📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

TEOFANIA

La sollecitudine del creatore verso il creato 1 Il Signore prese a dire a Giobbe in mezzo all'uragano: 2“Chi è mai costui che oscura il mio piano con discorsi da ignorante? 3Cingiti i fianchi come un prode: io t'interrogherò e tu mi istruirai! 4Quando ponevo le fondamenta della terra, tu dov'eri? Dimmelo, se sei tanto intelligente! 5Chi ha fissato le sue dimensioni, se lo sai, o chi ha teso su di essa la corda per misurare? 6Dove sono fissate le sue basi o chi ha posto la sua pietra angolare, 7mentre gioivano in coro le stelle del mattino e acclamavano tutti i figli di Dio? 8Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando usciva impetuoso dal seno materno, 9quando io lo vestivo di nubi e lo fasciavo di una nuvola oscura, 10quando gli ho fissato un limite, e gli ho messo chiavistello e due porte 11dicendo: “Fin qui giungerai e non oltre e qui s'infrangerà l'orgoglio delle tue onde”? 12Da quando vivi, hai mai comandato al mattino e assegnato il posto all'aurora, 13perché afferri la terra per i lembi e ne scuota via i malvagi, 14ed essa prenda forma come creta premuta da sigillo e si tinga come un vestito, 15e sia negata ai malvagi la loro luce e sia spezzato il braccio che si alza a colpire? 16Sei mai giunto alle sorgenti del mare e nel fondo dell'abisso hai tu passeggiato? 17Ti sono state svelate le porte della morte e hai visto le porte dell'ombra tenebrosa? 18Hai tu considerato quanto si estende la terra? Dillo, se sai tutto questo! 19Qual è la strada dove abita la luce e dove dimorano le tenebre, 20perché tu le possa ricondurre dentro i loro confini e sappia insegnare loro la via di casa? 21Certo, tu lo sai, perché allora eri già nato e il numero dei tuoi giorni è assai grande! 22Sei mai giunto fino ai depositi della neve, hai mai visto i serbatoi della grandine, 23che io riserbo per l'ora della sciagura, per il giorno della guerra e della battaglia? 24Per quali vie si diffonde la luce, da dove il vento d'oriente invade la terra? 25Chi ha scavato canali agli acquazzoni e una via al lampo tonante, 26per far piovere anche sopra una terra spopolata, su un deserto dove non abita nessuno, 27per dissetare regioni desolate e squallide e far sbocciare germogli verdeggianti? 28Ha forse un padre la pioggia? O chi fa nascere le gocce della rugiada? 29Da qual grembo esce il ghiaccio e la brina del cielo chi la genera, 30quando come pietra le acque si induriscono e la faccia dell'abisso si raggela? 31Puoi tu annodare i legami delle Plèiadi o sciogliere i vincoli di Orione? 32Puoi tu far spuntare a suo tempo le costellazioni o guidare l'Orsa insieme con i suoi figli? 33Conosci tu le leggi del cielo o ne applichi le norme sulla terra? 34Puoi tu alzare la voce fino alle nubi per farti inondare da una massa d'acqua? 35Scagli tu i fulmini ed essi partono dicendoti: “Eccoci!”? 36Chi mai ha elargito all'ibis la sapienza o chi ha dato al gallo intelligenza? 37Chi mai è in grado di contare con esattezza le nubi e chi può riversare gli otri del cielo, 38quando la polvere del suolo diventa fango e le zolle si attaccano insieme? 39Sei forse tu che vai a caccia di preda per la leonessa e sazi la fame dei leoncelli, 40quando sono accovacciati nelle tane o stanno in agguato nei nascondigli? 41Chi prepara al corvo il suo pasto, quando i suoi piccoli gridano verso Dio e vagano qua e là per mancanza di cibo? _________________ Note

38,8-11 Simbolo del caos e di tutto ciò che incute paura all’uomo, il mare è descritto qui come un indifeso neonato, che esce dal seno materno e che Dio avvolge di nubi come di fasce.

38,22-23 La grandine è spesso considerata nella Bibbia come un’arma usata da Dio per punire.

38,25-30 La descrizione dei diversi fenomeni rispecchia l’antica scienza cosmologica, secondo la quale la pioggia scendeva attraverso canali aperti nel firmamento, e la rugiada cadeva a gocce dall’aria.

38,31-38 Vengono elencati i nomi delle costellazioni e dei corpi celesti che compongono lo Zodiaco. L’Orsa insieme con i suoi figli probabilmente designa la costellazione dell’Orsa minore (v. 32).

38,36 All’ibis e al gallo erano attribuite dagli antichi particolari funzioni meteorologiche. Il primo annunciava le piene del fiume Nilo, il secondo lo spuntare del giorno e le piogge autunnali. L’ibis era l’uccello simbolo della sapienza e il gallo dell’intelligenza.

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Approfondimenti

TEOFANIA (38,1-42,6) La teofania costituisce la nuova, decisiva, svolta narrativa. Il pronunciamento di Dio è l'evento più richiesto e atteso da Giobbe, ma anche quello più contrastato e incerto, sottoposto a ripetuti rinvii. Innanzitutto i tre amici hanno sempre negato la possibilità di un intervento divino; Giobbe, poi, ha insistentemente gridato a Dio ma senza ricevere risposta e anche dopo aver conteso e sfidato apertamente Dio, in una crescente progressione drammatica, ancora un uomo, Eliu, gli risponde che Dio non ha interesse a dibattere, poiché si rivela all'uomo proprio nella sofferenza. Per gli interlocutori di Giobbe è inconcepibile l'evento stesso della rivelazione divina, data l'insolenza di Giobbe, ma soprattutto perché, per loro, tutto è già stabilito fra l'uomo e Dio. Invece, l'intervento divino giunge proprio quando l'uomo ha esaurito le parole, dopo il fallimento di tutti i tentativi umani di comprendere, e in risposta agli appelli di Giobbe.

La straordinaria originalità del contenuto dei due discorsi divini (38,2-40,2; 40,7-41,26) ha alimentato fra gli studiosi moderni non poche questioni sulla loro congruenza, e quindi sulla loro composizione. La sorpresa, tuttavia, costituisce un tratto specifico del poema che tende a stupire il lettore perché tutto quel che era prevedibile risulta scardinato al punto che si osa l'impensabile. Le varie tappe narrative sorprendono non meno del loro contenuto. Il lettore viene allenato a prestare attenzione all'inconsueto. Inoltre il Dio che si rivela fa riferimento alla sua opera creatrice, e alla potenza e sapienza di Dio creatore hanno fatto spesso riferimento tutti i personaggi. Anche lo stile dei discorsi divini è scandito dall'uso delle domande retoriche, che pure costituiscono un tratto caratteristico del poema, e raggiungono proprio nel c. 38 la più alta frequenza e intensità. Queste ed altre peculiarità depongono per l'appartenenza di tale unità narrativa (cc. 38,1-42,6) alla fase fondamentale della composizione dell'opera. Se con la teofania si raggiunge la fase culminante dell'intera vicenda, dove peraltro il mistero divino non è del tutto dissolto, non meno importanti sono le risposte di Giobbe, malgrado la brevità, nello sviluppo dell'intreccio narrativo di conoscenza.

I discorsi di Dio, JHWH, presentano a prima vista dei contenuti inattesi, persino sconcertanti. Nel primo discorso (38,2-40,2) Dio richiama Giobbe (38,2-3) e lo interroga sulla creazione della terra (38,4-7), del mare (38,8-11), della luce (38,12-15); sulla conoscenza delle estremità del mondo e dell'abisso (38,16-21), dei fenomeni atmosferici (38,22-30), dei corpi celesti (38,31-38); sulla cura del leone e del corvo (38,39-41), del parto delle cerve (39,1-4), dell'asino selvatico (39,5-8); sull'agire del bufalo (39,9-12), dello struzzo (39,13-18), del cavallo (39,19-25), dei rapaci (39,26-30). Il discorso si conclude con l'invito per Giobbe a rispondere (40,2). Giobbe, dunque, viene interpellato da Dio sulle meraviglie della creazione, sull'organizzazione e sul funzionamento del mondo, osservato dal punto di vista di Dio.

La sollecitudine del creatore verso il creato 38,1. L'introduzione del narratore è particolarmente sobria e annuncia che JHWH (come nel Prologo e nell'Epilogo, mentre nella Disputa i personaggi avevano chiamato Dio: ’ēl, ’elôah, ’elōhîm, šadday), dalla tempesta, risponde a Giobbe. La tempesta o l'uragano appartengono a quei fenomeni che preludono, di solito, alla teofania biblica (cfr. Es 19,16-19, Sal 18,8-14; 50,3; Na 1,3; Ez 1,4; Zc 9,14; ecc.). Giobbe ha parlato della tempesta attraverso la quale Dio accresceva le sue afflizioni (cfr. 9,17) ed Eliu ha preannunciato tale evento con tremore (cfr. 37,1-5) perché foriero del castigo o della benedizione divina. In questo sfondo inquieto, l'azione che il narratore mette in rilievo è il parlare di Dio, evento che comunque ristabilisce la vicinanza fra Dio e l'uomo, perché nella tradizione biblica, come per Giobbe, è proprio il silenzio di Dio a generare il disorientamento e l'angustia.

vv. 2-3. Dio, JHWH, risponde alle interpellanze di Giobbe interrogandolo. Non si tratta di una provocazione, ma di una comunicazione paradossale atta a condurre Giobbe a considerare gli avvenimenti da un'altra prospettiva, dal punto di vista di Dio. Dio riprende Giobbe perché oscura il consiglio divino, ‘ēṣâ, termine tecnico che designa la deliberazione, il piano di JHWH che opera nella storia (come azione salvifica o di giudizio, cfr. Sal 33,11; 106,13; Is 46,10-11; Ger 49,20; 50,45; ecc.), nella creazione e nel governo del mondo (v. 2; 42,3). Dunque Giobbe ha parlato senza conoscere il piano di Dio proprio mentre ha affermato che esso appartiene a Dio (cfr. 12,13). Peraltro Dio sollecita l'attenzione di Giobbe come quella di chi è pronto a combattere (v. 3; cfr. 40,7; Ger 1,17). Giobbe attendeva di contendere direttamente con Dio; ora è il momento.

vv. 4-7. Innanzitutto Dio interpella Giobbe sull'origine della terra. Dio ha operato come un architetto e ha stabilito la terra come un edificio (cfr. Is 48,13; 51,13), ricevendo la lode, per la realizzazione del suo progetto, dagli altri esseri creati. Ma Giobbe, dov'era quando Dio ha creato il mondo?

vv. 8-11. Solo Dio ha separato le acque (cfr. Gn 1,6-7) e ha posto al mare dei limiti invalicabili (cfr. Gn 1,9; Sal 104,9).

vv. 12-15. A Dio si deve non solo lo spazio, ma anche il tempo, scandito dalla luce, dal ritmico succedersi della sera e del mattino (cfr. Gn 1,3-5). Inoltre l'opposizione fra la luce e i malvagi (cfr. 24,13-18) viene ora confermata, mettendo tuttavia in rilievo che soltanto Dio allontana i malvagi dalla terra; infatti tanti misfatti sfuggono alla giustizia umana.

vv. 16-21. Dio interroga ancora Giobbe sulle estremità, sui limiti del creato: le fonti del mare, le porte della morte, le dimore della luce e delle tenebre. Quale conoscenza Giobbe può produrre così da mostrare di poterle governare?

vv. 22-30. L'attenzione viene ora richiamata sulle riserve della neve e della pioggia (cfr. Sal 33,7; 135,7). Singolare è l'uso che Dio fa dei fenomeni atmosferici in relazione ai conflitti umani (v. 23; cfr. Es 9,13-35; Is 28,17; 30,30; Ez 38,22). Inoltre Dio sparge la pioggia anche là dove non c'è alcun interesse per l'uomo (vv. 26-27). Dunque ritorna il duplice scopo, presentato da Eliu, di tali fenomeni (cfr. 36, 31), con un accento sulla benevolenza divina che eccede l'uomo, il quale non è l'unico oggetto della cura di Dio.

vv. 31-38. Quale conoscenza ha Giobbe delle costellazioni e dei corpi celesti (cfr. 9,9)? Quale influsso può esercitare su di essi? Evidentemente soltanto Dio può disporre di tutta l'attività celeste. Fin qui il discorso di Dio ha rievocato le meraviglie della creazione, i cui segreti sono noti solo a lui. Nella seconda parte l'attenzione è rivolta ai prodigi del mondo animale.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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1 Per questo mi batte forte il cuore e mi balza fuori dal petto. 2Udite attentamente il rumore della sua voce, il fragore che esce dalla sua bocca. 3Egli lo diffonde per tutto il cielo e la sua folgore giunge ai lembi della terra; 4dietro di essa ruggisce una voce, egli tuona con la sua voce maestosa: nulla può arrestare il lampo appena si ode la sua voce. 5Dio tuona mirabilmente con la sua voce, opera meraviglie che non comprendiamo! 6Egli infatti dice alla neve: “Cadi sulla terra” e alle piogge torrenziali: “Siate violente”. 7Nella mano di ogni uomo pone un sigillo, perché tutti riconoscano la sua opera. 8Le belve si ritirano nei loro nascondigli e si accovacciano nelle loro tane. 9Dalla regione australe avanza l'uragano e il gelo dal settentrione. 10Al soffio di Dio si forma il ghiaccio e le distese d'acqua si congelano. 11Carica di umidità le nuvole e le nubi ne diffondono le folgori. 12Egli le fa vagare dappertutto secondo i suoi ordini, perché eseguano quanto comanda loro su tutta la faccia della terra. 13Egli le manda o per castigo del mondo o in segno di bontà.

14Porgi l'orecchio a questo, Giobbe, fermati e considera le meraviglie di Dio. 15Sai tu come Dio le governa e come fa brillare il lampo dalle nubi? 16Conosci tu come le nuvole si muovono in aria? Sono i prodigi di colui che ha una scienza perfetta. 17Sai tu perché le tue vesti sono roventi, quando la terra è in letargo sotto il soffio dello scirocco? 18Hai tu forse disteso con lui il firmamento, solido come specchio di metallo fuso?

19Facci sapere che cosa possiamo dirgli! Noi non siamo in grado di esprimerci perché avvolti nelle tenebre. 20Gli viene forse riferito se io parlo, o, se uno parla, ne viene informato? 21All'improvviso la luce diventa invisibile, oscurata dalle nubi: poi soffia il vento e le spazza via. 22Dal settentrione giunge un aureo chiarore, intorno a Dio è tremenda maestà. 23L'Onnipotente noi non possiamo raggiungerlo, sublime in potenza e rettitudine, grande per giustizia: egli non opprime. 24Perciò lo temono tutti gli uomini, ma egli non considera quelli che si credono sapienti!“. _________________ Note

37,2 il rumore della sua voce: il tuono, chiamato nella Bibbia “voce di Dio” (vedi Sal 29).

37,7 Porre il sigillo indica, qui, far cessare l’attività dell’uomo.

37,10 Il soffio di Dio è qui il vento.

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Approfondimenti

37,1-13. Eliu si sofferma con tremore proprio sui lampi e i tuoni che preludono la bufera, la manifestazione divina (37,1-6). In essi scorge la luce e la voce potente di Dio (cfr. Sal 18,14-15; 29; 77,18-19) che raggiungono e scuotono tutta la terra. Tutto il cosmo è investito dall'iniziativa poderosa di Dio, che costringe gli esseri viventi a cercare riparo, a difendersi dalla tormenta (37,7-12). Al termine dell'inno, Eliu ripropone il duplice scopo di tali fenomeni come strumenti del castigo o della benevolenza di Dio per l'uomo (37,17; cfr. 36,31).

vv. 14-18. Eliu invita di nuovo Giobbe a riflettere sulle meraviglie di Dio e a riconoscere la formidabile disposizione divina dell'ordinamento naturale (cfr. 26,7-14). Egli inoltre interroga Giobbe, con uno stile che anticipa ancora i discorsi divini, riguardo a quale conoscenza dei prodigi della natura può esibire.

vv. 19-24. Per Eliu è inconcepibile che un uomo, Giobbe, pretenda di dibattere con Dio. Infatti la conoscenza umana è avvolta dall'oscurità, rispetto alla perfetta conoscenza e alla sapienza di Dio. Dio è sempre nascosto e l'uomo scorge solo le tracce dello splendore della maestà divina (cfr. 26,14). L'uomo quindi non può trovare né raggiungere Dio. Peraltro la grandezza e la potenza di Dio si manifestano, secondo Eliu, nella sua giustizia (cfr. 36,5) che non opprime l'uomo, non affligge le sue creature, soprattutto non le colpisce arbitrariamente. Per questo gli uomini devono temere di contendere con Dio perché la loro conoscenza è parziale e frammentaria.

Eliu come i tre amici si propone quale difensore del diritto e dell'onore di Dio, ma rispetto ad essi insiste sulla pedagogia divina. La sofferenza di Giobbe non manifesta il castigo divino a motivo delle sue molteplici trasgressioni, piuttosto la correzione di Dio. L'afflizione è il linguaggio con cui Dio richiama l'uomo a sé; è lo strumento con cui Dio purifica l'uomo dalle sue presunzioni e dai suoi misfatti. Pertanto tutto dipende dall'uomo ed Eliu, come i precedenti interlocutori, sollecita Giobbe al pentimento che gli eviterà la distruzione fatale e gli apporterà, invece, il rinnovato dono della vita e della prosperità. Eliu parla per un'impellente esigenza personale con l'intento evidente non di confrontarsi, ma di trionfare soprattutto su Giobbe, esaltando la potenza inaccessibile di Dio. L'intervento di Eliu non allenta la tensione narrativa, né fa evolvere la dinamica del racconto, bensì ne costituisce un'interruzione. Le acute domande di Giobbe attendono ancora una risposta. Il sorprendente intervento di Eliu ha tuttavia presentato, rispetto alla rigidità della posizione sulla quale si sono attestati gli amici, un'ulteriore riflessione con una significativa articolazione. Eliu infatti mette in rilievo il valore della sofferenza che rende l'uomo attento alla correzione divina, gli apre gli occhi sul suo peccato e lo riconduce a Dio. La forte coesione interna, l'autonomia di tale inserzione della quale non ricorre alcun cenno altrove nell'opera, il marcato distacco con cui Eliu rivolge l'attenzione alle parole di Giobbe e le discute a un livello teorico, dottrinale (svincolato dal compiersi del dramma di Giobbe, nel quale invece gli amici apparivano intensamente coinvolti), e inoltre il peculiare contenuto della sua argomentazione, costituiscono alcuni aspetti che inducono a ritenere che i discorsi di Eliu siano stati composti in una fase successiva all'elaborazione fondamentale dell'opera. Si può pensare che nella recezione del poema fosse emersa l'esigenza di attenuare la durezza derivante dai discorsi dei tre amici, di rilanciare l'importanza dell'emblematico caso di Giobbe mettendo in rilievo (rispetto al cenno di Elifaz non più ripreso, cfr. 5,17) la valenza educativa dell'afflizione (cfr. Prv 3,11-12; Dt 8,5), riconfermando, tuttavia, il disagio per la protesta di Giobbe a Dio, la cui corretta applicazione della giustizia rimane fuori discussione. Anche la congruente collocazione di tale unità narrativa, che separa e allontana l'appello di Giobbe dalla teofania, tende a manifestare un forte senso della trascendenza divina, dell'inaccessibilità di Dio all'uomo. Nondimeno i discorsi di Eliu presentano delle considerazioni, per quanto riadattate, che anticipano il contenuto dei discorsi divini. Giobbe, e il lettore, vengono inconsapevolmente introdotti e preparati all'evento straordinario della teofania. Infine tale sorprendente interruzione dell'azione narrativa principale funziona, nell'organizzazione del racconto, come “digressione”, dove, con un'altra modulazione, la vicenda di Giobbe appare come un'occasione formidabile per ricevere l'istruzione divina; essa non estingue l'attesa di Dio e l'urgenza che Dio stesso si pronunci, piuttosto accresce l'incertezza e la suspense intorno a tale evento.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Dio è potente e corregge l'uomo 1 Eliu continuò a dire: 2“Abbi un po' di pazienza e io ti istruirò, perché c'è altro da dire in difesa di Dio. 3Prenderò da lontano il mio sapere e renderò giustizia al mio creatore. 4Non è certo menzogna il mio parlare: è qui con te un uomo dalla scienza perfetta. 5Ecco, Dio è grande e non disprezza nessuno, egli è grande per la fermezza delle sue decisioni. 6Non lascia vivere l'iniquo e rende giustizia ai miseri. 7Non stacca gli occhi dai giusti, li fa sedere sui troni dei re e li esalta per sempre. 8Se sono avvinti in catene, o sono stretti dai lacci dell'afflizione, 9Dio mostra loro gli errori e i misfatti che hanno commesso per orgoglio. 10Apre loro gli orecchi alla correzione e li esorta ad allontanarsi dal male. 11Se ascoltano e si sottomettono, termineranno i loro giorni nel benessere e i loro anni fra le delizie. 12Ma se non ascoltano, passeranno attraverso il canale infernale e spireranno senza rendersene conto. 13I perversi di cuore si abbandonano all'ira, non invocano aiuto, quando Dio li incatena. 14Si spegne in gioventù la loro vita, la loro esistenza come quella dei prostituti. 15Ma Dio libera il povero mediante l'afflizione, e con la sofferenza gli apre l'orecchio.

16Egli trarrà anche te dalle fauci dell'angustia verso un luogo spazioso, non ristretto, e la tua tavola sarà colma di cibi succulenti. 17Ma se di giudizio iniquo sei pieno, giudizio e condanna ti seguiranno. 18Fa' che l'ira non ti spinga allo scherno, e che il prezzo eccessivo del riscatto non ti faccia deviare. 19Varrà forse davanti a lui il tuo grido d'aiuto nell'angustia o tutte le tue risorse di energia? 20Non desiderare che venga quella notte nella quale i popoli sono sradicati dalla loro sede. 21Bada di non volgerti all'iniquità, poiché per questo sei stato provato dalla miseria.

22Ecco, Dio è sublime nella sua potenza; quale maestro è come lui? 23Chi mai gli ha imposto il suo modo d'agire o chi mai ha potuto dirgli: “Hai agito male?”. 24Ricòrdati di lodarlo per le sue opere, che l'umanità ha cantato. 25Tutti le contemplano, i mortali le ammirano da lontano. 26Ecco, Dio è così grande che non lo comprendiamo, è incalcolabile il numero dei suoi anni. 27Egli attrae in alto le gocce d'acqua e scioglie in pioggia i suoi vapori 28che le nubi rovesciano, grondano sull'uomo in quantità. 29Chi può calcolare la distesa delle nubi e i fragori della sua dimora? 30Ecco, egli vi diffonde la sua luce e ricopre le profondità del mare. 31In tal modo alimenta i popoli e offre loro cibo in abbondanza. 32Con le mani afferra la folgore e la scaglia contro il bersaglio. 33Il suo fragore lo annuncia, la sua ira si accende contro l'iniquità. _________________ Note

36,29 I fragori sono il rumore del tuono e la dimora è il cielo, dove risiede Dio, Signore della tempesta e del creato (vedi Sal 18,12; 65,8).

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Approfondimenti

Dio è potente e corregge l'uomo (36,1-37,24) In quest'ultimo ampio discorso Eliu magnifica ripetutamente la grandezza e la potenza divina, preparando e, talvolta, anticipando i discorsi di Dio. Egli innanzitutto continua a parlare in difesa di Dio (36,2-4), ne esalta la grandezza mostrando che dirige gli avvenimenti dei singoli e dei popoli e che fa conoscere all'uomo i suoi misfatti (36,5-10) perché si ravveda e viva (36,11-15). Così Eliu rinnova l'invito a Giobbe ad accogliere l'ammonizione che proviene dalla sua sofferenza (36,16-21). Quindi, con un inno, egli riprende a celebrare la potenza di Dio che ogni uomo può vedere, ma non comprendere (36,22-26), e che si manifesta negli straordinari fenomeni della natura (36,27-37,13). Eliu conclude con un'altra esortazione a Giobbe affinché consideri le meraviglie di Dio (37,14-18), e assicura che, benché non lo si possa trovare e raggiungere, Dio non opprime l'uomo (37,19-24).

36,1-4. La fondamentale preoccupazione di Eliu (come quella degli amici, cfr. 13,7-8) è di difendere Dio, ma con l'autorevolezza che deriva dalla sua presunta completezza dell'esperienza umana. Insomma, Eliu rivendica una competenza di vita superiore a quella di Giobbe.

vv. 5-10. Contro le accuse di Giobbe sull'intervento indiscriminato di Dio (cfr. 12,14-25) o sulla sua noncuranza (cfr. 12,6; 21,7-9; ecc.), Eliu ribatte asserendo l'azione inequivocabile di Dio, il pronunciamento giudiziario divino, che ristabilisce il diritto dei miseri e non conserva in vita i malvagi (cfr. 34,19-28). Dio separa i giusti dai malvagi ed esalta i primi fino a farli sedere in trono con i re. Tuttavia se il giusto è nell'afflizione o nella miseria è perché ha peccato, e Dio vuole richiamarlo per il suo bene, per rendergli del bene; così lo sollecita a rivedere la sua situazione e lo ammonisce a ritornare a lui. Attraverso le sofferenze Dio permette che l'uomo, compreso il giusto, riconosca le sue trasgressioni, il suo peccato. Con l'afflizione Dio rende l'uomo attento ad accogliere la correzione, ad allontanarsi dal male, a respingere l'iniquità (cfr. v. 21). Anche Elifaz aveva parlato della correzione (mûsār) di Dio (cfr. 5,17), ma in un contesto radicalmente negativo per l'uomo in quanto sicuramente colpevole dinanzi a Dio (cfr. 4,17-18). Eliu ammette invece l'esistenza del giusto, soggetto al peccato, e pertanto la sofferenza diventa lo strumento e il luogo dell'avvertimento divino, da cui egli può ritornare a Dio. Il giusto dunque, secondo Eliu, non deve preoccuparsi delle afflizioni: esse sono per il suo bene, affinché si penta della sua malvagità.

vv. 11-15. Dio attraverso la sventura vuole aprire l'orecchio dell'uomo, la sua facoltà di comprendere. Pertanto Dio renderà all'uomo secondo l'accoglienza dell'ammaestramento e dell'invito a ritornare a lui. Eliu distingue fra gli empi che nelle sofferenze attirano l'ira divina poiché maledicono, non supplicano Dio, e gli afflitti ai quali Dio si rivela nell'angustia e che libera mentre sono nell'afflizione (cfr. 2Sam 22,20; Sal 6,5; 50,15; 81,8).

vv. 16-21. Eliu offre un'applicazione delle sue asserzioni rivolgendosi direttamente a Giobbe e facendogli notare che l'afflizione, l'angustia, la sofferenza che lo tormentano sono finalizzate al suo ravvedimento. Benché Eliu ammetta, a differenza degli amici, l'esistenza del giusto, esposto al peccato, tuttavia egli non riesce a evitare di accusare Giobbe, come gli amici, di malvagità e iniquità, attuate con le parole e le azioni (v. 17; cfr. 22,15; 34,8.36). Peraltro l'avvertimento finale di Eliu (v. 21) a Giobbe è proprio di ritrarsi finalmente dalla malvagità, quella forza funesta negativa (’āwĕn) che allontana l'uomo da Dio e che, secondo Elifaz, è prodotta dall'uomo (cfr. 5,6-7). A Eliu non importano gli interrogativi di Giobbe (cfr. per es. 31,2-4), che anzi considera espressione della sua grave deviazione. Per lui, come per gli amici, il problema e la sua soluzione sono soltanto nell'uomo, in Giobbe.

vv. 22-26. Eliu proferisce un inno alla straordinaria potenza divina intercalato da domande retoriche con le quali esprime l'incomparabilità e l'imperscrutabilità di Dio. Innanzitutto, per Eliu, Dio è maestro (môreh), colui che istruisce (v. 22; cfr. 35,11). Eliu dunque vuole mettere in rilievo nella disposizione degli eventi la dimensione pedagogica dell'azione insuperabile e sovrana di Dio (cfr. Is 40,13; Sal 147,5). Benché l'uomo ammiri le grandiose opere divine, non conosce, non può comprendere Dio, tanto la sua grandezza eccede ogni capacità speculativa umana (v. 26; cfr. 37,5).

vv. 27-33. Eliu celebra la grandezza e la potenza di Dio che si manifestano nei fenomeni naturali atmosferici connessi in particolare alla bufera, alla tempesta. E evidente la peculiare relazione di tali fenomeni con la teofania all'interno della tradizione biblica (cfr. Es 19,16.19; Gdc 5,4; ecc.). Pertanto tale inno ha un carattere prolettico, prepara all'imminente rivelazione di Dio a Giobbe (cfr. 38,1-42,6). Eliu osserva che Dio forma le nubi, manda la pioggia, fa udire il tuono e alla sua luce, nel lampo, nulla sulla terra si sottrae (36,27-30). Chi può intendere le sue intenzioni? Infatti Dio si avvale di tali fenomeni per garantire il sostentamento dei popoli e dunque la vita umana (cfr. Es 16,4; Dt 11,13-17), oppure per eseguire, con carestie o alluvioni e altri disastri naturali (cfr. Gn 6,5-9,17; Dt 29,22), il suo giudizio, per punire le trasgressioni umane. I lampi sono presentati come saette che Dio tiene in mano, con le quali egli colpisce, e sono accompagnati dai tuoni che esprimono l'ira divina.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Il comportamento dell'uomo e Dio 1 Eliu prese a dire: 2“Ti pare di aver pensato correttamente, quando dicesti: “Sono giusto davanti a Dio”? 3Tu dici infatti: “A che serve? Quale guadagno ho a non peccare?“. 4Voglio replicare a te e ai tuoi amici insieme con te. 5Contempla il cielo e osserva, considera le nubi, come sono più alte di te. 6Se pecchi, che cosa gli fai? Se aumenti i tuoi delitti, che danno gli arrechi? 7Se tu sei giusto, che cosa gli dai o che cosa riceve dalla tua mano? 8Su un uomo come te ricade la tua malizia, su un figlio d'uomo la tua giustizia! 9Si grida sotto il peso dell'oppressione, si invoca aiuto contro il braccio dei potenti, 10ma non si dice: “Dov'è quel Dio che mi ha creato, che ispira nella notte canti di gioia, 11che ci rende più istruiti delle bestie selvatiche, che ci fa più saggi degli uccelli del cielo?“. 12Si grida, allora, ma egli non risponde a causa della superbia dei malvagi. 13È inutile: Dio non ascolta e l'Onnipotente non vi presta attenzione; 14ancor meno quando tu dici che non lo vedi, che la tua causa sta innanzi a lui e tu in lui speri, 15e così pure quando dici che la sua ira non punisce né si cura molto dell'iniquità. 16Giobbe dunque apre a vuoto la sua bocca e accumula chiacchiere senza senso”. _________________ Note

35,9-16 Il testo ebraico è di difficile interpretazione e non sempre è possibile renderlo con la dovuta chiarezza. Il tema centrale sembra essere: Dio ascolta solo se lo si invoca con cuore umile.

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Approfondimenti

Il comportamento dell'uomo e Dio (35,1-16) Questo nuovo discorso è molto breve e continua l'argomentazione precedente. Eliu attribuisce a Giobbe la questione sul vantaggio che proviene dalla rettitudine dell'uomo (vv. 2-4) e ribatte asserendo che nessuna azione umana può influenzare Dio (vv. 5-9), pertanto ogni pressione su Dio è inutile (vv. 10-16).

vv. 1-4. Eliu riporta, secondo la sua consuetudine, alcuni richiami alle affermazioni di Giobbe, ma con una interpretazione di nuovo provocatoria. Per Eliu, Giobbe avrebbe rivendicato una giustizia superiore a quella di Dio (v. 2). Questo è anche il motivo, riferito dal narratore, che aveva alimentato l'ira di Eliu (cfr. 32,2) e la decisione di intervenire per confutare Giobbe. In realtà Giobbe ha dichiarato ripetutamente la sua innocenza e ha interpellato Dio riguardo al suo agire, senza mai misurare la giustizia di entrambi. Inoltre, benché Eliu continui ad attribuire a Giobbe la questione dell'interesse per l'uomo nella relazione con Dio (v. 3; cfr. 34,9), essa appartiene agli amici (cfr. per es. 22,2-5), ed è anche il motivo della scommessa del Satan (cfr. 1,9). Intatti Giobbe vi ha alluso riportando i pensieri dei malvagi (cfr. 21,15), mentre ha lasciato intendere la tenace speranza di chi nella sventura può attingere alla relazione di comunione vissuta con Dio (cfr. 27,8-10). Peraltro Eliu stavolta annuncia di rispondere non solo a Giobbe, ma anche agli amici (v. 4).

vv. 5-8. La piccolezza dell'uomo non può raggiungere la grandezza di Dio. Pertanto né la rettitudine, né la malvagità influenzano in alcun modo Dio. L'infinita superiorità di Dio rende inconcepibile che il peccato o l'integrità dell'uomo tocchino Dio. Eliu condivide la concezione presentata da Elifaz (cfr. 22,2) secondo la quale è esclusivo interesse dell'uomo accogliere e vivere l'insegnamento divino (cfr. 22,22). Eliu nota che la rettitudine e la malvagità dell'uomo raggiungono e colpiscono i propri simili. Certamente tali argomentazioni rafforzano il concetto dell'imparzialità dell'azione divina, ma anche sottolineano una lontananza estrema fra Dio e l'uomo.

vv. 9-16. L'empietà perpetrata dai malvagi causa il grido degli oppressi; tuttavia, per Eliu, se ad essi Dio non risponde c'è una ragione. Probabilmente gridano per la gravità dell'oppressione (e Dio interviene, cfr. Es 3,7-9), ma, secondo Eliu, non invocano il Dio che li ha creati (cfr. Sal 50,15), che dà loro motivi di canto e di lode nella notte (cioè, nelle avversità, v. 10; con lo stesso senso cfr. Sal 77,7; 119,54) e una capacità di comprendere superiore a tutti gli altri esseri viventi. Così per Eliu, che pure introduce delle distinzioni per opportunità (per contrastare le resistenze di Giobbe), è una menzogna sostenere che Dio non vede o non tiene conto di ciò che avviene. Pertanto Giobbe, che asserisce di non vedere Dio (cfr. 23,8-9), dovrebbe sapere che il giudizio, la sua causa, è già davanti a Dio (contro quello che invece pensa, cfr. 23,3-7) e perciò ora egli dovrebbe attendere le consolazioni divine. Infatti non il giudizio supremo si è abbattuto su Giobbe, ma una punizione tale da indurlo a riconoscere i suoi peccati. Eliu ritiene quindi sproporzionata, fuori luogo, e dunque vana, la contesa di Giobbe con Dio, poiché Dio ha i suoi tempi e le modalità di intervenire, mentre, secondo Eliu, Giobbe deve solo prendere atto della propria colpa.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Dio non sovverte il diritto 1 Eliu prese a dire: 2“Ascoltate, saggi, le mie parole e voi, dotti, porgetemi l'orecchio, 3perché come l'orecchio distingue le parole e il palato assapora i cibi, 4così noi esploriamo ciò che è giusto, indaghiamo tra noi ciò che è bene. 5Giobbe ha detto: “Io sono giusto, ma Dio mi nega il mio diritto; 6contro il mio diritto passo per menzognero, inguaribile è la mia piaga, benché senza colpa”. 7Quale uomo è come Giobbe che beve, come l'acqua, l'insulto, 8che cammina in compagnia dei malfattori, andando con uomini iniqui? 9Infatti egli ha detto: “Non giova all'uomo essere gradito a Dio”. 10Perciò ascoltatemi, voi che siete uomini di senno: lontano da Dio l'iniquità e dall'Onnipotente l'ingiustizia! 11Egli infatti ricompensa l'uomo secondo le sue opere, retribuisce ciascuno secondo la sua condotta. 12In verità, Dio non agisce da ingiusto e l'Onnipotente non sovverte il diritto! 13Chi mai gli ha affidato la terra? Chi gli ha assegnato l'universo? 14Se egli pensasse solo a se stesso e a sé ritraesse il suo spirito e il suo soffio, 15ogni carne morirebbe all'istante e l'uomo ritornerebbe in polvere. 16Se sei intelligente, ascolta bene questo, porgi l'orecchio al suono delle mie parole. 17Può mai governare chi è nemico del diritto? E tu osi condannare il Giusto supremo? 18Lui che dice a un re: “Iniquo!” e ai prìncipi: “Malvagi!”, 19lui che non usa parzialità con i potenti e non preferisce il ricco al povero, perché tutti sono opera delle sue mani. 20In un istante muoiono e nel cuore della notte sono colpiti i potenti e periscono. Senza sforzo egli rimuove i tiranni, 21perché tiene gli occhi sulla condotta dell'uomo e vede tutti i suoi passi. 22Non vi è tenebra, non densa oscurità, dove possano nascondersi i malfattori. 23Poiché non si fissa una data all'uomo per comparire davanti a Dio in giudizio: 24egli abbatte i potenti, senza fare indagini, e colloca altri al loro posto. 25Perché conosce le loro opere, li travolge nella notte e sono schiacciati. 26Come malvagi li percuote, li colpisce alla vista di tutti, 27perché si sono allontanati da lui e di tutte le sue vie non vollero saperne, 28facendo salire fino a lui il grido degli oppressi, ed egli udì perciò il lamento dei poveri. 29Se egli rimane inattivo, chi può condannarlo? Se nasconde il suo volto, chi può vederlo? Ma sulle nazioni e sugli individui egli veglia, 30perché non regni un uomo perverso, e il popolo non venga ostacolato. 31A Dio si può dire questo: “Mi sono ingannato, non farò più del male. 32Al di là di quello che vedo, istruiscimi tu. Se ho commesso iniquità, non persisterò”. 33Forse dovrebbe ricompensare secondo il tuo modo di vedere, perché tu rifiuti il suo giudizio? Sei tu che devi scegliere, non io, di', dunque, quello che sai. 34Gli uomini di senno mi diranno insieme a ogni saggio che mi ascolta: 35“Giobbe non parla con sapienza e le sue parole sono prive di senso”. 36Bene, Giobbe sia esaminato fino in fondo, per le sue risposte da uomo empio, 37perché al suo peccato aggiunge la ribellione, getta scherno su di noi e moltiplica le sue parole contro Dio”.

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Approfondimenti

Dio non sovverte il diritto (34,1-37) Nel primo discorso, Eliu pareva aver fondato la sua argomentazione sulla correzione divina, riprendendo e sviluppando l'accenno contenuto nel primo intervento di Elifaz (cfr. 5,17). In questo discorso, invece, si ritrova il motivo dell'imparzialità divina presente nel primo contributo di Bildad (cfr. 8,3). Peraltro con tale trattazione Eliu si avvicina notevolmente alle posizioni degli amici, Infatti egli si occupa del giudizio di Dio che raggiunge ogni uomo, senza ingiustizia, rendendo a ciascuno secondo le sue opere. All'inizio del nuovo intervento (vv. 2-9), Eliu richiama, con una citazione, alcune parole di Giobbe sul giudizio di Dio, che intende sottoporre a critica, quindi espone la su tesi sul fatto che Dio non sovverte il diritto (vv. 10-15). Successivamente egli descrive l'azione remuneratrice di Dio (vv. 16-30) e conclude sulla sfrontatezza di Giobbe che contende con Dio e, in tal modo, aggiunge ribellione e trasgressione al suo peccato (vv. 31-37).

vv. 1-9. Giobbe non ha risposto, data anche la modalità dell'invito (33,31-33), che in realtà negava ciò che nel contempo chiedeva, così Eliu si rivolge ai saggi, agli amici, a coloro che sono in grado di dirimere con competenza la questione in oggetto. Egli coinvolge i sapienti (quanti sanno discernere, cfr. 12,11), anche per stabilire gli argomenti validi e quelli che non lo sono, per determinare ciò che è conforme al diritto e ciò che non lo è (vv. 2-4). Eliu ritiene urgente tale azione perché (vv. 5-6) Giobbe ha accusato Dio di aver leso, di aver rimosso il suo diritto (cfr. 27,2), colpendolo ingiustamente (cfr. 10,7; ecc.) con una piaga mortale (cfr. 6,4; 16,13). Eliu non ha dubbi; Giobbe è colpevole per le sue molteplici derisioni e per la sua connivenza con i malfattori (vv. 7-8; cfr. 15,2-6.16; 22,15). Ma non basta; egli attribuisce ancora a Giobbe ciò che in realtà è una sua deduzione, il fatto, cioè, che l'uomo non trae alcun beneficio dal seguire le vie di Dio (v. 9). Giobbe aveva invece constatato che per il giusto e l'empio Dio pare riservare la stessa sorte (cfr. 9,22), e si era lamentato per l'impunità di cui godono gli empi (cfr. per es. 21,7-33). Tale distorsione riprende di fatto la questione dell'interesse dell'uomo nell'ottemperare all'impegno religioso (cfr. 22,2).

vv. 10-15. L'affermazione fondamentale con la quale Eliu ribatte a Giobbe è che Dio non altera, non perverte il diritto (vv. 10.12; cfr. 8,3), ma rende all'uomo secondo la sua condotta (v. 11; cfr. Is 3,11; Ger 17,10; 32,19; Sal 28,4; 62,13; Prv 12,14b; 24,12). Eliu assicura che Dio non condanna il giusto, non lo ripaga con il castigo dovuto all'empio. Per Eliu tutto è chiaro: Dio non rifiuta la giusta ricompensa a nessuno. Infatti chi governa su di lui, o chi lo incarica di dominare sul mondo? Dio non deve rendere conto a nessuno, non deve difendere con nessuno il suo operato. Nessuno gli ha comandato di creare la terra, ma l'ha creata dal suo proprio volere. Pertanto l'intera esistenza del creato dipende da Dio. Perché mai Dio dovrebbe trovare dei pretesti per distruggere le sue creature? Per Eliu la ragione per cui Dio non agisce in modo arbitrario risiede nel fatto che è il creatore del mondo.

vv. 16-30. Per Eliu, in armonia con la tradizione biblica (cfr. per es. 1Re 3,9.11), l'azione di governo è strettamente congiunta con l'amministrazione della giustizia ed è quindi inconcepibile per lui accusare proprio Dio, creatore del cosmo, di un atto ingiusto (v. 17). La potenza suprema e incontrastata di Dio comporta che egli agisca senza alcuna discrezionalità, senza preferenze o favoritismi, senza rivalità. Dio agisce con totale imparzialità perché tutto è opera delle sue mani. Rimuove e fa perire in un istante, senza riguardo, i potenti della terra, e tratta ciascuno secondo la propria condotta, perché tutto gli appartiene. Benché i malfattori cospirino e compiano i loro misfatti nell'oscurità, essi non possono sottrarsi a Dio (cfr. 24,14-18). Pertanto Dio non ha bisogno né di stabilire un termine in cui la misura della colpa dell'uomo sia colma, né di aggiungere colpe all'uomo, oppure di porre la sua attenzione sull'uomo, di sentire le ragioni del comportamento umano. Insomma, secondo Eliu, a Dio non interessa di pervenire a un giudizio con l'uomo. Questo è ciò che attende e chiede Giobbe, mentre Eliu nega decisamente l'interesse di Dio per un giudizio con l'uomo. Dio conosce gli atti umani e, in relazione ad essi, scatta, quasi meccanicamente, l'azione punitrice divina. Peraltro, per Eliu il castigo di Dio sui malvagi è visibile a tutti (contro le insinuazioni di Giobbe cfr. 21,23-25.30; 24,1). Essi sono condannati per aver deviato dalle vie di Dio (v. 27; cfr. 24,13; Is 55,8-9); non hanno condotto la loro vita nella fedeltà a Dio (cfr. Es 32,8; ecc.), nell'obbedienza ai suoi comandi. Dal rifiuto delle vie di Dio deriva l'oppressione dei deboli, ma il loro grido muove Dio a punire i malvagi (contro Giobbe che accusa Dio di indifferenza, cfr. 24,12). Eliu sottolinea quindi che se Dio non risponde, nessuno può dichiararlo colpevole, o se nasconde il suo volto, nessuno può vederlo, ma egli garantisce che Dio interviene per colpire il malvagio. È evidente, a questo punto, l'invettiva di Eliu tesa a contrastare le accuse di Giobbe a Dio (cfr. 9,22-24; 12,6; 21,7-33; 24,2-25), ignorando tuttavia la questione straziante posta dalle considerazioni di Giobbe sul limite della conoscenza umana riguardo all'azione di Dio. Per Eliu la potenza di Dio non opera indiscriminatamente (cfr. 12,13-25), bensì è ordinata all'imparzialità, alla difesa e al soccorso dei poveri. Eliu, con questa argomentazione, ricade nell'accusa degli amici che hanno reputato la tragedia di Giobbe come conseguenza delle sue colpe.

vv. 31-37. Se la sovranità di Dio si estende dovunque e nulla a lui si sottrae, se Dio scruta l'agire dell'uomo e rende a ciascuno ciò che merita, allora risulta intollerabile per Eliu la protesta e la contesa di Giobbe con Dio. Eliu infatti ironizza: forse Giobbe, il quale respinge l'azione divina che lo ha raggiunto, vorrebbe trattare con Dio il suo diritto o addirittura vorrebbe che Dio prendesse consiglio da lui su come ripagarlo (vv. 31-33)! Eliu è certo che tutti i saggi, che egli ha invitato a dirimere la questione (cfr. vv. 2-4), concorderanno con lui sul fatto che Giobbe non parla con conoscenza (vv. 34-35). Pertanto, per le affermazioni irriverenti di Giobbe su Dio e verso Dio, che manifestano la sua empietà (cfr. 15, 6) e accrescono la gravità del suo peccato (cfr. Is 30,1), Eliu ritiene che la prova di Giobbe dovrebbe durare fino a quando non ritratti le sue accuse (vv. 36-37). Gli argomenti di Giobbe costituiscono per Eliu solo un'ulteriore trasgressione e dimostrano senza attenuanti il suo persistere nel peccato.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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1 Ascolta dunque, Giobbe, i miei discorsi, porgi l'orecchio ad ogni mia parola. 2Ecco, io apro la bocca, parla la mia lingua entro il mio palato. 3Il mio cuore dirà parole schiette e le mie labbra parleranno con chiarezza. 4Lo spirito di Dio mi ha creato e il soffio dell'Onnipotente mi fa vivere. 5Se puoi, rispondimi, prepàrati, tieniti pronto davanti a me. 6Ecco, io sono come te di fronte a Dio, anch'io sono stato formato dal fango: 7ecco, nulla hai da temere da me, non farò pesare su di te la mia mano. 8Tu hai detto in mia presenza e il suono delle tue parole ho udito: 9“Puro sono io, senza peccato, io sono pulito, non ho colpa; 10ma lui contro di me trova pretesti e mi considera suo nemico, 11pone in ceppi i miei piedi e spia tutti i miei passi!“. 12Ecco, in questo non hai ragione, ti rispondo: Dio, infatti, è più grande dell'uomo. 13Perché vuoi contendere con lui, se egli non rende conto di tutte le sue parole? 14Dio può parlare in un modo o in un altro, ma non vi si presta attenzione. 15Nel sogno, nella visione notturna, quando cade il torpore sugli uomini, nel sonno sul giaciglio, 16allora apre l'orecchio degli uomini e per la loro correzione li spaventa, 17per distogliere l'uomo dal suo operato e tenerlo lontano dall'orgoglio, 18per preservare la sua anima dalla fossa e la sua vita dal canale infernale. 19Talvolta egli lo corregge con dolori nel suo letto e con la tortura continua delle ossa. 20Il pane gli provoca nausea, gli ripugnano anche i cibi più squisiti, 21dimagrisce a vista d'occhio e le ossa, che prima non si vedevano, spuntano fuori, 22la sua anima si avvicina alla fossa e la sua vita a coloro che infliggono la morte. 23Ma se vi è un angelo sopra di lui, un mediatore solo fra mille, che mostri all'uomo il suo dovere, 24che abbia pietà di lui e implori: “Scampalo dallo scendere nella fossa, io gli ho trovato un riscatto”, 25allora la sua carne sarà più florida che in gioventù, ed egli tornerà ai giorni della sua adolescenza. 26Supplicherà Dio e questi gli userà benevolenza, gli mostrerà con giubilo il suo volto, e di nuovo lo riconoscerà giusto. 27Egli si rivolgerà agli uomini e dirà: “Avevo peccato e violato la giustizia, ma egli non mi ha ripagato per quel che meritavo; 28mi ha scampato dal passare per la fossa e la mia vita contempla la luce”. 29Ecco, tutto questo Dio fa, due, tre volte per l'uomo, 30per far ritornare la sua anima dalla fossa e illuminarla con la luce dei viventi. 31Porgi l'orecchio, Giobbe, ascoltami, sta' in silenzio e parlerò io; 32ma se hai qualcosa da dire, rispondimi, parla, perché io desidero darti ragione. 33Altrimenti, ascoltami, sta' in silenzio e io ti insegnerò la sapienza”. _________________ Note

33,22 coloro che infliggono la morte: forse allusione allo sterminatore dei primogeniti egiziani (vedi Es 12,23).

33,23 un angelo: gli angeli vengono spesso presentati come mediatori e intercessori, in contrapposizione a Satana, avversario e accusatore dell’uomo (vedi Tb 12,12; Ap 8,3).

33,31-33 Questi versi sono considerati da alcuni come l’introduzione al terzo discorso di Eliu e pertanto andrebbero collocati prima di 35,2.

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Approfondimenti

33,1-7. Eliu individua nella natura umana la base, la dimensione che lo accomuna a Giobbe (v. 4; cfr. 27,3; Gn 2,7) e afferma di non essere più forte di Giobbe. Nelle intenzioni di Eliu questo dovrebbe rassicurare Giobbe, che così potrà replicare alle argomentazioni, se è capace di farlo (v. 5; cfr. 33,32), senza temere alcuna recrudescenza. Eliu insiste. Giobbe aveva chiesto di dibattere senza essere sconvolto dal terrore (cfr. 9,34; 13,21), ed ecco egli si presenta al posto di Dio, ma dalla parte di Dio, per dire le parole di Dio (v. 6a). Tuttavia Eliu è anche solidale con Giobbe, condivide la stessa condizione umana, vulnerabile e contrassegnata dalla caducità (v. 6b; cfr. 10,8-12). Dunque non lo spaventerà, non graverà su Giobbe, cosicché i suoi argomenti non siano impediti (v. 7). Il fatto che Eliu si presenti come interprete di Dio suppone l'idea di una distanza, di una lontananza fra Dio e l'uomo, insieme alla convinzione che il ventaglio delle possibilità di comportamento, di Dio e dell'uomo, sia ormai completamente svelato e stabilito. Anche Eliu, pur con alcune diverse sfumature rispetto agli amici, pare proporsi come esponente di una concezione che ha chiuso e vincolato l'azione di Dio in una dottrina, che l'uomo può e deve conoscere, e alla quale deve solo adeguarsi.

vv. 8-12. Eliu richiama una prima serie di asserzioni di Giobbe contro le quali sviluppa, poi, la sua confutazione. Secondo Eliu, Giobbe ha sostenuto di essere senza colpa, inoltre ha accusato Dio che senza ragione lo tratta come suo nemico e che lo assedia senza sosta (vv. 9-11). È evidente che Eliu interpreta l'attestazione di innocenza di Giobbe (cfr. 9,21; 10,7; 16,17; 23,10-12; 27,5-6; 31) come la negazione di trasgressioni. In realtà, Giobbe ha riconosciuto che egli, come tutti gli uomini, non è libero dal peccato (cfr. 7,21; 10,6; 13,23.26), mentre ha contestato la gravità della tragedia che lo ha colpito reputandola sproporzionata rispetto alle sue colpe e al già pesante limite imposto dall'esistenza umana.

vv. 13-30. Con la sua argomentazione Eliu espone le caratteristiche dell'agire di Dio. Intanto egli ritiene che Giobbe sia in errore nel voler contendere con Dio, poiché Dio non risponde alle questioni dell'uomo (v. 13). Un modo in cui Dio, secondo Eliu, rivela il peccato dell'uomo è il sogno, per distoglierlo dal compiere il male e per salvarlo (vv. 15-18; cfr. Gn 20,3-7). In parte Eliu pare qui polemizzare con Elifaz che aveva riferito una rivelazione di Dio, in sogno, finalizzata a istruire Giobbe (cfr. 4,12-16). Eliu asserisce, infatti, che Dio direttamente interviene con i sogni per ammonire ogni uomo. Peraltro a Giobbe, che ha protestato per gli incubi notturni (cfr. 7,14), Eliu fa capire che essi sono momenti propizi nei quali Dio ammaestra l'uomo (cfr. Sal 16,7), perché non vuole la morte del peccatore, ma che desista dal male e viva (cfr. Ez 33,11). Un altro modo con cui Dio, secondo Eliu, corregge l'uomo è il dolore (vv. 19-22). La malattia, infatti, consuma la vitalità dell'uomo e lo avvicina alla morte (cfr. 19,20; 30,16-23.30; Sal 38; 102,5; 107,18; ecc.). La correzione di Dio (v. 19a; cfr. 5, 17) espone l'uomo alla fine definitiva, alla morte. Tuttavia Eliu precisa (vv. 23-26) che se quell'uomo ha un informatore, un messaggero a suo favore presso Dio, che, rispetto alla moltitudine di coloro che testimoniano la sua colpevolezza, si adopera a trovare il riscatto che possa salvarlo dal sepolcro, quell'uomo sarà ristabilito. Rimane aperta la possibilità che il messaggero, l'interprete di cui parla Eliu, possa essere un altro uomo che con la sua rettitudine intercede presso Dio, e che per i meriti di uno solo, Dio si compiaccia e salvi il peccatore (questa concezione è presente anche in 22,30; 42,7-9; cfr. Gn 18,16-33; Es 32,11-14; Is 53; Ger 5,1; Ez 22,30). Nondimeno tale messaggero è stato inteso spesso in relazione alla corte e al tribunale celeste. Pertanto come il Satan appare avversario e accusatore dell'uomo, così c'è anche un suo difensore (cfr. Sal 91,11-12) pronto a intervenire presso Dio. In tal caso l'intervento salvifico di Dio, previsto da Eliu, ricostituirà l'uomo con la forza e il vigore della giovinezza, con una vita rinnovata (v. 25; cfr. 2Re 5,14; Sal 103,5). Eliu pare alludere (un altro richiamo si trova in 22,26-27), in forma stilizzata, all'itinerario di un uomo scampato a un pericolo mortale (cfr. Sal 30), che comportava il recarsi al tempio (qui il riferimento è nel vedere il volto di Dio) e anche l'offerta del sacrificio di lode (cfr. Sal 27,6; 50,14-15; 69,31; 100; 116). Eliu si avvia quindi alla conclusione sostenendo che Dio agisce in questo modo (attraverso il sogno e la malattia) più volte (vv. 29-30), in relazione al ripetersi del peccato; infatti Dio non vuole distruggere l'uomo, bensì che la sua vita sia luminosa, che risplenda tra i viventi (cfr. 22,28; c. 29).

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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DISCORSI DI ELIU 1 Quei tre uomini cessarono di rispondere a Giobbe, perché egli si riteneva giusto. 2Allora si accese lo sdegno di Eliu, figlio di Barachele, il Buzita, della tribù di Ram. Si accese di sdegno contro Giobbe, perché si considerava giusto di fronte a Dio; 3si accese di sdegno anche contro i suoi tre amici, perché non avevano trovato di che rispondere, sebbene avessero dichiarato Giobbe colpevole. 4Eliu aveva aspettato, mentre essi parlavano con Giobbe, perché erano più vecchi di lui in età. 5Quando vide che sulla bocca di questi tre uomini non vi era più alcuna risposta, Eliu si accese di sdegno.

Primo discorso di Eliu Eliu contesta le argomentazioni di Giobbe 6Eliu, figlio di Barachele, il Buzita, prese a dire: “Giovane io sono di anni e voi siete già canuti; per questo ho esitato, per rispetto, a manifestarvi il mio sapere. 7Pensavo: “Parlerà l'età e gli anni numerosi insegneranno la sapienza”. 8Ma è lo spirito che è nell'uomo, è il soffio dell'Onnipotente che lo fa intelligente. 9Essere anziani non significa essere sapienti, essere vecchi non significa saper giudicare. 10Per questo io oso dire: “Ascoltatemi; esporrò anch'io il mio parere”. 11Ecco, ho atteso le vostre parole, ho teso l'orecchio ai vostri ragionamenti. Finché andavate in cerca di argomenti, 12su di voi fissai l'attenzione. Ma ecco, nessuno ha potuto confutare Giobbe, nessuno tra voi ha risposto ai suoi detti. 13Non venite a dire: “Abbiamo trovato noi la sapienza, Dio solo può vincerlo, non un uomo!“. 14Egli non ha rivolto a me le sue parole, e io non gli risponderò con i vostri argomenti. 15Sono sconcertati, non rispondono più, mancano loro le parole. 16Ho atteso, ma poiché non parlano più, poiché stanno lì senza risposta, 17risponderò anch'io per la mia parte, esporrò anch'io il mio parere; 18mi sento infatti pieno di parole, mi preme lo spirito che è nel mio ventre. 19Ecco, il mio ventre è come vino senza aria di sfogo, come otri nuovi sta per scoppiare. 20Parlerò e avrò un po' d'aria, aprirò le labbra e risponderò. 21Non guarderò in faccia ad alcuno, e non adulerò nessuno, 22perché io non so adulare: altrimenti il mio creatore in breve mi annienterebbe. _________________ Note

32,1 L’intervento inatteso di questo personaggio di nome Eliu pone un intervallo tra i discorsi di Giobbe e la grande teofania racchiusa in 38,1-42,6. La sezione che racchiude questi discorsi è considerata da molti come un’aggiunta posteriore: in realtà, il personaggio Eliu non verrà nemmeno citato da Dio nel suo ultimo intervento (vedi 42,7-9).

32,2 Buzita: Buz è nome di una tribù del deserto arabico (Ger 25,23 e anche Gen 22,21). Ram designa probabilmente il clan di appartenenza di Eliu (vedi 1Cr 2,25.27).

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Approfondimenti

DISCORSI DI ELIU (32,1-37,24) La forte tensione drammatica raggiunta, nella fase conclusiva della Disputa, con la sfida di Giobbe a Dio, esigeva a questo punto l'intervento e il pronunciamento di Dio. L'unica cosa che si poteva attendere era una presa di posizione da parte di Dio, come evento necessario, non più procrastinabile. Tutta l'evoluzione del processo narrativo lo imponeva. Invece, con sorpresa, un nuovo fatto narrativo interviene a sospendere, a ritardare quel tanto atteso rivelarsi di Dio. Giobbe pare sottoposto all'esperienza ancora più sconcertante che, non solo il suo grido di aiuto, ma anche la contesa e la sfida a Dio che ha tenacemente avanzato, a rischio della sua stessa vita, sembrano rimanere senza risposta, sembrano cadere nel vuoto. Non Dio, ma un uomo si affretta a rispondergli. Il narratore, infatti, presenta sulla scena un personaggio la cui stessa esistenza era, finora, del tutto sconosciuta. Con grande abilità il narratore attira l'attenzione su Eliu, che silenzioso ha assistito alla Disputa e che, indignato per la pretesa giustizia di Giobbe e per l'esito fallimentare degli interventi degli amici, prende la parola sulle questioni in discussione.

Il fatto che Eliu non sia mai stato menzionato prima, né alcun riferimento segua ai suoi discorsi, insieme alla qualità e ai contenuti della sua argomentazione in sé compiuta, costituiscono degli indizi che inducono a ritenere che siamo davanti a un'interpolazione di notevoli dimensioni (cc. 32-37). Essa pare rispondere a particolari ragioni connesse alla recezione iniziale del poema, dunque si tratta di un'aggiunta successiva alla fase principale della formazione dell'opera, che tuttavia nel contesto del libro canonico assume una precisa funzione narrativa. Riteniamo opportuno esaminare le ragioni e la funzione di tale inserzione, dopo averne investigato il contenuto.

L'articolazione di questa unità letteraria (cc. 32-37) è caratterizzata da una breve sezione narrativa, in prosa, nella quale il narratore presenta Eliu (32, 1-5), seguita da quattro discorsi dello stesso (32,6b-33,33; 34,2-37; 35,2-16; 36,2-37,24), in poesia, ciascuno introdotto dal narratore (32,6a; 34,1; 35,1; 36,1). Pertanto, dal punto di vista formale questa consistente unità tende a mostrare elementi di continuità con quel che precede.

32,1-5. La transizione da una fase narrativa a un'altra è affidata anche in questo caso (come nel passaggio dal Prologo alla Disputa, cfr. 2,11-13) a un “sommario”, benché, qui, esso appaia del tutto orientato, oltre che a presentare sulla scena un nuovo personaggio, a sottolinearne l'intraprendenza e l'iniziativa. Esso contiene, infatti, una forte accentuazione prolettica, rivolta a quel che sta per accadere, a differenza del “sommario” di 2,11-13, che concludeva il Prologo, e dove, non a caso, i tre amici che facevano il loro ingresso sulla scena, (cfr. 2, 13), sedevano, in attesa, accanto a Giobbe. Ogni iniziativa era, in quel caso, interamente affidata a Giobbe. Peraltro, radicalmente diversi, opposti, sono i sentimenti degli amici e di Eliu. I tre amici si recano da Giobbe per condolersi, per consolarlo e confortarlo (cfr. 2,11), dunque per un atto di solidarietà. Ciò che, invece, muove Eliu a prendere la parola è l'ira (menzionata in questo “sommario” per ben quattro volte), contro Giobbe e contro gli amici; dunque ne viene annunciata l'ostilità e la contrapposizione. Due ragioni provocano il furore di Eliu. Innanzitutto egli si accende d'ira contro Giobbe che si dichiara innocente nei confronti di Dio (cfr. 35, 2), che si ritiene giusto nella relazione con Dio, e dunque, in qualche modo, manifesta quasi la pretesa di essere più giusto di Dio. L'altro motivo dell'indignazione di Eliu è dovuto al silenzio degli amici (v. 3), al loro fallimento, sebbene lo avessero dichiarato colpevole. In questo caso gli amici avrebbero riconosciuto la colpevolezza di Giobbe, ma non sono stati capaci di ribattere in modo definitivo alle sue argomentazioni. Oppure, secondo un'altra lettura del TM, essi non hanno trovato di che rispondergli e, dunque, non lo hanno condannato. Il fatto che gli accusatori sono tacitati dimostra la vittoria di Giobbe (cfr. 5,16; 11,2-3; 32,15-20). Infine, secondo la lettura più antica, essi, non avendo trovato alcuna risposta per Giobbe, hanno condannato Dio. Insomma, rimanendo in silenzio, gli amici di fatto avvalorano la pretesa innocenza di Giobbe. Il narratore si preoccupa anche di informare il lettore che Eliu ha atteso, prima di replicare, per rispetto verso gli amici più anziani. Non manca dell'ironia in questo; infatti, a motivo dell'età, Eliu ha permesso loro di parlare prima, benché la sua comprensione sia prospettata, fin d'ora, superiore alla loro. Peraltro, questa informazione del narratore mostra che Eliu è a conoscenza della vicenda di Giobbe e della Disputa con gli amici. L'indignazione, l'insofferenza sono i sentimenti che animano Eliu e lo collocano, già prima che egli cominci a parlare, in una posizione antagonista e di contrasto, soprattutto nei confronti di Giobbe.

Primo discorso di Eliu (32,6-33,33) Il primo discorso di Eliu contiene un'ampia premessa con una serie di considerazioni preliminari che scaturiscono dalla sua osservazione dell'andamento della Disputa. Pertanto Eliu si è convinto che la sapienza non è connessa all'età (32,6-10), e, deluso per l'incapacità degli amici di rispondere a Giobbe (32,11-16), annuncia la sua esigenza e la sua decisione di intervenire (32,17-22). Rivolgendosi poi a Giobbe, Eliu gli si presenta come un uomo, uguale a lui (33,1-7), e ribatte alla sua dichiarazione di innocenza (33,8-12) proponendo la propria comprensione del significato dell'agire di Dio (33, 13-30). Eliu conclude con un formale invito di replica a Giobbe (33,31-33). Per Eliu la causa della sofferenza importa meno del suo scopo. Dio, infatti, attraverso la tribolazione, vuole avvertire il peccatore.

vv. 32,6-10. Eliu, presentandosi, spiega i motivi che lo inducono ad intervenire solo ora. Egli ha esitato nel prendere la parola, non perché non avesse una sua opinione, ma a motivo della sua giovinezza. Eliu, infatti, riteneva (v. 7) che gli anziani riflettessero quella conoscenza che deriva dall'aver osservato e speculato sugli eventi in un ampio arco di tempo, avendo vissuto a lungo (cfr. Sir 25,3-6; concetto emerso anche nella Disputa, cfr. 8,8-10; 12,12). Tuttavia Eliu assume ora una posizione critica; proprio quel che è accaduto nella Disputa lo induce a correggere tale visione. La polemica sembra voler colpire anche un uso deviante della sapienza, come appannaggio e prerogativa di un piccolo gruppo (cfr. per es. 12,2; Ger 18, 8), affermando, invece, che la sapienza è dono di Dio all'uomo (cfr. Prv 2,6), connessa, innanzitutto, al dono stesso della vita.

vv. 11-16. Per Eliu nessuno degli amici è riuscito ad essere un pertinace accusatore e contendente (môkîaḥ) al punto in cui, invece, Giobbe lo è stato per Dio (cfr. 40,2). Eliu rimprovera gli amici i quali, appagati della loro sapienza (v. 13; cfr. 4,12-21; 11,6; 15,8-11), hanno offerto a Giobbe la persuasione che Dio lo ha colpito, e non un uomo, e che Dio non può essere sospettato di punire senza una causa. Eliu osserva, deluso, anche lo sconcerto degli amici: egli pare insistere nel voler prendere le distanze dagli amici, conferendo in tal modo un maggiore risalto a quel che si prepara a dire. Egli pensa di disporre di argomenti decisivi che gli amici non hanno trovato.

vv. 17-22. Le parole di Eliu ricordano e rimandano a una pluralità di significati. Innanzitutto, per quanto nessuno lo abbia esplicitamente interpellato, egli si sente talmente indignato e provocato da quanto ha udito e si è verificato da non poter fare a meno di manifestare ciò che pensa (cfr. 20,3). Inoltre la menzione dello «spirito», rûaḥ, che dentro di lui lo induce a parlare, sembra quasi voler alludere a un'ispirazione divina (cfr. 4,12-16). Nondimeno, con tale asserzione, egli non evita di esporsi al pericolo che proprio la moltitudine delle parole si riveli solo vento (cfr. 8,2; 16,3). Per riferire l'intensità della spinta interiore a intervenire, Eliu si avvale di un'immagine frizzante (v. 19). Paragona gli argomenti che ha accumulato nella sua mente al vino che ribolle, che fermenta, che necessita di un'apertura di sfogo o squarcerà gli otri, anche se nuovi. Così le sue parole squarceranno il suo ventre se egli non le esprimerà. Perciò egli deve parlare per liberare il suo ventre, lasciando uscire le sue parole.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Sicuro della propria innocenza, Giobbe si appella a Dio 1 Ho stretto un patto con i miei occhi, di non fissare lo sguardo su una vergine. 2E invece, quale sorte mi assegna Dio di lassù e quale eredità mi riserva l'Onnipotente dall'alto? 3Non è forse la rovina riservata all'iniquo e la sventura per chi compie il male? 4Non vede egli la mia condotta e non conta tutti i miei passi? 5Se ho agito con falsità e il mio piede si è affrettato verso la frode, 6mi pesi pure sulla bilancia della giustizia e Dio riconosca la mia integrità. 7Se il mio passo è andato fuori strada e il mio cuore ha seguìto i miei occhi, se la mia mano si è macchiata, 8io semini e un altro ne mangi il frutto e siano sradicati i miei germogli. 9Se il mio cuore si lasciò sedurre da una donna e sono stato in agguato alla porta del mio prossimo, 10mia moglie macini per un estraneo e altri si corichino con lei; 11difatti quella è un'infamia, un delitto da denunciare, 12quello è un fuoco che divora fino alla distruzione e avrebbe consumato tutto il mio raccolto. 13Se ho negato i diritti del mio schiavo e della schiava in lite con me, 14che cosa farei, quando Dio si alzasse per giudicare, e che cosa risponderei, quando aprisse l'inquisitoria? 15Chi ha fatto me nel ventre materno, non ha fatto anche lui? Non fu lo stesso a formarci nel grembo? 16Se ho rifiutato ai poveri quanto desideravano, se ho lasciato languire gli occhi della vedova, 17se da solo ho mangiato il mio tozzo di pane, senza che ne mangiasse anche l'orfano 18– poiché fin dall'infanzia come un padre io l'ho allevato e, appena generato, gli ho fatto da guida –, 19se mai ho visto un misero senza vestito o un indigente che non aveva di che coprirsi, 20se non mi hanno benedetto i suoi fianchi, riscaldàti con la lana dei miei agnelli, 21se contro l'orfano ho alzato la mano, perché avevo in tribunale chi mi favoriva, 22mi si stacchi la scapola dalla spalla e si rompa al gomito il mio braccio, 23perché mi incute timore il castigo di Dio e davanti alla sua maestà non posso resistere. 24Se ho riposto la mia speranza nell'oro e all'oro fino ho detto: “Tu sei la mia fiducia”, 25se ho goduto perché grandi erano i miei beni e guadagnava molto la mia mano, 26se, vedendo il sole risplendere e la luna avanzare smagliante, 27si è lasciato sedurre in segreto il mio cuore e con la mano alla bocca ho mandato un bacio, 28anche questo sarebbe stato un delitto da denunciare, perché avrei rinnegato Dio, che sta in alto. 29Ho gioito forse della disgrazia del mio nemico? Ho esultato perché lo colpiva la sventura? 30Ho permesso alla mia lingua di peccare, augurandogli la morte con imprecazioni? 31La gente della mia tenda esclamava: “A chi non ha dato le sue carni per saziarsi?”. 32All'aperto non passava la notte il forestiero e al viandante aprivo le mie porte. 33Non ho nascosto come uomo la mia colpa, tenendo celato nel mio petto il mio delitto, 34come se temessi molto la folla e il disprezzo delle famiglie mi spaventasse, tanto da starmene zitto, senza uscire di casa.

35Se contro di me grida la mia terra e i suoi solchi piangono a una sola voce, 36se ho mangiato il suo frutto senza pagare e ho fatto sospirare i suoi coltivatori, 37in luogo di frumento mi crescano spini ed erbaccia al posto dell'orzo.

38Oh, avessi uno che mi ascoltasse! Ecco qui la mia firma! L'Onnipotente mi risponda! Il documento scritto dal mio avversario 39vorrei certo portarlo sulle mie spalle e cingerlo come mio diadema! 40Gli renderò conto di tutti i miei passi, mi presenterei a lui come un principe”.

40b Sono finite le parole di Giobbe. _________________ Note

31,9-10 Se il mio cuore si lasciò sedurre: l’adulterio era punito con la morte. mia moglie macini: alla macinazione erano addetti gli schiavi.

31,27 Il bacio va qui inteso come gesto idolatrico..

31,38 la mia firma: alla lettera “il mio tau”. Il tau, ultima lettera dell’alfabeto ebraico (in antico a forma di croce), era usato dagli illetterati come firma. L’ordine di questi versetti è cambiato, per una migliore comprensione del testo.

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Approfondimenti

31,1-4. Giobbe richiama innanzitutto il suo impegno riguardo agli occhi, nella loro connotazione del desiderio (31,1,7; cfr. Gn 3,6; Nm 15,39; Ger 22,17; Ez. 20,7.8; Qo 2,10), e ne riferisce l'esercizio di una fondamentale moderazione e disciplina. Egli con una certa enfasi nota però che su di lui si è abbattuta la sciagura che dovrebbe essere assegnata di solito al malvagio (v. 3). Dunque Giobbe segnala un'incongruenza. Queste considerazioni ribadiscono che il problema è in Dio e nel suo agire sconcertante.

vv. 5-6. Giobbe, immune dalla menzogna, si rimette sicuro alla giustizia di Dio, rappresentata con l'immagine della bilancia (cfr. Prv 11,1; 16,2; 20,10; 21,2; 34,12). Giobbe non può sapere che Dio già prima della tragedia aveva ripetutamente apprezzato la sua rettitudine (cfr. 1,8; 2,3).

vv. 7.8. Avviata ormai la sfida diretta di Giobbe a Dio, la dichiarazione d'innocenza prosegue (31,7-23) nella particolare forma del giuramento con imprecazioni su di sé (cfr. Sal 7,4-6).

vv. 9-12. In caso di adulterio (cfr. Es 20,17; Dt 22,22-24; Prv 6,29.32-35), la maledizione colpirà Giobbe sempre in ciò che gli appartiene, e stavolta si tratta della moglie (cfr. Dt 28,30; 2Sam 12,11), che era considerata proprietà dell'uomo.

vv. 13-15. Dell'eventuale violazione, negazione del diritto dei propri servi (cfr. Es 21,2-11.20-21.26-27; Lv 25,39-55; Dt 15,12-18), Giobbe ritiene che si debba rispondere dinanzi a Dio, perché padrone e schiavo sono accomunati dalla stessa natura umana che Dio ha creato (cfr. Prv 22,2; Sap 6,7). Dio ha formato e intessuto entrambi nel grembo materno (cfr. Sal 139,13).

vv. 16-23. L'attenzione di Giobbe si volge ora ai diseredati (il povero, la vedova e l'orfano) e al soccorso prestato loro nella forma del cibo e della veste (cfr. 24,7.10; Is 58,7), che evidentemente costituivano l'aiuto primario che poteva garantire la loro sopravvivenza. Egli riferisce che tale sollecitudine (cfr. 29,12-17) lo ha guidato fin dalla sua giovinezza, replicando anche, in modo definitivo, alle accuse infamanti di Elifaz (cfr. 22,6-9). Tuttavia, se in qualche modo fosse venuto meno a tale protezione e cura, o avesse inteso opprimere il debole, Giobbe invoca su di sé un castigo che comporti la privazione di quella parte del suo corpo che si è resa colpevole. L'imprecazione segue strettamente il principio «occhio per occhio» (cfr. Es 21,23-24; Lv 24,19-20; Dt 19,21).

vv. 24-28. In questa breve sezione ricorre una forte attestazione della fede di Giobbe nell'unico Dio, il Dio di Israele. Una particolare attenzione merita, nel contesto della sezione, il riferimento al «confidare», più precisamente, al motivo del confidare. Si deve tener conto che il termine usato (v. 24b: mibṭāḥ, come pure il verbo bṭḥ) ha, in ambito biblico, una predominante denotazione religiosa (cfr. Ger 17,7; Sal 40,5; 65,6; 71,5); pertanto le parole di Giobbe assumono un nuovo rilievo. Giobbe in una forma sicuramente originale nega di aver posto la sua fiducia nell'oro: non ha stabilito la sua sicurezza di vita né ha cercato protezione in esso, che a questo punto si presenta come una forte allusione agli idoli di metallo fuso fatti dall'uomo (cfr. Es 32; Sal 115,4.8; 135,15.18). Dunque Giobbe respinge di avere, in qualche modo, venerato degli idoli, così come di aver reso omaggio e culto alle divinità astrali, al sole e alla luna per la loro luminosità (vv. 26-27; cfr. Dt 4,19). Si tratta di divinità onorate, pur con altri attributi, dai popoli della Mesopotamia, ma non mancano testimonianze sul loro culto anche in Israele (cfr. per es. 2Re 21,3.5; 23,4-5; Ger 8,2; Ez 8,16-17). Giobbe pertanto ripudia l'idolatria in tutte le sue manifestazioni, reputandola come apostasia (v. 28).

vv. 33-34. Giobbe giura di non aver nascosto o negato il suo peccato (cfr. Gn 3,10), dunque di aver ammesso le proprie trasgressioni (cfr. 7,21; Sal 32,5; 69,6) senza sottrarsi alla disapprovazione, allo sdegno della gente. Pertanto la sua proclamazione di innocenza non è ipocrisia, non è negazione del peccato.

vv. 35-37. L'ultimo giuramento con imprecazione di Giobbe riguarda la terra, nell'eventuale violazione dei ritmi per essa stabiliti (cfr. Es 23,10-11; Lv 25,2-7), e la mancata retribuzione di chi vi ha lavorato (cfr. Lv 19, 9-10.13). Gran parte dei commentatori moderni hanno ritenuto questi versetti fuori posto, come una conclusione incongruente. Come BC, molti spostano questi versetti dopo il v. 34, ma senza basi testuali e con motivazioni non decisive. Tale conclusione, aperta, contribuisce invece a rendere l'ultimo discorso di Giobbe una sfida diretta a Dio, ma non un ultimatum, una sfida dalla quale Dio non può esimersi. In qualunque modo, tuttavia, Dio intervenga, l'evento costituirà per Giobbe non un atto dovuto, ma una manifestazione di benevolenza, la riconferma dell'inestimabile benevolenza di Dio.

vv. 38-40a. La sfida di Giobbe a Dio raggiunge a questo punto il suo culmine. La dichiarazione volge ormai al termine; egli vi pone il suo sigillo. Riguardo allo scritto di accusa della parte avversa, gli amici, suoi contendenti, Giobbe pensa di portarlo sulla spalla come un trofeo, e di cingerselo come un diadema. Così si presenterebbe a Dio per narrargli la sua vita, e come un principe (nāgîd), dunque con una dignità regale. Riaffiora quindi la certezza di Giobbe: se Dio gli prestasse attenzione, sicuramente riconoscerebbe la sua integrità (cfr. 23,3-7; Sal 17; 26). Egli ritiene pure che le accuse degli amici concorrono a stabilire e mettere in evidenza la sua rettitudine, che è fedeltà alle vie di Dio (cfr. 23,11-12). Attende, oltre la persecuzione e la prova, l'evento della rinnovata vicinanza di Dio (cfr. Sal 73,28).

v. 40b. L'informazione della fine dei discorsi di Giobbe, viene riferita e utilizzata dal narratore come un antefatto, una circostanza che gli permette di porre in rilievo altri fatti: che gli amici hanno cessato di rispondere a Giobbe e, soprattutto, che un nuovo personaggio, Eliu, mosso, dallo sdegno, si appresta ad intervenire (32,1-5). Se si considera che l'inserzione dei discorsi di Eliu (cc. 32-37) è avvenuta in un momento successivo alla composizione principale del libro, non si può far a meno di riconoscere, anche nella cura prestata ai passaggi fra le diverse tappe del poema, la singolare raffinatezza della tecnica narrativa.

La conclusione dei discorsi di Giobbe segna in modo definitivo la fine della Disputa. Essa è stata aperta e chiusa dai monologhi di Giobbe. Nel primo monologo Giobbe preferiva la morte alla vita (c. 3), nell'ultimo (cc. 29-31) giunge a sfidare Dio, sottoponendo la sua vita a una verifica in relazione all'istruzione divina. All'inizio, Giobbe chiedeva la morte come estremo atto in cui poteva affermare la fedeltà a Dio (cfr. 6,8-10), e alla fine, dopo aver sostenuto la sua permanente integrità, egli chiede che Dio lo ascolti e gli risponda, che lo avvicini a sé in una riconfermata comunione di vita (cfr. 31,35-37). La vita e la storia sono il luogo in cui Giobbe attende l'intervento di Dio.

È evidente, ormai, come la Disputa rappresenti, nello sviluppo narrativo, la “complicazione”. Essa costituisce, infatti, il tentativo di spiegare le ragioni della tragedia che si è abbattuta su Giobbe, nel Prologo, e proprio questo tentativo di spiegare e risolvere la situazione di Giobbe conduce, con le questioni sollevate, a un ampliamento dell'intreccio narrativo. All'iniziale intreccio di risoluzione è andato affiancandosi l'intreccio di rivelazione, centrato su un'assenza di conoscenza che deve essere colmata. La Disputa, infatti, ha messo in evidenza, peraltro confermandolo anche con il suo fallimento, la finitezza della conoscenza umana sull'ordine dell'universo, e, soprattutto, riguardo a Dio, al nascondimento e al silenzio di Dio.

Giobbe si delinea, nel corso della Disputa, attraverso il forte contrasto con gli amici, come un personaggio complesso, umano, che esprime questioni drammatiche fra l'uomo e Dio, dà voce al grido che emerge nella tragedia del singolo (cfr. Sal 88; ecc.), del popolo (cfr. Sal 44; 74; 79; 80; ecc.). Egli osa chiedere conto a Dio del suo agire, osa sfidare Dio, perché non intende rinunciare a lui, alla vicinanza, alla comunione di vita con lui. L'incalzante progressione dell'argomentazione di Giobbe esige una presa di posizione, apre all'attesa di un pronunciamento di Dio, ormai inevitabile, in risposta alla sete di conoscenza e di comunione. L'imprevista svolta narrativa, con i discorsi di un nuovo personaggio, Eliu (cc. 32-37), ne ritarderà il momento, rendendo, tuttavia, ancora più acuta l'attesa di Dio.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Giobbe rievoca la sua attuale situazione di infelicità 1 Ora, invece, si burlano di me i più giovani di me in età, i cui padri non avrei degnato di mettere tra i cani del mio gregge. 2Anche la forza delle loro mani a che mi giova? Hanno perduto ogni vigore; 3disfatti dall'indigenza e dalla fame, brucano per l'arido deserto, da lungo tempo regione desolata, 4raccogliendo erbe amare accanto ai cespugli e radici di ginestra per loro cibo. 5Espulsi dalla società, si grida dietro a loro come al ladro; 6dimorano perciò in orrendi dirupi, nelle grotte della terra e nelle rupi. 7In mezzo alle macchie urlano accalcandosi sotto i roveti, 8razza ignobile, razza senza nome, cacciati via dalla terra. 9Ora, invece, io sono la loro canzone, sono diventato la loro favola! 10Hanno orrore di me e mi schivano né si trattengono dallo sputarmi in faccia! 11Egli infatti ha allentato il mio arco e mi ha abbattuto, ed essi di fronte a me hanno rotto ogni freno. 12A destra insorge la plebaglia, per far inciampare i miei piedi e tracciare contro di me la strada dello sterminio. 13Hanno sconvolto il mio sentiero, cospirando per la mia rovina, e nessuno si oppone a loro. 14Irrompono come da una larga breccia, sbucano in mezzo alle macerie. 15I terrori si sono volti contro di me; si è dileguata, come vento, la mia dignità e come nube è svanita la mia felicità. 16Ed ora mi consumo, mi hanno colto giorni funesti. 17Di notte mi sento trafiggere le ossa e i dolori che mi rodono non mi danno riposo. 18A gran forza egli mi afferra per la veste, mi stringe come il collo della mia tunica. 19Mi ha gettato nel fango: sono diventato come polvere e cenere. 20Io grido a te, ma tu non mi rispondi, insisto, ma tu non mi dai retta. 21Sei diventato crudele con me e con la forza delle tue mani mi perseguiti; 22mi sollevi e mi poni a cavallo del vento e mi fai sballottare dalla bufera. 23So bene che mi conduci alla morte, alla casa dove convengono tutti i viventi. 24Nella disgrazia non si tendono forse le braccia e non si invoca aiuto nella sventura? 25Non ho forse pianto con chi aveva una vita dura e non mi sono afflitto per chi era povero? 26Speravo il bene ed è venuto il male, aspettavo la luce ed è venuto il buio. 27Le mie viscere ribollono senza posa e giorni d'affanno mi hanno raggiunto. 28Avanzo con il volto scuro, senza conforto, nell'assemblea mi alzo per invocare aiuto. 29Sono divenuto fratello degli sciacalli e compagno degli struzzi. 30La mia pelle annerita si stacca, le mie ossa bruciano per la febbre. 31La mia cetra accompagna lamenti e il mio flauto la voce di chi piange. _________________ Note

30,4 erbe amare e radici: gli unici alimenti che si potevano trovare in tempo di carestia.

30,29 sciacalli e struzzi: considerati animali impuri e nemici dell’uomo. In 39,13-18 lo struzzo è presentato come animale stupido e crudele.

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Approfondimenti

30,1-31. Alla nostalgica rievocazione del passato, Giobbe contrappone l'amarezza del presente caratterizzato dal radicale capovolgimento della condizione precedente. Egli è disprezzato e deriso dagli scellerati (30,1-8); è attaccato e aggredito da ogni parte (30,9-15); è in grave pericolo di vita (30,16-19); è perseguitato da Dio (30,20-23); ormai stremato dall'afflizione grida aiuto (30, 24-31).

30,1-8. All'onore del passato si oppone la constatazione di Giobbe per il presente, del disprezzo e della derisione da parte addirittura dei delinquenti, gente infame, senza nome, bandita dal consorzio umano (cfr. 24,5), che egli stesso detesta.

vv. 9-15. Giobbe individua la ragione di questo cambiamento senza alcun dubbio nell'agire di Dio che ha indebolito la sua forza (v. 11; al contrario di quel che si aspettava in 29,20), così che da ogni parte egli è aggredito e molestato (vv. 12-14; cfr. 19,12). L'assedio non è solo intorno a Giobbe, all'esterno, ma si estende anche all'interno, dentro di lui; infatti aspri terrori lo assalgono (v. 15a), che di solito sono connessi alla fine sciagurata degli empi (cfr. 18,11.14; 24,17; 27,20; Sal 73,19).

vv. 16-19. A motivo di così tanta e persistente tribolazione ora la vita di Giobbe è in pericolo, dilaniata da una sofferenza ininterrotta (vv. 16-17; cfr. 7,3-7; 17,1.7; Sal 22,15). Egli bruscamente è stato spogliato della veste che mostrava la giustizia (cfr, 29,14) per indossare quella dell'afflizione (v. 18; cfr. 16,15), Dio lo ha gettato nel fango, lo ha trattato da malvagio, (cfr. 27,16) ed egli è diventato come polvere e cenere (v. 19; cfr. 42,6), evidente riferimento non solo alle espressioni di lutto (cfr. 2,8.12; 16,15b), ma anche alla prossimità con la morte (cfr. 7,21; 17,16). Un'altra possibilità è che Giobbe si consideri davanti a Dio come Abramo, che designò se stesso come polvere e cenere (cfr. Gn 18,27), dunque consapevole della propria natura creaturale, della sproporzione delle parti, nella relazione fra Dio e l'uomo. Si osservi che la coppia di parole «fango, argilla» (ḥōmer) / «polvere» (‘āpār), ricorre, in 10,9, in rapporto alla creazione dell'uomo nella sua originaria precarietà. Le stesse parole vengono ora usate (v. 19) per mettere in risalto che la precarietà umana appare ulteriormente acuita e aggravata dall'incomprensibile avversione di Dio all'uomo, a Giobbe.

vv. 20-23. Consapevole della propria strutturale condizione di inferiorità, Giobbe grida, con un nuovo accenno sporge querela a Dio sulla violenza in atto (cfr. 19,7), rivendica che la giustizia, il diritto vengano ristabiliti. Ma ciò che continua a destare più sconcerto è il silenzio di Dio; nonostante l'insistenza, benché Giobbe persista, Dio non gli risponde. Pertanto, Giobbe interpreta ciò non come indifferenza (cfr. 24,12), bensì come aperta opposizione di Dio che si mostra suo spietato avversario (cfr. 6,4; 9,17-18; 16,12-14; 19,10-12) e che con tutta la sua forza lo perseguita (cfr. 16,9). L'insistente invocazione di aiuto di Giobbe, con la quale sollecita l'intervento di Dio, sfocia in un'aperta sfida a Dio, un'ulteriore intensa attestazione, l'ultima, per incalzare Dio e premere perché si pronunci. Dopo aver ripetutamente accusato Dio della sua sciagura (ancora una volta nei vv. 18-23), Giobbe argomenta ora (c. 31) dettagliatamente la sua rettitudine avvalendosi della predominante metafora legale di una deposizione sotto giuramento, con imprecazioni su di sé (cfr. Es 22,9-10; Nm 5,20-22; 1Re 8,31-32); è la sua estrema dichiarazione di innocenza, a rischio della vita (cfr. 13,14-15).

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Giobbe rimpiange la felicità e la prosperità di un tempo

1 Giobbe continuò il suo discorso dicendo: 2“Potessi tornare com'ero ai mesi andati, ai giorni in cui Dio vegliava su di me, 3quando brillava la sua lucerna sopra il mio capo e alla sua luce camminavo in mezzo alle tenebre; 4com'ero nei giorni del mio rigoglio, quando Dio proteggeva la mia tenda, 5quando l'Onnipotente stava ancora con me e i miei giovani mi circondavano, 6quando mi lavavo i piedi nella panna e la roccia mi versava ruscelli d'olio! 7Quando uscivo verso la porta della città e sulla piazza ponevo il mio seggio, 8vedendomi, i giovani si ritiravano e i vecchi si alzavano in piedi, 9i notabili sospendevano i loro discorsi e si mettevano la mano alla bocca, 10la voce dei capi si smorzava e la loro lingua restava fissa al palato; 11infatti con gli orecchi ascoltavano e mi dicevano felice, con gli occhi vedevano e mi rendevano testimonianza, 12perché soccorrevo il povero che chiedeva aiuto e l'orfano che ne era privo. 13La benedizione del disperato scendeva su di me e al cuore della vedova infondevo la gioia. 14Ero rivestito di giustizia come di un abito, come mantello e turbante era la mia equità. 15Io ero gli occhi per il cieco, ero i piedi per lo zoppo. 16Padre io ero per i poveri ed esaminavo la causa dello sconosciuto, 17spezzavo le mascelle al perverso e dai suoi denti strappavo la preda. 18Pensavo: “Spirerò nel mio nido e moltiplicherò i miei giorni come la fenice. 19Le mie radici si estenderanno fino all'acqua e la rugiada di notte si poserà sul mio ramo. 20La mia gloria si rinnoverà in me e il mio arco si rinforzerà nella mia mano”. 21Mi ascoltavano in attesa fiduciosa e tacevano per udire il mio consiglio. 22Dopo le mie parole non replicavano, e su di loro stillava il mio dire. 23Le attendevano come si attende la pioggia e aprivano la bocca come ad acqua primaverile. 24Se a loro sorridevo, non osavano crederlo, non si lasciavano sfuggire la benevolenza del mio volto. 25Indicavo loro la via da seguire e sedevo come capo, e vi rimanevo come un re fra le sue schiere o come un consolatore di afflitti. _________________ Note

29,6 la roccia che versa l’olio: il frantoio per le olive, che era di pietra.

29,7 la porta della città: era il luogo dove si amministrava la giustizia e si concludevano gli affari più importanti.

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Approfondimenti

Il grido e la sfida di Giobbe a Dio 29,1-31,40 Il fatto che Giobbe prenda di nuovo la parola suppone un tempo di silenzio dopo l'elogio della sapienza, e l'attesa di una replica da parte degli amici ai quali egli ha rivolto la sua istruzione. Ma essi tacciono, nessuno più risponde. In questo modo giunge un'ulteriore conferma della fine del dibattito. Giobbe dunque continua a parlare, non ha esaurito le sue argomentazioni. L'unico suo interlocutore è ormai solo Dio, dato il ritiro, nell'ombra, degli amici. Si tratta di un monologo, è il discorso più lungo di Giobbe (cc. 29-31). Esso contiene l'appello e la sfida con cui Giobbe sollecita intensamente l'intervento di Dio. Giobbe rievoca il suo passato caratterizzato dalla comunione con Dio e dal trionfo della sua giustizia (c. 29); rileva il contrasto con il presente sconvolto dall'amarezza e dalla riprovazione di Dio e degli uomini, anche di coloro che egli aveva soccorso (c. 30); infine, un grande spazio è occupato da una dichiarazione d'innocenza espressa in parte nella singolare forma di un giuramento con imprecazione (c. 31). La confessione di Dio anche nella prova costituisce la testimonianza della fede di Giobbe.

29,2-6. Giobbe ricorda con nostalgia, con desiderio, il suo inizio caratterizzato dalla protezione e dalla benedizione di Dio. Era il tempo in cui Dio lo proteggeva (šmr, v. 2b) e non lo sorvegliava (šmr, cfr. 10,14; 13,27; 14,16) per punire il suo peccato. Allora, Dio era fonte di luce; Dio era con lui e non contro di lui. Quel tempo era «l'autunno» della vita (v. 4a); come in Prv 20,4 «autunno» pare indicare il principio dell'anno, il tempo del primo raccolto e della semina, e dunque riferirsi metaforicamente alla giovinezza. L'immagine iperbolica che conclude la sezione (v. 6; cfr. 20,17; Es 3,8; Dt 32,13; 33,24; Sal 81,17) è tesa a mettere in risalto il diletto e il gaudio di Giobbe, e la sovrabbondanza di beni connessi all'inesauribile benevolenza di Dio (cfr. 10,12).

vv.7-11. La presenza salvifica e la prossimità di Dio comportavano la realizzazione umana e il successo. Pertanto ora Giobbe descrive l'onore che la sua gente gli rendeva. I tratti patriarcali della presentazione iniziale di Giobbe (cfr. 1,3-4) vanno dunque completati in relazione all'articolato tessuto sociale urbano, nel quale egli vive, con le sue istituzioni e consuetudini, con le sue regole e ideali di vita. Giobbe infatti rammenta che disponeva del seggio alla porta della città (v. 7; cfr. Rt 4,1a; Prv 31,23), la sede in cui abitualmente gli anziani si radunavano per dirimere le varie questioni di ordine giudiziario o per altri affari ed eventi pubblici (cfr. 31,21; Dt 21,19; 22,15; 25,7; Gs 20,4; Rt 4,11; ecc.). La stima per Giobbe era unanime e senza riserve da parte di tutti (cfr. vv. 21-25).

vv. 12-17 Giobbe si distingueva nell'impegno per il diritto dei poveri, nel compimento della giustizia, che è ciò di cui asserisce essersi rivestito (v. 14) e a cui egli, ora, non intende rinunciare (cfr. 27,5-6). Di grande rilievo è il titolo che Giobbe si attribuisce: «padre per i poveri» (v. 16a). Esso rimanda alla tradizione degli epiteti regali nel Vicino Oriente Antico. I titoli che i re dei popoli della Mesopotamia, fin dal terzo millennio a.C., si attribuivano nelle loro iscrizioni, riferiscono della loro potenza e della designazione divina, talvolta rivelano le ambizioni di conquista, e di frequente vi ricorre un riferimento all'impegno del re in favore dei sudditi socialmente deboli (come le vedove e gli orfani), oltre alla preoccupazione per l'amministrazione della giustizia nel paese, come per incarico proveniente da un'investitura divina. Tali titoli regali sono stati riferiti, in Israele, a JHWH (cfr. Dt 10,17-18; Sal 68,6) che viene designato come re (cfr. Es 15,18; Is 52,7) e che sempre rende giustizia agli oppressi e li salva dal sopruso dei prepotenti (cfr. Es 22,21-22; 1Sam 2,8). Pertanto Giobbe sembra attribuirsi un epiteto regale, così come più avanti, per esprimere il suo ruolo di guida tra la sua gente, userà una similitudine centrata sulla figura del re (cfr. 29,25). Il concomitante convergere di tali elementi nel contesto di questo discorso pare non essere casuale, ma rispecchiare un preciso ideale, quello regale.

vv. 21-25. Ora Giobbe mette in risalto la qualità del suo insegnamento, riferendo gli effetti e le reazioni dei suoi uditori (vv. 21-23. Sulla similitudine dell'attesa della parola come acqua che stilla cfr. Dt 32,2; Os 6,3; Is 55, 10-11). Ancora una volta si ha la percezione che la capacità di Giobbe, la premura per la sua gente, scaturivano dalla fondamentale presenza e benevolenza di Dio nella sua vita, e si configuravano come partecipazione alla sollecitudine di Dio per il suo popolo, per l'uomo.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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