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DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

DOCUMENTI DEL CONCILIO VATICANO II Costituzione dogmatica sulla Chiesa LUMEN GENTIUM (21 novembre 1964)

CAPITOLO III – COSTITUZIONE GERARCHICA DELLA CHIESA E IN PARTICOLARE DELL'EPISCOPATO

Proemio 18 Cristo Signore, per pascere e sempre più accrescere il popolo di Dio, ha stabilito nella sua Chiesa vari ministeri, che tendono al bene di tutto il corpo. I ministri infatti che sono rivestiti di sacra potestà, servono i loro fratelli, perché tutti coloro che appartengono al popolo di Dio, e perciò hanno una vera dignità cristiana, tendano liberamente e ordinatamente allo stesso fine e arrivino alla salvezza. Questo santo Sinodo, sull'esempio del Concilio Vaticano primo, insegna e dichiara che Gesù Cristo, pastore eterno, ha edificato la santa Chiesa e ha mandato gli apostoli, come egli stesso era stato mandato dal Padre (cfr. Gv 20,21), e ha voluto che i loro successori, cioè i vescovi, fossero nella sua Chiesa pastori fino alla fine dei secoli. Affinché poi lo stesso episcopato fosse uno e indiviso, prepose agli altri apostoli il beato Pietro e in lui stabilì il principio e il fondamento perpetuo e visibile dell'unità di fede e di comunione [Cf. CONC. VAT. I, Cost. dogm. sulla Chiesa di Cristo Pastor aeternus: Dz 1821 (3050s.)]. Questa dottrina della istituzione, della perpetuità, del valore e della natura del sacro primato del romano Pontefice e del suo infallibile magistero, il santo Concilio la propone di nuovo a tutti i fedeli come oggetto certo di fede. Di più proseguendo nel disegno incominciato, ha stabilito di enunciare ed esplicitare la dottrina sui vescovi, successori degli apostoli, i quali col successore di Pietro, vicario di Cristo [Cf. CONC. DI FIRENZE, Decretum pro Graecis: Dz 694 (1307) [Collantes 7.159] e CONC. VAT. I, Cost. dogm. sulla Chiesa di Cristo Pastor aeternus: Dz 1826 (3059)] e capo visibile di tutta la Chiesa, reggono la casa del Dio vivente.

L'istituzione dei dodici 19 Il Signore Gesù, dopo aver pregato il Padre, chiamò a sé quelli che egli volle, e ne costituì dodici perché stessero con lui e per mandarli a predicare il regno di Dio (cfr. Mc 3,13-19; Mt 10,1-42); ne fece i suoi apostoli (cfr. Lc 6,13) dando loro la forma di collegio, cioè di un gruppo stabile, del quale mise a capo Pietro, scelto di mezzo a loro (cfr. Gv 21 15-17). Li mandò prima ai figli d'Israele e poi a tutte le genti (cfr. Rm 1,16) affinché, partecipi del suo potere, rendessero tutti i popoli suoi discepoli, li santificassero e governassero (cfr. Mt 28,16-20; Mc 16,15; Lc 24,45-48), diffondendo così la Chiesa e, sotto la guida del Signore, ne fossero i ministri e i pastori, tutti i giorni sino alla fine del mondo (cfr. Mt 28,20). In questa missione furono pienamente confermati il giorno di Pentecoste (cfr. At 2,1-36) secondo la promessa del Signore: «Riceverete una forza, quella dello Spirito Santo che discenderà su di voi, e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria, e sino alle estremità della terra» (At 1,8). Gli apostoli, quindi, predicando dovunque il Vangelo (cfr. Mc 16,20), accolto dagli uditori grazie all'azione dello Spirito Santo, radunano la Chiesa universale che il Signore ha fondato su di essi e edificato sul beato Pietro, loro capo, con Gesù Cristo stesso come pietra maestra angolare (cfr. Ap 21,14; Mt 16,18; Ef 2,20) [Cf. Liber Sacramentorum di S. GREGORIO, pref. nelle feste di S. Mattia e di S. Tommaso: PL 78, 51 e 152; cf. Cod. Vat. lat. 3548, f. 18. S. ILARIO, In Ps. 67,10: PL 9, 450; CSEL 22, p. 286. S. GIROLAMO, Adv. Iovin. 1, 26: PL 23, 247A. S. AGOSTINO, In Ps. 86, 4: PL 37, 1103. S. GREGORIO M., Mor. in Iob XXVIII, V: PL 76, 455-456. PRIMASIO, Comm. in Apoc. V: PL 68, 924BC. PASCASIO RADB., In Mt. L. VIII, cap. 16: PL 120, 561C. Cf. LEONE XIII, Lett. Et sane, 17 dic. 1888: ASS 21 (1888), p. 321].

I vescovi, successori degli apostoli 20 La missione divina affidata da Cristo agli apostoli durerà fino alla fine dei secoli (cfr. Mt 28,20), poiché il Vangelo che essi devono predicare è per la Chiesa il principio di tutta la sua vita in ogni tempo. Per questo gli apostoli, in questa società gerarchicamente ordinata, ebbero cura di istituire dei successori.

Infatti, non solo ebbero vari collaboratori nel ministero [Cf. At 6,2-6; 11,30; 13,1; 14,23; 20,17; 1 Ts 5,12-13; Fil 1,1; Col 4,11 e passim] ma perché la missione loro affidata venisse continuata dopo la loro morte, affidarono, quasi per testamento, ai loro immediati cooperatori l'ufficio di completare e consolidare l'opera da essi incominciata [Cf. At 20,25-27; 2 Tm 4,6s da confr. con 1 Tm 5,22; 2 Tm 2,2; Tt 1,5; S. CLEMENTE ROM., Ad Cor. 44, 3: ed. FUNK I, p. 156]. raccomandando loro di attendere a tutto il gregge nel quale lo Spirito Santo li aveva posti a pascere la Chiesa di Dio (cfr. At 20,28). Perciò si scelsero di questi uomini e in seguito diedero disposizione che dopo la loro morte altri uomini subentrassero al loro posto [Cf. S. CLEMENTE ROM., Ad Cor. 44,2: ed. FUNK I, 154s]. Fra i vari ministeri che fin dai primi tempi si esercitano nella Chiesa, secondo la testimonianza della tradizione, tiene il primo posto l'ufficio di quelli che costituiti nell'episcopato, per successione che decorre ininterrotta fin dalle origini [Cf. S. CLEMENTE ROM., Ad Cor. 44,2: ed. FUNK I, 154s] sono i sacramenti attraverso i quali si trasmette il seme apostolico [Cf. TERTULLIANO, Praescr. Haer. 32: PL 2, 53] . Così, come attesta S. Ireneo, per mezzo di coloro che gli apostoli costituirono vescovi e dei loro successori fino a noi, la tradizione apostolica in tutto il mondo è manifestata [Cf. S. IRENEO, Adv. Haer. III, 3, 1: PG 7, 848A; HARVEY 2, 8; SAGNARD, p. 100s: “manifestata”.] e custodita [Cf. S. IRENEO, Adv. Haer. III, 2, 2: PG 7, 847; HARVEY 2, 7; SAGNARD, p. 100: “è custodita”; cf. ib. IV, 26, 2: col. 1053; HARVEY 2, 236, e IV, 33, 8: col. 1077: HARVEY 2, 262].

I vescovi dunque hanno ricevuto il ministero della comunità per esercitarlo con i loro collaboratori, sacerdoti e diaconi [S. IGNAZIO M., Philad., Praef: ed. FUNK I, p. 264]. Presiedono in luogo di Dio al gregge [S. IGNAZIO M., Philad., 1,1; Magn. 6,1: ed. FUNK I, 264 e 234.] di cui sono pastori quali maestri di dottrina, sacerdoti del sacro culto, ministri del governo della Chiesa [S. CLEMENTE ROM., l.c. [nota 6], 42, 3-4; 44, 3-4; 57, 1-2: ed. FUNK I, 152, 156, 171s; S. IGNAZIO M., Philad. 2; Smyrn. 8; Magn. 3; Trall. 7: ed. FUNK I, p. 265s, 282, 232, 246s ecc.; S. GIUSTINO, Apol. I, 65: PG 6,428; S. CIPRIANO, Epist., passim]. Come quindi è permanente l'ufficio dal Signore concesso singolarmente a Pietro, il primo degli apostoli, e da trasmettersi ai suoi successori, cosi è permanente l'ufficio degli apostoli di pascere la Chiesa, da esercitarsi in perpetuo dal sacro ordine dei Vescovi _[Cf. LEONE XIII, Encicl. Satis cognitum, 29 giug. 1896: ASS 28 (1895-96), p. 732]. Perciò il sacro Concilio insegna che i vescovi per divina istituzione sono succeduti al posto degli Apostoli [Cf. CONC. DI TRENTO, Decr. De sacr. Ordinis, cap. 4: Dz 960 (1768) [Collantes 9.293]; CONC. VAT. I, Cost. dogm. I sulla Chiesa di Cristo Pastor aeternus, cap. 3: Dz 1828 (3061) [Collantes 7.186]. PIO XII, Encicl. Mystici Corporis, 29 giug. 1943: AAS 35 (1943), pp. 209 e 212 [Dz 3804; Collantes 7.200]. CIC can. 329 § 1 [nel nuovo Codice can. 375].] quali pastori della Chiesa, e che chi li ascolta, ascolta Cristo, chi li disprezza, disprezza Cristo e colui che ha mandato Cristo (cfr. Lc 10,16) [Cf. LEONE XIII, Lett. Et sane, 17 dic. 1888: ASS 21 (1888), p. 321s].

Sacramentalità dell'episcopato 21 Nella persona quindi dei vescovi, assistiti dai sacerdoti, è presente in mezzo ai credenti il Signore Gesù Cristo, pontefice sommo. Pur sedendo infatti alla destra di Dio Padre, egli non cessa di essere presente alla comunità dei suoi pontefici [Cf. S. LEONE M., Serm. 5, 3: PL 54, 154] in primo luogo, per mezzo dell'eccelso loro ministero, predica la parola di Dio a tutte le genti e continuamente amministra ai credenti i sacramenti della fede; per mezzo del loro ufficio paterno (cfr. 1Cor 4,15) integra nuove membra al suo corpo con la rigenerazione soprannaturale; e infine, con la loro sapienza e prudenza, dirige e ordina il popolo del Nuovo Testamento nella sua peregrinazione verso l'eterna beatitudine. Questi pastori, scelti a pascere il gregge del Signore, sono ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio (cfr. 1 Cor 4,1). Ad essi è stata affidata la testimonianza al Vangelo della grazia di Dio (cfr. Rm 15,16; At 20,24) e il glorioso ministero dello Spirito e della giustizia (cfr. 2Cor 3,8-9).

Per compiere cosi grandi uffici, gli apostoli sono stati arricchiti da Cristo con una effusione speciale dello Spirito Santo disceso su loro (cfr. At 1,8; 2,4; Gv 20,22-23), ed essi stessi con la imposizione delle mani diedero questo dono spirituale ai loro collaboratori (cfr. 1 Tm 4,14; 2 Tm 1,6-7), dono che è stato trasmesso fino a noi nella consacrazione Episcopale [Il CONC. DI TRENTO, Sess. 23, cap. 3, cita le parole di 2Tm 1,6-7 per dimostrare che l’Ordine è un vero sacramento: Dz 959 (1766)]. Il santo Concilio insegna quindi che con la consacrazione episcopale viene conferita la pienezza del sacramento dell'ordine, quella cioè che dalla consuetudine liturgica della Chiesa e dalla voce dei santi Padri viene chiamata sommo sacerdozio, realtà totale del sacro ministero [Nella Trad. Apost. 3, ed. BOTTE, Sources Chr., pp. 27-30, al Vescovo viene attribuito “il primato del sacerdozio”. Cf. Sacramentarium Leonianum, ed. C. MOHLBERG, Sacramentarium Veronense, Romae 1955, p. 119: “al ministero del sommo sacerdozio... Compi nei tuoi sacerdoti il culmine del tuo mistero...”. IDEM, Liber Sacramentorum Romanae Ecclesiae, Romae 1960, pp. 121-122: “Conferisci loro, Signore, la cattedra episcopale per reggere la tua Chiesa e tutto il popolo”. Cf. PL 78, 224]. La consacrazione episcopale conferisce pure, con l'ufficio di santificare, gli uffici di insegnare e governare; questi però, per loro natura, non possono essere esercitati se non nella comunione gerarchica col capo e con le membra del collegio. Dalla tradizione infatti, quale risulta specialmente dai riti liturgici e dall'uso della Chiesa sia d'Oriente che d'Occidente, consta chiaramente che dall'imposizione delle mani e dalle parole della consacrazione è conferita la grazia dello Spirito Santo _[Cf. Trad. Apost. 2: ed. BOTTE, p. 27.] ed è impresso il sacro carattere [Cf. il CONC. DI TRENTO, che nella Sess. 23, cap. 4 insegna che il sacramento dell’Ordine imprime un carattere indelebile: Dz 960 (1767) [Collantes 9.291]. Cf. GIOVANNI XXIII, Disc. Iubilate Deo, 8 maggio 1960: AAS 52 (1960), p. 466. PAOLO VI, Omelia nella Bas. Vaticana, 20 ott. 1963: AAS 55 (1963), p. 1014] in maniera tale che i vescovi, in modo eminente e visibile, tengono il posto dello stesso Cristo maestro, pastore e pontefice, e agiscono in sua vece [S. CIPRIANO, Epist. 63, 14: PL 4, 386; HARTEL, IIIB, p. 713: “Il sacerdote compie veramente le funzioni di Cristo”. S. GIOV. CRISOSTOMO, In 2 Tim., Hom. 2, 4: PG 62, 612: Il sacerdote “symbolon” di Cristo. S. AMBROGIO, In Ps. 38, 25-26: PL 14, 1051-52: CSEL 64, 203-204. AMBROSIASTER, In 1 Tim. 5,19: PL 17, 479C e In Eph. 4, 11-12, col. 387C. TEODORO DI MOPS., Hom. Catech. XV, 21 e 24; ed. TONNEAU, pp. 497 e 503. ESICHIO DI GERUS., In Lev., L. 2, 9, 23: PG 93, 894B]. È proprio dei vescovi assumere col sacramento dell'ordine nuovi eletti nel corpo episcopale.

Il collegio dei vescovi e il suo capo 22 Come san Pietro e gli altri apostoli costituiscono, per volontà del Signore, un unico collegio apostolico, similmente il romano Pontefice, successore di Pietro, e i vescovi, successori degli apostoli, sono uniti tra loro. Già l'antichissima disciplina, in virtù della quale i vescovi di tutto il mondo vivevano in comunione tra loro e col vescovo di Roma nel vincolo dell'unità, della carità e della pace [Cf. EUSEBIO, Hist. Eccl., V, 24, 10: GCS II, 1, p. 495; ed. BARDY, Sources Chrét., II, p. 69. DIONIGI, in EUSEBIO, ib. VII, 5, 2: GCS II, 2, p. 638s; BARDY, II, p. 168s] e parimenti la convocazione dei Concili [Sugli antichi Concili cf. EUSEBIO, Hist. Eccl. V, 23-24; GCS II, 1, p. 488ss; BARDY, II, p. 66ss e passim. CONC. DI NICEA, can. 5: COD p. 7] per decidere in comune di tutte le questioni più importanti [Cf. TERTULLIANO, De Ieiunio, 13: PL 2, 972B; CSEL 20, p. 292, lin. 13-16] mediante una decisione che l'opinione dell'insieme [Cf. S. CIPRIANO, Epist. 56, 3: HARTEL IIIB, p. 650; BAYARD, p. 154] permetteva di equilibrare significano il carattere e la natura collegiale dell'ordine episcopale, che risulta manifestamente confermata dal fatto dei Concili ecumenici tenuti lungo i secoli. La stessa è pure suggerita dall'antico uso di convocare più vescovi per partecipare all elevazione del nuovo eletto al ministero del sommo sacerdozio. Uno è costituito membro del corpo episcopale in virtù della consacrazione sacramentale e mediante la comunione gerarchica col capo del collegio e con le sue membra.

Il collegio o corpo episcopale non ha però autorità, se non lo si concepisce unito al Pontefice romano, successore di Pietro, quale suo capo, e senza pregiudizio per la sua potestà di primato su tutti, sia pastori che fedeli. Infatti il Romano Pontefice, in forza del suo Ufficio, cioè di Vicario di Cristo e Pastore di tutta la Chiesa, ha su questa una potestà piena, suprema e universale, che può sempre esercitare liberamente. D'altra parte, l'ordine dei vescovi, il quale succede al collegio degli apostoli nel magistero e nel governo pastorale, anzi, nel quale si perpetua il corpo apostolico, è anch'esso insieme col suo capo il romano Pontefice, e mai senza questo capo, il soggetto di una suprema e piena potestà su tutta la Chiesa [Cf. la relazione ufficiale ZINELLI al CONC. VAT I: MANSI 52, 1109C] sebbene tale potestà non possa essere esercitata se non col consenso del romano Pontefice. Il Signore ha posto solo Simone come pietra e clavigero della Chiesa (cfr. Mt 16,18-19), e lo ha costituito pastore di tutto il suo gregge (cfr. Gv 21,15 ss); ma l'ufficio di legare e di sciogliere, che è stato dato a Pietro (cfr. Mt 16,19), è noto essere stato pure concesso al collegio degli apostoli, congiunto col suo capo (cfr. Mt 18,18; 28,16-20) [Cf. CONC. VAT I, Schema della Cost. dogm. II De Ecclesia Christi, c. 4:[176][176]NSI 53, 310. Cf. la relazione KLEUTGEN sullo Schema riformato: MANSI 53,321B-322B e la dichiarazione ZINELLI: MANSI 52, 1110A. Vedi anche S. LEONE M., Serm. 4,3: PL 54, 151A]. Questo collegio, in quanto composto da molti, esprime la varietà e l'universalità del popolo di Dio; in quanto poi è raccolto sotto un solo capo, significa l'unità del gregge di Cristo. In esso i vescovi, rispettando fedelmente il primato e la preminenza del loro capo, esercitano la propria potestà per il bene dei loro fedeli, anzi di tutta la Chiesa, mente lo Spirito Santo costantemente consolida la sua struttura organica e la sua concordia. La suprema potestà che questo collegio possiede su tutta la Chiesa, è esercitata in modo solenne nel Concilio ecumenico. Mai può esserci Concilio ecumenico, che come tale non sia confermato o almeno accettato dal successore di Pietro; ed è prerogativa del romano Pontefice convocare questi Concili, presiederli e confermarli [Cf. CIC, can. 222 e 227 (nel nuovo Codice can. 338)]. La stessa potestà collegiale insieme col papa può essere esercitata dai vescovi sparsi per il mondo, purché il capo del collegio li chiami ad agire collegialmente, o almeno approvi o liberamente accetti l'azione congiunta dei vescovi dispersi, così da risultare un vero atto collegiale.

Le relazioni all'interno del collegio episcopale 23 L'unità collegiale appare anche nelle mutue relazioni dei singoli vescovi con Chiese particolari e con la Chiesa universale. Il romano Pontefice, quale successore di Pietro, è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell'unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli [Cf. CONC. VAT. I, Cost. dogm. Pastor aeternus: Dz 1821 (3050s)]. I singoli vescovi, invece, sono il visibile principio e fondamento di unità nelle loro Chiese particolari [Cf. S. CIPRIANO, Epist. 66, 8: HARTEL III, 2, p. 733: “Il Vescovo nella Chiesa e la Chiesa nel Vescovo”] queste sono formate ad immagine della Chiesa universale, ed è in esse e a partire da esse che esiste la Chiesa cattolica una e unica [Cf. S. CIPRIANO, Epist 55,24: HARTEL, p. 642, lin. 13: “Un’unica Chiesa in tutto il mondo divisa in molte membra. Epist. 36, 4: HARTEL, p. 575, lin. 20-21]. Perciò i singoli vescovi rappresentano la propria Chiesa, e tutti insieme col Papa rappresentano la Chiesa universale in un vincolo di pace, di amore e di unità. I singoli vescovi, che sono preposti a Chiese particolari, esercitano il loro pastorale governo sopra la porzione del popolo di Dio che è stata loro affidata, non sopra le altre Chiese né sopra la Chiesa universale. Ma in quanto membri del collegio episcopale e legittimi successori degli apostoli, per istituzione e precetto di Cristo sono tenuti ad avere per tutta la Chiesa [Cf. PIO XII, Encicl. Fidei Donum, 21 apr. 1957: AAS 49 (1957), p. 237] una sollecitudine che, sebbene non sia esercitata con atti di giurisdizione, contribuisce sommamente al bene della Chiesa universale. Tutti i vescovi, infatti, devono promuovere e difendere l'unità della fede e la disciplina comune all'insieme della Chiesa, formare i fedeli all'amore per tutto il corpo mistico di Cristo, specialmente delle membra povere, sofferenti e di quelle che sono perseguitate a causa della giustizia (cfr. Mt 5,10), e infine promuovere ogni attività comune alla Chiesa, specialmente nel procurare che la fede cresca e sorga per tutti gli uomini la luce della piena verità. Del resto è certo che, reggendo bene la propria Chiesa come una porzione della Chiesa universale, contribuiscono essi stessi efficacemente al bene di tutto il corpo mistico, che è pure il corpo delle Chiese [Cf. S. ILARIO DI POIT., In Ps. 14,3: PL 9, 206; CSEL 22, p. 86. S. GREGORIO M., Moral. IV, 7, 12: PL 75, 643C. PSEUDO BASILIO, In Is. 15, 296: PG 30, 637C].

La cura di annunziare il Vangelo in ogni parte della terra appartiene al corpo dei pastori, ai quali tutti, in comune, Cristo diede il mandato, imponendo un comune dovere, come già papa Celestino ricordava ai Padri del Concilio Efesino [Cf. S. CELESTINO, Epist. 18, 1-2, al Conc. di Ef.: PL 50, 505AB; SCHWARTZ, Acta Conc. Oec. I, 1, 1, p. 22. Cf. BENEDETTO XV, Lett. Apost. Maximum illud: AAS 11 (1919), p. 440. PIO XI, Encicl. Rerum Ecclesiae, 28 febbr. 1926: AAS 18 (1926), p. 69. PIO XII, Encicl. Fidei Donum, l.c. (nota33)]. Quindi i singoli vescovi, per quanto lo permette l'esercizio del particolare loro dovere, sono tenuti a collaborare tra di loro e col successore di Pietro, al quale in modo speciale fu affidato l'altissimo ufficio di propagare il nome cristiano [Cf. LEONE XIII, Encicl. Grande munus, 30 sett. 1880: ASS 13 (1880), p. 145. Cf. CIC, can. 1327; can. 1350 § 2 (nel nuovo Codice: cf. can. 762)]. Con tutte le forze devono fornire alle missioni non solo gli operai della messe, ma anche aiuti spirituali e materiali, sia da sé direttamente, sia suscitando la fervida cooperazione dei fedeli. I vescovi, infine, in universale comunione di carità, offrano volentieri il loro fraterno aiuto alle altre Chiese, specialmente alle più vicine e più povere, seguendo in questo il venerando esempio dell'antica Chiesa.

Per divina Provvidenza è avvenuto che varie Chiese, in vari luoghi stabilite dagli apostoli e dai loro successori, durante i secoli si sono costituite in vari raggruppamenti, organicamente congiunti, i quali, salva restando l'unità della fede e l'unica costituzione divina della Chiesa universale, godono di una propria disciplina, di un proprio uso liturgico, di un proprio patrimonio teologico e spirituale. Alcune fra esse, soprattutto le antiche Chiese patriarcali, quasi matrici della fede, ne hanno generate altre a modo di figlie, colle quali restano fino ai nostri tempi legate da un più stretto vincolo di carità nella vita sacramentale e nel mutuo rispetto dei diritti e dei doveri [Sui diritti delle Sedi patriarcali cf. CONC. DI NICEA, can. 6 per Alessandria e Antiochia, e can. 7 per Gerusalemme: Conc. Oec. Decr., p. 8 CONC. LATER. IV, anno 1215, Costit. V: De dignitate Patriarcharum: ibid. p. 212 (Dz 811). CONC. DI FERR.-FIR.: ibid., p. 504 (Dz 1307-08; Collantes 7.159-60)]. Questa varietà di Chiese locali tendenti all'unità dimostra con maggiore evidenza la cattolicità della Chiesa indivisa. In modo simile le Conferenze episcopali possono oggi portare un molteplice e fecondo contributo acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente.

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Approfondimenti

I VESCOVI

  1. Premessa: Cristo stabilì nella Chiesa vari ministeri per servire ed incrementare il Popolo di Dio: gli Apostoli con a capo Pietro, e con essi i loro successori. Il Vaticano II, riproponendo la dottrina sul Primato e l’infallibile Magistero del Romano Pontefice, chiarisce quella relativa ai Vescovi, quali successori degli Apostoli (n. 18).
  2. Fu Cristo a scegliere e costituire pastori della sua Chiesa i dodici Apostoli (n. 19).
  3. Successori degli Apostoli (n. 20): a) Gli Apostoli, per diffondere e perpetuare la loro opera, si scelsero dei collaboratori, primi tra tutti i Vescovi, quali maestri, sacerdoti e pastori delle diverse Chiese; b) Come l’ufficio del Signore fu trasmesso a Pietro e quindi ai suoi successori, così «per istituzione divina» l’ufficio degli Apostoli viene trasmesso ai Vescovi.
  4. Sacramentalità episcopale: Attraverso la consacrazione episcopale, o pienezza del sacramento dell’Ordine, i Vescovi sono investiti dell’ufficio di santificare, insegnare e governare, da esercitare in comunione col Capo e le membra del Collegio (n. 21).
  5. Collegialità episcopale: a) Per volontà divina il Papa e i Vescovi costituiscono un unico Collegio, come Pietro e gli Apostoli di cui essi sono i successori (n. 22). b) Il Collegio episcopale ha autorità su tutta la Chiesa, solo però insieme al Papa, il quale invece conserva piena, suprema e universale tale potestà anche da solo (n. 22). c) La potestà collegiale può essere esercitata anche al di fuori del Concilio Ecumenico, quando il Papa solleciti o almeno accetti una azione collegiale (n. 22). d) I Vescovi in quanto membri del Collegio sono tenuti, (per istituzione), ed avere sollecitudine per il bene della Chiesa universale (n. 23).

Il capitolo III riveste una importanza particolare perché ridisegna quella piramide gerarchica ereditata dai secoli precedenti. Disegna infatti il rapporto tra la centralità del Papa e la collegialità dei vescovi sull’esempio dei Dodici. Contiene due trattati: uno sull’episcopato come soggetto collegiale e l’altro sulla funzione del singolo vescovo. Dalla trattazione globale sono estrapolati presbiteri e diaconi, cui sono dedicati due numeri molto sintetici. Queste figure, infatti, altro non sono che la presenza locale del vescovo.

La primissima nota inscrive la figura del vescovo nella categoria del servizio per un’unica figura di credente di pari dignità. La collegialità non è una strategia ma viene dalla volontà di Gesù che chiama gli apostoli come gruppo stabile. Solo il vescovo possiede la pienezza del sacramento dell’Ordine. A lui compete l’ufficio di santificare, insegnare e governare. Questo ufficio pubblico può essere esercitato solo in comunione con il collegio apostolico e con il suo capo. L’ordinazione episcopale immette nel collegio apostolico, per cui è quest’ultimo che decide della ammissione del nuovo membro, sempre nella piena comunione col capo. Il primato di Pietro è riaffermato, in continuità con il Concilio Vaticano I, ma viene ora integrato con l’intero collegio apostolico. Come non si da una autorità del collegio che non sia congiunta al Papa, così non si da autorità del Papa senza la presenza di una collegio apostolico. L’esempio più evidente sono i Concili Il n. 23 apre la nuova percezione della ecclesiologia. Ogni vescovo è visibile principio e fondamento di unità nella sua Chiesa particolare. Le chiese particolari son formate a immagine della Chiesa universale. In esse e da esse ha esistenza l’una e unica Chiesa: tutta la realtà ecclesiale sussiste nella singola chiesa e ogni chiesa è momento e parte dell’unica Chiesa. Come la chiesa particolare è una col suo vescovo, così le chiese particolari sono una col Papa.

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DOCUMENTI DEL CONCILIO VATICANO II Costituzione dogmatica sulla Chiesa LUMEN GENTIUM (21 novembre 1964)

CAPITOLO II – IL POPOLO DI DIO

Il senso della fede e i carismi nel popolo di Dio 12 Il popolo santo di Dio partecipa pure dell'ufficio profetico di Cristo col diffondere dovunque la viva testimonianza di lui, soprattutto per mezzo di una vita di fede e di carità, e coll'offrire a Dio un sacrificio di lode, cioè frutto di labbra acclamanti al nome suo (cfr. Eb 13,15). La totalità dei fedeli, avendo l'unzione che viene dal Santo, (cfr. 1 Gv 2,20 e 27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando «dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici» [S. AGOSTINO, De Praed. Sanct. 14,27: PL 44, 980.] mostra l'universale suo consenso in cose di fede e di morale. E invero, per quel senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, e sotto la guida del sacro magistero, il quale permette, se gli si obbedisce fedelmente, di ricevere non più una parola umana, ma veramente la parola di Dio (cfr. 1 Ts 2,13), il popolo di Dio aderisce indefettibilmente alla fede trasmessa ai santi una volta per tutte (cfr. Gdc 3), con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente l'applica nella vita.

Inoltre lo Spirito Santo non si limita a santificare e a guidare il popolo di Dio per mezzo dei sacramenti e dei ministeri, e ad adornarlo di virtù, ma «distribuendo a ciascuno i propri doni come piace a lui» (1Cor 12,11), dispensa pure tra i fedeli di ogni ordine grazie speciali, con le quali li rende adatti e pronti ad assumersi vari incarichi e uffici utili al rinnovamento e alla maggiore espansione della Chiesa secondo quelle parole: «A ciascuno la manifestazione dello Spirito è data perché torni a comune vantaggio» (1Cor 12,7). E questi carismi, dai più straordinari a quelli più semplici e più largamente diffusi, siccome sono soprattutto adatti alle necessità della Chiesa e destinati a rispondervi, vanno accolti con gratitudine e consolazione. Non bisogna però chiedere imprudentemente i doni straordinari, né sperare da essi con presunzione i frutti del lavoro apostolico. Il giudizio sulla loro genuinità e sul loro uso ordinato appartiene a coloro che detengono l'autorità nella Chiesa; ad essi spetta soprattutto di non estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono (cfr. 1 Ts 5,12 e 19-21).

L'unico popolo di Dio è universale 13 utti gli uomini sono chiamati a formare il popolo di Dio. Perciò questo popolo, pur restando uno e unico, si deve estendere a tutto il mondo e a tutti i secoli, affinché si adempia l'intenzione della volontà di Dio, il quale in principio creò la natura umana una e volle infine radunare insieme i suoi figli dispersi (cfr. Gv 11,52). A questo scopo Dio mandò il Figlio suo, al quale conferì il dominio di tutte le cose (cfr. Eb 1,2), perché fosse maestro, re e sacerdote di tutti, capo del nuovo e universale popolo dei figli di Dio. Per questo infine Dio mandò lo Spirito del Figlio suo, Signore e vivificatore, il quale per tutta la Chiesa e per tutti e singoli i credenti è principio di associazione e di unità, nell'insegnamento degli apostoli e nella comunione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere (cfr. At 2,42).

In tutte quindi le nazioni della terra è radicato un solo popolo di Dio, poiché di mezzo a tutte le stirpi egli prende i cittadini del suo regno non terreno ma celeste. E infatti tutti i fedeli sparsi per il mondo sono in comunione con gli altri nello Spirito Santo, e così «chi sta in Roma sa che gli Indi sono sue membra» [S. GIOV. CRISOSTOMO, In Io., Hom. 65, 1: PG 59, 361]. Siccome dunque il regno di Cristo non è di questo mondo (cfr. Gv 18,36), la Chiesa, cioè il popolo di Dio, introducendo questo regno nulla sottrae al bene temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e accoglie tutte le ricchezze, le risorse e le forme di vita dei popoli in ciò che esse hanno di buono e accogliendole le purifica, le consolida ed eleva. Essa si ricorda infatti di dover far opera di raccolta con quel Re, al quale sono state date in eredità le genti (cfr. Sal 2,8), e nella cui città queste portano i loro doni e offerte (cfr. Sal 71 (72),10; Is 60,4-7). Questo carattere di universalità, che adorna e distingue il popolo di Dio è dono dello stesso Signore, e con esso la Chiesa cattolica efficacemente e senza soste tende a ricapitolare tutta l'umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo, nell'unità dello Spirito di lui [Cf. S. IRENEO, Adv. Haer. III, 16, 6; III, 22, 1-3: PG 7, 925C-926A e 955C-958A; HARVEY 2, 87s. e 120-123; SAGNARD, ed. Sources Chr., pp. 290-292 e 372ss].

In virtù di questa cattolicità, le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e per uno sforzo comune verso la pienezza nell'unità. Ne consegue che il popolo di Dio non solo si raccoglie da diversi popoli, ma nel suo stesso interno si compone di funzioni diverse. Poiché fra i suoi membri c'è diversità sia per ufficio, essendo alcuni impegnati nel sacro ministero per il bene dei loro fratelli, sia per la condizione e modo di vita, dato che molti nello stato religioso, tendendo alla santità per una via più stretta, sono un esempio stimolante per i loro fratelli. Così pure esistono legittimamente in seno alla comunione della Chiesa, le Chiese particolari, con proprie tradizioni, rimanendo però integro il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede alla comunione universale di carità [Cf. S. IGNAZIO M., Ad Rom., Praef.: ed. FUNK I, 252], tutela le varietà legittime e insieme veglia affinché ciò che è particolare, non solo non pregiudichi l'unità, ma piuttosto la serva. E infine ne derivano, tra le diverse parti della Chiesa, vincoli di intima comunione circa i tesori spirituali, gli operai apostolici e le risorse materiali. I membri del popolo di Dio sono chiamati infatti a condividere i beni e anche alle singole Chiese si applicano le parole dell'Apostolo: «Da bravi amministratori della multiforme grazia di Dio, ognuno di voi metta a servizio degli altri il dono che ha ricevuto» (1 Pt 4,10).

Tutti gli uomini sono quindi chiamati a questa cattolica unità del popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace universale; a questa unità in vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine tutti gli uomini senza eccezione, che la grazia di Dio chiama alla salvezza.

I fedeli cattolici 14 Il santo Concilio si rivolge quindi prima di tutto ai fedeli cattolici. Esso, basandosi sulla sacra Scrittura e sulla tradizione, insegna che questa Chiesa peregrinante è necessaria alla salvezza. Solo il Cristo, infatti, presente in mezzo a noi nel suo corpo che è la Chiesa, è il mediatore e la via della salvezza; ora egli stesso, inculcando espressamente la necessità della fede e del battesimo (cfr. Gv 3,5), ha nello stesso tempo confermato la necessità della Chiesa, nella quale gli uomini entrano per il battesimo come per una porta. Perciò non possono salvarsi quegli uomini, i quali, pur non ignorando che la Chiesa cattolica è stata fondata da Dio per mezzo di Gesù Cristo come necessaria, non vorranno entrare in essa o in essa perseverare. Sono pienamente incorporati nella società della Chiesa quelli che, avendo lo Spirito di Cristo, accettano integralmente la sua organizzazione e tutti i mezzi di salvezza in essa istituiti, e che inoltre, grazie ai legami costituiti dalla professione di fede, dai sacramenti, dal governo ecclesiastico e dalla comunione, sono uniti, nell'assemblea visibile della Chiesa, con il Cristo che la dirige mediante il sommo Pontefice e i vescovi. Non si salva, però, anche se incorporato alla Chiesa, colui che, non perseverando nella carità, rimane sì in seno alla Chiesa col «corpo», ma non col «cuore» [Cf. S. AGOSTINO, Bapt c. Donat. V, 28, 39: PL 43, 197: “E del tutto chiaro che quando si dice: dentro e fuori la Chiesa, si allude al cuore, non al corpo”. Cf. ib. III, 19, 26: col. 152; V, 18, 24: col. 189; In Io., Tr. 61, 2: PL 35, 1800, et al. spesso]. Si ricordino bene tutti i figli della Chiesa che la loro privilegiata condizione non va ascritta ai loro meriti, ma ad una speciale grazia di Cristo; per cui, se non vi corrispondono col pensiero, con le parole e con le opere, non solo non si salveranno, ma anzi saranno più severamente giudicati [Lc 12,48: “A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto”. Cf. Mt 5,19-20 Mt 7,21-22 Mt 25,41-46 Gc 2,14].

I catecumeni che per impulso dello Spirito Santo desiderano ed espressamente vogliono essere incorporati alla Chiesa, vengono ad essa congiunti da questo stesso desiderio, e la madre Chiesa li avvolge come già suoi con il proprio amore e con le proprie cure.

I cristiani non cattolici e la Chiesa 15 La Chiesa sa di essere per più ragioni congiunta con coloro che, essendo battezzati, sono insigniti del nome cristiano, ma non professano integralmente la fede o non conservano l'unità di comunione sotto il successore di Pietro [Cf. LEONE XIII, Lett. Apost. Praeclara gratulationis, 20 giugno 1894: ASS 26 (1893-94), p. 707]. Ci sono infatti molti che hanno in onore la sacra Scrittura come norma di fede e di vita, manifestano un sincero zelo religioso, credono amorosamente in Dio Padre onnipotente e in Cristo, figlio di Dio e salvatore [Cf. LEONE XIII, Encicl. Satis cognitum, 29 giugno 1896: ASS 28 (1895-96), p. 738; Encicl. Caritatis studium, 25 lug. 1898: ASS 31 (1898-1899), p. 11. PIO XII, Messaggio radiof. Nell’alba, 24 dic. 1941: AAS 34 (1942), p. 21], sono segnati dal battesimo, col quale vengono congiunti con Cristo, anzi riconoscono e accettano nelle proprie Chiese o comunità ecclesiali anche altri sacramenti. Molti fra loro hanno anche l'episcopato, celebrano la sacra eucaristia e coltivano la devozione alla vergine Madre di Dio [Cf. PIO XI, Encicl. Rerum Orientalium, 8 sett. 1928: AAS 20 (1928), p. 287. PIO XII, Encicl. Orientalis Ecclesiae, 9 apr. 1944: AAS 36 (1944), p. 137]. A questo si aggiunge la comunione di preghiere e di altri benefici spirituali; anzi, una certa vera unione nello Spirito Santo, poiché anche in loro egli opera con la sua virtù santificante per mezzo di doni e grazie e ha dato ad alcuni la forza di giungere fino allo spargimento del sangue. Così lo Spirito suscita in tutti i discepoli di Cristo desiderio e attività, affinché tutti, nel modo da Cristo stabilito, pacificamente si uniscano in un solo gregge sotto un solo Pastore [Cf. Istr. della S. S. C. del S. Uffizio, 20 dic. 1949: AAS 42 (1950), p. 142]. E per ottenere questo la madre Chiesa non cessa di pregare, sperare e operare, esortando i figli a purificarsi e rinnovarsi perché l'immagine di Cristo risplenda più chiara sul volto della Chiesa.

I non cristiani e la Chiesa 16 Infine, quanto a quelli che non hanno ancora ricevuto il Vangelo, anch'essi in vari modi sono ordinati al popolo di Dio [Cf. S. TOMMASO, Summa Theol. III 8,3, ad I]. In primo luogo quel popolo al quale furono-dati i testamenti e le promesse e dal quale Cristo è nato secondo la carne (cfr. Rm 9,4-5), popolo molto amato in ragione della elezione, a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili (cfr. Rm 11,28-29). Ma il disegno di salvezza abbraccia anche coloro che riconoscono il Creatore, e tra questi in particolare i musulmani, i quali, professando di avere la fede di Abramo, adorano con noi un Dio unico, misericordioso che giudicherà gli uomini nel giorno finale. Dio non e neppure lontano dagli altri che cercano il Dio ignoto nelle ombre e sotto le immagini, poiché egli dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa (cfr At 1,7,25-26), e come Salvatore vuole che tutti gli uomini si salvino (cfr. 1 Tm 2,4). Infatti, quelli che senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa ma che tuttavia cercano sinceramente Dio e coll'aiuto della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di lui, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna [Cf. Lett. della S. S. C. del S. Uffizio all’Arciv. di Boston: DS 3869-3872]. Né la divina Provvidenza nega gli aiuti necessari alla salvezza a coloro che non sono ancora arrivati alla chiara cognizione e riconoscimento di Dio, ma si sforzano, non senza la grazia divina, di condurre una vita retta. Poiché tutto ciò che di buono e di vero si trova in loro è ritenuto dalla Chiesa come una preparazione ad accogliere il Vangelo [Cf. EUSEBIO DI CES., Praeparatio Evangelica, I, 1: PG 21, 28AB] e come dato da colui che illumina ogni uomo, affinché abbia finalmente la vita. Ma molto spesso gli uomini, ingannati dal maligno, hanno errato nei loro ragionamenti e hanno scambiato la verità divina con la menzogna, servendo la creatura piuttosto che il Creatore (cfr. Rm 1,21 e 25), oppure, vivendo e morendo senza Dio in questo mondo, sono esposti alla disperazione finale. Perciò la Chiesa per promuovere la gloria di Dio e la salute di tutti costoro, memore del comando del Signore che dice: «Predicate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15), mette ogni cura nell'incoraggiare e sostenere le missioni.

Carattere missionario della Chiesa 17 Come infatti il Figlio è stato mandato dal Padre, così ha mandato egli stesso gli apostoli (cfr. Gv 20,21) dicendo: «Andate dunque e ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto quanto vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo » (Mt 28,19-20). E questo solenne comando di Cristo di annunziare la verità salvifica, la Chiesa l'ha ricevuto dagli apostoli per proseguirne l'adempimento sino all'ultimo confine della terra (cfr. At 1,8). Essa fa quindi sue le parole dell'apostolo: «Guai... a me se non predicassi!» (l Cor 9,16) e continua a mandare araldi del Vangelo, fino a che le nuove Chiese siano pienamente costituite e continuino a loro volta l'opera di evangelizzazione. È spinta infatti dallo Spirito Santo a cooperare perché sia compiuto il piano di Dio, il quale ha costituito Cristo principio della salvezza per il mondo intero. Predicando il Vangelo, la Chiesa dispone coloro che l'ascoltano a credere e a professare la fede, li dispone al battesimo, li toglie dalla schiavitù dell'errore e li incorpora a Cristo per crescere in lui mediante la carità finché sia raggiunta la pienezza. Procura poi che quanto di buono si trova seminato nel cuore e nella mente degli uomini o nei riti e culture proprie dei popoli, non solo non vada perduto, ma sia purificato, elevato e perfezionato a gloria di Dio, confusione del demonio e felicità dell'uomo. Ad ogni discepolo di Cristo incombe il dovere di disseminare, per quanto gli è possibile, la fede [Cf. BENEDETTO XV, Lett. Apost. Maximum illud: AAS 11 (1919), p. 440, specialmente p. 451ss. PIO XI, Encicl. Rerum Ecclesiae: AAS 18 (1926), pp. 68-69. PIO XII, Encicl. Fidei Donum, 21 apr. 1957: AAS 49 (1957), pp. 236-237]. Ma se ognuno può conferire il battesimo ai credenti, è tuttavia ufficio del sacerdote di completare l'edificazione del corpo col sacrificio eucaristico, adempiendo le parole dette da Dio per mezzo del profeta: «Da dove sorge il sole fin dove tramonta, grande è il mio Nome tra le genti e in ogni luogo si offre al mio Nome un sacrificio e un'offerta pura» [Cf. Didaché , 14: ed. FUNK I, p. 32. S. GIUSTINO, Dial. 41: PG 6, 564. S. IRENEO, Adv. Haer. IV, 17, 5: PG 7, 1023; HARVEY, 2, p. 199s. CONC. DI TRENTO, Sess. 22, cap. I: Dz 939 (DS 1742)]. Così la Chiesa unisce preghiera e lavoro, affinché il mondo intero in tutto il suo essere sia trasformato in popolo di Dio, corpo mistico di Cristo e tempio dello Spirito Santo, e in Cristo, centro di tutte le cose, sia reso ogni onore e gloria al Creatore e Padre dell'universo.

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Approfondimenti

IL POPOLO DI DIO

B) Il suo sacerdozio

  1. Ad esso è connessa la partecipazione dell’ufficio profetico di Cristo da parte dei fedeli, sia considerati come singoli, che come comunità (n. 12).

C) I suoi membri

  1. Tutti gli uomini, di qualunque stirpe, sono chiamati a divenirlo (n. 13).
  2. Diversi gli uni dagli altri, si arricchiscono a vicenda armonizzandosi nella unità (n. 13).
  3. Sono membri: In senso totale i cattolici, con tutte le conseguenze (n. 14); in senso parziale gli altri cristiani, in base alla loro fede in Cristo; gli Ebrei e i Musulmani, per la loro fede nell'unico Dio (n. 15); nonché i sinceri cercatori del Dio ignoto (n. 16).
  4. Ad ogni discepolo di Cristo, e non soltanto ai sacerdoti, compete il dovere dell’evangelizzazione (n. 17).

Il capitolo II descrive il soggetto Chiesa e introduce alcune categorie guida:

  • È un soggetto unitario indissolubile senza la divisione clero-laici ereditata dalla storia recente
  • È soggetto con radici profonde che partono dalla chiamata di Abramo
  • È soggetto che si riconosce “convocato” da Dio.

Da queste categorie discendono conseguenze importanti: • La Chiesa ha un solo capo che è Gesù e tutti hanno pari dignità sacerdotale, profetica e regale. • La sola legge è la carità come è incarnata in Gesù • Il fine della Chiesa non è sé stessa, ma il Regno.

Presenta inoltre alcune “novità”:

La morale non è azione a sé stante e criterio di merito. Il modo di agire, di scegliere e di parlare è frutto dei sacramenti.

Presenta il matrimonio come sacramento ecclesiale perché genera la «Chiesa domestica» che è la Chiesa tutta, a livello famigliare.

All’intero popolo compete il senso della fede (ciò che essa dice) e il consenso della fede (ciò che vincola a credere). È l’intero popolo che, assistito dalla Spirito santo, è infallibile in materia di fede.

Fonda la teologia della Chiesa sacramentale, giuridica e carismatica, aspettitutti necessari per la sua esistenza.

Infine gli aspetti di relazione con le altre realtà spirituali.

La cattolicità, oltre al significato di “universalità” indica che la Chiesa è incarnazione nella culture dell’uomo senza preclusioni.

Nei confronti delle culture la Chiesa ha il compito di purificare ciò che è contro la dignità umana, consolidare i valori a favore dell’uomo e di elevare tutta la cultura alla sua dignità di continuazione dell’opera creatrice di Dio.

L’appartenenza alla Chiesa è una chiamata rivolta a tutti e tutti vi possono partecipare secondo gradi diversi per la loro condizione.

Supera così il criterio del “o dentro o fuori” aprendo strade del tutto nuove all’ecumenismo, al dialogo interreligioso e con tutti gli uomini di buona volontà.

L’appartenere alla Chiesa cattolica non è privilegio, ma maggior responsabilità.

https://www.chiesadilavenomombello.it/items/consiglio_pastorale/29/allegati/Lumen%20Gentium%20-%20riduzione%20ppt.pdf


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CAPITOLO II – IL POPOLO DI DIO

Nuova alleanza e nuovo popolo 9 In ogni tempo e in ogni nazione è accetto a Dio chiunque lo teme e opera la giustizia (cfr. At 10,35). Tuttavia Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità.

Scelse quindi per sé il popolo israelita, stabilì con lui un'alleanza e lo formò lentamente, manifestando nella sua storia se stesso e i suoi disegni e santificandolo per sé. Tutto questo però avvenne in preparazione e figura di quella nuova e perfetta alleanza da farsi in Cristo, e di quella più piena rivelazione che doveva essere attuata per mezzo del Verbo stesso di Dio fattosi uomo. « Ecco venir giorni (parola del Signore) nei quali io stringerò con Israele e con Giuda un patto nuovo... Porrò la mia legge nei loro cuori e nelle loro menti l'imprimerò; essi mi avranno per Dio ed io li avrò per il mio popolo... Tutti essi, piccoli e grandi, mi riconosceranno, dice il Signore » (Ger 31,31-34). Cristo istituì questo nuovo patto cioè la nuova alleanza nel suo sangue (cfr. 1 Cor 11,25), chiamando la folla dai Giudei e dalle nazioni, perché si fondesse in unità non secondo la carne, ma nello Spirito, e costituisse il nuovo popolo di Dio. Infatti i credenti in Cristo, essendo stati rigenerati non di seme corruttibile, ma di uno incorruttibile, che è la parola del Dio vivo (cfr. 1 Pt 1,23), non dalla carne ma dall'acqua e dallo Spirito Santo (cfr. Gv 3,5-6), costituiscono « una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una nazione santa, un popolo tratto in salvo... Quello che un tempo non era neppure popolo, ora invece è popolo di Dio » (1 Pt 2,9-10).

Questo popolo messianico ha per capo Cristo « dato a morte per i nostri peccati e risuscitato per la nostra giustificazione » (Rm 4,25), e che ora, dopo essersi acquistato un nome che è al di sopra di ogni altro nome, regna glorioso in cielo. Ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come in un tempio. Ha per legge il nuovo precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha amati (cfr. Gv 13,34). E finalmente, ha per fine il regno di Dio, incominciato in terra dallo stesso Dio, e che deve essere ulteriormente dilatato, finché alla fine dei secoli sia da lui portato a compimento, quando comparirà Cristo, vita nostra (cfr. Col 3,4) e « anche le stesse creature saranno liberate dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla gloriosa libertà dei figli di Dio » (Rm 8,21). Perciò il popolo messianico, pur non comprendendo effettivamente l'universalità degli uomini e apparendo talora come un piccolo gregge, costituisce tuttavia per tutta l'umanità il germe più forte di unità, di speranza e di salvezza. Costituito da Cristo per una comunione di vita, di carità e di verità, è pure da lui assunto ad essere strumento della redenzione di tutti e, quale luce del mondo e sale della terra (cfr. Mt 5,13-16), è inviato a tutto il mondo.

Come già l'Israele secondo la carne peregrinante nel deserto viene chiamato Chiesa di Dio (Dt 23,1 ss.), così il nuovo Israele dell'era presente, che cammina alla ricerca della città futura e permanente (cfr. Eb 13,14), si chiama pure Chiesa di Cristo (cfr. Mt 16,18); è il Cristo infatti che l'ha acquistata col suo sangue (cfr. At 20,28), riempita del suo Spirito e fornita di mezzi adatti per l'unione visibile e sociale. Dio ha convocato tutti coloro che guardano con fede a Gesù, autore della salvezza e principio di unità e di pace, e ne ha costituito la Chiesa, perché sia agli occhi di tutti e di ciascuno, il sacramento visibile di questa unità salvifica [15]. Dovendosi essa estendere a tutta la terra, entra nella storia degli uomini, benché allo stesso tempo trascenda i tempi e i confini dei popoli, e nel suo cammino attraverso le tentazioni e le tribolazioni è sostenuta dalla forza della grazia di Dio che le è stata promessa dal Signore, affinché per la umana debolezza non venga meno alla perfetta fedeltà ma permanga degna sposa del suo Signore, e non cessi, con l'aiuto dello Spirito Santo, di rinnovare se stessa, finché attraverso la croce giunga alla luce che non conosce tramonto.

Il sacerdozio comune dei fedeli 10 Cristo Signore, pontefice assunto di mezzo agli uomini (cfr. Eb 5,1-5), fece del nuovo popolo « un regno e sacerdoti per il Dio e il Padre suo » (Ap 1,6; cfr. 5,9-10). Infatti per la rigenerazione e l'unzione dello Spirito Santo i battezzati vengono consacrati per formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo, per offrire, mediante tutte le attività del cristiano, spirituali sacrifici, e far conoscere i prodigi di colui, che dalle tenebre li chiamò all'ammirabile sua luce (cfr. 1 Pt 2,4-10). Tutti quindi i discepoli di Cristo, perseverando nella preghiera e lodando insieme Dio (cfr. At 2,42-47), offrano se stessi come vittima viva, santa, gradevole a Dio (cfr. Rm 12,1), rendano dovunque testimonianza di Cristo e, a chi la richieda, rendano ragione della speranza che è in essi di una vita eterna (cfr. 1 Pt 3,15) Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l'uno all'altro, poiché l'uno e l'altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell'unico sacerdozio di Cristo [16]. Il sacerdote ministeriale, con la potestà sacra di cui è investito, forma e regge il popolo sacerdotale, compie il sacrificio eucaristico nel ruolo di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo; i fedeli, in virtù del loro regale sacerdozio, concorrono all'offerta dell'Eucaristia [17], ed esercitano il loro sacerdozio col ricevere i sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l'abnegazione e la carità operosa.

Il sacerdozio comune esercitato nei sacramenti 11 Il carattere sacro e organico della comunità sacerdotale viene attuato per mezzo dei sacramenti e delle virtù. I fedeli, incorporati nella Chiesa col battesimo, sono destinati al culto della religione cristiana dal carattere sacramentale; rigenerati quali figli di Dio, sono tenuti a professare pubblicamente la fede ricevuta da Dio mediante la Chiesa [18]. Col sacramento della confermazione vengono vincolati più perfettamente alla Chiesa, sono arricchiti di una speciale forza dallo Spirito Santo e in questo modo sono più strettamente obbligati a diffondere e a difendere la fede con la parola e con l'opera [19], come veri testimoni di Cristo. Partecipando al sacrificio eucaristico, fonte e apice di tutta la vita cristiana, offrono a Dio la vittima divina e se stessi [20] con essa così tutti, sia con l'offerta che con la santa comunione, compiono la propria parte nell'azione liturgica, non però in maniera indifferenziata, bensì ciascuno a modo suo. Cibandosi poi del corpo di Cristo nella santa comunione, mostrano concretamente la unità del popolo di Dio, che da questo augustissimo sacramento è adeguatamente espressa e mirabilmente effettuata.

Quelli che si accostano al sacramento della penitenza, ricevono dalla misericordia di Dio il perdono delle offese fatte a lui; allo stesso tempo si riconciliano con la Chiesa, alla quale hanno inflitto una ferita col peccato e che coopera alla loro conversione con la carità, l'esempio e la preghiera. Con la sacra unzione degli infermi e la preghiera dei sacerdoti, tutta la Chiesa raccomanda gli ammalati al Signore sofferente e glorificato, perché alleggerisca le loro pene e li salvi (cfr. Gc 5,14-16), anzi li esorta a unirsi spontaneamente alla passione e morte di Cristo (cfr. Rm 8,17; Col 1,24), per contribuire così al bene del popolo di Dio. Inoltre, quelli tra i fedeli che vengono insigniti dell'ordine sacro sono posti in nome di Cristo a pascere la Chiesa colla parola e la grazia di Dio. E infine i coniugi cristiani, in virtù del sacramento del matrimonio, col quale significano e partecipano il mistero di unità e di fecondo amore che intercorre tra Cristo e la Chiesa (cfr. Ef 5,32), si aiutano a vicenda per raggiungere la santità nella vita coniugale; accettando ed educando la prole essi hanno così, nel loro stato di vita e nella loro funzione, il proprio dono in mezzo al popolo di Dio [21]. Da questa missione, infatti, procede la famiglia, nella quale nascono i nuovi cittadini della società umana, i quali per la grazia dello Spirito Santo diventano col battesimo figli di Dio e perpetuano attraverso i secoli il suo popolo. In questa che si potrebbe chiamare Chiesa domestica, i genitori devono essere per i loro figli i primi maestri della fede e secondare la vocazione propria di ognuno, quella sacra in modo speciale.

Muniti di salutari mezzi di una tale abbondanza e d'una tale grandezza, tutti i fedeli d'ogni stato e condizione sono chiamati dal Signore, ognuno per la sua via, a una santità, la cui perfezione è quella stessa del Padre celeste.

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Approfondimenti

IL POPOLO DI DIO

A) La sua vocazione

  1. Nell'antica Alleanza essa si compie nella scelta, istruzione e santificazione del popolo israelita (n. 9).
  2. Nella nuova Alleanza, tutti sono chiamati a far parte di questo Popolo santo di Dio, il cui «capo» è Cristo; «la condizione dei suoi membri» la dignità e la libertà dei figli di Dio; «la legge suprema» l’amare come Cristo stesso ci ha amati; «il fine» il Regno di Dio, qui iniziato e incrementato, ma che solo alla fine dei tempi sarà portato a compimento; «il carattere» l'universalità; «il nome», la Chiesa di Cristo (n. 9).

B) Il suo sacerdozio

  1. Lo ottengono i suoi membri mediante la consacrazione battesimale (n. 10).
  2. È quindi comune a tutti i fedeli (n. 10).
  3. Si differenzia essenzialmente da quello gerarchico per le diverse funzioni e potestà, pur essendo ambedue partecipazioni del sacerdozio di Cristo (n. 10).
  4. Lo si esercita principalmente nell’uso dei diversi sacramenti (n. 11).

Il concilio Vaticano II sceglie come figura di fondo sulla quale impostare il suo discorso sulla chiesa quella del popolo di Dio. I padri conciliari avvertono l’urgenza della propria vocazione di salvare e di rinnovare ogni creatura, affinché tutto sia ricapitolato in Cristo e gli uomini costituiscano in lui una sola famiglia ed un solo popolo di Dio. La chiesa nasce dal dono dello Spirito di Cristo, il Messia, perciò si parla di «popolo messianico»: – il capo è solo Cristo morto-risorto e non altri sovrani; – vi è uguale dignità di tutti in quanto liberi figli di Dio; – la sola legge è la carità coma la incarna Cristo stesso; – il fine è il regno di Dio. Come popolo “messianico” ha ereditato, la stessa missione di Gesù: sacerdotale, profetica e regale. In quanto destinatario della salvezza, tutto il popolo è sacerdotale pur nella distinzione tra il sacerdozio «ministeriale» e quello «comune». Il primo in funzione della piena realizzazione del secondo. Il compito dell’evangelizzazione sarà quindi “dovere fondamentale del popolo di Dio” non esclusivo di qualcuno nella chiesa: “ tutti i fedeli hanno il dovere e il diritto di impegnarsi perché l’annuncio divino della salvezza si diffonda sempre più fra gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo” (Diritto Canonico can. 781 e 211). «Il nuovo popolo di Dio non ha bisogno della mediazione di specifici sacerdoti: i ministri della chiesa nel Nuovo Testamento non saranno mai chiamati con questo nome. Piuttosto è essa stessa, in quanto popolo unito per l’unione di fede dei credenti in Gesù, a costituire il tempio di pietre vive, nel quale si offrono sacrifici graditi a Dio, cioè tutte le opere compiute nella fede, nello Spirito di Cristo» (Severino Dianich, La chiesa mistero di comunione). Si deduce che il fondamento del sacerdozio non è quello che si riceve con il sacramento dell’ordine (diaconi, preti, vescovi) ma quello di tutti i fedeli che si riceve nel battesimo. L’espressione fondamentale di questo sacerdozio comune, più che nelle azioni liturgiche, consiste nell’offrire a Dio quel “sacrificio di lode” che è la professione di fede proposta agli uomini con le parole e con le opere. È agire sacerdotale della chiesa l’operare quotidiano di ogni fedele che mette al servizio del bene comune le sue attitudini e le sue competenze, compie i suoi doveri familiari, professionali, sociali e politici, nello spirito della fede, con giustizia e carità. Il popolo di Dio è anche profetico in quanto annuncia, con la sua vita e la sua testimonianza attiva, la verità di Dio. Questo coinvolge anche il principio della infallibilità che attiene al credere della chiesa prima che alla sua azione di insegnamento. In altre parole, prima la chiesa crede, poi il magistero insegna infallibilmente. Per quanto riguarda la missionarietà la LG considera che, essendo il Regno di Dio non di questo mondo, la chiesa non si identifica in alcuna cultura e, nello stesso tempo, si incarna in tutte le culture perché ciascuna si apra a Dio.

(Tratto da: A 50 anni dal Concilio, Marco Cioni, https://lorenzoequirico.it/lumen-gentium/ ).

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Sacerdozio battesimale e ministeriale di Marino Qualizza

Il sacerdozio comune secondo la Lumen Gentium (LG 10)

Nella costituzione dogmatica sulla Chiesa, ma non solo, il concilio ha dedicato una attenzione particolare al sacerdozio comune o battesimale dei fedeli. Essa si spiega con la ripresa della riflessione sulla natura e sull’identità della Chiesa, iniziata in modo originale subito dopo la prima guerra mondiale, e dunque negli anni ’20 del XX secolo. Un primo punto importante sul tema fu segnato dal grande lavoro del teologo domenicano francese Y. Congar e l’opera che maggiormente contribuì ad un allargamento della visione fu ‘Per una teologia del laicato’ edita in Italia dalla Morcelliana nel 1966 ed oggi introvabile. Nella edizione originale francese s’intitolava: ‘Jalons pour une théologie du laicat’. Il libro suscitò anche forti riserve, che furono superate solo più tardi, si potrebbe dire alla vigilia del concilio.

Superamento del clericalismo La tesi principale era che bisognava superare la classica divisione fra clero e laici, docente e discente, attiva e passiva, ma si doveva puntare su una Chiesa tutta ministeriale. Non tutto filò liscio in questa impostazione, perché si corse il rischio di appiattire la Chiesa su una ministerialità generica. Difatti fu il Congar stesso, dopo il Concilio a frenare in questo senso. Ma intanto era stato lanciato un segnale importante e fu raccolto dal concilio ed ebbe la prima formulazione in LG 10.

«Cristo Signore, Pontefice assunto di mezzo agli uomini (cfr. Eb 5, 1-5), fece del nuovo popolo “un regno e sacerdoti per il Dio e Padre suo” (Ap 1,6; cfr 5,9-10). Infatti, per la rigenerazione e l’unzione dello Spirito Santo i battezzati vengono consacrati a formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo, per offrire, mediante tutte le opere del cristiano, spirituali sacrifici , e far conoscere i prodigi di Colui, che dalle tenebre li chiamò all’ammirabile sua luce (cfr 1Pt 2,4-10)».

Il testo è inserito nel capitolo secondo della costituzione, che ha come tema ‘Il popolo di Dio’. A proposito di questo capitolo si parlava di una ‘rivoluzione copernicana’, in quanto veniva anteposto a quello sulla gerarchia, che da sempre aveva la prima attenzione. A dire il vero, se di rivoluzione si tratta, essa riguarda non un singolo capitolo, ma la concezione stessa di tutto il testo e della visione che lo caratterizza; in pratica dell’aver messo al primo posto il mistero della Chiesa in Dio uno e trino, e poi dell’aver trattato immediatamente, alla luce dello stesso mistero, del popolo di Dio, non per parlare dei laici, ma di tutti i credenti, gerarchia e laici, riuniti nell’unità della fede.

Universalità del sacerdozio del popolo di Dio Così si passa a parlare in modo del tutto coerente del sacerdozio comune, che riguarda tutto il popolo di Dio e lo fa erede legittimo del popolo dell’AT, per perpetuare nei secoli la memoria viva dei prodigi di Dio. L’attività principale di questo popolo, sinteticamente espressa è di carattere liturgico e missionario. Con la liturgia si uniscono al sacrificio di Cristo e con l’annuncio missionario ne continuano l’opera di evangelizzazione. Non si dice nulla di nuovo, perché era già stato detto da sempre, come indicano i riferimenti biblici, ma viene ripreso in modo nuovo, dopo secoli di relativo se non totale oblio. Tutti i cristiani, senza esclusione sono chiamati ad essere attivi nella Chiesa di Dio.

«Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro, poiché l’uno e l’altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo…I fedeli, in virtù del loro regale sacerdozio, concorrono all’oblazione dell’Eucaristia, e lo esercitano con ricevere i sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, coll’abnegazione e l’operosa carità» (LG10).

Distinzioni necessarie Una precisazione doverosa, sulla differenza fra il sacerdozio ministeriale e comune. Il concilio adopera una frase che ha suscitato molti e difficili commenti. Basti, nel nostro caso, affermare che il sacerdozio ministeriale è basato su un terzo sacramento, oltre il battesimo e la confermazione e la cosa risulta più che chiara. I fedeli che non sono ministri ordinati esercitano un ruolo attivo nella Chiesa, a cominciare dal fatto più importante: la celebrazione dell’Eucaristia.


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DOCUMENTI DEL CONCILIO VATICANO II Costituzione dogmatica sulla Chiesa LUMEN GENTIUM (21 novembre 1964)

CAPITOLO I – IL MISTERO DELLA CHIESA

Il regno di Dio 5 Il mistero della santa Chiesa si manifesta nella sua stessa fondazione. Il Signore Gesù, infatti, diede inizio ad essa predicando la buona novella, cioè l'avvento del regno di Dio da secoli promesso nella Scrittura: «Poiché il tempo è compiuto, e vicino è il regno di Dio» (Mc 1,15; cfr. Mt 4,17). Questo regno si manifesta chiaramente agli uomini nelle parole, nelle opere e nella presenza di Cristo. La parola del Signore è paragonata appunto al seme che viene seminato nel campo (cfr. Mc 4,14): quelli che lo ascoltano con fede e appartengono al piccolo gregge di Cristo (cfr. Lc 12,32), hanno accolto il regno stesso di Dio; poi il seme per virtù propria germoglia e cresce fino al tempo del raccolto (cfr. Mc 4,26-29). Anche i miracoli di Gesù provano che il regno è arrivato sulla terra: «Se con il dito di Dio io scaccio i demoni, allora è già pervenuto tra voi il regno di Dio» (Lc 11,20; cfr. Mt 12,28). Ma innanzi tutto il regno si manifesta nella stessa persona di Cristo, figlio di Dio e figlio dell'uomo, il quale è venuto «a servire, e a dare la sua vita in riscatto per i molti» (Mc 10,45). Quando poi Gesù, dopo aver sofferto la morte in croce per gli uomini, risorse, apparve quale Signore e messia e sacerdote in eterno (cfr. At 2,36; Eb 5,6; 7,17-21), ed effuse sui suoi discepoli lo Spirito promesso dal Padre (cfr. At 2,33). La Chiesa perciò, fornita dei doni del suo fondatore e osservando fedelmente i suoi precetti di carità, umiltà e abnegazione, riceve la missione di annunziare e instaurare in tutte le genti il regno di Cristo e di Dio, e di questo regno costituisce in terra il germe e l'inizio. Intanto, mentre va lentamente crescendo, anela al regno perfetto e con tutte le sue forze spera e brama di unirsi col suo re nella gloria.

Le immagini della Chiesa 6 Come già nell'Antico Testamento la rivelazione del regno viene spesso proposta in figure, così anche ora l'intima natura della Chiesa ci si fa conoscere attraverso immagini varie, desunte sia dalla vita pastorale o agricola, sia dalla costruzione di edifici o anche dalla famiglia e dagli sponsali, e che si trovano già abbozzate nei libri dei profeti.

La Chiesa infatti è un ovile, la cui porta unica e necessaria è Cristo (cfr. Gv 10,1-10). È pure un gregge, di cui Dio stesso ha preannunziato che ne sarebbe il pastore (cfr. Is 40,11; Ez 34,11 ss), e le cui pecore, anche se governate da pastori umani, sono però incessantemente condotte al pascolo e nutrite dallo stesso Cristo, il buon Pastore e principe dei pastori (cfr. Gv 10,11; 1 Pt 5,4), il quale ha dato la vita per le pecore (cfr. Gv 10,11-15).

La Chiesa è il podere o campo di Dio (cfr. 1 Cor 3,9). In quel campo cresce l'antico olivo, la cui santa radice sono stati i patriarchi e nel quale è avvenuta e avverrà la riconciliazione dei Giudei e delle Genti (cfr. Rm 11,13-26). Essa è stata piantata dal celeste agricoltore come vigna scelta (Mt 21,33-43, par.; cfr. Is 5,1 ss). Cristo è la vera vite, che dà vita e fecondità ai tralci, cioè a noi, che per mezzo della Chiesa rimaniamo in lui, e senza di lui nulla possiamo fare (cfr. Gv 15,1-5).

Più spesso ancora la Chiesa è detta edificio di Dio (cfr. 1 Cor 3,9). Il Signore stesso si paragonò alla pietra che i costruttori hanno rigettata, ma che è divenuta la pietra angolare (Mt 21,42 par.). Sopra quel fondamento la Chiesa è costruita dagli apostoli (cfr. 1 Cor 3,11) e da esso riceve stabilità e coesione. Questo edificio viene chiamato in varie maniere: casa di Dio (cfr. 1 Tm 3,15), nella quale cioè abita la sua famiglia, la dimora di Dio nello Spirito (cfr. Ef 2,19-22), la dimora di Dio con gli uomini (cfr. Ap 21,3), e soprattutto tempio santo, il quale, rappresentato dai santuari di pietra, è l'oggetto della lode dei santi Padri ed è paragonato a giusto titolo dalla liturgia alla città santa, la nuova Gerusalemme [Cf. ORIGENE, In Mt. 16,21: PG 13, 1443C. TERTULLIANO, Adv. Marc. 3, 7: PL 2, 357C; CSEL 47, 3, p. 386]. In essa infatti quali pietre viventi veniamo a formare su questa terra un tempio spirituale (cfr. 1 Pt 2,5). E questa città santa Giovanni la contempla mentre, nel momento in cui si rinnoverà il mondo, scende dal cielo, da presso Dio, «acconciata come sposa adornatasi per il suo sposo» (Ap 21,1s).

La Chiesa, chiamata «Gerusalemme celeste» e «madre nostra» (Gal 4,26; cfr. Ap 12,17), viene pure descritta come l'immacolata sposa dell'Agnello immacolato (cfr. Ap 19,7; 21,2 e 9; 22,17), sposa che Cristo «ha amato... e per essa ha dato se stesso, al fine di santificarla» (Ef 5,26), che si è associata con patto indissolubile ed incessantemente «nutre e cura» (Ef 5,29), che dopo averla purificata, volle a sé congiunta e soggetta nell'amore e nella fedeltà (cfr. Ef 5,24), e che, infine, ha riempito per sempre di grazie celesti, onde potessimo capire la carità di Dio e di Cristo verso di noi, carità che sorpassa ogni conoscenza (cfr. Ef 3,19). Ma mentre la Chiesa compie su questa terra il suo pellegrinaggio lontana dal Signore (cfr. 2 Cor 5,6), è come un esule, e cerca e pensa alle cose di lassù, dove Cristo siede alla destra di Dio, dove la vita della Chiesa è nascosta con Cristo in Dio, fino a che col suo sposo comparirà rivestita di gloria (cfr. Col 3,1-4).

La Chiesa, corpo mistico di Cristo 7 Il Figlio di Dio, unendo a sé la natura umana e vincendo la morte con la sua morte e resurrezione, ha redento l'uomo e l'ha trasformato in una nuova creatura (cfr. Gal 6,15; 2 Cor 5,17). Comunicando infatti il suo Spirito, costituisce misticamente come suo corpo i suoi fratelli, che raccoglie da tutte le genti.

In quel corpo la vita di Cristo si diffonde nei credenti che, attraverso i sacramenti si uniscono in modo arcano e reale a lui sofferente e glorioso [Cf. S. TOMMASO, Summa Theol. III, q. 62, a. 5, ad 1]. Per mezzo del battesimo siamo resi conformi a Cristo: «Infatti noi tutti “fummo battezzati in un solo Spirito per costituire un solo corpo” (1 Cor 12,13). Con questo sacro rito viene rappresentata e prodotta la nostra unione alla morte e resurrezione di Cristo: “Fummo dunque sepolti con lui per l'immersione a figura della morte”; ma se, fummo innestati a lui in una morte simile alla sua, lo saremo anche in una resurrezione simile alla sua» (Rm 6,4-5). Partecipando realmente del corpo del Signore nella frazione del pane eucaristico, siamo elevati alla comunione con lui e tra di noi: «Perché c'è un solo pane, noi tutti non formiamo che un solo corpo, partecipando noi tutti di uno stesso pane» (1 Cor 10,17). Così noi tutti diventiamo membri di quel corpo (cfr. 1 Cor 12,27), «e siamo membri gli uni degli altri» (Rm 12,5).

Ma come tutte le membra del corpo umano, anche se numerose, non formano che un solo corpo così i fedeli in Cristo (cfr. 1 Cor 12,12). Anche nella struttura del corpo mistico di Cristo vige una diversità di membri e di uffici. Uno è lo Spirito, il quale per l'utilità della Chiesa distribuisce la varietà dei suoi doni con magnificenza proporzionata alla sua ricchezza e alle necessità dei ministeri (cfr. 1 Cor 12,1-11). Fra questi doni eccelle quello degli apostoli, alla cui autorità lo stesso Spirito sottomette anche i carismatici (cfr. 1 Cor 14). Lo Spirito, unificando il corpo con la sua virtù e con l'interna connessione dei membri, produce e stimola la carità tra i fedeli. E quindi se un membro soffre, soffrono con esso tutte le altre membra; se un membro è onorato, ne gioiscono con esso tutte le altre membra (cfr. 1 Cor 12,26).

Capo di questo corpo è Cristo. Egli è l'immagine dell'invisibile Dio, e in lui tutto è stato creato. Egli è anteriore a tutti, e tutte le cose sussistono in lui. È il capo del corpo, che è la Chiesa. È il principio, il primo nato di tra i morti, affinché abbia il primato in tutto (cfr. Col 1,15-18). Con la grandezza della sua potenza domina sulle cose celesti e terrestri, e con la sua perfezione e azione sovrana riempie delle ricchezze della sua gloria tutto il suo corpo (cfr. Ef 1,18-23) [Cf. PIO XII, Enc. Mystici Corporis, 29 giugno 1943: AAS 35 (1943), p. 208].

Tutti i membri devono a lui conformarsi, fino a che Cristo non sia in essi formato (cfr. Gal 4,19). Per ciò siamo collegati ai misteri della sua vita, resi conformi a lui, morti e resuscitati con lui, finché con lui regneremo (cfr. Fil 3,21; 2 Tm 2,11; Ef 2,6). Ancora peregrinanti in terra, mentre seguiamo le sue orme nella tribolazione e nella persecuzione, veniamo associati alle sue sofferenze, come il corpo al capo e soffriamo con lui per essere con lui glorificati (cfr. Rm 8,17). Da lui «tutto il corpo ben fornito e ben compaginato, per mezzo di giunture e di legamenti, riceve l'aumento voluto da Dio» (Col 2,19). Nel suo corpo, che è la Chiesa, egli continuamente dispensa i doni dei ministeri, con i quali, per virtù sua, ci aiutiamo vicendevolmente a salvarci e, operando nella carità conforme a verità, andiamo in ogni modo crescendo verso colui, che è il nostro capo (cfr. Ef 5,11-16 gr.).

Perché poi ci rinnovassimo continuamente in lui (cfr. Ef 4,23), ci ha resi partecipi del suo Spirito, il quale, unico e identico nel capo e nelle membra, dà a tutto il corpo vita, unità e moto, così che i santi Padri poterono paragonare la sua funzione con quella che il principio vitale, cioè l'anima, esercita nel corpo umano [Cf. LEONE XIII, Enc. Divinum illud, 9 maggio 1897: ASS 29 (1896-97), p. 650]. Cristo inoltre ama la Chiesa come sua sposa, facendosi modello del marito che ama la moglie come il proprio corpo (cfr. Ef 5,25-28); la Chiesa poi è soggetta al suo capo. E poiché «in lui abita congiunta all'umanità la pienezza della divinità» (Col 2,9), egli riempie dei suoi doni la Chiesa la quale è il suo corpo e la sua pienezza (cfr. Ef 1,22-23), affinché essa sia protesa e pervenga alla pienezza totale di Dio (cfr. Ef 3,19).

Lo Spirito santificatore della Chiesa 8 Cristo, unico mediatore, ha costituito sulla terra e incessantemente sostenta la sua Chiesa santa, comunità di fede, di speranza e di carità [Cf. LEONE XIII, Enc. Sapientiae christianae, 10 genn. 1890: ASS 22 (1889-90), p. 392; ID., Enc. Satis cognitum, 29 giugno 1896: AAS 28 (1895-96), pp. 710 e 724ss. PIO XII, Enc. Mystici Corporis, l.c. [nota 7], pp. 199-200], quale organismo visibile, attraverso il quale diffonde per tutti la verità e la grazia. Ma la società costituita di organi gerarchici e il corpo mistico di Cristo, l'assemblea visibile e la comunità spirituale, la Chiesa terrestre e la Chiesa arricchita di beni celesti, non si devono considerare come due cose diverse; esse formano piuttosto una sola complessa realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino [Cf. PIO XII, Enc. Mystici Corporis, l.c. [nota 7], p. 221ss; ID., Enc. Humani generis, 12 ag. 1950: AAS 42 (1950), p. 571]. Per una analogia che non è senza valore, quindi, è paragonata al mistero del Verbo incarnato. Infatti, come la natura assunta serve al Verbo divino da vivo organo di salvezza, a lui indissolubilmente unito, così in modo non dissimile l'organismo sociale della Chiesa serve allo Spirito di Cristo che la vivifica, per la crescita del corpo (cfr. Ef 4,16) [Cf. LEONE XIII, Enc. Satis cognitum, l.c. [nota 9], p. 713].

Questa è l'unica Chiesa di Cristo, che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica [Cf. Symbolum Ap.: Dz 6-9 (10-13) [Collantes 0.501-02]; Symb. Nic.-Const.: Dz 86 (150) [Collantes 0.509]; cf. Prof. fidei Trid.: Dz 994 e 999 (1862 e 1868)] e che il Salvatore nostro, dopo la sua resurrezione, diede da pascere a Pietro (cfr. Gv 21,17), affidandone a lui e agli altri apostoli la diffusione e la guida (cfr. Mt 28,18ss), e costituì per sempre colonna e sostegno della verità (cfr. 1 Tm 3,15). Questa Chiesa, in questo mondo costituita e organizzata come società, sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui [E detta “Santa (cattolica apostolica) Romana Chiesa” nella Prof. fidei Trid., l.c. [nota prec.] e nel CONC. VAT. I, Cost. Dogm. sulla fede cattolica Dei Filius: Dz 1782 (3001)], ancorché al di fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di santificazione e di verità, che, appartenendo propriamente per dono di Dio alla Chiesa di Cristo, spingono verso l'unità cattolica. Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa e chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Gesù Cristo «che era di condizione divina... spogliò se stesso, prendendo la condizione di schiavo» (Fil 2,6-7) e per noi «da ricco che era si fece povero» (2 Cor 8,9): così anche la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria terrena, bensì per diffondere, anche col suo esempio, l'umiltà e l'abnegazione. Come Cristo infatti è stato inviato dal Padre «ad annunciare la buona novella ai poveri, a guarire quei che hanno il cuore contrito» (Lc 4,18), «a cercare e salvare ciò che era perduto» (Lc 19,10), così pure la Chiesa circonda d'affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l'immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa premura di sollevarne la indigenza e in loro cerca di servire il Cristo. Ma mentre Cristo, «santo, innocente, immacolato» (Eb 7,26), non conobbe il peccato (cfr. 2 Cor 5,21) e venne solo allo scopo di espiare i peccati del popolo (cfr. Eb 2,17), la Chiesa, che comprende nel suo seno peccatori ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, avanza continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento. La Chiesa «prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio» [S. AGOSTINO, De civ. Dei, XVIII, 51, 2: PL 41, 614.], annunziando la passione e la morte del Signore fino a che egli venga (cfr. 1 Cor 11,26). Dalla virtù del Signore risuscitato trae la forza per vincere con pazienza e amore le afflizioni e le difficoltà, che le vengono sia dal di dentro che dal di fuori, e per svelare in mezzo al mondo, con fedeltà, anche se non perfettamente, il mistero di lui, fino a che alla fine dei tempi esso sarà manifestato nella pienezza della luce.

Così la Chiesa universale si presenta come «un popolo che deriva la sua unità dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» [S. CIPRIANO, De Orat. Dom. 23: PL 4, 553; HARTEL IIIA, p. 285. S. AGOSTINO, Serm. 71, 20, 33: PL 38, 463s. S. GIOV. DAMASCENO, Adv. Iconocl. 12: PG 96, 1358D].

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Approfondimenti

LG 8 – «la Chiesa, che comprende nel suo seno peccatori ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, avanza continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento». Su questa coscienza umile di una chiesa che sa essere pellegrina nel mondo, in cammino assieme a tutti gli uomini, essa fonda il suo programma di rinnovamento. Riconosce che la sua storia nel mondo è intessuta di tentazioni e di peccati. Così la chiesa, nel suo pellegrinaggio verso il Regno, è chiamata a non cercare alcuna affermazione di sé con la potenza né dei miracoli, né della ricchezza e dei poteri umani. La sua fiducia deve andare solo a Dio e l’unica sua forza davanti al mondo deve essere la parola di Dio, con la quale essa è chiamata ad offrire al mondo la speranza che attinge dalla fede nel Regno che viene.

LG 8 – «Gesù Cristo “che era di condizione divina… spogliò se stesso, prendendo la condizione di schiavo” (Fil 2,6-7) e per noi “da ricco che era si fece povero” (2 Cor 8,9): così anche la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria terrena, bensì per diffondere, anche col suo esempio, l’umiltà e l’abnegazione». Corpo di Cristo, per la sua partecipazione alla sua vita e alla sua morte, la chiesa non può che seguire Cristo nella sua rinuncia all’esercizio di un potere mondano. Quando il potere è inteso come scopo della vita, materializzazione dell’orgoglio e dell’egoismo, sopraffazione dell’uomo sull’uomo, è evidente la sua incompatibilità con il vangelo. Ma anche quando il potere fosse inteso come puro strumento per realizzare ideali validi, quando fosse cercato come mezzo per la proclamazione e l’attuazione del vangelo, per la chiesa costituisce sempre un problema e spesso una tentazione. Neppure nel difendere la propria esistenza e la propria libertà la chiesa può usare strumenti e metodi di lotta tipici dei poteri mondani: la sua fiducia è solo nel Signore. Ancora di più: è necessario che essa non accetti alleanze che possano identificarla con determinate ideologie, movimenti politici o gruppi di potere. D’altra parte la chiesa non può ignorare di avere un reale peso nel mondo e allora non avrà che una scelta: gettarlo sulla bilancia in favore dei poveri, di coloro che subiscono l’ingiustizia del mondo. Il potere della chiesa ha un solo uso legittimo, quello in favore di chi non ha potere.

(Tratto da: A 50 anni dal Concilio, Marco Cioni, https://lorenzoequirico.it/lumen-gentium/ ).


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DOCUMENTI DEL CONCILIO VATICANO II Costituzione dogmatica sulla Chiesa LUMEN GENTIUM (21 novembre 1964)

CAPITOLO I – IL MISTERO DELLA CHIESA

La Chiesa è sacramento in Cristo 1 Cristo è la luce delle genti: questo santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, desidera dunque ardentemente, annunciando il Vangelo ad ogni creatura (cfr. Mc 16,15), illuminare tutti gli uomini con la luce del Cristo che risplende sul volto della Chiesa. E siccome la Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano, continuando il tema dei precedenti Concili, intende con maggiore chiarezza illustrare ai suoi fedeli e al mondo intero la propria natura e la propria missione universale. Le presenti condizioni del mondo rendono più urgente questo dovere della Chiesa, affinché tutti gli uomini, oggi più strettamente congiunti dai vari vincoli sociali, tecnici e culturali, possano anche conseguire la piena unità in Cristo.

Disegno salvifico universale del Padre 2 L'eterno Padre, con liberissimo e arcano disegno di sapienza e di bontà, creò l'universo; decise di elevare gli uomini alla partecipazione della sua vita divina; dopo la loro caduta in Adamo non li abbandonò, ma sempre prestò loro gli aiuti per salvarsi, in considerazione di Cristo redentore, «il quale è l'immagine dell'invisibile Dio, generato prima di ogni creatura» (Col 1,15). Tutti infatti quelli che ha scelto, il Padre fino dall'eternità «li ha distinti e li ha predestinati a essere conformi all'immagine del Figlio suo, affinché egli sia il primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29). I credenti in Cristo, li ha voluti chiamare a formare la santa Chiesa, la quale, già annunciata in figure sino dal principio del mondo, mirabilmente preparata nella storia del popolo d'Israele e nell'antica Alleanza [Cf. S. CIPRIANO, Epist. 64,4: PL 3, 1017; CSEL (HARTEL) IIIB, p. 720. S. ILARIO DI POITIERS, In Mt. 23,6: PL 9, 1047. S. AGOSTINO, passim. S. CIRILLO D’ALESS., Glaph. in Gen. 2,10: PG 69, 110A], stabilita infine «negli ultimi tempi», è stata manifestata dall'effusione dello Spirito e avrà glorioso compimento alla fine dei secoli. Allora, infatti, come si legge nei santi Padri, tutti i giusti, a partire da Adamo, «dal giusto Abele fino all'ultimo eletto» [S. GREGORIO M., Hom. in Evang. 19, 1: PL 76, 1154B. Cf. S. AGOSTINO, Serm. 341, 9, 11: PL 39, 1499s. S. GIOV. DAMASCENO, Adv. Iconocl. 11: PG 96, 1357], saranno riuniti presso il Padre nella Chiesa universale.

Missione del Figlio 3 È venuto quindi il Figlio, mandato dal Padre, il quale ci ha scelti in lui prima della fondazione del mondo e ci ha predestinati ad essere adottati in figli, perché in lui volle accentrare tutte le cose (cfr. Ef 1,4-5 e 10). Perciò Cristo, per adempiere la volontà del Padre, ha inaugurato in terra il regno dei cieli e ci ha rivelato il mistero di lui, e con la sua obbedienza ha operato la redenzione. La Chiesa, ossia il regno di Cristo già presente in mistero, per la potenza di Dio cresce visibilmente nel mondo. Questo inizio e questa crescita sono significati dal sangue e dall'acqua, che uscirono dal costato aperto di Gesù crocifisso (cfr. Gv 19,34), e sono preannunziati dalle parole del Signore circa la sua morte in croce: «Ed io, quando sarò levato in alto da terra, tutti attirerò a me» (Gv 12,32). Ogni volta che il sacrificio della croce, col quale Cristo, nostro agnello pasquale, è stato immolato (cfr. 1 Cor 5,7), viene celebrato sull'altare, si rinnova l'opera della nostra redenzione. E insieme, col sacramento del pane eucaristico, viene rappresentata ed effettuata l'unità dei fedeli, che costituiscono un solo corpo in Cristo (cfr. 1 Cor 10,17). Tutti gli uomini sono chiamati a questa unione con Cristo, che è la luce del mondo; da lui veniamo, per mezzo suo viviamo, a lui siamo diretti.

Lo Spirito santificatore della Chiesa 4 Compiuta l'opera che il Padre aveva affidato al Figlio sulla terra (cfr. Gv 17,4), il giorno di Pentecoste fu inviato lo Spirito Santo per santificare continuamente la Chiesa e affinché i credenti avessero così attraverso Cristo accesso al Padre in un solo Spirito (cfr. Ef 2,18). Questi è lo Spirito che dà la vita, una sorgente di acqua zampillante fino alla vita eterna (cfr. Gv 4,14; 7,38-39); per mezzo suo il Padre ridà la vita agli uomini, morti per il peccato, finché un giorno risusciterà in Cristo i loro corpi mortali (cfr. Rm 8,10-11). Lo Spirito dimora nella Chiesa e nei cuori dei fedeli come in un tempio (cfr. 1 Cor 3,16; 6,19) e in essi prega e rende testimonianza della loro condizione di figli di Dio per adozione (cfr. Gal 4,6; Rm 8,15-16 e 26). Egli introduce la Chiesa nella pienezza della verità (cfr. Gv 16,13), la unifica nella comunione e nel ministero, la provvede e dirige con diversi doni gerarchici e carismatici, la abbellisce dei suoi frutti (cfr. Ef 4,11-12; 1 Cor 12,4; Gal 5,22). Con la forza del Vangelo la fa ringiovanire, continuamente la rinnova e la conduce alla perfetta unione col suo Sposo [Cf. S. IRENEO, Adv. Haer. III, 24, 1: PG 7, 966B; HARVEY 2, 131, ed. SAGNARD, Sources Chr., p. 398]. Poiché lo Spirito e la sposa dicono al Signore Gesù: « Vieni » (cfr. Ap 22,17).

Così la Chiesa universale si presenta come «un popolo che deriva la sua unità dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» [S. CIPRIANO, De Orat. Dom. 23: PL 4, 553; HARTEL IIIA, p. 285. S. AGOSTINO, Serm. 71, 20, 33: PL 38, 463s. S. GIOV. DAMASCENO, Adv. Iconocl. 12: PG 96, 1358D].

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Approfondimenti

LUMEN GENTIUM

Il documento riprende il lavoro, interrotto, del Vaticano I e lo porta a maturazione rovesciando la prospettiva da cui guardare la chiesa: da una gerarchia che governa un popolo cristiano, ad un popolo di Dio che vive grazie ai carismi dello Spirito santo. Se i laici, si è pensato, sono solo una parte del popolo di Dio vuol dire che questa categoria è generale e ingloba tutti.

La Costituzione dogmatica sulla chiesa risulta strutturata in otto capitoli, secondo il seguente schema: cap. 1: Il mistero della chiesa (paragrafi 1-8) cap. 2: Il popolo di Dio (paragrafi 9-17) cap. 3: La costituzione gerarchica della chiesa e in particolare l’episcopato (paragrafi 18-29) cap. 4: I laici (paragrafi 30-38) cap. 5: La vocazione universale alla santità nella chiesa (paragrafi 39-42) cap. 6: I religiosi (paragrafi 43-47) cap. 7: L’indole escatologica della chiesa pellegrina (paragrafi 48-51) cap. 8: La Beata vergine Maria Madre di Dio nel mistero di Cristo e della chiesa (paragrafi 52-69)

La LG traccia una nuova ecclesiologia o, meglio, riordina l’ecclesiologia, sbilanciata finora sugli aspetti giuridici, mettendo in relazione quattro fattori: – l’autorità che raccorda in continuità storica la chiesa agli apostoli e quindi al Gesù storico – la Parola e i sacramenti (in primis l’eucaristia) che edificano e nutrono la chiesa posta sotto l’azione del Cristo celeste – i carismi che lo Spirito Santo suscita dappertutto e sempre, rigenerando sempre da capo la chiesa – i valori umani diffusi nella storia

IL MISTERO DELLA CHIESA Il nuovo schema sulla chiesa, voluto dai padri conciliari in sostituzione del precedente, ha un punto di partenza chiaramente cristocentrico (n.1): «Cristo Signore è la luce delle genti», come afferma l’incipit. Con questo, si accantonano di colpo ben quattro secoli di controversie fra cattolici e protestanti, andando a quanto li accomuna, cioè a Cristo come riferimento essenziale. Non solo, ma si passa subito alla scelta principale della costituzione e del capitolo, che è la scelta trinitaria, visione che già San Paolo e i Padri della Chiesa avevano presentato, soprattutto con la teologia africana dei secoli II (Tertulliano: «La Chiesa è il corpo della Trinità») e III (Cipriano: «La Chiesa è un popolo adunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo»). Un ritorno alla Bibbia porta, poi, a sconfiggere ogni identificazione tra chiesa e regno di Dio. Questo si identifica con Cristo stesso; quella è il suo germe e inizio – non realtà piena e perfetta, ma solo avvio e promessa.

LG 1 – «La Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» Nella sua autocoscienza la chiesa sa di esistere per presentare al mondo la figura autentica e il vero messaggio del Regno, restando consapevole di non identificarsi con il Regno di Dio. La chiesa deve confrontarsi con la grandezza del Regno che porterà a considerare se stessa come “segno e strumento”, nulla di più del seme gettato nella terra, della rete calata nel mare, del sale che si mescola per dar sapore e del lievito che si nasconde per far lievitare. La LG ci presenta la chiesa non come il Regno di Dio realizzato in questo mondo ma, più modestamente, come un segno che indica la mèta finale verso la quale si muove la storia e come strumento capace di diverse anticipazioni della sua venuta fra gli uomini. Ne deriva che il rapporto fra la chiesa e il mondo è un rapporto a tre: la chiesa è al sevizio del mondo per indicargli il Regno e camminare insieme con il mondo verso il Regno. (Cfr. Gaudium et Spes 39-40)

(Tratto da: A 50 anni dal Concilio, Marco Cioni, https://lorenzoequirico.it/lumen-gentium/ ).


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DOCUMENTI DEL CONCILIO VATICANO II Costituzione sulla sacra Liturgia SACROSANCTUM CONCILIUM (4 dicembre 1963)

CAPITOLO VII – L'ARTE SACRA E LA SACRA SUPPELLETTILE

Dignità dell'arte sacra 122 Fra le più nobili attività dell'ingegno umano sono annoverate, a pieno diritto, le belle arti, soprattutto l'arte religiosa e il suo vertice, l'arte sacra. Esse, per loro natura, hanno relazione con l'infinita bellezza divina che deve essere in qualche modo espressa dalle opere dell'uomo, e sono tanto più orientate a Dio e all'incremento della sua lode e della sua gloria, in quanto nessun altro fine è stato loro assegnato se non quello di contribuire il più efficacemente possibile, con le loro opere, a indirizzare religiosamente le menti degli uomini a Dio. Per tali motivi la santa madre Chiesa ha sempre favorito le belle arti, ed ha sempre ricercato il loro nobile servizio, specialmente per far sì che le cose appartenenti al culto sacro splendessero veramente per dignità, decoro e bellezza, per significare e simbolizzare le realtà soprannaturali; ed essa stessa ha formato degli artisti. A riguardo, anzi di tali arti, la Chiesa si è sempre ritenuta a buon diritto come arbitra, scegliendo tra le opere degli artisti quelle che rispondevano alla fede, alla pietà e alle norme religiosamente tramandate e che risultavano adatte all'uso sacro. Con speciale sollecitudine la Chiesa si è preoccupata che la sacra suppellettile servisse con la sua dignità e bellezza al decoro del culto, ammettendo nella materia, nella forma e nell'ornamento quei cambiamenti che il progresso della tecnica ha introdotto nel corso dei secoli. I Padri conciliari hanno perciò deciso di stabilire su questo argomento quanto segue.

Lo stile artistico 123 La Chiesa non ha mai avuto come proprio un particolare stile artistico, ma, secondo l'indole e le condizioni dei popoli e le esigenze dei vari riti, ha ammesso le forme artistiche di ogni epoca, creando così, nel corso dei secoli, un tesoro artistico da conservarsi con ogni cura. Anche l'arte del nostro tempo e di tutti i popoli e paesi abbia nella Chiesa libertà di espressione, purché serva con la dovuta riverenza e il dovuto onore alle esigenze degli edifici sacri e dei sacri riti. In tal modo essa potrà aggiungere la propria voce al mirabile concento di gloria che uomini eccelsi innalzarono nei secoli passati alla fede cattolica.

124 Nel promuovere e favorire una autentica arte sacra, gli ordinari procurino di ricercare piuttosto una nobile bellezza che una mera sontuosità. E ciò valga anche per le vesti e gli ornamenti sacri. I vescovi abbiano ogni cura di allontanare dalla casa di Dio e dagli altri luoghi sacri quelle opere d'arte, che sono contrarie alla fede, ai costumi e alla pietà cristiana; che offendono il genuino senso religioso, o perché depravate nelle forme, o perché insufficienti, mediocri o false nell'espressione artistica. Nella costruzione poi degli edifici sacri ci si preoccupi diligentemente della loro idoneità a consentire lo svolgimento delle azioni liturgiche e la partecipazione attiva dei fedeli.

Le immagini sacre 125 Si mantenga l'uso di esporre nelle chiese le immagini sacre alla venerazione dei fedeli. Tuttavia si espongano in numero limitato e secondo una giusta disposizione, affinché non attirino su di sé in maniera esagerata l'ammirazione del popolo cristiano e non favoriscano una devozione sregolata.

126 Quando si tratta di dare un giudizio sulle opere d'arte, gli ordinari del luogo sentano il parere della commissione di arte sacra e, se è il caso, di altre persone particolarmente competenti, come pure delle commissioni di cui agli articoli 44, 45, 46. Gli ordinari vigilino in maniera speciale a che la sacra suppellettile o le opere preziose, che sono ornamento della casa di Dio, non vengano alienate o disperse.

Formazione degli artisti 127 I vescovi, o direttamente o per mezzo di sacerdoti idonei che conoscono e amano l'arte, si prendano cura degli artisti, allo scopo di formarli allo spirito dell'arte sacra e della sacra liturgia.

Si raccomanda inoltre di istituire scuole o accademie di arte sacra per la formazione degli artisti, dove ciò sembrerà opportuno. Tutti gli artisti, poi, che guidati dal loro talento intendono glorificare Dio nella santa Chiesa, ricordino sempre che la loro attività è in certo modo una sacra imitazione di Dio creatore e che le loro opere sono destinate al culto cattolico, alla edificazione, alla pietà e alla formazione religiosa dei fedeli.

La legislazione sull'arte sacra 128 Si rivedano quanto prima, insieme ai libri liturgici, a norma dell'art. 25, i canoni e le disposizioni ecclesiastiche che riguardano il complesso delle cose esterne attinenti al culto sacro, e specialmente quanto riguarda la costruzione degna e appropriata degli edifici sacri, la forma e la erezione degli altari, la nobiltà, la disposizione e la sicurezza del tabernacolo eucaristico, la funzionalità e la dignità del battistero, la conveniente disposizione delle sacre immagini, della decorazione e dell'ornamento. Quelle norme che risultassero meno rispondenti alla riforma della liturgia siano corrette o abolite; quelle invece che risultassero favorevoli siano mantenute o introdotte. A tale riguardo, soprattutto per quanto si riferisce alla materia e alla forma della sacra suppellettile e degli indumenti sacri, si concede facoltà alle conferenze episcopali delle varie regioni di fare gli adattamenti richiesti dalle necessità e dalle usanze locali, a norma dell'art. 22 della presente costituzione.

Formazione artistica del clero 129 I chierici, durante il corso filosofico e teologico, siano istruiti anche sulla storia e sullo sviluppo dell'arte sacra, come pure sui sani principi su cui devono fondarsi le opere dell'arte sacra, in modo che siano in grado di stimare e conservare i venerabili monumenti della Chiesa e di offrire consigli appropriati agli artisti nella realizzazione delle loro opere.

Le insegne pontificali 130 È conveniente che l'uso delle insegne pontificali sia riservato a quelle persone ecclesiastiche che sono insignite del carattere episcopale o che hanno una speciale giurisdizione.

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Approfondimenti

L'arte, la bellezza e la formazione del clero Tra le “belle arti” si identifica “l’arte religiosa”, ovvero un’arte che esprime un sentimento religioso. Dentro, o meglio al vertice, dell’arte religiosa individuiamo finalmente “l’arte sacra”. La dimensione sacra dell’arte viene spiegata in modo chiaro con riferimento alla “sacralità” del rito. L’aggettivo “sacro” viene infatti attribuito innanzitutto al culto, ai riti, ai luoghi, appunto “sacri” e, solo di conseguenza, all’arte “sacra” e alle sue opere. L’arte religiosa diviene cioè “sacra” quando è finalizzata al sacro culto, al sacro rito, al sacro luogo, affinché «serva con la dovuta reverenza e il dovuto onore alle esigenze degli edifici sacri e dei sacri riti» [SC. 123]

Dunque l’arte sacra è integralmente arte, ma trova la sua specificità nella sacralità del rito cui è destinata e che la informa dall’interno, cosicché un’opera d’arte sacra deve essere autenticamente un’opera d’arte, ma non è sufficiente che lo sia; deve infatti essere intimamente e interamente finalizzata alla sacralità, deve farsi specchio delle verità di fede, deve farsi celebrazione e liturgia.

L’arte sacra si distingue dall’arte religiosa proprio per un intimo legame con la liturgia; l’arte sacra è un’«arte adeguata alla liturgia». [J. Ratzinger, Opera omnia. Teologia della liturgia, Parte A: “Lo spirito della Liturgia”, cap. III: “Arte e liturgia”, Città del Vaticano 2010, vol. XI, p. 132]

Notiamo che l’arte sacra è un’attività di “vetta”: essa è “vertice” dell’arte religiosa, e serve la liturgia che è «il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa» [SC 10].

Nella Esortazione Sacramentum Caritatis, Benedetto XVI analizza «Il legame profondo tra la bellezza e la liturgia», sottolineando la speciale finalità delle arti sacre: «Lo scopo dell’architettura sacra è di offrire alla Chiesa che celebra i misteri della fede, in particolare l’Eucaristia, lo spazio più adatto all’adeguato svolgimento della sua azione liturgica […] l’iconografia [per “iconografia” non si intende, come si pensa normalmente, la “scrittura di icone” nella forma orientale bizantina e ortodossa, ma la branca dell’arte e della storia dell’arte che conosce e studia i significati dei segni e dei simboli di tutta l’arte cristiana] religiosa deve essere orientata alla mistagogia sacramentale». [Benedetto XVI , Esortazione Apostolica Postsinodale Sacramentum Caritatis, 22 febbraio 2007, nn. 121, 123-125]

Lo specifico servizio dell’arte sacra si compie, dunque, grazie alla mediazione della bellezza. Quindi un’opera d’arte non bella non può a priori essere sacra. L’accordo tra liturgia ed arte è necessario per la produzione di arte sacra, ma non risulta facile nella attuazione: «Liturgia ed arte sono così sorelle e devono necessariamente accordarsi. Tuttavia il loro connubio non è facile da attuarsi anche perché la dialettica tra criteri artistici e teologici riposa sovente su quadri ideologici diversi. Inoltre i singoli operatori non sempre possono vantare una reciproca conoscenza per cui il dialogo che ne deriva è spesso inidoneo a contemperare la sperequazione degli interessi e delle posizioni in gioco». [Benedetto XVI , Esortazione Apostolica Postsinodale Sacramentum Caritatis, 22 febbraio 2007, nn. 121, 123-125]

La problematica della attuazione di una reale “arte sacra” coinvolge i soggetti: l’artista, il liturgista, il teologo. È fondamentale predisporre la formazione in campo artistico per i presbiteri e in campo liturgico per gli artisti, come afferma la Sacrosanctum Concilium che prescrive la formazione degli artisti: «I vescovi, o direttamente o per mezzo di sacerdoti idonei che conoscono e amano l’arte, si prendano cura degli artisti, allo scopo di formarli allo spirito dell’arte sacra e della sacra liturgia. Si raccomanda inoltre di istituire scuole o accademie di arte sacra per la formazione degli artisti, dove ciò sembrerà opportuno» e la formazione artistica del clero: «I chierici, durante il corso filosofico e teologico, siano istruiti anche sulla storia e sullo sviluppo dell’arte sacra, come pure sui sani principi su cui devono fondarsi le opere dell’arte sacra, in modo che siano in grado di stimare e conservare i venerabili monumenti della Chiesa e di offrire consigli appropriati agli artisti nella realizzazione delle loro opere» [SC 127 e 129].

Se la «la liturgia si presenta come alleata e come compagna di viaggio dell’arte» [G. Ravasi, “E Dio vide che era bello”. Fede, bellezza, arte, in P. Iacobone, E. Guerriero (a cura di), La nobile forma. Chiesa e artisti sulla via della bellezza, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009, p. 64.], nella contemporaneità è stata spesso l’arte a non voler accettare l’alleanza della liturgia, pur pretendendo comunque di entrare nelle chiese. A tal scopo è fondamentale la fede personale dei soggetti coinvolti nella produzione e nella committenza delle opere: «Senza fede non c’è arte adeguata alla liturgia». [J. Ratzinger, Opera omnia. Teologia della liturgia, cit., vol. XI, Parte A, cap. III, p. 132]

Prima ancora che una condizione personale dell’artista e del committente, la fede è costitutiva della dimensione ontologica dell’arte sacra, che si configura proprio all’incrocio di ratio, fides et facere. Per questo è necessario un profondo studio dell’arte, ridefinirne i confini e comprendere il fine e approfondire alla luce del Magistero il vero compito dell’arte sacra, per poter poi con tali risultati formare il clero, gli artisti e soprattutto i committenti per attuare finalmente quel che scrissero i Padri conciliari nella Sacrosanctum Concilium.

(Tratto da: L'arte, la bellezza e la formazione del clero, Rodolfo Papa, https://it.zenit.org/2012/04/16/l-arte-la-bellezza-e-la-formazione-del-clero/#sdfootnote2sym ).


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DOCUMENTI DEL CONCILIO VATICANO II Costituzione sulla sacra Liturgia SACROSANCTUM CONCILIUM (4 dicembre 1963)

CAPITOLO VI – LA MUSICA SACRA

Dignità della musica sacra 112 La tradizione musicale della Chiesa costituisce un patrimonio d'inestimabile valore, che eccelle tra le altre espressioni dell'arte, specialmente per il fatto che il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria ed integrante della liturgia solenne. Il canto sacro è stato lodato sia dalla sacra Scrittura [cf. Ef 5,19; Col 3,16], sia dai Padri, sia dai romani Pontefici; costoro recentemente, a cominciare da S. Pio X, hanno sottolineato con insistenza il compito ministeriale della musica sacra nel culto divino. Perciò la musica sacra sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all'azione liturgica, sia dando alla preghiera un'espressione più soave e favorendo l'unanimità, sia arricchendo di maggior solennità i riti sacri. La Chiesa poi approva e ammette nel culto divino tutte le forme della vera arte, purché dotate delle qualità necessarie. Perciò il sacro Concilio, conservando le norme e le prescrizioni della disciplina e della tradizione ecclesiastica e considerando il fine della musica sacra, che è la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli, stabilisce quanto segue.

La liturgia solenne 113 L'azione liturgica riveste una forma più nobile quando i divini uffici sono celebrati solennemente con il canto, con i sacri ministri e la partecipazione attiva del popolo. Quanto all'uso della lingua, si osservi l'art. 36; per la messa l'art. 54; per i sacramenti l'art. 63; per l'ufficio divino l'art. 101.

114 Si conservi e si incrementi con grande cura il patrimonio della musica sacra. Si promuovano con impegno le «scholae cantorum» in specie presso le chiese cattedrali. I vescovi e gli altri pastori d'anime curino diligentemente che in ogni azione sacra celebrata con il canto tutta l'assemblea dei fedeli possa partecipare attivamente, a norma degli articoli 28 e 30.

Formazione musicale 115 Si curi molto la formazione e la pratica musicale nei seminari, nei noviziati dei religiosi e delle religiose e negli studentati, come pure negli altri istituti e scuole cattoliche. Per raggiungere questa formazione si abbia cura di preparare i maestri destinati all'insegnamento della musica sacra. Si raccomanda, inoltre, dove è possibile, l'erezione di istituti superiori di musica sacra. Ai musicisti, ai cantori e in primo luogo ai fanciulli si dia anche una vera formazione liturgica.

Canto gregoriano e polifonico 116 La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana; perciò nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale. Gli altri generi di musica sacra, e specialmente la polifonia, non si escludono affatto dalla celebrazione dei divini uffici, purché rispondano allo spirito dell'azione liturgica, a norma dell'art. 30.

117 Si conduca a termine l'edizione tipica dei libri di canto gregoriano; anzi, si prepari un'edizione più critica dei libri già editi dopo la riforma di S. Pio X. Conviene inoltre che si prepari un'edizione che contenga melodie più semplici, ad uso delle chiese più piccole.

Canti religiosi popolari 118 Si promuova con impegno il canto religioso popolare in modo che nei pii e sacri esercizi, come pure nelle stesse azioni liturgiche, secondo le norme stabilite dalle rubriche, possano risuonare le voci dei fedeli.

La musica sacra nelle missioni 119 In alcune regioni, specialmente nelle missioni, si trovano popoli con una propria tradizione musicale, la quale ha grande importanza nella loro vita religiosa e sociale. A questa musica si dia il dovuto riconoscimento e il posto conveniente tanto nell'educazione del senso religioso di quei popoli, quanto nell'adattare il culto alla loro indole, a norma degli articoli 39 e 40. Perciò, nella formazione musicale dei missionari si procuri diligentemente che, per quanto è possibile, essi siano in grado di promuovere la musica tradizionale di quei popoli, tanto nelle scuole, quanto nelle azioni sacre.

L'organo e gli strumenti musicali 120 Nella Chiesa latina si abbia in grande onore l'organo a canne, strumento musicale tradizionale, il cui suono è in grado di aggiungere un notevole splendore alle cerimonie della Chiesa, e di elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose celesti. Altri strumenti, poi, si possono ammettere nel culto divino, a giudizio e con il consenso della competente autorità ecclesiastica territoriale, a norma degli articoli 22-2, 37 e 40, purché siano adatti all'uso sacro o vi si possano adattare, convengano alla dignità del tempio e favoriscano veramente l'edificazione dei fedeli.

Missione dei compositori 121 I musicisti animati da spirito cristiano comprendano di essere chiamati a coltivare la musica sacra e ad accrescere il suo patrimonio. Compongano melodie che abbiano le caratteristiche della vera musica sacra; che possano essere cantate non solo dalle maggiori «scholae cantorum», ma che convengano anche alle «scholae» minori, e che favoriscano la partecipazione attiva di tutta l'assemblea dei fedeli. I testi destinati al canto sacro siano conformi alla dottrina cattolica, anzi siano presi di preferenza dalla sacra Scrittura e dalle fonti liturgiche.

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Approfondimenti

Dignità della musica sacra Il primo passo del capitolo è la constatazione che la musica e il canto, come in quasi tutte le tradizioni religiose conosciute, è parte “necessaria e integrante” della liturgia solenne della Chiesa (dove solenne, nel contesto di SC, non significa sfarzosa ma semplicemente completa [cfr. anche Istruzione del Consilium e della Sacra Congregazione dei riti “Musicam sacram”, 16: “Non c’è niente di più solenne e festoso nelle sacre celebrazioni di un’assemblea che tutta esprime con il canto la sua pietà e la sua fede”].

Immediatamente, viene richiamato, come sempre avviene nei documenti della Chiesa, il Magistero precedente. E viene fatto per dimostrare quanto anticipato anche dal n. 29 su cui ci siamo già soffermati: “il compito ministeriale della musica sacra”. A questo proposito è interessante osservare lo sviluppo della terminologia [cfr. Alfredo Pellegrino Ernetti O.S.B., La musica sacra dopo il Concilio Vaticano II, in Id., Storia del canto gregoriano, Jucunda laudatio, 1982-1990.]:

  • san Pio X chiamava la musica “umile serva della liturgia” [Pio X, Motu proprio Tra le sollecitudini, 23, 22 novembre 1903],
  • Pio XI “nobilissima serva della liturgia” [Pio XI, Costituzione apostolica Divini Cultus, 35, 20 dicembre 1928, in AAS 21 (1929).],
  • Pio XII “quasi compagna della liturgia” [Pio XII, Lettera enciclica Musicae sacrae, 12, 25 dicembre 1955, in AAS 40 (1956)],
  • Paolo VI “nobile ausiliaria della liturgia e sorella della liturgia” [Paolo VI, Chirografo Nobile Subsidium, 22 novembre 1963 e Discorso alle Commissioni diocesane di Liturgia e Arte sacra, 4 gennaio 1967],
  • infine il Concilio Vaticano II ripetendo e aumentando quei giudizi la proclama “parte necessaria e integrale della liturgia” e afferma la sua efficacia “per la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli” esattamente come la liturgia stessa.

C’è una presa di coscienza sempre più chiara di questa dignità e connaturalità della musica con la ritualità umana, frutto in parte anche dell’approfondimento degli studi antropologici del secolo scorso.

A queste premesse segue una conclusione, introdotta dall’avverbio tipicamente liturgico ideo. Se questa connaturalità è vera come è vera, ne consegue che “la musica sacra sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all’azione liturgica”. Vi è anzitutto proposto un vero e proprio salto di qualità e che va dal sacro al santo; dalla semplice ricognizione di una separazione dal profano alla drammatica ed esistenziale appropriazione di tale identità. Perché ciò avvenga è necessario che la musica sacra cum actione liturgica connectetur, sia messa in connessione (termine che oggi ci è più facile capire e che attesta ancora una volta il valore profetico e lungimirante dei testi magisteriali), in comunicazione con l’azione liturgica, si lasci plasmare da essa.

La stessa scansione degli interventi papali in materia di musica liturgica (da Giovanni XXII, nel 1324 al Concilio Vaticano II) pone chiaramente in luce una sorta di “rincorsa” rispetto a questioni più o meno di dettaglio (la querelle tra gregoriano e polifonia, il ruolo della musica strumentale, l’uso della lingua volgare nel canto), ma solo nel XX secolo – e segnatamente con il Concilio Vaticano II – il magistero riesce ad individuare nella “questione liturgica” più ampiamente intesa la vera matrice della crisi della musica liturgica, che nessuna musica “sacra” è in grado di risolvere. La autenticità musicale è pertanto riferita non alla musica come tale (idea della “musica sacra”) e neppure alla semplice funzionalizzazione liturgica di essa (idea di “musica d’uso”), ma piuttosto al contesto liturgico, alla celebrazione del mistero pasquale per ritus et preces, di cui la musica è una delle più alte e insostituibili espressioni ed esperienze. La mediazione liturgica del musicale diviene il luogo del vero confronto. Non più solo “musica sacra” o “musica d’uso”, ma “musica per la liturgia”. Andrea Grillo, Musica sacra, musica liturgica e musica per la liturgia

La liturgia solenne La funzione del canto nella liturgia è qui assimilata alla questione che poi ha superato in risonanza tutte le altre che è l’actuosa participatio del popolo di Dio. Per questo: Il musicista deve prima percepire il mistero, per poi poterlo artisticamente comunicare in forma musicale. Senza queste due realtà, si cade inesorabilmente nell’idolatria: una musica che canta solo di sé, che venera se stessa e non diventa epifania della bellezza-gloria nel mistero celebrato.[Giuseppe Liberto, Musica “santa” per la liturgia, in “L’osservatore Romano” 4 gennaio 2004, p. 8]

Formazione musicale Come è sempre avvenuto sin dall’antichità e si è smesso di fare proprio quando un Concilio generale della Chiesa lo ha stabilito per legge (cosa alquanto curiosa come la scomparsa della pratica della Liturgia delle ore presso i fedeli laici dopo che lo stesso Concilio li ha esortati a praticarla), si raccomanda che del programma di educazione cristiana sia dei chierici, sia dei religiosi, sia dei laici faccia parte l’educazione musicale.

Ma ecco che la conclusione del paragrafo ritorna al centro del problema: non si può trattare la musica come un settore a sé ma essa deve far parte integrante di una più ampia formazione liturgica. Non tanto delle lezioni, ma una vera educazione per ritus et preces come, del resto, insegna la stessa SC [SC 48]. Formazione non da impartire ma da donare (donetur) a musicisti e cantori ma in primis pueri.

Canto gregoriano e polifonico Ecco una questione spinosa, quella del canto gregoriano che viene riconosciuto come proprio della liturgia romana e ad esso, “a parità di condizioni”, va riservato il posto principale.

Esso, più che il “cosa” cantare, ci dice “come” cantarlo perché è frutto della preghiera di secoli che ha portato a fare del canto una vera e propria lectio divina, una celebrazione della parola. Le melodie gregoriane parlano del loro contenuto sottolineando dei testi le parti più importanti, il rapporto tra le parole e le frasi, esprimendo concetti teologici attraverso il numero e l’altezza delle note: una vera liturgia delle parole. Ad esempio, il lungo vocalizzo sulla parola virgo dell’inno dei Vespri delle feste della Madonna Ave maris stella vuole esprimere che la verginità di Maria è tale prima, dopo e durante il parto; così la velocità con cui passa sull’ultima parola della strofa, coeli porta, laddove invece ci aspetteremmo una chiusura dolce ed elaborata, rispecchia l’azione che la porta suggerisce cioè il passare, la porta è un luogo di passaggio non è fatta per soffermarsi e così fa la melodia gregoriana facendo della parola un’azione, una vera e propria liturgia in ritus et preces. Le melodie gregoriane per l’Alleluia, parola ebraica che racchiude l’invito a lodare Dio, sono costruite in questo modo: la parte formata dal verbo allelu, lodate, è poco ornata mentre sulla contrazione del nome di Dio, Yah, sfociano lunghissimi vocalizzi; come a dire che Dio è talmente trascendente che nessun canto, per quanto infinito, potrebbe veramente esprimerne la gloria per l’incolmabile distanza tra noi e Dio che solo per una sua amorevole iniziativa si può colmare. Non è necessario ripetere oggi gli stessi brani consegnatici dalla tradizione, essi sono spesso difficili da eseguire o incomprensibili agli orecchi contemporanei; quel che è invece da ritenere è seguire lo spirito del gregoriano, cioè scegliere o comporre canti nuovi che davvero esprimano la fede che con quella liturgia si vuole professare perché anche l’azione del cantare sia una vera liturgia della parola come ci consegna tutta la tradizione liturgica orientale e occidentale. [Emanuele Borserini, Il paradiso sulla terra. Spunti di catechesi liturgica nella Messa, D’Ettoris editori, Crotone 2018, pp. 99-100]

Anche altri elementi della produzione musicale possono avere cittadinanza ma alla solita condizione: “purché risponda allo spirito della liturgia”.

Viene infine dato mandato agli organi competenti di portare a compimento l’edizione tipica dei libri di canto gregoriano, cosa che è stata fatta ma alla quale non è seguita un’adeguata diffusione.

Canti religiosi popolari Questo paragrafo parla del canto religioso popolare cioè di ciò che è ispirato a temi religiosi ma non è testo liturgico e che deve accompagnare anzitutto i pii esercizi. Tuttavia, poiché questi ultimi non esistono praticamente più, anche i canti di questo genere si sono riversati completamente sull’unico polo di pratica religiosa che è la Messa. Ma la vita liturgica della Chiesa è molto più ampia e così la sua vita di preghiera comune che non sempre è liturgia: Via crucis, Rosario, Novena di Natale, per fare alcuni esempi. Solo con una vita ecclesiale e liturgica complete la formazione liturgica e di conseguenza musicale trovano un contesto adatto e si può raggiungere un vero discernimento per accogliere e collocare tutte le diverse esperienze musicali.

La musica sacra nelle missioni Si parla qui delle missioni ma anche da noi ormai la cultura ha sviluppato una propria tradizione musicale sganciata da quella cristiana e questo dato non è eludibile. Bisogna anzitutto conoscere questo percorso per poterlo educare efficacemente, non necessariamente per imitarlo ma certo per entrarvi in dialogo. L’inculturazione, che è diretta conseguenza del mistero dell’Incarnazione, è sempre necessaria e rimane una sfida da raccogliere ogni giorno.

L’organo e gli strumenti musicali L’organo ha un posto speciale nella Chiesa latina perché possiede la peculiarità di saper “elevare potentemente gli animi”. Peculiarità espressa dal testo conciliare con questa specie di ossimoro: elevazione dell’animo che fa pensare a qualcosa di soave ed etereo ma avviene vehementer. Effettivamente l’organo ha un’ampiezza di espressività e di adattamento eccezionale, caratteristica necessaria alla liturgia perché in essa si esprimono tutti gli stati d’animo dall’esultanza, al lutto, tutti le azioni dalla contrizione alla glorificazione, tutti glie venti salvifici dalla vita alla morte di Dio e dell’uomo. La liturgia è tutta una esperienza di elevazione potente: elevazione sì, ma non per progressiva catarsi e liberazione dal contingente quanto piuttosto per un continuo e drammatico confronto con il reale e la sua concretezza.

Missione dei compositori Ai compositori di musica è riconosciuta una vera e propria vocazione (esse vocatos) e, di conseguenza, è affidata una vera e propria missione. Insieme al tema del ministero che abbiamo affrontato precedentemente, queste sono altre parola chiave per impostare il nostro tema ripartendo da SC. Chi si occupa di musica sacra non può più farlo per velleità ma ha una vocazione che comporta una missione che si realizza del servizio all’interno della Chiesa. Un servizio rivolto non solo ai grandi centri ma anche alle scholae più piccole e ogni fedele.

La questione dei testi è di capitale importanza. Se una certa attenzione è stata in questi ultimi anni rivolta alla Sacra Scrittura, bisogna riconoscere che assai povera è l’ispirazione delle nuove composizioni alle “fonti liturgiche”. Per fare solo due esempi: inni per la Liturgia delle ore che sappiano esprimere le emozioni proprie di ogni tempo liturgico come mirabilmente sanno fare gli antichi inni gregoriani (basti ascoltare quello dei vespri dell’Avvento e della Quaresima, rispettivamente Conditor alme siderum e Audi benigne conditor) oppure canti popolari che riprendano le numerosissime orazioni del Messale perché la celebrazione del sacrificio dell’Eucaristia è “espressione perfetta della nostra fede”. [Orazione sulle offerte della Messa del giorno di Natale]

Conclusione In conclusione possiamo dire con il direttore del Pontificio Istituto di Musica Sacra e direttore della Cappella musicale della Basilica papale di Santa Maria Maggiore: Quale panorama meraviglioso ti si spalanca davanti agli occhi leggendo questi testi! Quale paesaggio desolato ci è dato invece di costatare. [Valentino Miserachs Grau, Chiesa e musica sacra. Passato, presente e futuro, http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/6966.html ]

L’unica soluzione è la formazione.

(Tratto da: MUSICA SACRA, MUSICA LITURGICA E MUSICA PER LA LITURGIA. RIPARTIRE DA SACROSANCTUM CONCILIUM, don Emanuele Borserini, https://www.opusmariae.it/musica-sacra-musica-liturgica-e-musica-per-la-liturgia-ripartire-da-sacrosanctum-concilium/ ).


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DOCUMENTI DEL CONCILIO VATICANO II Costituzione sulla sacra Liturgia SACROSANCTUM CONCILIUM (4 dicembre 1963)

CAPITOLO V – L'ANNO LITURGICO

Il senso dell'anno liturgico 102 La santa madre Chiesa considera suo dovere celebrare l'opera salvifica del suo sposo divino mediante una commemorazione sacra, in giorni determinati nel corso dell'anno. Ogni settimana, nel giorno a cui ha dato il nome di domenica, fa memoria della risurrezione del Signore, che essa celebra anche una volta all'anno, unitamente alla sua beata passione, con la grande solennità di Pasqua. Nel corso dell'anno poi, distribuisce tutto il mistero di Cristo dall'Incarnazione e dalla Natività fino all'Ascensione, al giorno di Pentecoste e all'attesa della beata speranza e del ritorno del Signore. Ricordando in tal modo i misteri della redenzione, essa apre ai fedeli le ricchezze delle azioni salvifiche e dei meriti del suo Signore, le rende come presenti a tutti i tempi e permette ai fedeli di venirne a contatto e di essere ripieni della grazia della salvezza.

103 Nella celebrazione di questo ciclo annuale dei misteri di Cristo, la santa Chiesa venera con particolare amore la beata Maria, madre di Dio, congiunta indissolubilmente con l'opera della salvezza del Figlio suo: in Maria ammira ed esalta il frutto più eccelso della redenzione, ed in lei contempla con gioia, come in una immagine purissima, ciò che essa desidera e spera di essere nella sua interezza.

104 La Chiesa ha inserito nel corso dell'anno anche la memoria dei martiri e degli altri santi che, giunti alla perfezione con l'aiuto della multiforme grazia di Dio e già in possesso della salvezza eterna, in cielo cantano a Dio la lode perfetta e intercedono per noi. Nel giorno natalizio dei santi infatti la Chiesa proclama il mistero pasquale realizzato in essi, che hanno sofferto con Cristo e con lui sono glorificati; propone ai fedeli i loro esempi che attraggono tutti al Padre per mezzo di Cristo; e implora per i loro meriti i benefici di Dio.

105 La Chiesa, infine, nei vari tempi dell'anno, secondo una disciplina tradizionale, completa la formazione dei fedeli per mezzo di pie pratiche spirituali e corporali, per mezzo dell'istruzione, della preghiera, delle opere di penitenza e di misericordia. Pertanto al sacro Concilio è piaciuto stabilire quanto segue:

Valorizzazione della domenica 106 Secondo la tradizione apostolica, che ha origine dallo stesso giorno della risurrezione di Cristo, la Chiesa celebra il mistero pasquale ogni otto giorni, in quello che si chiama giustamente «giorno del Signore» o «domenica». In questo giorno infatti i fedeli devono riunirsi in assemblea per ascoltare la parola di Dio e partecipare alla eucaristia e così far memoria della passione, della risurrezione e della gloria del Signore Gesù e render grazie a Dio, che li «ha rigenerati nella speranza viva per mezzo della risurrezione di Gesù Cristo dai morti» (1Pt 1,3). Per questo la domenica è la festa primordiale che deve essere proposta e inculcata alla pietà dei fedeli, in modo che risulti anche giorno di gioia e di riposo dal lavoro. Non le venga anteposta alcun'altra solennità che non sia di grandissima importanza, perché la domenica è il fondamento e il nucleo di tutto l'anno liturgico.

Riforma dell'anno liturgico 107 L'anno liturgico sia riveduto in modo che, conservati o restaurati gli usi e gli ordinamenti tradizionali dei tempi sacri secondo le condizioni di oggi, venga mantenuto il loro carattere originale per alimentare debitamente la pietà dei fedeli nella celebrazione dei misteri della redenzione cristiana, ma soprattutto nella celebrazione del mistero pasquale. Gli adattamenti poi alle varie condizioni dei luoghi, se saranno necessari, si facciano a norma degli articoli 39 e 40.

108 L'animo dei fedeli sia indirizzato prima di tutto verso le feste del Signore, nelle quali durante il corso dell'anno si celebrano i misteri della salvezza. Perciò il proprio del tempo abbia il suo giusto posto sopra le feste dei santi, in modo che sia convenientemente celebrato l'intero ciclo dei misteri della salvezza.

La quaresima 109 Il duplice carattere della quaresima -il quale, soprattutto mediante il ricordo o la preparazione al battesimo e mediante la penitenza, invita i fedeli all'ascolto più frequente della parola di Dio e alla preghiera e li dispone così a celebrare il mistero pasquale-, sia posto in maggior evidenza tanto nella liturgia quanto nella catechesi liturgica.

Perciò: a) si utilizzino più abbondantemente gli elementi battesimali propri della liturgia quaresimale e, se opportuno, se ne riprendano anche altri dall'antica tradizione; b) lo stesso si dica degli elementi penitenziali. Quanto alla catechesi poi, si inculchi nell'animo dei fedeli, insieme con le conseguenze sociali del peccato, quell'aspetto particolare della penitenza che detesta il peccato come offesa di Dio. Né si dimentichi il ruolo della Chiesa nell'azione penitenziale e si solleciti la preghiera per i peccatori.

110 La penitenza quaresimale non sia soltanto interna e individuale, ma anche esterna e sociale. E la pratica penitenziale sia incoraggiata e raccomandata dalle autorità, di cui all'art. 22, secondo le possibilità del nostro tempo e delle diverse regioni, nonché secondo le condizioni dei fedeli. Sia però religiosamente conservato il digiuno pasquale, da celebrarsi ovunque il venerdì della passione e morte del Signore, e da protrarsi, se possibile, anche al sabato santo, in modo da giungere con cuore elevato e liberato alla gioia della domenica di risurrezione.

Le feste dei santi 111 La Chiesa, secondo la sua tradizione, venera i santi e tiene in onore le loro reliquie autentiche e le loro immagini. Le feste dei santi infatti proclamano le meraviglie di Cristo nei suoi servi e propongono ai fedeli opportuni esempi da imitare. Perché le feste dei santi non abbiano a prevalere sulle feste che commemorano i misteri della salvezza, molte di esse siano celebrate da ciascuna Chiesa particolare, nazione o famiglia religiosa; siano invece estese a tutta la Chiesa soltanto quelle che celebrano santi di importanza veramente universale.

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Approfondimenti

Penso alla normalità delle nostre assemblee che si radunano per celebrare l’Eucaristia nel giorno del Signore, domenica dopo domenica, Pasqua dopo Pasqua, in momenti particolari della vita dei singoli e delle comunità, nelle diverse età della vita: i ministri ordinati svolgono un’azione pastorale di primaria importanza quando prendono per mano i fedeli battezzati per condurli dentro la ripetuta esperienza della Pasqua.

Ricordiamoci sempre che è la Chiesa, Corpo di Cristo, il soggetto celebrante, non solo il sacerdote.

La conoscenza che viene dallo studio è solo il primo passo per poter entrare nel mistero celebrato.

È evidente che per poter condurre i fratelli e le sorelle, i ministri che presiedono l’assemblea devono conoscere la strada sia per averla studiata sulla mappa della scienza teologica sia per averla frequentata nella pratica di una esperienza di fede viva, nutrita dalla preghiera, di certo non solo come impegno da assolvere.

Nel giorno dell’ordinazione ogni presbitero si sente dire dal vescovo: «Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore».

(DESIDERIO DESIDERAVI, Lettera Apostolica di papa FRANCESCO del 29 giugno 2022, 36).


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CAPITOLO IV – L'UFFICIO DIVINO

Distribuzione dei salmi 91 Affinché l'ordinamento dell'ufficio proposto nell'articolo 89 possa essere veramente attuato, il salterio sia distribuito non più in una settimana, ma per uno spazio di tempo più lungo. L'opera di revisione del salterio, felicemente incominciata, venga condotta a termine al più presto, tenendo presente il latino usato dai cristiani, l'uso che ne fa la liturgia e le esigenze del canto, come pure tutta la tradizione della Chiesa latina.

Norme per le letture 92 Per quanto riguarda le letture, si tengano presenti queste norme:

a) la lettura della sacra Scrittura sia ordinata in modo che i tesori della parola divina siano accessibili più facilmente e in maggiore ampiezza; b) la lettura delle opere dei Padri, dei dottori e degli scrittori ecclesiastici sia meglio selezionata; c) le «passioni» o vite dei santi siano rivedute dal punto di vista storico.

Revisione degli inni 93 Gli inni, nella misura in cui la cosa sembrerà utile, siano restituiti alla loro forma originale, togliendo o mutando ciò che ha sapore mitologico o che può essere meno conveniente alla pietà cristiana. Secondo l'opportunità, poi, se ne riprendano anche altri che si trovano nelle raccolte innografiche.

94 Per santificare veramente il giorno e per recitare le ore con frutto spirituale, nella recita delle ore si osservi il tempo che corrisponde più da vicino al vero tempo naturale di ciascuna ora canonica.

Obbligo dell'ufficio divino 95 Le comunità obbligate al coro sono tenute, oltre che alla messa conventuale, anche a celebrare in coro ogni giorno l'ufficio divino, e precisamente:

a) tutto l'ufficio gli ordini di canonici, di monaci, di monache e di altri regolari obbligati al coro per diritto o in forza delle costituzioni; b) quelle parti dell'ufficio che vengono loro imposte dal diritto comune o particolare: i capitoli delle cattedrali e delle collegiate; c) tutti i membri, poi, di queste comunità, che abbiano ricevuto gli ordini maggiori o che abbiano fatto la professione solenne, eccetto i conversi, devono da soli recitare quelle ore canoniche che non recitano in coro.

96 I chierici non obbligati al coro, se hanno ricevuto gli ordini maggiori, devono, ogni giorno, in comune o da soli, recitare tutto l'ufficio, a norma dell'articolo 89.

97 Le opportune commutazioni dell'ufficio divino con altre azioni liturgiche siano definite nelle nuove rubriche.

In casi particolari e per giusta causa, gli ordinari possono dispensare in tutto o in parte, oppure possono commutare, per coloro che sono loro soggetti, l'obbligo dell'ufficio.

98 I membri degli istituti di perfezione, che, in forza delle costituzioni, recitano qualche parte dell'ufficio divino, praticano la preghiera pubblica della Chiesa. Così pure praticano la preghiera pubblica della Chiesa se, in forza delle costituzioni, recitano qualche «piccolo ufficio», purché composto sullo schema dell'ufficio divino e regolarmente approvato.

La recita comunitaria dell'ufficio divino 99 Poiché l'ufficio divino è la voce della Chiesa, ossia di tutto il corpo mistico che loda pubblicamente Dio, è raccomandabile che i chierici non obbligati al coro, e specialmente i sacerdoti che vivono o che si trovano insieme, recitino in comune almeno qualche parte dell'ufficio divino. Tutti coloro, poi, che recitano l'ufficio, sia in coro sia in comune, compiano il dovere loro affidato il più perfettamente possibile, sia quanto alla devozione interiore, sia quanto alla realizzazione esteriore. È bene inoltre che, secondo l'opportunità, l'ufficio in coro e in comune sia cantato.

La partecipazione dei fedeli all'ufficio divino 100 Procurino i pastori d'anime che, nelle domeniche e feste più solenni, le ore principali, specialmente i vespri, siano celebrate in chiesa con partecipazione comune. Si raccomanda che anche i laici recitino l'ufficio divino o con i sacerdoti, o riuniti tra loro, e anche da soli.

La lingua dell'ufficio divino 101

  • Secondo la secolare tradizione del rito latino, per i chierici sia conservata nell'ufficio divino la lingua latina. L'ordinario tuttavia potrà concedere l'uso della versione in lingua nazionale, composta a norma dell'art. 36, in casi singoli, a quei chierici per i quali l'uso della lingua latina costituisce un grave impedimento alla recita dell'ufficio nel modo dovuto.
  • Alle monache e ai membri degli istituti di perfezione, sia uomini non chierici che donne, il superiore competente può concedere l'uso della lingua nazionale nell'ufficio divino, anche celebrato in coro, purché la versione sia approvata. *Ogni chierico obbligato all'ufficio divino, che lo recita in lingua nazionale con i fedeli o con quelle persone ricordate al 2, soddisfa al suo obbligo, purché il testo della versione sia approvato.

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Approfondimenti

La Sacrosanctum Concilium, la Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II, decreta: «i chierici non obbligati al coro, se hanno ricevuto gli ordini maggiori, devono, ogni giorno, in comune o da soli, recitare tutto l’Ufficio, a norma dell’articolo 89» (SC n. 96).

Il termine “officium” connota un compito da adempiere: una responsabilità. Anche l’Ufficio delle Letture è un dovere per i sacerdoti, come pure almeno una delle tre ore minori e la compieta. Il carattere obbligatorio della preghiera liturgica dei preti, comunque, non si basa tanto su motivi di legge ecclesiale, quanto sull’invito di Cristo stesso ai suoi discepoli «venite e vedete» (Gv 1,39) e «vegliate e pregate» (Mt 26,41).

Secondo papa Benedetto XVI la preghiera è lavoro pastorale: «il tempo che dedichiamo alla preghiera non è un tempo tolto alle nostre responsabilità pastorali, è anzi “lavoro” pastorale; ed è anche preghiera per gli altri. Nel Comune dei Pastori, si legge quale caratteristica tipica del buon pastore, la qualità “multum oravit pro fratribus”. È proprio del pastore essere uomo di preghiera, presentarsi davanti a Dio pregando per gli altri, ed anche sostituirsi agli altri che non sanno pregare, non vogliono pregare o non hanno il tempo di pregare. È ovvio perciò che questo dialogo con Dio è lavoro pastorale» (Da un discorso a una riunione del clero nella cattedrale di Varsavia, il 25 maggio 2006).

La preghiera e specificamente la preghiera della Chiesa, aiuta ogni prete a crescere nel pieno potenziale della sua vocazione profondamente nobile. Lo aiuta non solo a combattere per scacciare il male dal mondo, dal momento che il Signore ha assicurato che «questa razza di demoni non si scaccia se non con la preghiera e il digiuno» (Mt 17,21), ma anche per superare le proprie inclinazioni cattive «vegliate e pregate per non cadere in tentazione» (Mt 26,41). Lo tiene impegnato al proprio lavoro.

Ha affermato papa Giovanni Paolo II: «la preghiera è essenziale per conservare la sensibilità pastorale verso tutto ciò che viene dallo Spirito» (Lettera di Papa Giovanni Paolo II ai sacerdoti, Giovedì Santo 1987, n.12). La preghiera aiuta i preti ad essere forti e rafforzati da Dio di fronte ai dolori e alle sofferenze del nostro ministero, come lo fu Gesù che trasformava in preghiera i suoi momenti più drammatici di decisione nel Giardino degli Ulivi: «entrato nella lotta, pregava più intensamente» (Lc 22,44).

La preghiera ci lega insieme con la Chiesa, specialmente la preghiera liturgica come la Liturgia delle Ore. Ci apre gli orizzonti per abbracciare la creazione stessa fino alle realtà metacosmiche che toccano la stessa eternità di Dio.

Gesù ci ha aperto la via a Dio che era considerato irraggiungibile per la filosofia greca. È in Lui che noi sperimentiamo l’Amore di Dio. La Chiesa è la vera presenza di Cristo nella storia e così, pregando con Lui e in Lui, possiamo sperimentare continuamente la bontà e la misericordia di Dio. Ciò allarga i nostri orizzonti.

Diceva papa Benedetto XVI: «Imparo a pregare pregando con gli altri, con mia madre ad esempio, seguendo le sue parole, che gradualmente si riempiono di significato per me nella misura che parlo, vivo e soffro in comunione con lei... ecco perché è impossibile iniziare un dialogo solo con Cristo, tagliando fuori la Chiesa: una forma cristologica di preghiera che escludesse la Chiesa, escluderebbe anche lo spirito e lo stesso essere umano. Ho bisogno di sentire che entro in queste parole in tutto ciò che faccio, nella preghiera, nella vita, nella sofferenza, nei miei pensieri. Ed è questo processo che mi trasforma» (La festa della fede, Ignatius Press, San Francisco 2006, p. 30).

Impariamo dalla Santissima Madre Maria, che in silenzio e in pura obbedienza a Dio ha accettato la missione difficile e dolorosa affidatale, ed è cresciuta in una vita di profonda comunione con il Figlio suo.

Allo stesso modo, papa Giovanni Paolo II ha affermato: «dobbiamo continuamente ritornare nel Cenacolo e al Getsemani per riscoprire il centro del nostro sacerdozio, nella preghiera e attraverso la preghiera» _(Giovanni Paolo II, Lettera ai sacerdoti, Giovedì Santo 1987, n.13).

(Tratto da: Liturgia delle Ore e spiritualità sacerdotale, card. Albert Malcolm Ranjith, Arcivescovo di Colombo, Sri Lanka). http://www.diocesiportosantarufina.it/home/news_det.php?neid=1359


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CAPITOLO IV – L'UFFICIO DIVINO

L'ufficio divino opera di Cristo e della Chiesa 83 Cristo Gesù, il sommo sacerdote della nuova ed eterna alleanza, prendendo la natura umana, ha introdotto in questo esilio terrestre quell'inno che viene eternamente cantato nelle dimore celesti. Egli unisce a sé tutta l'umanità e se l'associa nell'elevare questo divino canto di lode. Cristo continua ad esercitare questa funzione sacerdotale per mezzo della sua Chiesa, che loda il Signore incessantemente e intercede per la salvezza del mondo non solo con la celebrazione dell'eucaristia, ma anche in altri modi, specialmente recitando l'ufficio divino.

84 Il divino ufficio, secondo la tradizione cristiana, è strutturato in modo da santificare tutto il corso del giorno e della notte per mezzo della lode divina. Quando poi a celebrare debitamente quel mirabile canto di lode sono i sacerdoti o altri a ciò deputati per istituzione della Chiesa, o anche i fedeli che pregano insieme col sacerdote secondo le forme approvate, allora è veramente la voce della sposa che parla allo sposo, anzi è la preghiera che Cristo unito al suo corpo eleva al Padre.

85 Tutti coloro pertanto che recitano questa preghiera adempiono da una parte l'obbligo proprio della Chiesa, e dall'altra partecipano al sommo onore della Sposa di Cristo perché, lodando il Signore, stanno davanti al trono di Dio in nome della madre Chiesa.

Suo valore pastorale 86 I sacerdoti impegnati nel sacro ministero pastorale reciteranno l'ufficio divino con tanto maggior fervore, quanto più profondamente saranno convinti del dovere di mettere in pratica l'esortazione di S. Paolo: «Pregate senza interruzione» (1Ts 5,17). Infatti solo il Signore può dare efficacia ed incremento al loro ministero, lui che ha detto: «Senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5). E per questo gli apostoli, istituendo i diaconi, dissero: «Noi invece continueremo a dedicarci assiduamente alla preghiera e al ministero della parola» (At 6,4).

87 Ma affinché i sacerdoti e gli altri membri della Chiesa possano meglio e più perfettamente recitare l'ufficio divino nelle attuali condizioni di vita, il sacro Concilio, continuando le riforme già felicemente iniziate dalla Sede apostolica, ha creduto bene stabilire quanto segue riguardo all'ufficio di rito romano.

Rivedere l'ordinamento tradizionale 88 Scopo dell'ufficio è la santificazione del giorno: perciò l'ordinamento tradizionale dell'ufficio sia riveduto, in modo che le diverse ore, per quanto è possibile, corrispondano al loro vero tempo, tenendo presenti però anche le condizioni della vita contemporanea, in cui si trovano specialmente coloro che attendono all'apostolato.

Norme per la riforma dell'ufficio divino 89 Quindi, nella riforma dell'ufficio, si osservino queste norme:

a) Le lodi come preghiera del mattino e i vespri come preghiera della sera, che, secondo la venerabile tradizione di tutta la Chiesa, sono il duplice cardine dell'ufficio quotidiano, devono essere ritenute le ore principali e come tali celebrate; b) compieta sia ordinata in modo che si adatti bene alla conclusione della giornata; c) L'ora detta mattutino, pur conservando l'indole di preghiera notturna per il coro, venga adattata in modo da poter essere recitata in qualsiasi ora del giorno; abbia un minor numero di salmi e letture più lunghe; d) L'ora di prima sia soppressa; e) Per il coro si mantengano le ore minori di terza, sesta e nona. Fuori di coro si può invece scegliere una delle tre, quella cioè che meglio risponde al momento della giornata.

L'ufficio divino fonte di pietà 90 Inoltre, poiché l'ufficio divino, in quanto preghiera pubblica della Chiesa, è fonte della pietà e nutrimento della preghiera personale, si esortano nel Signore i sacerdoti e tutti gli altri che partecipano all'ufficio divino a fare in modo che, nel recitarlo, l'anima corrisponda alla voce. A tale scopo si procurino una conoscenza più abbondante della liturgia e della Bibbia, specialmente dei salmi. Nel compiere poi la riforma, il venerabile tesoro secolare dell'ufficio romano venga adattato in modo tale che possano usufruirne più largamente e più facilmente tutti coloro ai quali è affidato.

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Approfondimenti

La pastorale liturgica, attraverso l'introduzione alle varie celebrazioni, deve instillare il gusto della preghiera. Lo farà, certo, tenendo conto delle capacità dei singoli credenti, nelle loro diverse condizioni di età e di cultura; ma lo farà cercando di non accontentarsi del ‘minimo’.

La pedagogia della Chiesa deve saper ‘osare’. È importante introdurre i fedeli alla celebrazione della Liturgia delle Ore che, “in quanto preghiera pubblica della Chiesa, è fonte di pietà e nutrimento della preghiera personale” [SC 90].

Essa non è un'azione individuale o “privata, ma appartiene a tutto il Corpo della Chiesa [...] Se dunque i fedeli vengono convocati per la Liturgia delle Ore e si radunano insieme, unendo i loro cuori e le loro voci, manifestano la Chiesa che celebra il mistero di Cristo” [Institutio generalis Liturgiae Horarum, 20.22].

Questa attenzione privilegiata alla preghiera liturgica non si pone in tensione con la preghiera personale, anzi la suppone ed esige [SC 12], e ben si coniuga con altre forme di preghiera comunitaria, soprattutto se riconosciute e raccomandate dall'Autorità ecclesiale [SC 13].

(SPIRITUS ET SPONSA, Lettera Apostolica di papa GIOVANNI PAOLO II del 4 dicembre 2003, nel 40° anniversario della Costituzione Sacrosanctum Concilium sulla Liturgia, 14).


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