). Nei salmi di lamentazione l'orante può riconoscere la sventura come conseguenza del proprio peccato e invocarne il perdono (cfr. 38,5.19; Lam 3,40.42). Qui invece proprio la comunità che, come gli amici di Giobbe, considerava il protagonista «castigato», «percosso» e «umiliato» da Dio, ne proclama ora l'innocenza. In realtà, come afferma il v. 4, il servo ha portato le sofferenze che la comunità aveva attirato su di sé con le proprie colpe. Questa constatazione prepara così la confessione centrale del v. 5: la legge ferrea della colpa e della punizione viene qui spezzata. Con novità inaudita il testo afferma che la colpa grava sulla comunità (“noi”), mentre la sofferenza colpisce il servo. Non si tratta di cieca fatalità, ma di incommensurabile solidarietà, Su di lui, infatti, si è abbattuta la punizione (l'ebraico mûsār denota un'azione che tende alla formazione pedagogica delle persone nei valori della rettitudine e della giustizia propri della sapienza) che porta alla comunità il benessere della salvezza (pace). Giunge così la conseguenza che nulla perde del suo carattere ardito nonostante le premesse che l'hanno preparata: «per le sue piaghe noi siamo stati guariti». Il v. 6 riprende le affermazioni paradossali del v. 5 per situarle in una prospettiva nella quale fede, teologia e vita si incontrano in una sintesi incomparabilmente feconda. La comunità confessa la propria situazione paragonabile a un gregge disperso (immagine tipica dell'esilio, cfr. Ez 34,5-16; Ger 50,6; Is 40,11). Con una costruzione pregnante si afferma che ciascuno aveva rivolto la sua faccia verso la propria strada così che, proseguendo il cammino, si sarebbe trovato sempre più lontano dagli altri. La sofferenza del servo guarisce la comunità da questo processo di dispersione e disgregazione che altrimenti sarebbe stato inarrestabile. Tutto ciò ha la sua fonte e la sua spiegazione nel disegno di JHWH, come confessa la comunità rinnovata: «il Signore fece ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti». La forma causativa del verbo ebraico molto probabilmente ha, nella nostra frase, il significato causativo interno; la frase allora può tradursi: «il Signore ha accettato (per sé) che la colpa di noi tutti ricadesse su di lui». La sofferenza e la morte del servo non hanno segnato la fine assurda di un'esistenza votata a infondere speranza nel popolo, ma, per la volontà del Signore, diventano sorgente di guarigione, di ritrovata coesione e unione, di vita. La solidarietà che unisce la comunità al servo non è frutto di una scelta umana, ma è opera di Dio.

7-9. Il quadro teologico appena delineato conduce la terza strofa a contemplare il servo nella realtà della sua sofferenza. Egli è fatto oggetto di violenza fisica (lo stesso verbo, «maltrattare», connota l'oppressione egiziana, cfr. Es 3,7), tuttavia accetta nel silenzio il suo destino. Con le immagini dell'«agnello condotto al macello», e della «pecora muta di fronte ai suoi tosatori», l'autore accenna al processo e alla condanna e rievoca la solidarietà del servo con il popolo (disperso come un gregge). Al tempo stesso le due immagini conferiscono al poema particolare ricchezza di contenuto e bellezza stilistica. Esse pongono il silenzio del servo nella prospettiva feconda della persecuzione dei profeti (cfr. Ger 11, 19) e coestensivamente gli conferiscono un “pathos” umano che non conosce confini. Nonostante le particolari difficoltà del v. 8 è possibile arguire che il testo parla di un'azione forense contro il servo svoltasi in modo iniquo e conclusasi con la sentenza capitale. Il v. 8b ribadisce che la sua eliminazione dalla terra dei viventi è dovuta alla colpa del popolo. Forse il suffisso «mio» aggiunto al sostantivo «popolo» è opera di uno scriba che vedeva in questa dichiarazione una sentenza del Signore. Il disprezzo e l'oltraggio del servo non si arrestano nemmeno con la sua morte. Egli è gettato nella fossa comune dei giustiziati (v. 9a). La frase «con il ricco (i ricchi) fu il suo tumulo» è probabilmente una locuzione stereotipata nella quale il termine «ricco» è usato in senso ironico e dispregiativo per indicare i malfattori. Nel momento in cui l'ingiustizia ha sviluppato la propria opera contro il servo, la sua innocenza viene riconosciuta e proclamata esplicitamente: egli non è stato né un criminale, né un ingannatore (9b). Con una simile dichiarazione di innocenza il poema acquista in coesione interiore e potenza espressiva. La comunità che aveva ritenuto il servo colpito da Dio ora lo riconosce vittima di trame inique e macchinazioni violente. La fede nel Dio dell'esodo non può mai trasformare la sofferenza dell'innocente in un narcotico dell'ingiustizia umana. La coesione, che la comunità ritrova grazie al servo, si consolida in un cammino che non legittima nessun compromesso con l'ingiustizia.

10-11a. La comunità, dopo la morte del servo, riconosce e confessa la sua glorificazione. Anzitutto si afferma che il Signore ha posto il suo compiacimento nel servo colpito. Ciò significa che, contrariamente alle apparenze, il Signore è sempre stato con il suo servo e dalla sua parte. La vicinanza del Signore al servo non si arresta con la morte. Ne è una prova la sua esaltazione, anticipata nel prologo e qui chiaramente presupposta e riconosciuta. Rimane però difficile precisare come l'autore abbia inteso questa esaltazione. Le espressioni «vedere una discendenza», «vivere a lungo» rievocano il linguaggio dei Salmi recitati in occasione del sacrificio di lode, quando si ringraziava il Signore che aveva liberato l'orante dalla morte (cfr. Sal 22,30c-31). Non pochi esegeti in passato hanno letto in queste espressioni l'annuncio della risurrezione del servo dai morti. Certo il testo parla di una glorificazione del servo dopo la sua morte, però la sua risurrezione non è affermata con una chiarezza capace di fugare ogni dubbio. Anche se questa pagina si presta in modo particolare ad essere reinterpretata nella prospettiva della risurrezione (attestata nella versione dei LXX), l'esegesi non può riferire automaticamente tale interpretazione posteriore al significato originario del testo. Un dato si impone, comunque, con chiarezza. La sofferenza del servo, culminata nella sua morte, ha il valore di un sacrificio di espiazione. Con questa categoria il compiacimento del Signore manifesta tutto il suo significato concreto e salvifico. Per la Scrittura, infatti, il sintagma “espiare i peccati” connota l'azione divina che sottrae l'uomo dalla condizione di morte, dalla quale era stato catturato con il peccato, e lo situa nuovamente nella comunione con JHWH, il Dio vivente. Solo il Signore “espia il peccato” perché solo lui può liberare l'uomo dall'ambito della morte e introdurlo nello spazio vitale del suo amore. La morte del servo è dunque resa da Dio strumento di espiazione per il suo popolo e per l'umanità (cfr. il prologo e l'epilogo), strumento mediante il quale il Signore realizza il proprio disegno di vita. La discendenza, che il servo vedrà dopo il suo «tormento», è il segno che la radice nel terreno arido è divenuta albero fecondo di frutti (v. 11a).

11b-12. Nell'epilogo ritorna la voce del Signore che conferma il messaggio della parte centrale relativa al suo servo. Il servo non solo è innocente, ma con la sua espiazione solidale rende possibile alla totalità delle moltitudini di partecipare alla giustizia e, quindi, alla salvezza (v. 11b; cfr. Dn 12,3 che è stato influenzato dal nostro testo). Il v. 12 riassume il prologo e la parte centrale ripresentando la grandezza del servo in stretto rapporto con il valore salvifico della sua morte.

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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1Svégliati, svégliati, rivèstiti della tua magnificenza, Sion; indossa le vesti più splendide, Gerusalemme, città santa, perché mai più entrerà in te l’incirconciso e l’impuro. 2Scuotiti la polvere, àlzati, Gerusalemme schiava! Si sciolgano dal collo i legami, schiava figlia di Sion! 3Poiché dice il Signore: «Per nulla foste venduti e sarete riscattati senza denaro». 4Poiché dice il Signore Dio: «In Egitto è sceso il mio popolo un tempo, per abitarvi come straniero; poi l’Assiro, senza motivo, lo ha oppresso. 5Ora, che cosa faccio io qui? – oracolo del Signore. Sì, il mio popolo è stato deportato per nulla! I suoi dominatori trionfavano – oracolo del Signore – e sempre, tutti i giorni, il mio nome è stato disprezzato. 6Pertanto il mio popolo conoscerà il mio nome, comprenderà in quel giorno che io dicevo: “Eccomi!”».

Il messaggero di pace 7Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza, che dice a Sion: «Regna il tuo Dio». 8Una voce! Le tue sentinelle alzano la voce, insieme esultano, poiché vedono con gli occhi il ritorno del Signore a Sion. 9Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme. 10Il Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutte le nazioni; tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio.

L'esodo rinnovato 11Fuori, fuori, uscite di là! Non toccate niente d’impuro. Uscite da essa, purificatevi, voi che portate gli arredi del Signore! 12Voi non dovrete uscire in fretta né andarvene come uno che fugge, perché davanti a voi cammina il Signore, il Dio d’Israele chiude la vostra carovana.

La morte salvifica del servo 13Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente. 14Come molti si stupirono di lui – tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo –, 15così si meraviglieranno di lui molte nazioni; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto mai a essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito.

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Approfondimenti

Il dono della liberazione 51,9-52,6 52,1-2. Gerusalemme appare come la «città santa», definitivamente liberata dagli incirconcisi e dagli «impuri», vale a dire da coloro che non possono partecipare al suo culto (v. 1), Si delinea così, nel simbolo della città, la nuova condizione del popolo. La serie degli otto imperativi che ricorrono in questi versetti trova proprio qui la sua sintesi e il suo significato. Lo splendore del popolo del Signore è la sua stessa libertà, che è dono divino e, conseguentemente, conquista dell'uomo quando si apre con fiducia alla parola del suo Dio.

3-6. Si incontrano qui varie glosse inserite per commentare l'annuncio della liberazione culminante in 52, 1-2. Il v. 3 richiama la problematica sollevata da 50,1 per sottolineare che la schiavitù di Israele non era dettata da nessuna motivazione che non fosse la sua colpa. Un ulteriore commento è contenuto nei vv. 4-6. In rapida successione la riflessione scandisce le tappe “storiche” emblematiche della schiavitù di Israele: Egitto, Assiria (v. 4), per concentrarsi in modo particolare sull'ultima, Babilonia.

Il messaggero di pace 52,7-10 Al poema di 51,9-52,2(3-6) segue questo brano che condensa in poco spazio immagini poetiche e motivi teologici di straordinaria ricchezza. Il brano, pervaso dall'inizio alla fine da una gioiosa esperienza di salvezza, si articola in due parti. I vv. 7-8 proclamano il ritorno del Signore a Sion con l'immagine del re che entra nella sua capitale dopo aver realizzato la vittoria decisiva sui suoi nemici. I vv. 9-10 sono, invece, un inno di lode che svolge una funzione analoga agli altri distribuiti nei cc. 40-55 e quindi costituisce la degna conclusione della presente sezione. La somiglianza del v. 7 con Na 2,1 e l'affinità dei vv. 9-10 con 40,9-11 costituiscono un forte indizio per ritenere che il nostro versetto non appartenga al Deuteroisaia, ma sia da mettere in rapporto con l'entusiasmo suscitato dall'opera di Neemia.

7-8. Nella gioia di un evento fondamentale per Gerusalemme il poeta contempla il messaggero che sui monti reca il lieto annuncio (v. 7). Questo “vangelo” si caratterizza anzitutto con tre sostantivi nei quali si condensa la speranza di Sion: «pace», «bene», «salvezza». Il vertice e la sintesi del lieto annuncio sono costituiti dall'acclamazione «Regna il tuo Dio». La formula consueta «Il Signore regna» (Sal 93,1; 97,1; 99,1; 96,10 (cfr. 1Cr 16,31) o «Regna il Signore» (cfr. Sal 47,9; Sof 3,15; Is 24,33) è qui modificata in modo che colui che si manifesta come re salvatore e vittorioso appaia come il Dio che si unisce con il vincolo dell'alleanza alla sua città e, conseguentemente, al suo popolo («il tuo Dio»).

L'esodo rinnovato 52,11-12 Incontriamo il messaggio fondamentale verso cui tende tutta la predicazione del Deuteroisaia. Attraverso una serie di imperativi, il profeta contempla il momento della grande svolta quando si effettuerà l'esodo annunciato. L'imperativo «Uscite da essa» si riferisce indubbiamente a Babilonia, che forse era menzionata nel contesto originario del detto o addirittura in un distico che nella redazione fu lasciato cadere. La processione, nella quale sono portati gli arredi del Signore per il nuovo tempio di Gerusalemme (v. 11; cfr. 2Cr 36,7.10.18-19), è un'immagine emblematica del nuovo esodo. In questa visuale si situano le affermazioni del v. 12 secondo cui l'uscita non avviene «in fretta» (cfr. Es 12,11; Dt 16,3), come se si trattasse di fuga (cfr. Es 14,5). Nonostante gli ostacoli l'esodo si compie nella pace e nella sicurezza, perché il Signore cammina davanti alla schiera dei redenti per combattere in loro favore (cfr. Dt 20,4) ed egli stesso ne chiude la carovana (cfr. Es 14,19) per liberare i suoi da ogni pericolo.

La morte salvifica del servo 52,13-53,12 Il quarto canto del servo di JHWH è il carme nel quale sono confluite le prospettive più alte della fede di Israele. La struttura generale del poema è semplice. Il prologo (52,13-15) e l'epilogo (53,11-12) contengono una parola del Signore che presenta il servo, anticipando il senso della missione e confermando, alla fine, il valore salvifico della sua sofferenza e morte. La parte centrale (53,1-10), composta da quattro strofe (vv. 1-3; 4-6; 7-9; 10) è un intreccio narrativo dove, oltre il nome del Signore, entrano in scena il pronome plurale “noi” e il pronome singolare “egli”. Il prologo e l'epilogo assicurano che il testo parla del servo. Molto più problematica è invece l'individuazione del «noi». A nostro avviso il quarto canto del servo proviene dallo stesso autore del primo (Is 42,1-4) come si evince dai contatti letterari che l'esegesi ha rilevato. In entrambi i casi l'autore si è ispirato al secondo (Is 49,1-6) e al terzo canto (Is 50,4-9a) dove parla l'“io” stesso del profeta (Deuteroisaia). Così se il primo canto sottolinea la dimensione universale del messaggio del servo (cfr. Is 49,1-6), anche l'ultimo si muove indubbiamente in un orizzonte che abbraccia la moltitudine dei popoli. Tuttavia tale orizzonte ha come motivo centrale la sofferenza del servo (cfr. Is 50,4-9a). Mentre nel terzo canto la sofferenza è illuminata dall'esperienza interiore del profeta che accoglie l'insegnamento divino, qui è interpretata dalla parola di JHWH (prologo ed epilogo) e questa, a sua volta, è mediata dalla testimonianza della stessa comunità di Israele che ha trovato nella fedeltà del servo la sorgente della propria conversione (cfr. Is 49,6a). Certamente l'autore del quarto canto ha creato un testo aperto e ogni lettore può trovarsi inserito nel “Noi”, che passa dall'incomprensione alla confessione del servo. Tuttavia le precedenti osservazioni orientano a ritenere che nel “Noi” di Is 53,1-10 parla l'autore stesso del canto, in quanto portavoce di quella parte del popolo che vive la propria fede nella conversione e, quindi, nella fedeltà al Signore.

52,13-15. Il discorso divino del prologo presenta lo stesso inizio del primo canto: «Ecco, Il mio servo» (Is 42,1). La connessione letteraria, chiaramente intenzionale, ha una significativa rilevanza teologica. Il Signore ha presentato il servo all'inizio della sua missione e lo presenta ora quando si parla della sua fine. Nel primo caso la parola divina ha dischiuso il contenuto della missione del servo e la sua irradiazione universale. Qui si conferma la dimensione universale prospettando al tempo stesso il significato salvifico della sua morte. La meraviglia di cui parla la finale del v. 15 è suscitata proprio dalla novità rappresentata dal destino del servo glorificato, novità che permette ora all'umanità di «vedere» e «comprendere» un evento che supera ogni racconto e ogni dato della tradizione. Questa novità costituisce appunto il tema sviluppato dal poema che qui è stato introdotto.

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Trionfo della liberazione divina 1Ascoltatemi, voi che siete in cerca di giustizia, voi che cercate il Signore; guardate alla roccia da cui siete stati tagliati, alla cava da cui siete stati estratti. 2Guardate ad Abramo, vostro padre, a Sara che vi ha partorito; poiché io chiamai lui solo, lo benedissi e lo moltiplicai. 3Davvero il Signore ha pietà di Sion, ha pietà di tutte le sue rovine, rende il suo deserto come l’Eden, la sua steppa come il giardino del Signore. Giubilo e gioia saranno in essa, ringraziamenti e melodie di canto! 4Ascoltatemi attenti, o mio popolo; o mia nazione, porgetemi l’orecchio. Poiché da me uscirà la legge, porrò il mio diritto come luce dei popoli. 5La mia giustizia è vicina, si manifesterà la mia salvezza; le mie braccia governeranno i popoli. In me spereranno le isole, avranno fiducia nel mio braccio. 6Alzate al cielo i vostri occhi e guardate la terra di sotto, poiché i cieli si dissolveranno come fumo, la terra si logorerà come un vestito e i suoi abitanti moriranno come larve. Ma la mia salvezza durerà per sempre, la mia giustizia non verrà distrutta. 7Ascoltatemi, esperti della giustizia, popolo che porti nel cuore la mia legge. Non temete l’insulto degli uomini, non vi spaventate per i loro scherni; 8poiché le tarme li roderanno come una veste e la tignola li roderà come lana, ma la mia giustizia durerà per sempre, la mia salvezza di generazione in generazione.

Il dono della liberazione 9Svégliati, svégliati, rivèstiti di forza, o braccio del Signore. Svégliati come nei giorni antichi, come tra le generazioni passate. Non sei tu che hai fatto a pezzi Raab, che hai trafitto il drago? 10Non sei tu che hai prosciugato il mare, le acque del grande abisso, e hai fatto delle profondità del mare una strada, perché vi passassero i redenti? 11Ritorneranno i riscattati dal Signore e verranno in Sion con esultanza; felicità perenne sarà sul loro capo, giubilo e felicità li seguiranno, svaniranno afflizioni e sospiri. 12Io, io sono il vostro consolatore. Chi sei tu perché tu tema uomini che muoiono e un figlio dell’uomo che avrà la sorte dell’erba? 13Hai dimenticato il Signore tuo creatore, che ha dispiegato i cieli e gettato le fondamenta della terra. Avevi sempre paura, tutto il giorno, davanti al furore dell’avversario, perché egli tentava di distruggerti. Ma dov’è ora il furore dell’avversario? 14Il prigioniero sarà presto liberato; egli non morirà nella fossa né mancherà di pane. 15Io sono il Signore, tuo Dio, che agita il mare così che ne fremano i flutti – Signore degli eserciti è il suo nome. 16Io ho posto le mie parole sulla tua bocca, ti ho nascosto sotto l’ombra della mia mano, quando ho dispiegato i cieli e fondato la terra, e ho detto a Sion: «Tu sei mio popolo». 17Svégliati, svégliati, àlzati, Gerusalemme, che hai bevuto dalla mano del Signore il calice della sua ira; la coppa, il calice della vertigine, hai bevuto, l’hai vuotata. 18Nessuno la guida tra tutti i figli che essa ha partorito; nessuno la prende per mano tra tutti i figli che essa ha allevato. 19Due mali ti hanno colpito, chi avrà pietà di te? Desolazione e distruzione, fame e spada, chi ti consolerà? 20I tuoi figli giacciono privi di forze agli angoli di tutte le strade, come antilope in una rete, pieni dell’ira del Signore, della minaccia del tuo Dio. 21Perciò ascolta anche questo, o misera, o ebbra, ma non di vino. 22Così dice il Signore, tuo Dio, il tuo Dio che difende la causa del suo popolo: «Ecco, io ti tolgo di mano il calice della vertigine, la coppa, il calice della mia ira; tu non lo berrai più. 23Lo metterò in mano ai tuoi torturatori che ti dicevano: “Cùrvati, che noi ti passiamo sopra”. Tu facevi del tuo dorso un suolo e una strada per i passanti».

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Approfondimenti

Trionfo della liberazione divina 51,1-8 La triplice esortazione «Ascoltatemi» (v. 1), «porgetemi l'orecchio» (v. 4), «Ascoltatemi» (v.7) divide il testo in tre parti, unite insieme solo a livello redazionale. Il popolo del Signore è invitato a ricordare l'elezione che si pone all'inizio della sua storia (vv. 1-2; il v. 3 è un frammento innico inserito come conferma dell'invito rivolto al popolo). L'invito è quindi indirizzato ai popoli perché abbiano fiducia nella salvezza del Signore (vv. 4-6). Infine JHWH si rivolge al suo popolo rinnovato dalla nuova alleanza perché affronti le prove, sicuro che la giustizia salvifica del suo Dio durerà per sempre (vv. 7-8). Le tre parti sono recenti in quanto riflettono sia l'inaugurazione della torah ad opera di Esdra, sia la teologia del Cronista. Esse rappresentano perciò una preziosa testimonianza dell'interesse suscitato dalla «Visione di Isaia» e, in particolare, dal messaggio di liberazione e speranza del Deuteroisaia.

1-3. La locuzione «cercare il Signore» diventa al tempo del Cronista la formula con cui si esprime il comandamento fondamentale, vale a dire l'orientamento totale, esclusivo e permanente del popolo dell'alleanza al suo Dio. Il popolo è invitato a guardare alla solidità delle proprie origini. Tale solidità, che il testo esprime con le immagini eloquenti della «roccia» e della «cava», non è dovuta alla potenza umana (Sara non poteva avere figli), ma unicamente al Signore che chiamò Abramo e lo benedisse donandogli da Sara il figlio Isacco e, in lui, la discendenza promessa (v. 2). Un simile invito è quindi palesemente orientato a rinnovare, nel popolo, la fiducia nel Signore e nella sua promessa, una fiducia che è capace di attendere, nella consapevolezza delle impossibilità umane, le opere della potenza divina. Questa prospettiva è accentuata dall'aggiunta del frammento innico che delinea la ricostruzione di Gerusalemme e dei suoi dintorni come l'opera del Signore che «ha consolato» Sion con tutte le sue rovine.

4-6. La prospettiva e il linguaggio richiamano da vicino l'universalismo del primo canto del servo (in particolare il v. 5b riproduce quasi alla lettera 42,4) e di Is 2,1-4.

7-8. Il popolo è qui caratterizzato come colui che ha sperimentato e continua a sperimentare la vittoria del Signore. Una simile caratteristica, come indica la frase parallela, è dovuta al fatto che il popolo ha la torah del Signore nel suo cuore (v. 7a) e, quindi, vive nell'esperienza della nuova alleanza (cfr. Ger 31,31-34). Con la formula di incoraggiamento il popolo è invitato a non temere «l'insulto» e «gli scherni» degli uomini (v. 7b). Da Sof 2,8 risulta che questi due sostantivi si riferiscono alle vessazioni dei nemici di Israele.

Il dono della liberazione 51,9-52,6 Si tratta di una composizione redazionale le cui unità sono scandite da una triplice serie di imperativi duplicati: «Svegliati, svegliati» (51,9); «Svegliati, svegliati» (51,17); «Svegliati, svegliati» (52,1).

  • La prima strofa è una supplica al Signore perché rinnovi i prodigi della salvezza (51,9-11), cui seguono delle aggiunte sotto forma di risposta divina al grido di aiuto del popolo (51, 12-14. 15-16).
  • La seconda strofa (51,17-23) è invece un invito a Gerusalemme perché si ridesti davanti al Signore che interviene per difendere la causa del suo popolo.
  • Infine la terza strofa (52,1-2) contiene l'invito a Sion a vivere nella libertà.

I vv. 3-6, in prosa, sono invece un'aggiunta che offre un'interpretazione particolarmente rilevante per la sua ricchezza teologica.

9-11. Nei vv. 9-10 si incontra il linguaggio proprio dei Salmi della supplica collettiva. Essa è caratterizzata dall'invocazione di aiuto e dalla memoria degli interventi salvifici con cui si intende rafforzare la preghiera. Nel nostro brano la supplica è rivolta con una vigorosa apostrofe al «braccio di JHWH», un'espressione che richiama la potenza salvifica del Signore, che si è manifestata in modo paradigmatico nell'esodo (cfr. Es 6,6; 15,15-16; Dt 4,34; 5,15; 7,19; 9,29; 11,2; 26,8) e che continua a perpetuarsi nella storia (cfr. 1Re 8,42; 2Cr 6,32). La potenza del Signore nella creazione è richiamata, simbolicamente, con le immagini mitiche dell'Antico Oriente (vv. 9b-10a). Il motivo dell'esodo, invece, è descritto con il linguaggio poetico di Es 15,8.14 (v. 10b). Il v. 11 riproduce quasi alla lettera 35,10 ed è un'aggiunta inserita come interludio per puntualizzare che il prodigio dell'esodo si rinnoverà in favore di tutti coloro che il Signore ha riscattato. Per costoro il ritorno a Sion segnerà l'inizio della gioia escatologica, libera da ogni afflizione.

12-16. La risposta di JHWH all'invocazione di Israele suppone un articolato processo redazionale. Ciò appare fin dai vv. 12-13, dove, nel testo ebraico, il Signore interpella Israele prima con il plurale maschile (“voi”), poi con il femminile singolare e infine con il maschile singolare. Il motivo della consolazione permette di datare il nucleo fondamentale del detto al tempo di Neemia. La forte contrapposizione tra «Io, io sono» e «Chi sei tu...?» evidenzia l'infondatezza della paura di Israele verso degli uomini che, nonostante la loro potenza, sono dei semplici mortali e, quindi, effimeri come l'erba (v. 12b; cfr. 40,6-8; Sal 90,5). A livello teologico la paura è segno di una realtà ben più profonda: Israele ha dimenticato il Signore la cui potenza non si è esplicata solo nello stendere i cieli e nel porre le fondamenta della terra, ma anche nella formazione del popolo di cui è quindi il creatore.

17-20. Con un linguaggio mutuato dalle lamentazioni collettive il profeta descrive Sion costretta a bere il «calice dell'ira» del Signore (v. 17). Questa metafora, che appare in forma grandiosa in Ger 25,15-29, connota la condizione di coloro che si trovano sotto l'ira divina ed è riferita sia a Gerusalemme (come nel nostro caso), sia ad altri popoli (Moab, Babilonia, Edom), sia alla totalità delle nazioni. Il v. 18 per ragioni metriche e di contenuto appare un'aggiunta che vede nella mancanza di guide e di attenzione alle necessità della comunità un segno dell'ira divina nella quale si trova Gerusalemme. Che cosa il profeta intenda esprimere con la metafora del «calice dell'ira divina» è esplicitato nei vv. 19-20. La città è stata colpita da due mali: la desolazione e la distruzione da una parte (cfr. 59,7; 60,18; Ger 48,3), la fame e la spada dall'altra.

23. L'immagine dei vincitori che camminano sul «dorso» dei popoli sconfitti, attestata da vari bassorilievi dell'Oriente Antico e conosciuta anche dai testi biblici (cfr. Gs 10,24; 1Re 5,17; Sal 66,12; 110,1), esprime eloquentemente l'umiliazione dei vinti e la loro incapacità a sollevarsi. Per questo essa manifesta con suggestiva efficacia la potenza della liberazione divina che caratterizza il futuro del popolo del Signore.

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Giudizio e liberazione 1Dice il Signore: «Dov’è il documento di ripudio di vostra madre, con cui l’ho scacciata? Oppure a quale dei miei creditori io vi ho venduti? Ecco, per le vostre iniquità siete stati venduti, per le vostre colpe è stata scacciata vostra madre. 2Per quale motivo non c’è nessuno, ora che sono venuto? Perché, ora che chiamo, nessuno risponde? È forse la mia mano troppo corta per riscattare oppure io non ho la forza per liberare? Ecco, con una minaccia prosciugo il mare, faccio dei fiumi un deserto. I loro pesci, per mancanza d’acqua, restano all’asciutto, muoiono di sete. 3Rivesto i cieli di oscurità, do loro un sacco per mantello».

Il servo, discepolo del Signore 4Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli. 5Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. 6Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. 7Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso. 8È vicino chi mi rende giustizia: chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. 9Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?

Ascoltare la voce del servo Ecco, come una veste si logorano tutti, la tignola li divora. 10Chi tra voi teme il Signore, ascolti la voce del suo servo! Colui che cammina nelle tenebre, senza avere luce, confidi nel nome del Signore, si affidi al suo Dio. 11Ecco, voi tutti che accendete il fuoco, che vi circondate di frecce incendiarie, andate alle fiamme del vostro fuoco, tra le frecce che avete acceso. Dalla mia mano vi è giunto questo; voi giacerete nel luogo dei dolori.

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Approfondimenti

Giudizio e liberazione 50,1-3 La breve pericope, che si conclude in modo repentino e forse anche incompleto, appartiene letterariamente a una contesa giudiziaria nella quale JHWH si difende dalle accuse mossegli dagli Israeliti (cfr. 42,18-25 e 43,22-28). Tanto il genere letterario quanto il contenuto orientano a ritenere che il detto rifletta l'esperienza dolorosa dell'esilio. Si tratta quindi di un detto autentico del Deuteroisaia che il redattore finale ha premesso come introduzione al terzo canto del «servo» di JHWH.

1-2a. Il rimprovero si sviluppa ispirandosi a due disposizioni del diritto israelitico. Secondo la prima, l'uomo, in caso di divorzio, doveva dare alla moglie il libretto di ripudio e quindi scacciarla di casa. Se la donna fosse andata sposa a un altro uomo non avrebbe più potuto essere ripresa dal primo marito (cfr. Dt 24,1-4). Un'altra disposizione contemplava il caso di un uomo costretto a vendere i propri figli per saldare i debiti con i suoi creditori (cfr. Es 21,7; 2Re 4,1; Ne 5,5). Anche in questo caso l'uomo non poteva più rivendicare per sé i figli venduti. La risposta del Signore assume questo linguaggio giuridico apportandovi, però, due modifiche significative. Il popolo certo è stato «scacciato» lontano dal suo Dio (esilio), ma il Signore non ha dato il libretto di ripudio e quindi Israele continua ad appartenere al Signore. Inoltre non esistono dei «creditori» ai quali JHWH sia stato costretto a vendere i suoi figli. Appare così che l'esilio non è segno della volontà del Signore di allontanare da sé il suo popolo, ma è la conseguenza dell'infedeltà di quest'ultimo.

Il servo, discepolo del Signore 50,4-9a Questa pericope presenta vari elementi affini anzitutto a Is 49,1-6 e inoltre a Is 42,1-4 e 52,13-53,12: il motivo della prova, la perseveranza nella missione e la consapevolezza della validità della propria opera davanti al Signore. Per questo il nostro passo, anche se non contiene il termine «servo», è stato giustamente riconosciuto come il “terzo canto del servo di JHWH”. L'uso della prima persona singolare mostra che si tratta di una composizione nella quale, come in 49,1-6, si riflette l'esperienza interiore del profeta, convenzionalmente chiamato Deuteroisaia, di fronte alle crescenti difficoltà incontrate nel suo ministero. La pericope, il cui campo è dominato dall'espressione «Il Signore Dio» (vv. 4.5.7.9), si divide in due parti: – la prima (vv. 4-6) richiama l'opera del Signore, che è all'origine della missione del servo e della sua fedeltà nelle persecuzioni; – la seconda (vv. 7-9a) sottolinea l'aiuto che il Signore dona al servo, rendendolo sicuro della sua innocenza.

4-6. L'inizio del canto (v. 4) è dominato dal vocabolario dell'ascolto e della parola, come si evince dalla locuzione originale «lingua da discepolo»: il profeta è l'uomo che comunica la parola divina per sostenere coloro che sono privi di fiducia e speranza. Egli ha questa capacità perché è discepolo che annuncia quanto egli stesso ascolta ogni giorno dal suo Dio, affrontando, per la parola di JHWH, gli oltraggi umilianti di una dura persecuzione.

7-9a. L'espressione «Il Signore Dio mi assiste» forma un'inclusione che conferisce particolare forza alla seconda parte del canto. Il profeta sperimenta l'aiuto di colui che gli desta l'orecchio ogni mattina, perciò accetta le sofferenze causategli dagli avversari, avendo la sicurezza di essere nel disegno del Signore e quindi di non restare mai «confuso». La locuzione «rendo la mia faccia dura come pietra», che si ispira a Ez 3,8-9, sottolinea che proprio questa sicurezza comunica al profeta la forza di affrontare tutte le prove.

Ascoltare la voce del servo 50,9b-11 Questi versetti rappresentano diverse aggiunte con cui si è inteso offrire un commento al “canto del servo del Signore”. I vv. 9b-10 formano la prima aggiunta di stampo sapienziale (cfr. Gb 13,28). Per comprendere il v. 11 è importante la locuzione «accendete il fuoco e tenete tizzoni accesi», con cui si richiamano le ingiurie e le persecuzioni degli empi contro i «pii» (cfr. Sal 57,5). Si tratta, quindi, di un'aggiunta recente che si incontra più volte nella «Visione di Isaia».

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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LA CONSOLAZIONE DI SION

La missione del servo 1Ascoltatemi, o isole, udite attentamente, nazioni lontane; il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fino dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome. 2Ha reso la mia bocca come spada affilata, mi ha nascosto all’ombra della sua mano, mi ha reso freccia appuntita, mi ha riposto nella sua faretra. 3Mi ha detto: «Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria». 4Io ho risposto: «Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze. Ma, certo, il mio diritto è presso il Signore, la mia ricompensa presso il mio Dio». 5Ora ha parlato il Signore, che mi ha plasmato suo servo dal seno materno per ricondurre a lui Giacobbe e a lui riunire Israele – poiché ero stato onorato dal Signore e Dio era stato la mia forza – 6e ha detto: «È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra».

Il futuro del popolo 7Così dice il Signore, il redentore d’Israele, il suo Santo, a colui che è disprezzato, rifiutato dalle nazioni, schiavo dei potenti: «I re vedranno e si alzeranno in piedi, i prìncipi si prostreranno, a causa del Signore che è fedele, del Santo d’Israele che ti ha scelto».

Il grande ritorno 8Così dice il Signore: «Al tempo della benevolenza ti ho risposto, nel giorno della salvezza ti ho aiutato. Ti ho formato e ti ho stabilito come alleanza del popolo, per far risorgere la terra, per farti rioccupare l’eredità devastata, 9per dire ai prigionieri: “Uscite”, e a quelli che sono nelle tenebre: “Venite fuori”. Essi pascoleranno lungo tutte le strade, e su ogni altura troveranno pascoli. 10Non avranno né fame né sete e non li colpirà né l’arsura né il sole, perché colui che ha misericordia di loro li guiderà, li condurrà alle sorgenti d’acqua. 11Io trasformerò i miei monti in strade e le mie vie saranno elevate. 12Ecco, questi vengono da lontano, ed ecco, quelli vengono da settentrione e da occidente e altri dalla regione di Sinìm».

Inno al Signore 13Giubilate, o cieli, rallégrati, o terra, gridate di gioia, o monti, perché il Signore consola il suo popolo e ha misericordia dei suoi poveri.

Tenerezza del Signore per Sion 14Sion ha detto: «Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato». 15Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. 16Ecco, sulle palme delle mie mani ti ho disegnato, le tue mura sono sempre davanti a me. 17I tuoi figli accorrono, i tuoi distruttori e i tuoi devastatori si allontanano da te. 18Alza gli occhi intorno e guarda: tutti costoro si radunano, vengono a te. «Com’è vero che io vivo – oracolo del Signore –, ti vestirai di tutti loro come di ornamento, te ne ornerai come una sposa». 19Poiché le tue rovine e le tue devastazioni e la tua terra desolata saranno ora troppo stretti per i tuoi abitanti, benché siano lontani i tuoi divoratori. 20Di nuovo ti diranno agli orecchi i figli di cui fosti privata: «Troppo stretto è per me questo posto; scòstati, perché possa stabilirmi». 21Tu penserai: «Costoro, chi me li ha generati? Io ero priva di figli e sterile, esiliata e prigioniera, e questi, chi li ha allevati? Ecco, ero rimasta sola, e costoro dov’erano?». 22Così dice il Signore Dio: «Ecco, io farò cenno con la mano alle nazioni, per i popoli isserò il mio vessillo. Riporteranno i tuoi figli in braccio, le tue figlie saranno portate sulle spalle. 23I re saranno i tuoi tutori, le loro principesse le tue nutrici. Con la faccia a terra essi si prostreranno davanti a te, baceranno la polvere dei tuoi piedi; allora tu saprai che io sono il Signore e che non saranno delusi quanti sperano in me». 24Si può forse strappare la preda al forte? Oppure può un prigioniero sfuggire al tiranno? 25Eppure, dice il Signore: «Anche il prigioniero sarà strappato al forte, la preda sfuggirà al tiranno. Io avverserò i tuoi avversari, io salverò i tuoi figli. 26Farò mangiare le loro stesse carni ai tuoi oppressori, si ubriacheranno del proprio sangue come di mosto. Allora ogni uomo saprà che io sono il Signore, il tuo salvatore e il tuo redentore, il Potente di Giacobbe».

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Approfondimenti

La missione del servo 49,1-6 Con il c. 49 inizia la seconda parte dell'insieme costituito dai cc. 40-55. Il messaggio di questa sezione presuppone che Gerusalemme si trovi in una condizione particolarmente problematica e prospetta alla città un futuro di salvezza. I testi in questione riflettono quindi, per la maggior parte, la situazione di poco antecedente l'opera di Neemia che provvide a ricostruire le mura di Gerusalemme, a ripopolare la città e a rinnovarne la vita religiosa. Nella redazione del libro si ebbe, tuttavia, l'avvertenza di porre anche in questa sezione alcuni detti del Deuteroisaia, affinché il messaggio salvifico annunciato a Gerusalemme apparisse come la conseguenza della liberazione proclamata dal grande profeta anonimo dell'esilio. Il dato risulta confermato dal fatto che la sezione si trova racchiusa tra due detti del Deuteroisaia che riguardano rispettivamente la vocazione del profeta (49,1-6) e l'efficacia della parola del Signore che realizza sempre la liberazione del popolo (55,10-12a).

La pericope di 49,1-6 si presenta come un detto rivolto ai popoli e ha alcune caratteristiche che la rendono affine a una narrazione di vocazione profetica: il racconto in prima persona, come pure un'evidente dipendenza di vocabolario e di struttura da Ger 1,4-10, ne sono una evidente conferma. Il tenore del testo mostra però che non si tratta di una narrazione di vocazione in senso stretto (questa è forse contenuta in 40,6-8), ma della narrazione relativa alla conferma della vocazione e a un ampliamento della missione ad essa connessa. Il passo appartiene alla serie dei canti del «servo» di JHWH. Il carattere “autobiografico”. del brano come pure la concezione di una missione che si rivolge alle nazioni orientano a ritenere che il «servo» in questione sia appunto il Deuteroisaia, l'autore che ha annunciato la liberazione da Babilonia ad opera di Ciro, liberazione che riguardava, insieme a Israele, anche i popoli deportati. Il brano è costituito dall'introduzione(v. 1a), dall'annuncio della chiamata divina seguita dalla difficoltà del profeta (vv. 1b-4), e infine dalla conferma della vocazione caratterizzata da una missione universale (vv. 5-6).

1a. Con il termine «isole», che connota i popoli remoti della terra (cfr. 42,4), la parola del profeta supera l'orizzonte di Israele e si rivolge alle «nazioni lontane» in modo nuovo. Esse, infatti, non sono soltanto l'ambito nel quale si riversa il giudizio divino, ma alla luce del v. 6 sono, insieme a Israele, le destinatarie della promessa salvifica del profeta.

1b-4. Esprimendosi con le parole di Ger 1,5 il nostro autore condivide la certezza del profeta di Anatot. La vocazione appartiene al disegno eterno del Signore in quanto antecede l'esistenza umana e, proprio per questo, la raggiunge nella sua totalità (v. 1b). Le immagini della «spada affilata» e della «freccia appuntita» sottolineano la potenza della parola che penetra nel cuore di coloro che l'ascoltano (cfr. Ger 23,29) e può raggiungere destinatari lontani. La parola fondamentale, con cui JHWH dichiara il profeta suo «servo» (v. 3), si comprende alla luce della teologia deuteronomistica per la quale Mosè è «servo del Signore»: il profeta che, con la potenza della parola, guida l'esodo del popolo fino alla piena libertà nella terra data da Dio. L'appellativo «Israele», in questo contesto fortemente individuale, è una glossa che testimonia la fase in cui i brani del «servo» del Signore ricevettero una reinterpretazione collettiva. Nella luce del disegno di Dio il profeta riconosce il proprio fallimento (v. 4) con un'espressione stilisticamente efficace che appartiene al genere letterario del “lamento del mediatore” (cfr. analoghi casi sia nelle narrazioni di Mosè ed Elia che nelle confessioni di Geremia).

5-6. Si esplicita l'obiettivo della chiamata divina del «servo»: «ricondurre» Israele al Signore annunciando la possibilità del ritorno a Gerusalemme a cui segue la solenne dichiarazione divina che proclama il servo «luce delle nazioni». Questa dichiarazione non solo conferma il valore della missione del servo, ma la libera da un orizzonte che ingloba esclusivamente Israele per conferirle una dimensione universale: «fino all'estremità della terra». Si tratta di una prospettiva di imponderabili virtualità. La fede nella risurrezione permetterà di reinterpretare questi versetti scorgendo in essi la vocazione di tutta l'umanità alla salvezza attuata da Dio (cfr. 25, 6-8).

Il futuro del popolo 49,7 Il versetto è un'aggiunta che riflette la rilettura dei canti del servo di JHWH in senso collettivo. L'autore di questa aggiunta comprende la missione universale di Israele rileggendo il v. 6 alla luce di Is 52,13-53,12. La sofferenza attuale del popolo è illuminata dalla parola del Signore. La speranza, che sorregge il popolo nella sofferenza enigmatica della prova, si fonda unicamente nella fedeltà del Signore al suo disegno d'amore che si esprime appunto nell'elezione.

Il grande ritorno 49,8-12 Introdotta dalla formula del messaggero, la pericope annuncia la salvezza che riguarda la «risurrezione» del paese dalla sua condizione di abbandono e devastazione. Questo tema orienta a ritenere che il brano, liberato dalle aggiunte, risalga al tempo di Neemia.

9b-10. Il passaggio dalla prima alla terza persona è un indizio che i vv. sono un'aggiunta. Ciò è confermato dal fatto che l'esperienza della salvezza è descritta con tinte escatologiche e con espressioni che si richiamano a Ez 34 (cfr. Sal 23).

11-12. Il Signore non solo annuncia la parola della liberazione, ma realizza la via nella quale il popolo compie il proprio itinerario nella comunione con il suo liberatore e pastore. Al motivo simbolico del cammino della liberazione è stata annessa l'aggiunta del v. 12, che descrive il pellegrinaggio a Sion di tutti i Giudei dispersi, compresa la colonia giudaica di Elefantina che viveva presso la frontiera meridionale dell'antico Egitto.

Inno al Signore 49,13 Questo breve inno di lode assomiglia nella forma e nella funzione a 44,23. La lode, che ha un'irradiazione cosmica, è qui determinata dal fatto che il Signore «consola il suo popolo» e «ha misericordia» dei poveri che confidano in lui. Questi due verbi (il primo costituisce l'inizio dei cc. 40-55) esprimono il contenuto del gioioso annuncio dei capitoli successivi.

Tenerezza del Signore per Sion 49,14-26 Un annuncio di salvezza sviluppato in tre parti (vv. 14-20; 21-23; 24-26), ognuna delle quali inizia con un lamento del popolo e prosegue con la risposta del Signore, che rinnova la promessa del suo amore e l'assicurazione di una grande svolta nella storia del suo popolo. Poiché il tema di fondo è lo scoraggiamento della popolazione e l'annuncio della ricostruzione di Gerusalemme, è probabile che questo brano risalga al tempo di Neemia (cfr. Ne 1,3; 2,17).

14-20. Il lamento di Sion, che si sente «abbandonata» e «dimenticata» (v. 14), costituisce lo sfondo per un detto profetico che, per la ricchezza del suo messaggio e dei suoi simboli, si situa al vertice della riflessione sulla tenerezza divina (cfr. 54,8; Os 11,8; Ger 31,20; Sal 103,8; Es 34, 6-7). Che una donna dimentichi il proprio figlio, così da non avere tenerezza materna, appartiene ai casi-limite dell'esperienza umana che non mettono affatto in dubbio l'amore misterioso di una madre che ha cura della propria creatura fino a impegnare per essa la propria vita. La parola di JHWH muove da questa considerazione per affermare che anche se nell'ambito umano si può verificare un simile caso-limite, il Signore non dimenticherà mai il suo popolo. L'immagine della città «disegnata sulle palme delle mani» del Signore (per una simile metafora cfr. Es 13,16; Dt 6,8; 11,18), così che egli ha sempre davanti a sé le sue mura (v. 16), mette in luce che il messaggio del v. 15 non si situa a livello emotivo, ma orienta agli interventi salvifici nei quali il credente sperimenta l'amore del Signore come sorgente di vita e di liberazione, di sicurezza e di speranza. Sposa e madre, la nuova Gerusalemme assisterà a uno straordinario sviluppo del suo popolo (vv. 17-20). Una simile crescita, che si pone in netto contrasto con il destino di Babilonia (cfr. 47,8-9), sarà segno della benedizione che inonda la città rinnovata dalla tenerezza del Signore e nella quale affluiranno tutti i figli di cui fu privata, quindi non solo gli esuli di Babilonia, ma anche i discendenti di tutte le tribù che nel corso della storia sono state disperse lontano dalla loro terra.

24-26. L'obiezione con cui inizia la terza parte è diversa dalle precedenti. Sion dubita se una simile promessa possa veramente compiersi (v. 24). Il Signore conferma la liberazione annunciata, assicurando che egli stesso contenderà con gli avversari e salverà i figli di Sion (v. 25). L'espressione violenta del v. 26a allude forse a guerre civili (cfr, 9,19), che segneranno la fine delle potenze che lottano per impedire la ricostruzione di Gerusalemme. Il titolo divino «Forte di Giacobbe», che si trova nelle narrazioni sui patriarchi (cfr. Gn 49,24), rappresenta un'appropriata conclusione della nostra pericope. Solo la fede nella potenza del Signore, che Israele incontra in tutte le sue tradizioni a partire da quelle patriarcali, permette a Sion di accogliere l'annuncio della salvezza custodendo la speranza nel suo Dio.

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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La promessa inaudita 1Ascoltate questo, casa di Giacobbe, voi che siete chiamati Israele e che traete origine dall’acqua di Giuda, voi che giurate nel nome del Signore e invocate il Dio d’Israele, ma senza sincerità e senza rettitudine, 2poiché prendete il nome dalla città santa e vi appoggiate sul Dio d’Israele, che si chiama Signore degli eserciti. 3Io avevo annunciato da tempo le cose passate; erano uscite dalla mia bocca, per farle udire. D’improvviso io ho agito e sono accadute. 4Poiché sapevo che tu sei ostinato e che la tua nuca è una sbarra di ferro e la tua fronte è di bronzo, 5io te le annunciai da tempo, prima che avvenissero te le feci udire, per timore che dicessi: «Il mio idolo le ha fatte, la mia statua e il simulacro da me fuso le hanno ordinate». 6Tutto questo hai udito e visto; non vorreste testimoniarlo? Ora ti faccio udire cose nuove e segrete, che tu nemmeno sospetti. 7Ora sono create e non da tempo; prima di oggi tu non le avevi udite, perché tu non dicessi: «Già lo sapevo». 8No, tu non le avevi mai udite né sapute né il tuo orecchio era già aperto da allora, poiché io sapevo che sei davvero perfido e che ti si chiama sleale fin dal seno materno. 9Per il mio nome rinvierò il mio sdegno, per il mio onore lo frenerò a tuo riguardo, per non annientarti. 10Ecco, ti ho purificato, non come argento; ti ho provato nel crogiuolo dell’afflizione. 11Per riguardo a me, per riguardo a me lo faccio; altrimenti il mio nome verrà profanato. Non cederò ad altri la mia gloria.

La potenza di colui che chiama 12Ascoltami, Giacobbe, Israele che ho chiamato. Sono io, io solo, il primo e anche l’ultimo. 13Sì, la mia mano ha posto le fondamenta della terra, la mia destra ha disteso i cieli. Quando io li chiamo, tutti insieme si presentano. 14Radunatevi, tutti voi, e ascoltatemi. Chi di essi ha predetto tali cose? Colui che il Signore predilige compirà il suo volere su Babilonia e, con il suo braccio, sui Caldei. 15Io, io ho parlato; io l’ho chiamato, l’ho fatto venire e ho dato successo alle sue imprese. 16Avvicinatevi a me per udire questo. Fin dal principio non ho parlato in segreto; sin da quando questo avveniva io ero là. Ora il Signore Dio ha mandato me insieme con il suo spirito.

L'insegnamento e la guida del Signore_ 17Dice il Signore, tuo redentore, il Santo d’Israele: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti insegno per il tuo bene, che ti guido per la strada su cui devi andare. 18Se avessi prestato attenzione ai miei comandi, il tuo benessere sarebbe come un fiume, la tua giustizia come le onde del mare. 19La tua discendenza sarebbe come la sabbia e i nati dalle tue viscere come i granelli d’arena. Non sarebbe mai radiato né cancellato il suo nome davanti a me». 20Uscite da Babilonia, fuggite dai Caldei; annunciatelo con voce di gioia, diffondetelo, fatelo giungere fino all’estremità della terra. Dite: «Il Signore ha riscattato il suo servo Giacobbe». 21Non soffrono la sete mentre li conduce per deserti; acqua dalla roccia egli fa scaturire per loro, spacca la roccia, sgorgano le acque. 22Non c’è pace per i malvagi, dice il Signore.

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Approfondimenti

La promessa inaudita 48,1-11 Le pericopi che compongono il c. 48 (vv. 1-11; 12-16; 17-19; 20-21) hanno in comune un unico obiettivo: vincere la sfiducia che impedisce al popolo di aprirsi al Signore camminando nella speranza dischiusa dalla parola divina. La vittoria divina sugli idoli e sulla potenza che opprime i popoli non è piena se Israele non giunge a costruire la propria identità e la propria storia su una incondizionata fiducia nel suo Dio. La particolarità del capitolo, specialmente nei vv. 1-11, è data dal fatto che in esso si riscontrano due motivi che si sviluppano quasi alternandosi tra loro. All'annuncio della salvezza del Signore e della vittoria del suo amore si affianca, come contrappunto, un'accusa di Israele con alcune punte di durezza che nei cc. 40-55 non si riscontrano altrove.

La pericope iniziale del c. 48 è una composizione assai recente nella quale motivi della predicazione del Deuteroisaia sono riletti alla luce delle promesse salvifiche del libro di Ezechiele. Essa è costituita da tre parti: vv. 1-2: introduzione; 3-6a: le promesse divine del passato si sono adempiute; 6b-11: la promessa nuova e inaudita del Signore.

3-6a. L'autore riprende qui il motivo che le promesse annunciate in passato dal Signore si sono realizzate (cfr. 41,1-5.21-29; 43,8-15; 44,6-8; 45,20-25; 46,9-11). L'intento principale di questo richiamo, però, non è quello di fondare la speranza nelle nuove promesse, ma di sottolineare l'atteggiamento di ostinazione del popolo (v. 4), e la sua propensione ad attribuire agli idoli la sicurezza salvifica della propria storia (v. 5b). La fede nel Signore e nella sua parola libera il popolo dall'infedeltà e lo abilita a testimoniare ciò che ha «udito e visto» (v. 6a). È probabile che l'autore si richiami intenzionalmente ai verbi «vedere» e «udire» che caratterizzano sia la vocazione profetica di Isaia (cfr. 6, 1.8), sia lo scopo essenziale della sua missione, che, rimasto incompiuto al suo tempo (cfr. 6, 9), si configura ora come obiettivo del nuovo Israele.

6b-11. L'annuncio di «cose nuove» non sviluppa la prospettiva deuteroisaiana di ravvivare la fiducia in un futuro di salvezza imminente. Piuttosto il messaggio del Deuteroisaia è riletto alla luce della tradizione deuteronomistica e della teologia di Ezechiele. Nonostante l'infedeltà che caratterizza la storia di Israele fin dalle sue origini, e che si trova descritta nel v. 8b con espressioni affini ai capitoli di Ez 16 e 23, il Signore non ha permesso che la sua totale avversità al peccato (ira) sviluppasse i propri effetti fino all'annientamento del popolo. In realtà, come aveva affermato Ezechiele, l'istanza suprema dell'agire divino è il suo stesso nome, cioè la fedeltà al suo amore e quindi al popolo che si è scelto nella immensità di questo amore (cfr. Dt 7,6). In questo contesto assume massimo rilievo la domanda retorica con la quale si esprime la certezza che il Signore «non lascerà profanare il suo nome» (v. 11): il Signore opera sempre nella storia in modo che il suo popolo, rinnovato dal suo amore, sia il testimone fedele della gloria divina.

La potenza di colui che chiama 48,12-16 Il messaggio richiama da vicino i brani in cui il Signore proclama la sua potenza salvifica, che opera nella creazione e nella storia (cfr. 42,5-6; 44,24-28; 45,12-13). Israele, il popolo che il Signore ha chiamato (cfr. Os 11,1), deve rinnovare la propria fede nel suo Dio, l'unico che opera sempre con potenza.

L'insegnamento e la guida del Signore 48,17-22 48,17-19. La formula del messaggero, con cui inizia questo brano, richiama i titoli divini familiari al Deuteroisaia («redentore», «Santo di Israele»). Vari indizi, però, orientano a ritenere questi versetti un'opera recente, forse del tempo di Neemia. Il richiamo della promessa di Gn 22,17, nel v. 19, è illuminante. Come Isacco, legato sopra l'altare del sacrificio, fu liberato dalla morte e divenne segno di benedizione, così anche Israele, esiguo di numero e in una situazione precaria, è invitato a rinnovare l'atteggiamento interiore dell'ascolto del Signore nella sicurezza che il suo nome sarà sempre davanti a Dio e la sua esistenza sarà quindi segno di benedizione e testimonianza della gloria divina.

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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La fine di Babilonia 1Scendi e siedi sulla polvere, vergine figlia di Babilonia. Siedi a terra, senza trono, figlia dei Caldei, poiché non sarai più chiamata tenera e voluttuosa. 2Prendi la mola e macina la farina, togliti il velo, solleva i lembi della veste, scopriti le gambe, attraversa i fiumi. 3Si scopra la tua nudità, si mostri la tua vergogna. «Io assumerò la vendetta e non baderò a nessuno», 4dice il nostro redentore che si chiama Signore degli eserciti, il Santo d’Israele. 5Siedi in silenzio e scivola nell’ombra, figlia dei Caldei, perché non sarai più chiamata signora di regni. 6Ero adirato contro il mio popolo, avevo lasciato profanare la mia eredità; perciò lo misi in tuo potere. Tu non mostrasti loro pietà; persino sui vecchi facesti gravare il tuo giogo pesante. 7Tu pensavi: «Sempre io sarò signora, in perpetuo». Non ti sei mai curata di questo, non hai mai pensato quale sarebbe stata la sua fine. 8Ora ascolta questo, o voluttuosa che te ne stavi sicura, e pensavi: «Io e nessun altro! Non resterò vedova, non conoscerò la perdita di figli». 9Ma ti accadranno queste due cose, d’improvviso, in un sol giorno; perdita di figli e vedovanza piomberanno su di te in piena misura, nonostante la moltitudine delle tue magie, la forza dei tuoi molti scongiuri. 10Confidavi nella tua malizia, dicevi: «Nessuno mi vede». La tua saggezza e il tuo sapere ti hanno sviato. Eppure dicevi in cuor tuo: «Io e nessun altro!». 11Ti verrà addosso una sciagura che non saprai scongiurare; ti cadrà sopra una calamità che non potrai evitare. Su di te piomberà improvvisa una catastrofe che non avrai previsto. 12Stattene pure nei tuoi incantesimi, nelle tue molte magie, per cui ti sei affaticata dalla giovinezza: forse potrai giovartene, forse potrai far paura! 13Ti sei stancata delle tue molte speculazioni: si presentino e ti salvino quelli che misurano il cielo, che osservano le stelle, i quali ogni mese ti pronosticano che cosa ti capiterà. 14Ecco, essi sono come stoppia: il fuoco li consuma; non salveranno se stessi dal potere delle fiamme. Non ci sarà brace per scaldarsi né fuoco dinanzi al quale sedersi. 15Così sono diventati per te i trafficanti con i quali ti sei affaticata fin dalla giovinezza; ognuno barcolla per suo conto, nessuno ti viene in aiuto.

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Approfondimenti

La fine di Babilonia 47,1-15 Il poema è affine ai detti contro i popoli che sono raccolti nei libri profetici (cfr. in particolare Is 13-23; Ger 46-51; Ez 25-32) e si situa nella linea dei poemi contro Babilonia di Is 13-14 e Ger 50-51. Sotto il profilo del genere letterario la pericope si configura come un annuncio del giudizio, sviluppato con particolare arte poetica, ricorrendo a elementi provenienti sia dalla satira che dal canto funebre rielaborato in senso ironico. Il poema suppone la distruzione totale di Babilonia e quindi è da situare dopo il 482.

1-4. L'appellativo «vergine figlia di Babilonia» crea un forte contrasto: la città che si presenta al mondo con il fascino di una potenza giovane e, quindi, capace di un grande futuro, è in realtà destinata a «scendere» dalla sua posizione e a dimorare nella polvere, priva della sua grandezza e del suo lusso per cui era chiamata «delicata e voluttuosa» (v. 1). Ai primi tre imperativi ne seguono altri sei (vv. 2-3a) che descrivono in modo incalzante la sorte imminente. Il destino della città è ormai quello di una schiava, come risulta dall'espressione «Prendi la mola e macina la farina» (v. 2), che riflette l'occupazione caratteristica delle schiave nella società dell'Antico Oriente.

5-7. Il futuro di colei che non potrà più fregiarsi del titolo internazionale di «Signora dei regni» sarà, oltre che la «polvere» e la «terra» (v. 1), il «silenzio» e l'«ombra» (v. 5). In una prospettiva che si richiama alla concezione isaiana l'autore del poema vede la causa della rovina di Babilonia nell'eccesso di crudeltà e nell'orgoglio.

8-11. La strofa contiene l'annuncio della condanna. Tale annuncio si sviluppa in un movimento che alterna ai progetti della “Signora dei regni”, che confermano la sua colpa, la minaccia del castigo che la colpirà. Nulla potrà vanificare la sentenza, nemmeno le pratiche magiche, di cui la città era famosa nel mondo. L'espressione «Nessuno mi vede», mentre svela poeticamente e profeticamente intimo pensiero di Babilonia, mostra al tempo stesso che la città ha fatto suo l'atteggiamento di coloro che nella Scrittura sono chiamati empi (cfr. Sal 10,4; 73,11; 94,7). Qui appare il risvolto disumano di un potere che non rimane consapevole della propria funzione, ma lasciandosi fuorviare dal proprio «sapere» si autodivinizza, come appare dalla locuzione «Io e nessuno fuori di me» (cfr. v. 8). La «catastrofe» si presenta qui con le caratteristiche proprie del giudizio divino che piomba improvviso.

12-15. Anche l'ultima strofa inizia con un imperativo che invita ironicamente Babilonia a persistere nei suoi sortilegi, nelle «magie» (v. 12) e nei consigli che le provengono dagli astrologi con le loro predizioni mensili (v. 13). Solo il Signore, però, conosce il futuro e può rivelarlo. I maghi e gli astrologi, invece, anziché contribuire alla stabilità della città, sono paragonabili alla paglia che arde nel fuoco (cfr. 5,24; Na 1,10; Ml 3,19; Abd 18; Gl 2,5) e perciò non sono nemmeno in grado di provvedere alla propria salvezza (v. 14a). In realtà il fuoco di cui si parla, come afferma l'ultimo distico del v. 14 (probabilmente una glossa che si ispira a 44, 9-20 e soprattutto al v. 16), non e quello domestico, ma il fuoco del giudizio.

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Caduta degli dei e intervento del Signore 1A terra è Bel, rovesciato è Nebo; i loro idoli sono per animali e bestie, caricati come fardelli, un peso su un animale affaticato. 2Sono rovesciati, sono a terra tutti, non hanno potuto salvare chi li portava ed essi stessi se ne vanno in schiavitù. 3Ascoltatemi, casa di Giacobbe, tutto il resto della casa d’Israele; voi, portati da me fin dal seno materno, sorretti fin dal grembo. 4Fino alla vostra vecchiaia io sarò sempre lo stesso, io vi porterò fino alla canizie. Come ho già fatto, così io vi sosterrò, vi porterò e vi salverò. 5A chi mi paragonate e mi assimilate? A chi mi confrontate, quasi fossimo simili? 6Traggono l’oro dal sacchetto e pesano l’argento con la bilancia; pagano un orefice perché faccia un dio, che poi venerano e adorano. 7Lo sollevano sulle spalle e lo portano, poi lo ripongono sulla sua base e sta fermo: non si muove più dal suo posto. Ognuno lo invoca, ma non risponde; non libera nessuno dalla sua afflizione. 8Ricordatevelo e agite da uomini; rifletteteci, o prevaricatori. 9Ricordatevi i fatti del tempo antico, perché io sono Dio, non ce n’è altri. Sono Dio, nulla è uguale a me. 10Io dal principio annuncio la fine e, molto prima, quanto non è stato ancora compiuto; sono colui che dice: «Il mio progetto resta valido, io compirò ogni mia volontà!». 11Sono colui che chiama dall’oriente l’uccello da preda, da una terra lontana l’uomo del suo progetto. Così ho parlato e così avverrà; l’ho progettato, così farò. 12Ascoltatemi, ostinati di cuore, che siete lontani dalla giustizia. 13Faccio avvicinare la mia giustizia: non è lontana; la mia salvezza non tarderà. Io porrò in Sion la salvezza, a Israele darò la mia gloria.

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Approfondimenti

Caduta degli dei e intervento del Signore 46,1-13 La pericope suppone che le statue degli dei di Babilonia siano state abbattute e i templi distrutti. Il fatto non è avvenuto con la conquista di Ciro, che anzi rese omaggio agli dei della città conquistata, ma si verificò con l’intervento di Serse il quale, nel 482, distrusse la città per punire i suoi ripetuti tentativi di insurrezione e renderli impossibili per il futuro. Molto probabilmente la composizione va situata dopo questo evento che ebbe profonda risonanza nel mondo di allora e presso la comunità giudaica. Sotto il profilo letterario il poema costituisce un'unità. Ne è un segno il fatto che, dopo l'introduzione (v. 1-2), le tre parti in cui si suddivide iniziano tutte allo stesso modo, con un imperativo: «Ascoltatemi» (v. 3), «Ricordatevi» (v. 9), «Ascoltatemi» (v. 12). Una considerazione a parte meritano i vv. 5-8 essendo un'aggiunta.

1-2. Bel era in origine il titolo di Enlil, venerato nel santuario di Nippur come dio del cielo e padre degli dei. A partire dal tempo di Hammurabi (1728-1686), questo titolo fu trasferito a Marduk, tanto che ne divenne l'appellativo più frequente nella letteratura accadica. Nebo (in babilonese: Nabu) era venerato come figlio di Marduk nel santuario di Borsippa. Era il dio della sapienza e il patrono degli scribi. Il suo nome lo si incontra nella denominazione di molti re della dinastia caldea: Nabopolassar, Nabukadnezar, Nabonide. L'inizio del poema appare ora nella sua raffinata ironia. La scena è dominata dalle statue di Bel e Nebo rovesciate per terra. Lungi dal salvare coloro che le portavano, esse stesse sono ora condotte in schiavitù (l'immagine richiama la prassi antico-orientale secondo cui il vincitore avvalorava la propria vittoria trasportando nel suo regno le statue degli dei venerati nelle città conquistate).

3-4. Si noti l'insistenza sul verbo «portare»: mentre gli dei non hanno salvato coloro che li portavano, il Signore ha «portato» il suo popolo fin dal grembo materno (cfr. Sal 71,6). Anzi poiché rimane sempre se stesso, il Signore sosterrà coloro che appartengono al suo popolo durante tutta la vita: “dal grembo alla canizie”.

5-8. I versetti appartengono ai detti contro la costruzione degli idoli (cfr. 40,18-19; 41,6-7; 44,9-20; 45,20b). Il carattere composito di questa interpolazione risulta dal modo stesso in cui è stata costruita: il v. 5 ha una forte affinità con 40,18.25; i vv. 6-7 richiamano 44,9-20 e infine l’invito a riflettere richiama 44,19. Significativa, nel v. 7, è la scena dei fedeli che sollevano il “dio” e lo “portano” (il verbo funge da parola-gancio delle diverse unità). Qui l’idolo è presentato nella sua immobilità che non è solo di carattere spaziale, ma anche interpersonale, in quanto non risponde a chi lo invoca e non lo salva dalla sventura. Il contrasto con l'agire di JHWH è evidente (cfr. vv. 3-4; Sal 4,2.8-9).

9-11. Il Signore è l'unico Dio e nessuno può essere messo a confronto con lui: l’incompatibilità dell'unico Signore è fondata anzitutto (v. 10) con il richiamo al fatto che solo lui «annuncia fin dal principio la fine» e, al tempo stesso, conferma che il suo disegno conserva tutta la sua forza in quanto egli stesso lo realizza. In secondo luogo (v. 11) egli assicura di far venire dall'est «l'uccello da preda». Se questi versetti risalgono al Deuteroisaia si riferiscono chiaramente a Ciro. In ogni caso nell'attuale collocazione, all'interno di un discorso che suppone la distruzione di Babilonia ad opera di Serse, tali parole subiscono una chiara reinterpretazione e indicano colui che mise fine per sempre alla città di Babilonia. In realtà la sua caduta definitiva fu vista come un segno di speranza per un nuovo futuro.

12-13. Questi versetti formano un'inclusione con i vv. 3-4 e sono connessi con i vv. 9-11 dalla parola chiave «lontano» come risulta dalle espressioni «siete lontani» (v. 12) e «non è lontana» (v. 13) che richiamano la locuzione «da una terra lontana» del v. 11. Esiste una lontananza molto più pericolosa di quella spaziale. E la situazione esistenziale di chi perde la fiducia e si sente lontano dalla liberazione. A costoro si rivolge il nostro testo, come appare evidente dalla sua conclusione.

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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