📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

Atteggiamenti sconsigliati 1Non contendere con un uomo potente, per non cadere nelle sue mani. 2Non litigare con un uomo ricco, perché non ti soverchi con il suo peso: l'oro infatti ha corrotto molti e ha fatto deviare il cuore dei re. 3Non contendere con un uomo chiacchierone e non aggiungere legna al suo fuoco. 4Non scherzare con l'uomo ignorante, perché non siano insultati i tuoi antenati. 5Non rimproverare un uomo che si converte dal peccato⊥: ricòrdati che tutti abbiamo delle colpe.

Il rispetto per gli anziani 6Non disprezzare un uomo quando è vecchio, perché anche tra noi alcuni invecchieranno. 7Non gioire per la morte di qualcuno: ricòrdati che tutti moriremo. 8Non disdegnare i discorsi dei saggi, medita piuttosto le loro massime, perché da loro imparerai la dottrina e potrai metterti a servizio dei grandi. 9Non trascurare i discorsi dei vecchi, perché anch'essi hanno imparato dai loro padri; da loro imparerai il discernimento e come rispondere nel momento del bisogno.

Regole di prudenza 10Non attizzare le braci del peccatore, per non bruciare nel fuoco della sua fiamma. 11Non recedere dalla presenza del violento, perché egli non tenda un agguato contro di te. 12Non fare prestiti a un uomo più forte di te e se gli hai prestato qualcosa, considerala perduta. 13Non garantire oltre le tue possibilità e se hai garantito, preòccupati di soddisfare. 14Non muovere causa a un giudice, perché lo giudicheranno tenendo conto del suo prestigio. 15Con un temerario non metterti in viaggio, perché non ti sia di peso; egli camminerà infatti secondo il suo capriccio e con lui andrai in rovina per la sua stoltezza. 16Non litigare con un uomo irascibile e non passare con lui per un luogo solitario, perché ai suoi occhi il sangue è come un nulla, dove non c'è possibilità di aiuto ti assalirà. 17Non consigliarti con un uomo stolto, perché non saprà mantenere il segreto. 18Davanti a uno straniero non fare nulla di nascosto, perché non sai che cosa ne seguirà. 19A un uomo qualsiasi non aprire il tuo cuore, perché potrebbe non esserti riconoscente.

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Approfondimenti

Il c.8 , privo di riferimenti religiosi espliciti, elenca alcune relazioni che mettono a rischio la “felicità” (v. 19b) della persona. Dopo la presentazione di dodici tipi di persone da cui guardarsi (vv. 1-4.10-18) e di cinque tipi da cui imparare (vv. 5-9), Ben Sira, concludendo, esorta a non manifestare il proprio cuore a chiunque. Bisogna discernere, per non incappare nei guai (v. 19).

vv. 1-4. Non bisogna entrare in contrasto con l'uomo potente (v. 1) e con quello dalla lingua lunga (v. 3); non si deve andare in giudizio con il ricco (v. 2) e scherzare con chi è privo di istruzione. I rischi: finire in potere del primo, essere schiacciato in tribunale dal denaro del ricco, aggiungere legna al fuoco del chiacchierone, coinvolgere i propri antenati nell'insulto dell'insipiente. Nel v. 2 una massima generale sull'oro: sullo sfondo si intravede la crescita del potere del denaro nella Palestina del III sec. a.C 8,5-9. Sono di scena i peccatori che si convertono (v. 5), i vecchi (vv. 6.9), il morto (v. 7) e i saggi (v. 8). L'uomo che abbandona la via del peccato, l'uomo invecchiato e perfino il morto hanno una funzione positiva nell'universo sapienziale di Ben Sira: ricordano che tutti siamo colpevoli (v. 5b), che la vecchiaia può cogliere anche noi (v. 6b), che tutti moriremo (v. 7b). Questo ricordo deve frenare la tendenza all'insulto, al disprezzo e all'irrisione. Ben Sira invita a fare attenzione ai discorsi (diegêma) dei saggi e degli anziani: il termine raro indica il narrare storico-religioso (vv. 8-9). Bisogna rivolgersi ai custodi del patrimonio orale di Israele: la trasmissione di massime e insegnamenti garantisce il successo nel servizio dei grandi (v. 8d) e nelle diverse circostanze della vita (v. 9d). L'anello della trasmissione (v. 9b) non deve interrompersi: deve risalire ai padri dei padri e scendere ai figli dei figli (cfr. Dt 4,9; 11,19; Sal 44,2; 78,3).

vv. 10-19. Seguono altri otto tipi di persone da cui guardarsi: il peccatore che può coinvolgere nel suo fuoco (v. 10), l'arrogante che tende insidie (v. 11), l'uomo più forte che chiede prestiti e non restituisce (v. 12; cfr. 29,1-7), il giudice che fa pendere le cause dalla sua parte (v. 14), l'avventuriero che porta su strade di rovina (v. 15), l'irascibile che non teme di aggredire mortalmente l'indifeso (v. 16), lo stolto che non mantiene i segreti (v. 17), lo straniero carico di incognite (v. 18). Circa la cauzione da fare secondo le proprie possibilità (v. 13), cfr. 29,20. Infine Ben Sira raccomanda di discernere oculatamente la persona a cui manifestare il proprio cuore, per non correre il rischio di perdere la propria felicità (v. 19). Il termine greco charis, che indica anche la “riconoscenza” (12,1), il “diritto”' (19,25b) e la “grazia” nel parlare (21,16), sembra avere qui il senso ampio, psicologico e materiale, di benessere, di felicità.

(cf. PIETRO FRANGELLI, Siracide – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Consigli vari sulla vita morale e sociale 1Non fare il male, perché il male non ti prenda. 2Stai lontano dall'iniquità ed essa si allontanerà da te. 3Figlio, non seminare nei solchi dell'ingiustizia per non raccoglierne sette volte tanto. 4Non domandare al Signore il potere né al re un posto di onore. 5Non farti giusto davanti al Signore⊥ né saggio davanti al re. 6Non cercare di divenire giudice se ti manca la forza di estirpare l'ingiustizia, perché temeresti di fronte al potente e getteresti una macchia sulla tua retta condotta. 7Non fare soprusi contro l'assemblea della città e non degradarti in mezzo al popolo. 8Non ti impigliare due volte nel peccato, perché neppure di uno resterai impunito. 9Non dire: “Egli guarderà all'abbondanza dei miei doni, e quando farò l'offerta al Dio altissimo, egli l'accetterà”. 10Non essere incostante nella tua preghiera e non trascurare di fare elemosina. 11Non deridere un uomo dall'animo amareggiato, perché c'è chi umilia e innalza. 12Non seminare menzogne contro tuo fratello e non fare qualcosa di simile all'amico. 13Non ricorrere mai alla menzogna: è un'abitudine che non porta alcun bene. 14Non parlare troppo nell'assemblea degli anziani e non ripetere le parole della tua preghiera. 15Non disprezzare il lavoro faticoso, in particolare l'agricoltura che Dio ha istituito. 16Non unirti alla moltitudine dei peccatori, ricòrdati che la collera divina non tarderà. 17Umìliati profondamente, perché castigo dell'empio sono fuoco e vermi.

Come comportarsi con gli amici e in famiglia 18Non cambiare un amico per interesse né un vero fratello per l'oro di Ofir. 19Non disdegnare una sposa saggia e buona,⊥ poiché la sua amabilità vale più dell'oro. 20Non maltrattare un servo che lavora fedelmente né l'operaio che si impegna totalmente. 21Ama il servo intelligente e non rifiutargli la libertà⊥. 22Hai bestiame? Abbine cura; se ti è utile, resti in tuo possesso. 23Hai figli? Educali e fa' loro piegare il collo fin dalla giovinezza. 24Hai figlie? Vigila sul loro corpo e non mostrare loro un volto troppo indulgente. 25Fa' sposare tua figlia e avrai compiuto un grande affare, ma dàlla a un uomo assennato. 26Hai una moglie secondo il tuo cuore? Non ripudiarla, ma se non le vuoi bene, non fidarti. 27Onora tuo padre con tutto il cuore e non dimenticare le doglie di tua madre. 28Ricorda che essi ti hanno generato: che cosa darai loro in cambio di quanto ti hanno dato?

Come comportarsi con i sacerdoti 29Con tutta l'anima temi il Signore e abbi riverenza per i suoi sacerdoti. 30Ama con tutta la forza chi ti ha creato e non trascurare i suoi ministri. 31Temi il Signore e onora il sacerdote, dàgli la sua parte, come ti è stato comandato: primizie, sacrifici di riparazione, offerta delle spalle, vittima di santificazione e primizie delle cose sante.

Come comportarsi con i poveri, gli afflitti e i malati 32Anche al povero tendi la tua mano, perché sia perfetta la tua benedizione. 33La tua generosità si estenda a ogni vivente, ma anche al morto non negare la tua pietà. 34Non evitare coloro che piangono e con gli afflitti móstrati afflitto. 35Non esitare a visitare un malato, perché per questo sarai amato. 36In tutte le tue opere ricòrdati della tua fine e non cadrai mai nel peccato.

_________________ Note

7,18 Ofir: era una regione celebre per l’oro raffinato che in essa si trovava.

7,21 Vedi Es 21,2-6; Dt 15,12-15.

7,26 Non ripudiarla: il divorzio, nella società ebraica, veniva deciso solo dal marito (Dt 22,13-21; 24,1-4).

7,31 La legge regolava, oltre alle primizie (Nm 18,11-18), anche la parte dei sacrifici che veniva destinata ai sacerdoti: vedi Lv 2,1-16; 5,1-13; Dt 18,3-4. Vedi anche Dt 14,28-29.

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Approfondimenti

Il c. 7 presenta una raccolta di massime eterogenee, per lo più introdotte dalla negazione «Non». In una prima serie, Ben Sira sconsiglia alcuni atteggiamenti collegati con arrivismo, la menzogna, la presunzione religiosa e la superbia (vv. 1-17); seguono istruzioni sul modo di comportarsi coi diversi componenti della famiglia (vv. 18-28) e con i ministri del Signore (vv. 29-31). Dopo un appello alla generosità verso i poveri, i malati e gli afflitti, il c. si chiude con il pensiero della fine, che tiene lontani dal peccato (vv. 32-36).

vv. 1-17. Ben Sira ammonisce di evitare il male (vv. 1-3) e di non chiedere posti di potere e di onore (vv. 4-6), di rispettare l'assemblea del popolo (v. 1) e di non peccare nella presunzione del perdono divino (vv. 8-9). Altri consigli riguardano la preghiera (vv. 10a.14b) e l'elemosina (v. 10b), la derisione (v. 11) e la menzogna (vv. 12-13), l'assemblea degli anziani (v. 14a), il lavoro faticoso (v. 15) e i peccatori (v. 16). L'invito all'umiltà e l'allusione al castigo dell'empio chiudono il brano (v. 17).

vv. 1-7. Un'affermazione chiave (v. 1) apre la prima serie di massime. Il male e l'ingiustizia si ritorcono contro chi li fa, moltiplicandosi «sette volte tanto» (cfr. 20,12b; 35,13b; 40,8; Gn 4,15.24; Mt 18,22). Segue la condanna dell'ambizione, con l'invito a non cercare posti di potere e di prestigio. Sullo stondo si intravedono le corti seleucide e tolemaiche, in cui il potere politico dei funzionari degenera in abusi già al tempo di Ben Sira (v. 4; cfr. 2Mac 3,4-13). Nei vv. 6-7 alcuni vedono un preciso personaggio storico: il sommo sacerdote Onia III, successore di Simone II, responsabile di avere adottato una politica protolemaica. Ma sembra eccessivo. Dal contesto è chiaro che il saggio deve tenere in gran conto «l'assemblea della città» (v. 7a; cfr. 1,30d; 4,7; Pr 5,14) e «degli anziani» (v. 14a).

vv. 8-17. Condannata la ricaduta nel peccato, Ben Sira assume toni cari ai profeti contro chi crede di essere religiosamente a posto, moltiplicando le offerte nel culto senza occuparsi della giustizia (cfr. 34,23-24; Pr 15,18; Is 1,10-16; Am 5,21-24). Dio non si lascia corrompere: guarda al pentimento, umilia e innalza (v. 11b). A lui bisogna rivolgere preghiere non impazienti, ma fiduciose e accompagnate dall'elemosina (vv. 10.14b); della sua collera bisogna sempre ricordarsi, per evitare l'assemblea dei peccatori (v. 16) e imparare ad umiliarsi. In nessun modo il saggio deve ricorrere alla menzogna (vv. 12-13) o cedere alle ciarle (v. 14a; cfr. 35,9b). Il castigo dell'empio è «fuoco e vermi» (v. 17b). All'ebr. «vermi» il traduttore gr. aggiunge il «fuoco»: forse c'è uno sviluppo di idee circa la concezione della retribuzione anche nell'aldilà, sviluppo maturato dopo la morte di Ben Sira. In 23,16f (il fuoco divora l'uomo impudico) e 39,29 (fuoco, grandine, fame e morte son creati per il castigo) viene documentata la concezione tradizionale del castigo su questa terra.

vv. 18-28. La nuova serie di massime mette a fuoco, nella logica sapienziale tradizionale, i rapporti con l'amico e il fratello (v. 18), la sposa (vv. 19.26), gli schiavi e i mercenari (vv. 20-21), il bestiame (v. 22), i figli e le figlie (vv. 23-25), il padre e la madre (vv. 27-28). I consigli sono diretti all'uomo: marito e padre, figlio e padrone. I temi tornano anche altrove: genitori (cfr. 3,1-16), amici (cfr. 6,5-17; 22,19-26), moglie (cfr. 26,13-18), figli (cfr. 30,1-13), figlie (cfr. 26,10-12; 42,9-14). Moglie e figli, servi e bestiame sono considerati come possesso dell'uomo, che ne giudica l'utilità (v. 22) e la bontà (v. 19), stabilendo uno stile di rigore (vv. 23-24) o di fiducia (v. 26) nei rapporti. Ben Sira mitiga il dato autoritario tradizionale, consigliando di non assumere l'interesse (diaphoros) come criterio ultimo di valutazione (v. 18; cfr. 27,1) e di non abusare con arbitrio della condizione di padrone. Un saggio amministratore dei propri beni accetta non solo l'invito a «non maltrattare» uno schiavo laborioso e verace (v. 20), ma anche l'esortazione ad «amare un servo saggio» (v. 21), concedendogli la liberazione prevista dalla legge (cfr. Es 21,2). Sugli schiavi cfr. anche 10,25; 23,10; 33,25-33. Il mercenario annuale e lo schiavo pigro, sul raccolto e su un gran lavoro, non sono consiglieri affidabili (cfr. 37,11hi). Rivolgendosi alla sfera familiare, Ben Sira consiglia benevolenza verso la sposa saggia, rigore verso i figli sin dalla giovinezza, vigilanza verso le figlie e oculatezza nello scegliere loro mariti assennati, ricordo grato verso i genitori impagabili per il dono della vita. Circa il «fidarsi» del v. 26b, cfr. nota a 6,7.

vv. 29-31. Dalla gloria dei genitori Ben Sira passa al timore di Dio e alle raccomandazioni verso i suoi ministri. Le espressioni «con tutto il cuore» (v. 27a), «con tutta l'anima» (v. 29a) e «con tutta la forza» (v. 30a), riferite la prima al padre e le altre al Signore e creatore, fungono da legame letterario (cfr. Dt 6,5; Mt 22,37), insieme con l'imperativo di onorare il padre e il sacerdote (doxazein: v. 27a.31a). Il rapporto con Dio è presentato come timore nei confronti della sua potenza (lo stesso verbo nei vv. 6c e 29a) e amore verso il creatore: tutto confluisce nel “timore del Signore”' (v. 31a), pienezza e radice della sapienza (1,16.20). Nei confronti dei sacerdoti e del culto il laico Ben Sira dimostra ammirazione convinta (cfr. 45,6-26; 47,8-10; 49,12; 50,1-21). Qui raccomanda di riverire i sacerdoti e di non abbandonarli. Il timore del Signore si manifesta nel dare onore al sacerdote, consegnandogli le offerte prescritte: primizie (cfr. Nm 18,11-18), sacrifici espiatori (cfr. Lv 5,6), parti delle vittime (cfr. Nm 6,19; Es 29,27), oblazioni (cfr. Lv 2,1-16).

vv. 32-36. L'attenzione si allarga a tutti i poveri: il merismo del v. 33 (ogni vivente e il morto) indica che le opere di misericordia non devono escludere nessuno. È un insegnamento che risale ai profeti e al Deuteronomio, per poi giungere al NT e al giudaismo rabbinico. La charis verso il morto (v. 33b) indica forse l'impegno per una decente sepoltura dei poveri (cfr. Tb 1,16-19), ma lascia intravedere anche la tradizione, prima osteggiata e poi tollerata, dei banchetti dopo la sepoltura e delle vivande ai morti (30,18; cfr. Dt 26,14; Ez 24,17; Tb 4,17). Segue l'invito a condividere il pianto e l'afflizione (cfr. Gb 30,25; Rm 12,15) e a visitare gli ammalati (Gb 2,11-13; Mt 25,39.44) sia per obbedire alla legge (Lv 19,18) che per riceverne in premio amore. In chiusura di c. un'esortazione generale a ricordarsi, in tutte le azioni, del fine ultimo della vita, per evitare il peccato. Dall'ebr. al gr. sembra esserci un allargamento di significato. Aperto dalla considerazione che il male va evitato perché si moltiplica a danno di chi lo fa, il c. approda all'idea che il peccato si può (e si deve) evitare pensando agli «ultimi giorni», al fine ultimo dell'uomo (v. 36). E la regola d'oro per evitare il peccato.

(cf. PIETRO FRANGELLI, Siracide – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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1e da amico non diventare nemico. La cattiva fama attira a sé vergogna e disprezzo: così accade al peccatore che è bugiardo.

Il dominio delle passioni 2Non ti abbandonare alla tua passione, perché il tuo vigore non venga abbattuto come un toro; 3divorerà le tue foglie e tu perderai i tuoi frutti, e ti ridurrà come un legno secco. 4Una passione malvagia rovina chi la possiede e lo fa oggetto di scherno per i nemici⊥.

La vera e la falsa amicizia 5Una bocca amabile moltiplica gli amici, una lingua affabile le buone relazioni. 6Siano molti quelli che vivono in pace con te, ma tuo consigliere uno su mille. 7Se vuoi farti un amico, mettilo alla prova e non fidarti subito di lui. 8C'è infatti chi è amico quando gli fa comodo, ma non resiste nel giorno della tua sventura. 9C'è anche l'amico che si cambia in nemico e scoprirà i vostri litigi a tuo disonore. 10C'è l'amico compagno di tavola, ma non resiste nel giorno della tua sventura. 11Nella tua fortuna sarà un altro te stesso e parlerà liberamente con i tuoi servi. 12Ma se sarai umiliato, si ergerà contro di te e si nasconderà dalla tua presenza. 13Tieniti lontano dai tuoi nemici e guàrdati anche dai tuoi amici. 14Un amico fedele è rifugio sicuro: chi lo trova, trova un tesoro. 15Per un amico fedele non c'è prezzo, non c'è misura per il suo valore. 16Un amico fedele è medicina che dà vita: lo troveranno quelli che temono il Signore. 17Chi teme il Signore sa scegliere gli amici: come è lui, tali saranno i suoi amici.

La ricerca della sapienza 18Figlio, sin dalla giovinezza ricerca l'istruzione e fino alla vecchiaia troverai la sapienza. 19Accòstati ad essa come uno che ara e che semina, e resta in attesa dei suoi buoni frutti; faticherai un po' per coltivarla, ma presto mangerai dei suoi prodotti. 20Quanto è difficile per lo stolto la sapienza! L'insensato non vi si applica; 21per lui peserà come una pietra di prova e non tarderà a gettarla via. 22La sapienza infatti è come dice il suo nome e non si manifesta a molti⊥. 23Ascolta, figlio, e accetta il mio pensiero, e non rifiutare il mio consiglio. 24Introduci i tuoi piedi nei suoi ceppi, il tuo collo nella sua catena. 25Piega la tua spalla e portala, non infastidirti dei suoi legami. 26Avvicìnati ad essa con tutta l'anima e con tutta la tua forza osserva le sue vie. 27Segui le sue orme, ricercala e ti si manifesterà, e quando l'hai raggiunta, non lasciarla. 28Alla fine in essa troverai riposo ed essa si cambierà per te in gioia. 29I suoi ceppi saranno per te una protezione potente e le sue catene una veste di gloria. 30Un ornamento d'oro ha su di sé e i suoi legami sono fili di porpora. 31Te ne rivestirai come di una splendida veste, te ne cingerai come di una corona magnifica.

32Figlio, se lo vuoi, diventerai saggio, se ci metti l'anima, sarai esperto in tutto. 33Se ti è caro ascoltare, imparerai, se porgerai l'orecchio, sarai saggio. 34Frequenta le riunioni degli anziani, e se qualcuno è saggio, unisciti a lui. 35Ascolta volentieri ogni discorso su Dio e le massime sagge non ti sfuggano. 36Se vedi una persona saggia, va' di buon mattino da lei, il tuo piede logori i gradini della sua porta. 37Rifletti sui precetti del Signore, medita sempre sui suoi comandamenti; egli renderà saldo il tuo cuore, e la sapienza che desideri ti sarà data.

_________________ Note

6,5-17 Il tema dell’amicizia verrà ripreso in 7,18; 11,29-12,18; 22,19-26; 37,1-6.

6,18-37 Nella sezione 6,18-14,19 compare l’insegnamento sapienziale tradizionale, come era stato presentato anche nel libro dei Proverbi. La sapienza si rivolge all’ascoltatore come un padre si rivolge al figlio o un maestro al discepolo (vedi già 2,1-11).

6,21 pietra di prova: veniva sollevata per dimostrare la propria forza.

6,36 6,36 il tuo piede logori i gradini della sua porta: per ottenere la sapienza non basta desiderarla; occorre frequentare i saggi, intrattenersi con loro.

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Approfondimenti

vv. 2-4. I tre vv. mettono in guardia contro la passione violenta. L'ebr. nepeš sembra riferirsi alla concupiscenza (v. 2a; cfr. 18,30-19,3); il gr. psyché pone l'accento sull'orgoglio. Comunque è una «passione malvagia» che porta alla rovina: si finisce a pezzi come un toro, senza foglie e senza frutti come un albero secco. Nell'AT l'albero simboleggia, tra l'altro, la potenza crescente ma caduca di una nazione (cfr. Dn 4,7-14 e Ez 31,3-14). Ben Sira ricorre al binomio albero/frutti in chiave pedagogico-religiosa (cfr. 27,6a). Il detto sapienziale di Gesù sugli alberi e sui frutti buoni o cattivi è inserito nella polemica antifarisaica (cfr. Mt 12,33-35). Vedi anche la maledizione del fico senza frutti, simbolo della sterile incredulità giudaica riprovata da Dio (cfr. Mc 11,12s.).

vv. 5-17. Ben Sira dedica tredici vv. alla vera e alla falsa amicizia. Dopo l'introduzione (vv. 5-6) invita ad essere cauti nella scelta degli amici (vv. 7-13); seguono tre annotazioni sull'amico fedele ed una conclusione sul legame amicizia-timore di Dio (vv. 14-17). Nessun libro biblico tratta dell'amicizia in modo così esteso come Sir (cfr. 7,18; 11,29-12,18; 22,19-26; 37,1-6).

vv. 5-6. Partendo da un'annotazione del libro dei Proverbi (cfr. Pr 15,1), Ben Sira sviluppa il tema dell'amabilità con cui la parola dell'uomo moltiplica amici, cortesie e conoscenze (plēthynein nel v. 5ab; polloi nel v. 6a). Nello stesso tempo Ben Sira raccomanda la qualità: uno su mille sia tuo consigliere. Il maestro apprezza la quantità, ma la circonda di sospetto (cfr. 16, 1).

vv. 7-13. Come la sapienza educatrice mette alla prova il figlio/discepolo (4,17e), così Ben Sira suggerisce di fare con l'amico, prima di fidarsi di lui (v. 7; cfr. 4,17e). Chi si fida subito, con troppa facilità, dimostra di essere leggero di animo e si espone a danneggiare se stesso col peccato (cfr. 19,4). La fiducia è un tema molto importante. Si comprendono così la grande attenzione suggerita nel cercare l'amico fedele e l'elenco dei difetti dei “falsi amici” (vv. 8-12): si avvicinano per interesse, ma la sventura li allontana; i banchetti e la fortuna li rendono presenti e familiari, ma l'umiliazione li rivela codardi e nemici. Riassuntivo e lapidario il v. 13: stare a distanza dai nemici, stare in guardia con gli amici.

vv. 14-17. Il tema della fiducia ponderata, in contrasto con quella frettolosa, sfocia in quello dell'amico fedele, medicina vitale (v. 16a), vero tesoro per il quale saltano le bilance: non c'è prezzo né peso corrispondente. Simili amici non possono essere ceduti in cambio (cfr. 7,18) di alcunché. Chi li trova? Coloro che temono il Signore. Essi, infatti, sono costanti nell'amicizia, cioè la “rendono stabile” (v. 17a). La stabilità rimanda alla somiglianza: sono amici fedeli coloro che sono simili e condividono i valori e l'osservanza della legge. L'uso del verbo “rendere stabile e retto” (euthynein: 6 volte nel Siracide e 7 nel resto dei LXX) collega tra loro temi come l'amicizia, il timore di Dio nella prova e la preghiera (cfr. 2,2.6; 37,15; 38,10; 49,9).

6,18-14,19. Dopo un nuovo invito ad accogliere la disciplina sin da giovane per diventare sapiente (cfr. 6,18-37), Ben Sira allarga ed approfondisce il suo insegnamento. Il suo “manuale” di vita fa da guida nei rapporti con Dio e col prossimo (cfr. 7,1-17), nella vita familiare, religiosa e sociale (cfr. 7,18-36), nelle situazioni rischiose che richiedono la prudenza della tradizione (cfr. 8,1-19). Sostenuto dalla sua esperienza e dall'amore alla verità, egli dà consigli per trattare con le donne e con gli uomini (cfr. 9,1-18), con i governanti e con le diverse categorie di persone (cfr. 10,1-31). Ben Sira educa alla fiducia in Dio (cfr. 11,1-34), a fare beneficenza (cfr. 12,1-18), a come comportarsi con i ricchi e con i poveri (cfr. 13,1-26), a fare buon uso della ricchezza (cfr. 14,1-19).

6,18-37. Il brano di 6,18-37 è un canto alfabetico che celebra la sapienza: il termine sophia apre e chiude la pericope (v. 18.37). Il tema è frequente (cfr. 4,11-19; 14,20-15,10) e troverà pieno sviluppo in 51,13-30. Per esortare alla sapienza (4,18-19), Ben Sira si serve qui di immagini prese dal lavoro dei campi (v. 19) e dalle competizioni sportive (v. 21.25), dalla vita carceraria (v. 24.29) e dal modo di vestire (vv. 30-31). Nei 22 distici si riscontrano l'introduzione (v. 18-22), una parte centrale (v. 23-31) e la conclusione (v. 32-37). Il vocativo «Figlio» scandisce ogni inizio di sezione (vv. 18.23.32).

vv. 18-22. Nell'introduzione, all'invito iniziale ad abbracciare la disciplina fin da giovane per arrivare alla vecchiaia ricco di sapienza (v. 18; cfr. 25,3-6), fanno seguito tre versetti (vv. 19-21) introdotti dalla congiunzione «come» (gr. hōs). Si tratta di due paragoni e di un'interiezione: il giovane deve accostarsi alla sapienza ed attendere i suoi frutti proprio “come” fa colui che ara e semina (v. 19). Ma “come” è aspra la sapienza per chi non ha disciplina e si scoraggia di fronte alla difficoltà (v. 20)! La sapienza, in verità, è “come” una grossa pietra, usata nelle gare, di cui si cerca di liberarsi quanto prima (v. 21). Il nome stesso – afferma Ben Sira (v. 22) – indica la natura. Forse si allude all'ebraico mûsăr, che significa sia «disciplina, legame», sia «nascosto, lontano».

vv. 23-31. Ben Sira rifa l'invito: i verbi abbracciare (epidedbomai: v. 18a) ed accogliere (ekdechomai: v. 23a) si richiamano nella forma e nel contenuto. Ma questa volta l'autore offre non la disciplina in generale, ma i suoi stessi consigli di padre e di educatore. Sullo sfondo c'è sempre il libro dei Proverbi (cfr. 4,10; 19,20). Parla della fatica nella ricerca (24-27), ma anche del riposo nel possesso della sapienza (vv. 28-31). Non mancano sfumature autobiografiche. Le varie parti del corpo (piedi, collo, spalle, testa), qui citate, alludono prima alla disciplina e poi al successo. Bisogna entrare nei ceppi e nei collari, nelle catene e sotto il peso della ricerca, per poi essere rivestiti della veste di gloria e della splendida corona della sapienza. L'ornamento d'oro e di porpora è simbolo di dignità regale e sacerdotale (50,11; cfr. Es 39,1-31), oltre che di virtù morali (cfr. Gb 19,9; 1Pt 5,5). Le immagini del peso e del giogo rimandano a Mt 11, 29-30.

vv. 32-37. Sono qui riassunte le condizioni per diventare saggi: volontà (v. 32a) e desiderio appassionato (v. 32b), amore e disponibilità all'ascolto (v. 33ab). Le condizioni, disposte in parallelo, evidenziano anche uno sviluppo. Il culmine è nell'amore per l'ascolto, in un atteggiamento di docile accoglienza della tradizione. Convinto che «l'uomo si associa a chi gli è simile» (13,16b), Ben Sira invita il “figlio” a cercare la compagnia degli anziani, depositari di saggezza umana e religiosa. Lo esorta a stare in mezzo a loro (v. 34; cfr. 7,14a), ad ascoltare volentieri discorsi ispirati da Dio (v. 35) e a cominciare le giornate sulla soglia della casa dei saggi (v. 36). In questo sviluppo del tema tradizionale della saggezza dei capelli bianchi (v. 18) l'elemento profano si intreccia con quello religioso. Non c'è separazione. Il versetto conclusivo lo ribadisce, quando lega l'osservanza della legge con il conseguimento della sapienza. A chi riflette sui comandamenti del Signore e li prende a cuore, egli fa dono di un cuore stabile (cfr. v. 20b: il cuore instabile) e colmo (v. 37d).

Cominciato con i toni foschi della “passione” che porta alla rovina – si tratti dell'orgoglio o della concupiscenza, poco interessa, perché entrambi segni di distruttiva chiusura su di sé – questo c. passa attraverso due “passioni” che possono rendere grande l'uomo: l'amicizia e il desiderio della sapienza. Entrambe trovano soddisfazione e stabilità nel rapporto con il Signore. Il timore di lui (v. 17) e la riflessione sui suoi precetti (v. 37) liberano l'uomo da passioni rovinose. Nello stesso tempo lo rendono capace di amicizie sicure e fedeli e lo fanno crescere nella sapienza autentica. Traspare dal c. tutta la fierezza umana, culturale e religiosa di un Ebreo, che non scende a compromessi con il mondo ellenistico. Ma si intravede anche la critica verso chi si è lasciato sedurre o non si lascia guidare docilmente dalla sapienza tradizionale.

(cf. PIETRO FRANGELLI, Siracide – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Non sfidare la pazienza e la bontà di Dio 1Non confidare nelle tue ricchezze e non dire: “Basto a me stesso”. 2Non seguire il tuo istinto e la tua forza, assecondando le passioni del tuo cuore. 3Non dire: “Chi mi dominerà?“⊥, perché il Signore senza dubbio farà giustizia. 4Non dire: “Ho peccato, e che cosa mi è successo?”, perché il Signore è paziente. 5Non essere troppo sicuro del perdono tanto da aggiungere peccato a peccato. 6Non dire: “La sua compassione è grande; mi perdonerà i molti peccati”, perché presso di lui c'è misericordia e ira, e il suo sdegno si riverserà sui peccatori. 7Non aspettare a convertirti al Signore e non rimandare di giorno in giorno, perché improvvisa scoppierà l'ira del Signore e al tempo del castigo sarai annientato. 8Non confidare in ricchezze ingiuste: non ti gioveranno nel giorno della sventura.

Prudenza nel parlare 9Non ventilare il grano a ogni vento e non camminare su qualsiasi sentiero: così fa il peccatore che è bugiardo. 10Sii costante nelle tue convinzioni⊥, ⌈e una sola sia la tua parola.⌉ 11Sii pronto nell'ascoltare e lento nel dare una risposta. 12Se conosci una cosa, rispondi al tuo prossimo; altrimenti metti la mano sulla tua bocca⊥. 13Nel parlare ci può essere gloria o disonore: la lingua dell'uomo è la sua rovina. 14Non procurarti la fama di maldicente e non tendere insidie con la lingua, poiché la vergogna è per il ladro e una condanna severa per l'uomo bugiardo⊥. 15Non sbagliare, né molto né poco, 6,1 e da amico non diventare nemico. La cattiva fama attira a sé vergogna e disprezzo: così accade al peccatore che è bugiardo. _________________ Note

**5,9 -6,1 ** Il tema della parola e del suo buon uso è frequente nel Siracide (vedi anche 14,1; 19,4-17; 20,1-8.18-31; 23,7-15; 27,11-29; 28,8-26; 37,16-18).

5,12 metti la mano sulla tua bocca: taci (vedi anche Gb 40,4).

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Approfondimenti

vv. 1-8. Il brano – dieci esortazioni negative in dieci distici – è delimitato dall'invito a «non confidare nelle ricchezze» (vv. 1.8). Nell'inclusione si registra anche uno sviluppo del tema: Ben Sira mette in guardia non contro la ricchezza tout court (v. 1), ma contro quella “ingiusta” acquisita con l'inganno e la menzogna (v. 8). Per quattro volte si invita a «non dire» cose contrarie alla verità sull'uomo e su Dio: no all'autosufficienza del «Questo mi basta» (v. 1b; cfr. 11,24) e all'arroganza del «Chi mi dominerà?» (v. 3a); no all'autoinganno di chi non vede le conseguenze negative del suo peccato (v. 4a) e alla presunzione di chi ritiene che la grande misericordia divina certamente «perdonerà i molti peccati» (v. 6a). Dopo l'avvertimento a non lasciarsi trascinare dal proprio impulso (v. 2) e a non accumulare peccato su peccato, Ben Sira sollecita l'immediata conversione al Signore. È questo il cuore del messaggio: «Non aspettare... non rimandare di giorno in giorno» (v. 7), perché l'ira del Signore è improvvisa (v. 7c). Nel c. precedente convertirsi dal rispetto umano si presenta anzitutto come “allontanamento dai peccati” (4,26); qui, per convertirsi, il ricco deve soprattutto «convertirsi al Signore» (v. 7a). Deve, cioè, demolire l'idolo della ricchezza, che crea una situazione falsa, e riconsiderare le conseguenze personali, sociali e religiose del suo peccato. Le ricchezze «di menzogna» (v. 8a ebr.) sono «ingiuste» (in gr.) due volte: sono frutto di inganno ai danni degli altri e ingannano colui che le possiede, inducendolo ad una fiducia che poi sarà delusa. Ben Sira smaschera, così, un «falso» antropologico e teologico e pone fine all'illusione di coloro che credono di trovare un'uscita di sicurezza – nel giorno della sventura – proprio nelle ricchezze (cfr. Lc 9,25). A ragione si parla dei vv. 1-8 come di un “compendio di teodicea”.

vv. 5,9-6,1. L'osservazione della vita di relazione continua: dopo l'invito al discernimento sicuro e stabile (vv. 9-10), Ben Sira raccomanda al discepolo l'ascolto e il silenzio (vv. 11-13), per non finire come il calunniatore e il ladro (v. 14), il nemico e il peccatore (6,1). Lessico e temi sono comuni alla letteratura sapienziale e frequenti nel Sir (cfr. 19,4-17; 20,1-8.18-31; 23,7-15; 27,11-29; 28,8-26; 37,16-18). Originale sembra, invece, la duplice metafora del «ventilare il grano a qualsiasi vento» per indicare la doppiezza e l'incostanza (v. 9a; cfr. Rt 3,2; Ger 15,7).

(cf. PIETRO FRANGELLI, Siracide – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Invito ad aiutare i poveri 1Figlio, non rifiutare al povero il necessario per la vita, non essere insensibile allo sguardo dei bisognosi. 2Non rattristare chi ha fame, non esasperare chi è in difficoltà. 3Non turbare un cuore già esasperato, non negare un dono al bisognoso. 4Non respingere la supplica del povero, non distogliere lo sguardo dall'indigente. 5Da chi ti chiede non distogliere lo sguardo, non dare a lui l'occasione di maledirti, 6perché se egli ti maledice nell'amarezza del cuore, il suo creatore ne esaudirà la preghiera. 7Fatti amare dalla comunità⊥ e davanti a un grande abbassa il capo. 8Porgi il tuo orecchio al povero⊥ e rendigli un saluto di pace con mitezza. 9Strappa l'oppresso dal potere dell'oppressore e non essere meschino quando giudichi. 10Sii come un padre per gli orfani, come un marito per la loro madre: sarai come un figlio dell'Altissimo, ed egli ti amerà più di tua madre.

La sapienza, maestra di vita 11La sapienza esalta i suoi figli e si prende cura di quanti la cercano. 12Chi ama la sapienza ama la vita, chi la cerca di buon mattino sarà ricolmo di gioia. 13Chi la possiede erediterà la gloria; dovunque vada, il Signore lo benedirà. 14Chi la venera rende culto a Dio, che è il Santo, e il Signore ama coloro che la amano. 15Chi l'ascolta giudicherà le nazioni, chi le presta attenzione vivrà tranquillo. 16Chi confida in lei l'avrà in eredità, i suoi discendenti ne conserveranno il possesso. 17Dapprima lo condurrà per vie tortuose⊥, gli incuterà timore e paura, lo tormenterà con la sua disciplina, finché possa fidarsi di lui e lo abbia provato con i suoi decreti; 18ma poi lo ricondurrà su una via diritta e lo allieterà, gli manifesterà i propri segreti⊥. 19Se invece egli batte una falsa strada, lo lascerà andare e lo consegnerà alla sua rovina.

Pudore e rispetto umano 20Tieni conto del momento e guàrdati dal male, e non avere vergogna di te stesso. 21C'è una vergogna che porta al peccato e c'è una vergogna che porta gloria e grazia. 22Non usare riguardi a tuo danno⊥ e non arrossire a tua rovina. 23Non astenerti dal parlare quando è necessario e non nascondere la tua sapienza per bellezza, 24poiché dalla parola si riconosce la sapienza e l'istruzione dai detti della lingua. 25Non contrastare la verità, ma arrossisci della tua ignoranza. 26Non vergognarti di confessare i tuoi peccati e non opporti alla corrente di un fiume. 27Non sottometterti a un uomo stolto, non essere parziale a favore di un potente. 28Lotta sino alla morte per la verità, il Signore Dio combatterà per te. 29Non essere arrogante nel tuo linguaggio, fiacco e indolente nelle opere. 30Non essere come un leone nella tua casa e capriccioso con i tuoi servi. 31La tua mano non sia tesa per prendere e poi chiusa nel restituire.

_________________ Note

4,15a Il testo ebraico reca: “Chi mi ascolta giudicherà secondo verità”.

4,20-31 Il contesto culturale dell’ellenismo, che spingeva gli Ebrei ad allontanarsi dalla loro tradizione religiosa per abbracciare uno stile di vita pagano, è all’origine di queste esortazioni.

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Approfondimenti

vv. 3,30-4,10. La pericope contiene un'insistente esortazione a intervenire a favore dei poveri. Dopo la riflessione sull'utilità religiosa e sociale dell'elemosina (vv. 30-31), il testo presenta due unità (4,1-6 e 4,7-10), chiuse entrambe da un riferimento al Signore (vv. 6b e 10c). Ai dieci imperativi negativi della prima parte fanno riscontro sette esortazioni positive nella seconda: l'esito è maledizione in un caso e accoglienza divina nell'altro. I motivi religiosi fanno intravedere l'universo spirituale giudaico in cui l'elemosina gioca un ruolo importante, intrecciandosi con i temi dell'espiazione dei peccati (v. 30), del povero difeso dal creatore (v. 6b) e dell'uomo gradito all'Altissimo (v. 10cd). 3,30-4,6. L'elemosina è un investimento per il futuro (v. 31). La riflessione sapienziale la presenta come più utile della ricchezza: lo scrigno che la tiene al sicuro è l'uomo che vive in miseria e non può attendere a lungo (cfr. 29,8-13; Lc 16,9). Sin dal II-II sec. a.C. l'elemosina è considerata come la giustizia per eccellenza, particolarmente in Tobia (1,3; 2,10; 4,7-11; 14,9-11) e in Ben Sira. Importante opera di misericordia nel giudaismo, entra nel NT e viene consigliata, insieme alla preghiera e al digiuno, come un dono al Padre (sinonimo di giustizia in Mt 6,1-4) e come un mezzo per liberarsi dal pericolo delle ricchezze (cfr. Lc 11,41; 12,33; per il NT, cfr. inoltre At 9,36; 10,4; 2Cor 9,12-15).

vv. 7-10. «Fatti amare dalla comunità» (v. 7a): l'invito a rendersi amabile all'interno dell'assemblea cittadina è un preludio a varie esortazioni concernenti i rapporti che un uomo di governo deve avere. La sapienza si presenta come guida al buon governo: sullo sfondo non le corti, ma la vita cittadina e familiare; non più una mentalità monarchica, ma un iniziale senso democratico. Referente ultimo è Dio (v. 10cd; cfr. Is 49,15). Egli ama di amore paterno e materno colui che si fa “amare” dalla comunità per l'umiltà verso gli anziani (v. 7b), la mansuetudine verso il povero (v. 8), il coraggio di fronte all'oppressore e la magnanimità nel giudizio (v. 9), la sollecitudine paterna e sponsale verso gli orfani e le vedove. In 35,15-22 Ben Sira riprenderà questa lezione sull'amore di Dio verso i vari tipi di poveri: solleciterà pratiche cultuali unite alla rettitudine morale e ricorderà che il Signore è «Padre degli orfani e difensore delle vedove» (Sal 68,6).

L'immagine biblica di padre e madre applicata a Dio sottolinea l'intensità e, insieme, la trascendenza dell'amore di Dio. L'Altissimo chiama suoi figli – e ama più di una madre – coloro che non si rifiutano di dare ai poveri il sostentamento (lett. «la vita»: 4,1) e li trattano con cuore di padre, di madre e di sposo. Questo vertice tematico è il punto di arrivo delle tre pericopi: partendo dai doveri verso i genitori, Ben Sira giunge a fondere l'orizzonte sociale con quello familiare mediante la stessa modellatura religiosa. Le relazioni interne alla “comunità” suppongono le diversità sociali: non intendono modificarle, ma solo umanizzarle, “salvarle” (3,1b). I mezzi sono l'ascolto (3,1a.29b) e l'obbedienza al volere del Signore (3,2.6b.22a). Gli ambiti sono la vita della famiglia con l'onore e l'aiuto da dare ai genitori, la sfera personale con la corretta considerazione della propria grandezza e dei propri limiti intellettuali e morali, la realtà sociale con la generosa dedizione ai diversi tipi di poveri. Si fa sempre più viva una certa dissonanza, nella concezione della persona, della famiglia e della società, tra il mondo giudaico-biblico e la cultura ellenistica.

vv. 4,11-6,17. Dopo un nuovo componimento sulla pedagogia della sapienza (4,11-19), Ben Sira continua ad esplorare la vita quotidiana. Nei cc. 4,20-6,17 presenta una nuova serie di consigli per mettere in guardia contro i rischi del rispetto umano (4,20-31) e delle “ricchezze ingiuste” (5,1-8), il cattivo uso della parola (5,9-6,1) e il potere della passione (6,2-4). In chiusura delinea un profilo del vero e del falso amico (6,5-17).

vv. 11-19. Il brano contiene un elogio della sapienza maestra di vita e vera educatrice. Nel v. 11 entra in scena la sapienza-madre, che si prende cura di quanti la cercano; nei vv. 12-16 sono elencati i vantaggi conseguiti dai suoi discepoli e dai loro discendenti; nei vv. 17-19 si descrive il metodo con cui essa mette alla prova la fedeltà del discepolo. Dal v. 15 l'ebr. usa la prima persona singolare: parla la sapienza personificata (cfr. Pr 1,23-25; 8,12-21; 9,1-6; Sir 24). Da vera educatrice, essa “porta in alto”, nobilita i figli (v. 1aa del gr.). Nel v. 11b dell'ebr. c'è un gioco di parole tra «figli» e «coloro che la comprendono». I “figli della sapienza” (cfr. anche Lc 7,35) fanno pensare ai figli che Dio ha «allevato e fatto crescere» (Is 1,2), come pure ai “figli della torah”, di cui parlano i rabbini. In Sir gr. una decina di verbi (per lo più al participio) esprimono il ricco rapporto dei figli con la sapienza: essi sono coloro che la cercano (v. 11b), la amano (vv. 12a.14b), le sono dietro sin dall'alba (v. 12b), la possiedono come caparra di gloria (v. 13a), le si consacrano (v. 14a), l'ascoltano (v. 15a), le prestano attenzione (v. 15b), le si affidano (v. 16a). Al centro il v. 14, che attribuisce valore cultuale al rapporto con la sapienza, assicurando che Dio stesso ricambia l'amore verso di essa. Dio è detto il Santo: già usato in Isaia (6,3), questo titolo è preferito dal Deuteroisaia (41,14.16.20; 45,11) ed è frequente nella letteratura giudaica tardiva: Sir 23,9; 43,10; 47,8; 48,20; Bar 4,22; 5,5. Nel v. 15b dell'ebr. il discepolo gusta l'intimità della casa della sapienza: sembra un'allusione alla relazione sponsale (cfr. 15,2; 51,17s.).

vv. 17-19. Nei vv. 15-19 il traduttore gr. evita la prima persona singolare per la sapienza (come fa l'ebr.): forse – ammesso che la prosopopea fosse presente nell'originale – ha voluto evitare accostamenti equivoci con Maat, la dea egizia della sapienza. In 6,24-25 Ben Sira si serve di nuovo dell'immagine della sapienza che cammina con il discepolo. Il tema più ampio della prova come esperienza pedagogica è frequente nel-l'AT: Gn 22,1; Es 15,25; Dt 8,2.16; 13,4; Sal 26,2. Ben Sira torna spesso sull'importanza della disciplina (mûsār / paideia) nella vita di chi teme Dio (32,14a) e nella educazione dei figli e degli insipienti (42,5b.8a): tutta la sua opera è una paideia (50,27a). Il discepolo che non accetta la disciplina, sarà abbandonato al suo destino (v. 19b: «caduta» in gr., «saccheggiatori» in ebr.). Persa la sapienza, è perso tutto. E con violenza.

vv. 20-31. Quasi a commento del v. 19, ecco un brano su colui che non sa capire le circostanze del suo tempo e non sa guardarsi dal male (v. 20): vergogna e dissimulazione non vengono benedette dal Signore (cfr. v. 13b), ma si trasformano in danno e caduta (v. 22). Forse si tratta di un discepolo alle prime armi, che non sa ancora distinguere «la vergogna che porta al peccato» dalla «vergogna che è onore e grazia» (v. 21). Ben Sira, che detterà in seguito una minuziosa “regola della vergogna” (41,16-27; cfr. anche 20,22-23), si incarica qui di liberare discepoli e correligionari dalle maschere che nascondono la loro identità in mezzo a una cultura straniera forte e invadente. Nei vv. 22-28 fa un elenco di imperativi che provocano al coraggio morale e religioso: la parola nel momento in cui è necessaria (vv. 23-24), l'accoglienza e la difesa della verità fino alla morte (vv. 25.28), il riconoscimento della propria ignoranza (v. 25b) e la confessione (omologein / šwb) dei propri peccati (v. 26a), la libertà di fronte allo stolto (qui forse indica l'apostata) e l'imparzialità nel giudizio di fronte al potente (v. 27). Si intravede sullo sfondo il “male” da cui guardarsi, il compromesso con l'ellenismo, che porterà alcuni Ebrei a nascondere la propria identità nel tempo della persecuzione di Antioco Epifane (cfr. 1Mac 1,12-15.41-51; 2Mac 4,11-16). L'effettiva “conversione dai peccati” comporta la confessione di essi (cfr. Lv 5,5), la restituzione (cfr. Nm 5,7-8) e l'umiliazione davanti al Signore (cfr. 1Re 21,29). Cfr. 2Sam 12,13; Sal 38,2-5; 51,6. Ben Sira giudica stolto cercare di evitare tale confessione: sarebbe come pensare che un uomo possa fermare la corrente di un fiume (v. 26b). Questa metafora naturale è presente in Achikar siriaco (2,65), dove, però, è usata per motivi completamente diversi. Qui sottolinea che il Signore combatte a fianco dei giusti (cfr. Es 14,14; Pr 18,10; 2Mac 14,15).

(cf. PIETRO FRANGELLI, Siracide – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Onorare il padre e la madre 1⊥Figli, ascoltate me, vostro padre, e agite in modo da essere salvati. 2Il Signore infatti ha glorificato il padre al di sopra dei figli e ha stabilito il diritto della madre sulla prole. 3Chi onora il padre espia i peccati⊥, 4chi onora sua madre è come chi accumula tesori. 5Chi onora il padre avrà gioia dai propri figli e sarà esaudito nel giorno della sua preghiera. 6Chi glorifica il padre vivrà a lungo, chi obbedisce al Signore darà consolazione alla madre. 7Chi teme il Signore, onora il padre e serve come padroni i suoi genitori. 8Con le azioni e con le parole onora tuo padre, perché scenda su di te la sua benedizione, 9poiché la benedizione del padre consolida le case dei figli, la maledizione della madre ne scalza le fondamenta. 10Non vantarti del disonore di tuo padre, perché il disonore del padre non è gloria per te; 11la gloria di un uomo dipende dall'onore di suo padre, vergogna per i figli è una madre nel disonore. 12Figlio, soccorri tuo padre nella vecchiaia, non contristarlo durante la sua vita. 13Sii indulgente, anche se perde il senno, e non disprezzarlo, mentre tu sei nel pieno vigore. 14L'opera buona verso il padre non sarà dimenticata, otterrà il perdono dei peccati, rinnoverà la tua casa. 15Nel giorno della tua tribolazione Dio si ricorderà di te, come brina al calore si scioglieranno i tuoi peccati. 16Chi abbandona il padre è come un bestemmiatore, chi insulta sua madre è maledetto dal Signore.

_ L’umiltà_ 17Figlio, compi le tue opere con mitezza, e sarai amato più di un uomo generoso. 18Quanto più sei grande, tanto più fatti umile, e troverai grazia davanti al Signore. 19Molti sono gli uomini orgogliosi e superbi, ma ai miti Dio rivela i suoi segreti. 20Perché grande è la potenza del Signore, e dagli umili egli è glorificato. 21Non cercare cose troppo difficili per te e non scrutare cose troppo grandi per te. 22Le cose che ti sono comandate, queste considera⊥: ⌈non hai bisogno di quelle nascoste.⌉ 23Non affaticarti in opere superflue, ti è stato mostrato infatti più di quanto possa comprendere la mente umana. 24La presunzione ha fatto smarrire molti e le cattive illusioni hanno fuorviato i loro pensieri. 25Se non hai le pupille, tu manchi di luce; se ti manca la scienza, non dare consigli. 26Un cuore ostinato alla fine cadrà nel male, chi ama il pericolo in esso si perderà.⊥ 27Un cuore ostinato sarà oppresso da affanni, il peccatore aggiungerà peccato a peccato. 28Per la misera condizione del superbo non c'è rimedio, perché in lui è radicata la pianta del male. 29Il cuore sapiente medita le parabole, un orecchio attento è quanto desidera il saggio.⊥ 30L'acqua spegne il fuoco che divampa, l'elemosina espia i peccati. 31Chi ricambia il bene provvede all'avvenire, al tempo della caduta troverà sostegno.

_________________ Note

3,1 Il rapporto figli-genitori è tema frequente nella letteratura sapienziale. La società antica trovava in questo rapporto armonioso (spesso però anche rapporto di dipendenza) uno dei suoi elementi costitutivi. Questo breve testo, nel quale l'autorità del padre è associata a quella della madre, può essere considerato un commento al quarto comandamento del decalogo.

3,17-25 L’umiltà a Il testo ebraico reca: “Figlio mio, nella ricchezza cammina con modestia”.

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Approfondimenti

vv. 3,1-4,10. Il comportamento verso i genitori (3,1-16), la condotta umile o superba (3,17-29), l'amore dei poveri (3,30-4,10): Ben Sira si spinge in questi ambiti dell'esistenza quotidiana per dimostrare la rispondenza sociale e religiosa di quanto ha detto nei capitoli precedenti sui legami tra sapienza e timore del Signore, osservanza della legge e amore. Dopo l'invito all'ascolto (v. 1), la prima pericope presenta il valore religioso dei doveri verso i genitori nell'introduzione (v. 2) e nella conclusione (v. 16). Seguono un commento in terza persona singolare al comandamento in parola (vv. 3-7), e un approfondimento con imperativi in seconda persona singolare (vv. 8.10.12-13), che si alternano con massime generali sui vantaggi della “pietà” verso il padre e la madre (vv. 9.11.14-15).

vv. 1-7. Nel decalogo il comandamento è accompagnato da una promessa (cfr. Es 20,12). Siracide ribadisce la promessa: «vivrà a lungo» colui che dà gloria al padre (v. 6a). Per il rispetto dei genitori nell'etica biblica, cfr. Es 21,17; Lv 20,9; Dt 5,16; Tb 4,3-4; 14,12-13; Pr 1,8; 6,20; Mt 15,3-6; Mc 7,9-13; Ef 6,2-3. L'espressione “vivere a lungo” (makroēmereuein è quasi esclusivo della traduzione greca di Dt) compare in connessione con la legge (cfr. Dt 32,47 e pure Dt 5,33; 6,2; 11,9.21; Gdc 2,7). Siracide usa il verbo (solo qui) e ricorre al sostantivo – solo lui in tutto l'AT greco – tre volte (cfr. 1,12.20; 30,22). Il messaggio sembra descrivere un arco completo: la “vita lunga” dell'uomo dipende sia dall'osservanza della legge, cioè dal timore del Signore e dalla sapienza, che dalla gioia (agalliama; l'ebr. ’ōrek, poetico, indica «lunghezza di tempo» e «lunghezza di animo». Cfr. Sir 30,22b; Pr 3,2.16; 25,15). Altro bene derivante dal rispetto dei genitori è l'espiazione dei peccati (vv. 3a.14b.15b). Essi si sciolgono come brina: segno del ristabilirsi dell'ordine nel quale padre e madre sono collaboratori di Dio nel governo del mondo. Non meraviglia, quindi, se i genitori sono detti «padroni» (v. 7b), con un termine – despotés - che è titolo divino nei LXX (cfr. 23,1). Per l'espiazione: cfr. 3,30b (elemosina ed espiazione); 28,5 (perdono fraterno come condizione per l'espiazione); 34,23 (sacrifici di ingiustizia ed espiazione); 45,16.23 (Aronne e Finees compirono l'espiazione per Israele).

vv. 8-16. La responsabilità verso i genitori comporta “servizi” (v. 7b) «a fatti e a parole» (v. 8a; cfr. Sal 78,36-37; Is 29,13; Mt 21,28-31); bisogna onorarli «con tutto il cuore» (7,27), senza doppiezza. È un servizio che manifesta il timore del Signore e merita quella benedizione paterna (v. 9a), che l'AT ha in grande onore: Gn 9,27; 27,27-38; 28,1.6; 48,15-16; 49,25-26. Il parallelismo antitetico tra «benedizione del padre» e «maledizione della madre» (v. 9) enfatizza un unico messaggio senza opporre il padre alla madre. Il greco trasforma la metafora agricola di Ben Sira in un'immagine più familiare ai nuovi lettori: dal “far mettere radici e sradicare” – che ricorda le “radici dei giusti” (Pr 12,3) – si passa alle “fondamenta della casa” consolidate o scalzate dalla benedizione/maledizione dei genitori. Il movimento semantico, nella «pietà» verso il padre (3,14a), va dall'ebr. _ṣᵉdāqâ al gr. eleēmosynē: la pietà richiesta non è mero sentimento di compassione, ma opera concreta di aiuto e di giustizia. Comincia dai genitori quell'elemosina che Ben Sira – con tutto il giudaismo – raccomanda di dare al povero e ad ogni vivente (7,32) in espiazione dei peccati (3,30). La conclusione ribadisce che abbandonare e disprezzare i genitori è bestemmia che non rimane impunita. Tutta la tradizione deuteronomistica e sapienziale ricorda che «Chi rovina il padre e fa fuggire la madre è un figlio disonorato e infame» (Pr 19,26), che «vedrà spegnersi la sua lucerna nel cuore delle tenebre» (Pr 20, 0; cfr. Dt 27,16; Pr 30,17).

vv. 17-29. Questa pericope, dopo aver esposto al figlio i vantaggi morali e religiosi dell'umiltà (vv. 17-20), presenta argomenti contro la presunzione intellettuale (vv. 21-25) e l'insipienza del superbo (vv. 26-28). In chiusura il netto contrasto con la capacità di ascolto e di riflessione del saggio (v. 29). «Sii modesto»: si raccomanda la mansuetudine (1,27; cfr. 45,4), quella mitezza che è coscienza dei limiti, verità e sincerità della creatura peccatrice davanti a Dio. «tanto più umiliati»: Ben Sira, sapendo che «c'è chi umilia e innalza» (7,11), si fa attento alla tapeinōsis, l'umiliazione e la bassezza sociale (cfr. 20,11). Il paradosso rimanda a Lc 1,52. Cfr. anche Sir 2,4-5; 11,12; 13,20. «le cose troppo difficili per te»: Ben Sira mette in guardia contro lo spirito razionalista della filosofia greca. Esso può costituire una minaccia per la fede, che ha fatto conoscere agli Ebrei «più di quanto comprende un'intelligenza umana» (v. 23b). Il metro è sempre nel timore del Signore (cfr. 19,24). Dietro a coloro che «si sono smarriti per la loro presunzione» (v. 24a; cfr. 51,13) si possono intravedere anche le deviazioni dottrinali in seno al giudaismo. Il GrII qualifica la loro situazione come mancante di luce e di scienza (v. 25). Quando la pianta del male mette radici (v. 28b) non ci si può aspettare altro che l'aggravarsi del male e delle sue conseguenze. Nella logica deuteronomistica della retribuzione, il peccatore è come un matto che accumula peccati su peccati (v. 27b), pur sapendo che gli toccherà scontare in questa vita gli affanni corrispondenti. Eviterà il male colui che non ama il pericolo; al contrario del presuntuoso, il saggio cresce ogni giorno nell'ascolto e nella meditazione (v. 29). Il “cuore ostinato” (vv. 26a.27a) ricorda da un lato il “cuore indurito” del faraone (Es 7,14) e dall'altro il “cuore che ascolta” di Salomone (1Re 3,9). Con andamento anaforico, ecco poi il “cuore saggio” (v. 29a; cfr. Gb 9,4; Pr 10,8), che comprende le parabole dei sapienti. Forse vi è qui una sfumatura autobiografica (cfr. 51,14.16; Pr 23,15).

(cf. PIETRO FRANGELLI, Siracide – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Pazienza e fiducia nelle prove 1Figlio, se ti presenti per servire il Signore,⊥ prepàrati alla tentazione. 2Abbi un cuore retto e sii costante,⊥ non ti smarrire nel tempo della prova. 3Stai unito a lui senza separartene, perché tu sia esaltato nei tuoi ultimi giorni. 4Accetta quanto ti capita e sii paziente nelle vicende dolorose, 5perché l'oro si prova con il fuoco e gli uomini ben accetti nel crogiuolo del dolore. ⌈Nelle malattie e nella povertà confida in lui.⌉ 6Affìdati a lui ed egli ti aiuterà, raddrizza le tue vie e spera in lui⊥. 7Voi che temete il Signore, aspettate la sua misericordia e non deviate, per non cadere. 8Voi che temete il Signore, confidate in lui, e la vostra ricompensa non verrà meno. 9Voi che temete il Signore, sperate nei suoi benefici, nella felicità eterna e nella misericordia, ⌈poiché la sua ricompensa è un dono eterno e gioioso.⌉ 10Considerate le generazioni passate e riflettete: chi ha confidato nel Signore ed è rimasto deluso? O chi ha perseverato nel suo timore e fu abbandonato? O chi lo ha invocato e da lui è stato trascurato? 11Perché il Signore è clemente e misericordioso, perdona i peccati e salva al momento della tribolazione⊥.

I frutti del timore del Signore 12Guai ai cuori pavidi e alle mani indolenti e al peccatore che cammina su due strade! 13Guai al cuore indolente che non ha fede, perché non avrà protezione. 14Guai a voi che avete perduto la perseveranza⊥: che cosa farete quando il Signore verrà a visitarvi? 15Quelli che temono il Signore non disobbediscono alle sue parole, quelli che lo amano seguono le sue vie. 16Quelli che temono il Signore cercano di piacergli, quelli che lo amano si saziano della legge. 17Quelli che temono il Signore tengono pronti i loro cuori e si umiliano al suo cospetto.⊥ 18“Gettiamoci nelle mani del Signore e non in quelle degli uomini;⌉ poiché come è la sua grandezza, così è anche la sua misericordia”.

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Approfondimenti

vv. 1-18. Il Signore è «clemente e misericordioso, rimette i peccati e salva al momento della tribolazione» (2, 11). Su questo tema teologico Ben Sira innesta e sviluppa, nel secondo c., le idee religiose e le premesse sapienziali del primo. Il timore del Signore si manifesta nella prova e nell'obbedienza alla sua parola, matura nell'amore e nell'umiltà. Lo temono coloro che, sforzandosi di piacere a lui (v. 16a), aspettano da lui la ricompensa (vv. 3.7-9) e si saziano della sua legge (v. 16b). Stando uniti a lui senza separarsene (v. 3), si gettano nelle sue braccia misericordiose, piuttosto che in quelle degli uomini (v. 18). Al contrario, non lo temono i cuori pavidi e indolenti (vv. 12-13), i peccatori che camminano «su due strade» (v. 12) e coloro che hanno perso la pazienza (v. 14a). Le due parti del c. (vv. 1-11 e 12-18) sono chiuse entrambe da un'affermazione teologica sulla misericordia del Signore (vv. 11.18cd). La prima parte passa dall'aspirante discepolo (vv. 1-6, coi verbi all'imperativo della seconda persona singolare) al «Voi che temete il Signore» (vv. 8-10, coi verbi all'imperativo della seconda persona plurale); la seconda parte presenta tre «Guai» contro i peccatori (vv. 12-14) e tre descrizioni di «coloro che temono il Signore» (vv. 15-17). I quattro stichi del v. 18 chiudono il c. passando al “noi”: «Gettiamoci nelle braccia del Signore» (v. 18ab), la cui grandezza è pari alla misericordia (v. 18cd). Il ritmo ternario (tre vocativi in 7-9, tre interrogativi in 10bcd, tre «guai» in 12-14 e tre “timorati del Signore” in 15-17) conferisce al brano dinamismo e armonia.

vv. 1-11. Il vocativo «Figlio» è abituale nella letteratura sapienziale per rivolgersi ai propri discepoli (cfr. 3,12.17; 4,1; 6,18.23.32; 10,28; 11,10; 14,11; 31,22). A volte si trova il plurale (cfr. 3,1; 23,7; 39,13; 41,14; Pr 2,1; 3,1; 4,1). Frequente è pure l'uso dell'imperativo: dieci in questo brano, uno solo negativo (v. 2b). L'invito a «prepararsi alla tentazione» (v. 1b) anche nel servizio del Signore – il primo degli imperativi – rientra nella teoria deuteronomica della retribuzione: anche per Ben Sira la sofferenza dell'uomo virtuoso non è una punizione, ma una prova educativa. La sapienza stessa mette alla prova il discepolo «finché possa fidarsi di lui» (4,17e); Abramo viene lodato perché «nella prova fu trovato fedele» (44,20d); chi teme il Signore, in caso di tentazioni, sarà liberato (33,1). La funzione educativa della prova è raccomandata da Ben Sira anche nelle relazioni umane: «Se intendi farti un amico, mettilo alla prova e non fidarti subito di lui» (6,7). Cfr. anche Mt 6,13 e Lc 11,4 (preghiera e tentazione), Gc 1,2-4.12 (dopo la prova la pazienza e la corona della vita). Dal «prepararsi alla tentazione» (v. 1b) allo «sperare in lui» (v. 6b): il primo e l'ultimo imperativo contengono una sintesi del messaggio. Il secondo e il penultimo imperativo, con lo stesso verbo (euthynein, tenere dritto, raddrizzare: vv. 2a.6b), invitano a rendere fermi e retti il cuore e le vie: frequente il rifiuto della doppiezza ipocrita e incostante (cfr. 1,25b; 2,12b). L'imperativo «sii costante» (v. 2a), nel linguaggio del Siracide, marca la differenza del discepolo da falso amico (karterein ricorre solo qui e in 12,15. Cfr. At 2,42.44). Avendo fiducia nell'aiuto del Signore (cfr. 2,6a con 1,24b), il discepolo non si smarrirà nel tempo della seduzione (v. 2b) e accetterà tutto con animo grande (v. 4).

vv. 7-11. Il tema della misericordia del Signore (eleos) compare nella prima parte come oggetto dell'attesa e della speranza di chi teme il Signore (vv. 7a.9b); nella seconda come attributo di Dio pari alla sua grandezza (v. 18d; cfr. v. 11a). La misericordia è sintesi dei benefici del Signore, in una prospettiva sempre terrena (vv. 7-10; cfr. Is 35,10; 51,11). Eleos rende nei LXX l'ebraico ḥesed, che indica l'amoroso interesse di Dio per l'uomo come risultato del rapporto basato sull'alleanza. Dio è clemente e misericordioso (v. 11a; cfr. 50,19): eco della proclamazione del nome “misericordioso e pietoso” (cfr. Es 34,6; Sal 86,5.15; 103,8; Gl 2,13).

vv. 12-14. Aperti da una formula imprecatoria, questi vv. si riferiscono agli Ebrei che hanno perso la fiducia nel Signore e nelle sue promesse al popolo di Israele. Ormai camminano su «due strade» (v. 12b), sono incostanti e infedeli nel servizio del Signore. Vengono alla mente i rimproveri di Elia al popolo che zoppica con i due piedi, oscillando tra il Signore e Baal (1Re 18,21), e le osservazioni di Isaia circa l'instabilità di chi non ha fede (Is 7,9). La parentela letteraria e tematica di questi vv. con i profeti emerge anche dall'annunciata “visita” del Signore (v. 14b). Il verbo episkeptein ricorre sette volte nel Siracide. In quattro casi i soggetto è il Signore: l'Altissimo “sorveglia” le schiere celesti (17,32) e “interviene” in favore dell'umile che prega (35,21). Negli altri due casi il verbo indica una “visita di giudizio”, accezione tipica del vocabolario profetico (cfr. 46,14). In 2,14 la “visita” si presenta come un giudizio a cui è impossibile sottrarsi. Qui il verbo pqd verosimilmente sotteso, non indica l'intervento salvifico di Dio (Es 4,31; Sof 2,7) o la sorveglianza continua sull'uomo (Gb 7,18), ma come nei profeti questo verbo ha l'accezione di “visita punitiva” del Signore (Is 10,12; Ger 9,24). Ben Sira sembra proprio dire che gli Ebrei apostati subiranno la stessa sorte dei popoli e dei sovrani stranieri “visitati” da JHWH. Più avanti userà ancora il tono profetico del “Guai!”, rivolgendosi in modo esplicito contro chi ha lasciato la via dei padri per seguire la via dell'ellenismo: «Guai a voi, uomini empi, che avete abbandonato la legge di Dio altissimo» (41,8).

vv. 15-18. Dopo il ritratto negativo dei peccatori, quello positivo dei timorati del Signore. Un quadro di alta tensione spirituale: «temere il Signore» è amarlo e cercare di piacergli, non disobbedirgli ma saziarsi della sua legge, preparare il cuore e l'anima nell'umiltà per seguire le sue vie e per stare davanti a lui. L'esortazione finale a gettarsi nelle braccia del Signore misericordioso e non in quelle degli uomini (v. 18) svela ancora una volta gli intenti generali dell'opera di Ben Sira: fare riecheggiare la scelta sapiente del re Davide che, in un momento di angoscia, preferì cadere «nelle mani del Signore perché la sua misericordia è grande», piuttosto che in quelle degli uomini, suoi nemici (2Sam 24,14; cfr. anche 1Cr 21,13).

Conclusione. Ben Sira sa che la “prova” attende ogni discepolo: nessuno può evitare il tempo della seduzione (v. 2b), della tribolazione (v. 11b) e le situazioni umilianti (v. 4b). Bisogna prepararsi (vv. 1.17), convinti che la “brace dell'umiliazione” (v. 5b) ha un valore educativo (cfr. Gb 32-37). Il passato insegna la fedeltà di Dio verso chi ha “perseverato” nel suo timore (v. 10). Nasce un giudizio sul presente (vv. 12-14) e una richiesta per il futuro (i verbi dei vv. 15-17 sono al futuro). In sintesi – dice Ben Sira – bisogna saper “cadere” nelle braccia di Dio, da veri timorati e confidenti (vv. 3.18ab), per non cadere come il collerico (1,19b) o come l'orgoglioso (1,27a). Di fronte ai contrasti sociali e culturali, economici e religiosi del presente, la lezione di Ben Sira – pur riprendendo insegnamenti che dovevano essere frequenti di fronte al rischio di apostasia all'inizio del II secolo a.C. – non è scontata e ripetitiva: dalla teologia profetica (Is 51,1-3; Sal 22,4-6) e deuteronomistica (Dt 6,5-6; 10,12-13) egli attinge motivi di speranza e di amorevole fiducia. Lo sguardo si ferma su una vetta: chi ama il Signore rimane appagato, “sazio” della sua legge (2,16b; 32,15). All'invito alla fortezza nella prova si unisce l'annuncio dell'eleos del Signore. Perciò il c. viene titolato riferendosi ora al timore di Dio nella prova (ms. 248: “Sulla pazienza”) ed ora alla fiducia in lui.

(cf. PIETRO FRANGELLI, Siracide – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Prologo Molti e importanti insegnamenti ci sono dati dalla legge, dai profeti e dagli altri scritti successivi, per i quali è bene dar lode a Israele quanto a dottrina e sapienza. Però non è giusto che ne vengano a conoscenza solo quelli che li leggono, ma è bene che gli studiosi, con la parola e con gli scritti, si rendano utili a quelli che ne sono al di fuori.

Per questo motivo, mio nonno Gesù, dopo essersi dedicato per tanto tempo alla lettura della legge, dei profeti e degli altri libri dei nostri padri, avendone conseguito una notevole competenza, fu indotto pure lui a scrivere qualche cosa su ciò che riguarda la dottrina e la sapienza, perché gli amanti del sapere, assimilato anche questo, possano progredire sempre più nel vivere in maniera conforme alla legge.

Siete dunque invitati a farne la lettura con benevola attenzione e ad essere indulgenti se, nonostante l’impegno posto nella traduzione, sembrerà che non siamo riusciti a rendere la forza di certe espressioni. Difatti le cose dette in ebraico non hanno la medesima forza quando vengono tradotte in un’altra lingua. E non solamente quest’opera, ma anche la stessa legge, i profeti e il resto dei libri nel testo originale conservano un vantaggio non piccolo.

Nell’anno trentottesimo del re Evèrgete, anch’io, venuto in Egitto e fermatomi un poco, dopo avere scoperto che lo scritto è di grande valore educativo, ritenni necessario adoperarmi a tradurlo con diligente fatica. In tutto quel tempo, dopo avervi dedicato molte veglie e studi, ho portato a termine questo libro, che ora pubblico per quelli che, all’estero, desiderano istruirsi per conformare alla legge il proprio modo di vivere.

LA SAPIENZA GUIDA LA VITA DELL’UOMO (1,1-23,28)

La sapienza viene dal Signore 1Ogni sapienza viene dal Signore e con lui rimane per sempre. 2La sabbia del mare, le gocce della pioggia e i giorni dei secoli chi li potrà contare? 3L'altezza del cielo, la distesa della terra e le profondità dell'abisso chi le potrà esplorare?⊥ 4Prima d'ogni cosa fu creata la sapienza e l'intelligenza prudente è da sempre. 5Fonte della sapienza è la parola di Dio nei cieli, le sue vie sono i comandamenti eterni. 6La radice della sapienza a chi fu rivelata? E le sue sottigliezze chi le conosce? 7Ciò che insegna la sapienza a chi fu manifestato? La sua grande esperienza chi la comprende? 8Uno solo è il sapiente e incute timore, seduto sopra il suo trono. 9Il Signore stesso ha creato la sapienza, l'ha vista e l'ha misurata, l'ha effusa su tutte le sue opere, 10a ogni mortale l'ha donata con generosità, l'ha elargita a quelli che lo amano. ⌈L'amore del Signore è sapienza che dà gloria, a quanti egli appare, la dona perché lo contemplino.⌉

Il timore del Signore conduce alla sapienza 11Il timore del Signore è gloria e vanto, gioia e corona d'esultanza. 12Il timore del Signore allieta il cuore, dà gioia, diletto e lunga vita. ⌈Il timore del Signore è dono del Signore, esso conduce sui sentieri dell'amore.⌉ 13Chi teme il Signore avrà un esito felice, nel giorno della sua morte sarà benedetto.⊥ 14Principio di sapienza è temere il Signore; essa fu creata con i fedeli nel seno materno. 15Ha posto il suo nido tra gli uomini con fondamenta eterne, abiterà fedelmente con i loro discendenti.⊥ 16Pienezza di sapienza è temere il Signore; essa inebria di frutti i propri fedeli. 17Riempirà loro la casa di beni desiderabili e le dispense dei suoi prodotti. 18Corona di sapienza è il timore del Signore; essa fa fiorire pace e buona salute. L'una e l'altra sono doni di Dio per la pace ⌈e si estende il vanto per coloro che lo amano.⌉ 19Egli ha visto e misurato la sapienza, ha fatto piovere scienza e conoscenza intelligente, ha esaltato la gloria di quanti la possiedono. 20Radice di sapienza è temere il Signore, i suoi rami sono abbondanza di giorni.⊥ 21Il timore del Signore tiene lontani i peccati, chi vi persevera respinge ogni moto di collera. 22La collera ingiusta non si potrà scusare, il traboccare della sua passione sarà causa di rovina. 23Il paziente sopporta fino al momento giusto, ma alla fine sgorgherà la sua gioia. 24Fino al momento opportuno terrà nascoste le sue parole e le labbra di molti celebreranno la sua saggezza. 25Fra i tesori della sapienza ci sono massime sapienti, ma per il peccatore è obbrobrio la pietà verso Dio. 26Se desideri la sapienza, osserva i comandamenti e il Signore te la concederà. 27Il timore del Signore è sapienza e istruzione, egli si compiace della fedeltà e della mansuetudine. 28Non essere disobbediente al timore del Signore e non avvicinarti ad esso con cuore falso. 29Non essere ipocrita davanti agli uomini e fa' attenzione alle parole che dici. 30Non esaltarti, se non vuoi cadere e attirare su di te il disonore; il Signore svelerà i tuoi segreti e ti umilierà davanti all'assemblea, perché non ti sei avvicinato al timore del Signore e il tuo cuore è pieno d'inganno. _________________ Note

1,1-23,28 Questa prima sezione ha come tema fondamentale la sapienza, con i diversi significati che ad essa si possono attribuire. L’autore non si preoccupa di seguire un’articolazione logica in questa esposizione e si notano ripetizioni di uno stesso tema o delle medesime situazioni. La sapienza è vista come una prerogativa di Dio, come l’ordine che regola e dà armonia al creato, come dono che Dio offre all’uomo.

1,11-30 Come già nel libro dei Proverbi, che il Siracide ha presente, il timore del Signore è visto anche qui nel suo duplice aspetto di radice e culmine della sapienza (Pr 1,7). Già in queste prime battute, il Siracide ama collegare la sapienza con l’osservanza dei comandamenti.

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Approfondimenti

Il c. 1 presenta due componimenti poetici, uno dedicato alle caratteristiche della sapienza (1, 1-10) e l'altro al timore del Signore (1,11-30).

vv. 1-10. Il primo brano (vv. 1-10) è delimitato da due inclusioni: l'aggettivo pas (tutto/ogni: vv. 1a.9c-10a) e la preposizione meta (con/su: vv. 1.10a). Evidente l'intento religioso universalistico: Ben Sira vuole abbracciare ogni sapienza, nel rapporto con il Signore, con tutte le sue opere e con ogni vivente. Da Dio creata – e perciò solo a lui nota in profondità (vv. 4.9) – la sapienza passa dalla comunione con lui a tutte le sue opere, a tutti i viventi (vv. 6.9c-10). Non è conquista umana. Lo dicono alcune domande retoriche, con immagini sapienziali tipiche: contare i granelli di sabbia dei mari, le gocce di una pioggia e i giorni del tempo (v. 2); esplorare gli ultimi confini di cielo, terra e abisso (v. 3); accedere alla «radice» nascosta, ai «disegni» insondabili della sapienza (v. 6). Se questa è la condizione umana, cosa può fare l'uomo per ottenere la sapienza? Ben Sira riassume la risposta in una sola parola, l'ultima del brano: amare Dio, perché così la sapienza verrà data all'uomo in abbondanza (v. 10). Amare: l'unico verbo del brano che ha per soggetto l'uomo e caratterizza la sua risposta alla «generosità» di Dio. «Uno solo è sapiente» (v. 8): di fronte e al di sopra di tutte le creature, l'autore presenta la realtà unica e trascendente di Dio. L'immagine del trono (v. 8) richiama la sua sovranità spazio-temporale. Avendo creato la sapienza «prima di ogni cosa» (v. 4a), egli la conosce e possiede in modo intimo e peculiare, la rivela e la effonde su quanti lo amano (vv. 6.9-10).

vv. 1-5. Sono individuabili tre temi, concernenti «ogni» sapienza: l'origine e la natura religiosa, non secolare (vv. 1.8), l'inaccessibilità (vv. 2-3.8), la preesistenza (v. 4). I vv. ricordano vari testi sapienziali. L'origine della sapienza è in Dio (cfr. Gb 12,13; Pr 2,6; Sap 7,26; 9,4). La sua inaccessibilità risuona nelle prime pagine della Bibbia (Gn 1-2), in Gb 38,16, ma anche in Paolo: sia quando parla delle «vie inaccessibili» del Dio creatore e redentore (Rm 11, 33) sia quando si riferisce all'«imperscrutabile ricchezza» di Cristo (Ef 3,8), resa manifesta dal ministero dell'apostolo. Il verbo caratteristico è exichniazein (v. 3), che significa «seguire la pista, ricercare». Nel contesto della lettera agli Efesini sono riprese e applicate in modo irripetibile a Cristo e alla vita cristiana tematiche sapienziali: la sapienza della creazione si rivela in Cristo mediante la Chie-sa. Il tema della preesistenza (cfr. Gb 28, 12-23; Prv 8, 22-31 e Bar 3,20-32) collega sapienza e legge mosaica, che i rabbini consideravano preesistente (cfr. Ber. Rabba, 8).

vv. 6-10. In evidenza i temi teologici di Dio sapiente, sovrano terribile (v. 8), creatore e conoscitore della sapienza (v. 9ab), generoso nel donare (vv. 9c.10a). Il tema degli uomini arricchiti dal suo dono e chiamati ad una risposta di amore (v. 10b) chiude la pericope. La sapienza del creatore è celebrata anche in Giobbe (cfr. 9,4; 12,13; Pv 8,14) e nei profeti (cfr. Is 28,29; 40,12-14; Ger 10,12). Ben Sira riprende molti motivi di questo brano nell'inno alla grandezza di Dio in 42,15-43, 33. Nel racconto della vocazione di Isaia è presente l'immagine del «Signore seduto sopra il trono» (6, 1), segno della santità trascendente di Dio. Altrove il trono indica la sua autorità suprema di giudice (cfr. Sal 9,5) e di signore della storia (cfr. Sal 47,9). Cfr. anche Sap 9,4. Dio “vede e misura” la sapienza: cfr. Sir 1,19; Gb 28,27. Circa l'“effusione” della sapienza, ricordiamo Gl 3,1-2 e At 2,17-18: Dio “effonde” su ogni creatura il suo spirito. In At 2,33 è Gesù risorto che “effonde” lo Spirito Santo ricevuto dal Padre. Il verbo usato in Sir 1,9c è lo stesso che nei LXX e in At: exechein «effondere, riversare». I destinatari – «tutte le sue opere» e «ogni carne mortale» – sono introdotti rispettivamente da epi (su) e da meta (con). La diversa preposizione lascia intravedere una sfumatura: «ogni mortale», sia ebreo che pagano, riceve dal Signore il dono della sapienza in un modo che lo accomuna e insieme lo distingue dalle altre «opere» di Dio. Tutto ciò diventa manifesto nella risposta di “amore”: mentre le opere partecipano del dono, l'uomo entra consapevolmente in comunione con colui che dona. È una prima comparsa del tema della dignità dell'uomo, particolarmente caro a Ben Sira (16, 24-17,14). Una dignità che deve risplendere soprattutto tra i fedeli che abitano la «città amata» (24, 11) di Gerusalemme, sede di quella sapienza personificata che si lega alla legge della vita (17,9), al «libro dell'alleanza del Dio altissimo» (cfr. 24,23).

vv. 11-30. In questo secondo componimento poetico sono individuabili due sezioni: la prima illustra i legami tra il timore del Signore e la sapienza (11-21); la seconda presenta le istruzioni utili a quanti desiderano la sapienza (22-30). Dal punto di vista letterario qualcuno vi trova un canto alfabetico (riducendo i 24 distici a 22, come le lettere dell'alfabeto ebraico), che farebbe inclusione con l'acrostico alfabetico conclusivo (51,13-30). Ne deriva una cornice per tutta l'opera di Ben Sira: all'inizio un brano sul legame della sapienza col timore di Dio, alla fine un racconto sulla ricerca appassionata della sapienza. Altri canti alfabetici ricorrono in 5, 1-6, 4; 6,18-37; 49,1-16. In Siracide, come in genere nella poesia biblica (cfr. Dt 32; Prv 31,10-31; Sal 25; 34; 37; 119; Lam 1-4), una simile composizione scandisce meglio le parti dell'opera e conferisce unità e completezza al brano. L'intera pericope (vv. 11-30) si apre e si chiude col tema del timore del Signore: da un lato, esso è motivo di vanto ed allieta il cuore (vv. 11-12); dall'altro smaschera il cuore «pieno di inganno» (v. 30ef), che non lo ricerca veramente. L'esordio (vv. 11-12) mette in evidenza i caratteri peculiari del timore del Signore: esso è gloria e vanto, gioia e benedizione. Sono vantaggi personali e sociali. Al centro della religione di Ben Sira non c'è posto né per il terrore fisico della divinità, né per il complesso di inferiorità del Giudeo davanti al Greco. Il timore del Signore per Ben Sira ha un legame costitutivo con la sapienza: ne è principio (v. 14), pienezza (v. 16), corona(v. 18) e radice (v. 20). Tutta l'esperienza sapienziale è posta sotto il segno di quel timore, che «cancella i peccati» (v. 21). Seguono alcune massime sulla pazienza del sapiente (v. 22-24) e sull'acquisto della sapienza, che avviene mediante la fiduciosa osservanza dei comandamenti (vv. 25-27) ed il costante rifiuto di ogni ipocrisia verso Dio e verso gli uomini (vv. 28-30). La pedagogia religiosa di Ben Sira si arricchisce di un altro termine tecnico: l'«istruzione/mansuetudine» (v. 27a). Il greco paideia rimanda a mûsar e a torah e dona un'altra importante sfumatura al “timore del Signore”, vero tema centrale, anzi “totale” di Ben Sira. Quel “timore”, presente dodici volte nella pericope e unasessantina di volte nel libro, supera la frequenza del termine sophia.

vv. 11-13. Il «timore del Signore» ha qui il significato ampio di vita religiosa, colta nei suoi risvolti vantaggiosi quotidiani. C'è un legame intimo tra religione e morale; chi lo rispetta ne trae subito un utile. L'elenco dei beni abbraccia la dimensione personale (felicità e gioia), quella sociale (gloria e beni che allietano il cuore) e quella temporale (vita lunga che si conclude felicemente). Il tema della “benedizione” di Dio nel giorno della morte di colui che lo teme (v. 13b) sembra contenere, nel greco, una sfumatura escatologica.

vv. 14-21. Ora il timore del Signore è presentato come principio e radice (vv. 14.20), pienezza e corona (vv. 16.18) della sapienza. Ben Sira ricorre ad altre immagini per descrivere la sapienza: il seno materno, in cui essa viene creata insieme con la vita dei fedeli (v. 14b); il nido, che essa pone in modo stabile tra gli uomini (v. 15); la casa e i magazzini, che essa riempie dei suoi beni (v. 17); i polloni e i rami, segno dei suoi frutti (vv. 18b.20b). Quando la sapienza è radicata nel timore di Dio, dà come frutto una lunga vita (vv. 12b.20b), perché esso «cancella i peccati» e «terrà lontana ogni collera» (v. 21). Per il rapporto tra timore del Signore e sapienza, cfr. Sal 111,10; Gb 28,28; Prv 1,7; 9,10; 15,33.

vv. 22-24. La seconda sezione (vv. 22-30) inizia con un bozzetto sociale, che introduce la prima coppia di antitesi. Ben Sira ritrae due caratteri che raggiungono esiti diversi: colui che si adira senza motivo (v. 22) e colui che sopporta in silenzio (vv. 23-24). Il primo cade vittima della sua passione incontrollata, il secondo consegue serenità ed elogi. Cfr. 27,30 e 28,3. È il paziente che riesce a «persuadere il giudice» (cfr. Pr 25,15).

vv. 25-30. Questi vv. anticipano quanto verrà ben sintetizzato in 19,20. Il peccatore, convinto che l'essere religiosi è una cosa abominevole (v. 25b), non presta attenzione al timore del Signore che, attraverso la sapienza, porta all'amore di lui (cfr. 1,25-27; 2,15). Diverso è l'atteggiamento dell'uomo pio: teme il Signore e desidera la sapienza, fa tesoro delle «massime istruttive» (v. 25a) e «osserva i comandamenti» (v. 26a), attenendosi a “ciò che piace” al Signore (v. 27b: eudokia). La fiducia e la mansuetudine (pistis e praotes in v. 27b), di cui Dio «si compiace», escludono «doppiezza di cuore» (v. 28b), «pieno di inganno» (v. 30t), e si manifestano in fede docile verso di lui e umiltà generosa verso il prossimo. Ben Sira invita a eliminare l'ipocrisia e la menzogna dal cuore, sede dell'intelligenza e della libera volontà: alla verità delle parole di Dio non si addicono labbra bugiarde che «parlano con cuore doppio» (Sal 12,3). Cfr. la doppiezza della lingua (5,9c) e dell'animo (Gc 1,8; 4,8) e le «due strade» del peccatore (2,12). Vedi anche 5,14; 6,1; 28,13. Il messaggio è sempre lo stesso: chi teme il Signore è “lineare” e costante nel pensiero e nelle manifestazioni esterne. Emergono i primi dati di un umanesimo religioso rinnovato: chi si mantiene sincero e umile con Dio e con gli uomini non corre rischi di cadere (vv. 29-30ab). Agli occhi dell'assemblea (v. 30d; forse la sinagoga: cfr. Pr 5,14) colui che teme il Signore non subirà umiliazioni, ma conserverà gloria e lunga vita (cfr. vv. 11-12). L'identificazione di coloro che temono il Signore con gli “umili del Signore” conclude il primo capitolo, invitando a ripercorrere la linea biblica del “Magnificat”: Ez 17,24; Prv 11,2; Mt 23,12; Lc 1,52-53.

Conclusione. L'inizio del capitolo fonde l'atto di fede con la contemplazione e lascia affiorare due aspetti, che avranno grande rilievo in seguito: da un lato la sapienza come arola e istruzione, dall'altro la Sapienza come persona e comunione (cfr. Sir 24). Il NT accoglie il tema di Dio che istruisce (cfr. Gc 1,5) e si serve, con un senso teologico nuovo, della personificazione della sapienza per parlare del Verbo di Dio (v.5; Gv 1,1-2). Il primo brano (vv. 1-10) introduce a tutta l'opera con riflessioni sulla sapienza uni-versale, prima creatura del Signore e suo precipuo attributo, presente nelle profondità dello spazio e del tempo, do no di Dio a tutti i viventi che lo amano. La seconda parte (vv. 11-30) presenta il timore del Signore, che merita la considerazione di tutti gli uomini, non solo dei fedeli (vv. 10.14-15). Senza un tale timore non sono possibili né i beni tradizionali come la gloria, la felicità, la lunghezza di giorni (vv. 11-13), né l'accesso alla pienezza della sapienza e dei suoi frutti (vv. 1.8-10.14-20). Ben Sira isola l'atteggiamento del peccatore e dell'ipocrita. Si rivolge a colui che «desidera la sapienza» (v. 26a): lo invita a ricercare il timore del Signore (v. 30e), che consiste nell'amore (v. 10) e che si manifesta nell'osservanza dei comandamenti (v. 26a) e nella realizzazione di “ciò che a lui piace” (v. 27b). Così il Signore gli concederà la sapienza in abbondanza (vv. 10b.26b). Si può concludere che il primo capitolo offre una sorta di sintesi della teologia e dell'antropologia di Ben Sira, insieme con un primo efficace sguardo sulla complessità della sua impresa educativa: rilanciare l'autentica via giudaica alla sapienza, in un contesto da cui traspaiono passioni e lotte, ipocrisie e infedeltà, con rischi per la sopravvivenza non solo socio-economica, politica e culturale (vv. 22. 29-30ab), ma anche morale e religiosa delle persone e delle istituzioni giudaiche (vv. 28,30c-t). Non si può ignorare come l'intero capitolo punti al «cuore» dell'uomo (v. 30f), nel desiderio di convincerlo a «ricercare il timore del Signore» (v. 30e): solo così potrà riconoscere la verità delle parole iniziali del libro, e cioè che non c'è sapienza che non venga da parte del Signore (v. 1).

(cf. PIETRO FRANGELLI, Siracide – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Il passaggio del Mar Rosso e la disfatta degli Egiziani 1Sugli empi sovrastò sino alla fine una collera senza pietà, perché Dio prevedeva anche ciò che avrebbero fatto, 2cioè che, dopo aver loro permesso di andarsene e averli fatti partire in fretta, cambiato proposito, li avrebbero inseguiti. 3Mentre infatti erano ancora occupati nei lutti e piangevano sulle tombe dei morti, presero un'altra decisione insensata e inseguirono come fuggitivi quelli che già avevano pregato di partire. 4A questo estremo li spingeva un meritato destino, che li gettò nell'oblio delle cose passate, perché colmassero la punizione che ancora mancava ai loro tormenti, 5e mentre il tuo popolo intraprendeva un viaggio straordinario, essi incappassero in una morte singolare. 6Tutto il creato fu modellato di nuovo nella propria natura come prima, obbedendo ai tuoi comandi, perché i tuoi figli fossero preservati sani e salvi. 7Si vide la nube coprire d'ombra l'accampamento, terra asciutta emergere dove prima c'era acqua: il Mar Rosso divenne una strada senza ostacoli e flutti violenti una pianura piena d'erba; 8coloro che la tua mano proteggeva passarono con tutto il popolo, contemplando meravigliosi prodigi. 9Furono condotti al pascolo come cavalli e saltellarono come agnelli esultanti, celebrando te, Signore, che li avevi liberati. 10Ricordavano ancora le cose avvenute nel loro esilio: come la terra, invece di bestiame, produsse zanzare, come il fiume, invece di pesci, riversò una massa di rane. 11Più tardi videro anche una nuova generazione di uccelli, quando, spinti dall'appetito, chiesero cibi delicati; 12poiché, per appagarli, dal mare salirono quaglie.

Gli Egiziani più colpevoli degli abitanti di Sòdoma 13Sui peccatori invece piombarono i castighi non senza segni premonitori di fulmini fragorosi; essi soffrirono giustamente per le loro malvagità, perché avevano mostrato un odio tanto profondo verso lo straniero. 14Già altri infatti non avevano accolto gli sconosciuti che arrivavano, ma costoro ridussero in schiavitù gli ospiti che li avevano beneficati. 15Non solo: per i primi ci sarà un giudizio, perché accolsero ostilmente i forestieri; 16costoro invece, dopo averli festosamente accolti, quando già partecipavano ai loro diritti, li oppressero con lavori durissimi. 17Furono perciò colpiti da cecità, come quelli alla porta del giusto, quando, avvolti fra tenebre fitte, ognuno cercava l'ingresso della propria porta.

Dio è il Signore della natura e delle sue leggi 18Difatti gli elementi erano accordati diversamente, come nella cetra in cui le note variano la specie del ritmo, pur conservando sempre lo stesso tono, come è possibile dedurre da un'attenta considerazione degli avvenimenti. 19Infatti animali terrestri divennero acquatici, quelli che nuotavano passarono sulla terra. 20Il fuoco rafforzò nell'acqua la sua potenza e l'acqua dimenticò la sua proprietà naturale di spegnere. 21Le fiamme non consumavano le carni di fragili animali che vi camminavano sopra, né scioglievano quel celeste nutrimento di vita, simile alla brina e così facile a fondersi. 22In tutti i modi, o Signore, hai reso grande e glorioso il tuo popolo e non hai dimenticato di assisterlo in ogni momento e in ogni luogo.

_________________ Note

19,1 L’ultima riflessione sugli avvenimenti dell’esodo è collocata nella cornice delle acque del Mar Rosso. L’uscita di Israele dalle acque del Mar Rosso è celebrata come una nuova creazione, l’apparire di un mondo nuovo (vv. 6-12).

19,13 Mentre gli abitanti di Sòdoma avevano infierito su ospiti sconosciuti (Gen 19,1-11), gli Egiziani hanno violato l’ospitalità nei confronti di forestieri benèfici, quali erano stati gli Ebrei durante la loro permanenza in Egitto (in un primo tempo accolti benevolmente, vennero poi condannati a duri lavori).

19,17 Furono perciò colpiti da cecità: allusione alla piaga delle tenebre, con la quale Dio punì gli Egiziani (Es 10,21-28) e alla cecità che colpì gli abitanti di Sòdoma, alla porta della casa di Lot (chiamato qui giusto, vedi Gen 19,11).

19,18-22 Il libro si conclude con il ringraziamento e la lode a Dio, per la bontà con cui circonda il suo popolo e lo rende grande e glorioso (v. 22). Il ricordo del passato diviene così messaggio di fiducia per il presente e per il futuro.

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Approfondimenti

Il c. 19 presenta l'ultimo dei sette dittici: annegamento degli Egiziani nel Mar Rosso – passaggio e liberazione degli Israeliti (vv. 1-21). Il dittico è articolato in quattro brevi unità: v. 1-5: empi; vv. 6-12: popolo santo e creazione; vv. 13-17: empi; vv. 18-21: popolo santo e creazione. L'andamento è caratterizzato dall'alternanza dei soggetti: al giudizio storico sugli empi (vv. 1-5) corrisponde il loro giudizio escatologico (vv. 13-17); alla salvezza storica del popolo eletto (vv. 6-12) corrisponde la salvezza escatologica nella nuova creazione (vv. 18-21). L'autore, giunto all'ultimo dittico, che illustra il tracollo degli Egiziani e la salvezza degli Israeliti, opera un allargamento di prospettiva. Poiché è l'ultimo dittico, il definitivo, esso acquista un significato tipologico, per cui l'autore con naturalezza passa dal piano storico a quello escatologico, e la descrizione escatologica avviene sulla falsariga della creazione; sicché abbiamo qui una sintesi stupenda dei tre momenti della storia salvifica: esodo, creazione, escatologia.

vv. 1-5. La prima unità è articolata in tre «infatti» («perché infatti»: v. 1b; «mentre infatti»: v. 3a; «infatti»: v. 4a; il primo e il terzo mancano nella traduzione BC), introdotti dalla sentenza lapidaria iniziale sulla condanna degli empi (v. 1a). Il primo afferma la prescienza divina circa la condotta degli Egiziani (vv. 1b-2), il secondo illustra il voltafaccia di questi ultimi (v. 3), il terzo motiva teologicamente la loro morte come il colmo dei castighi (vv. 4-5); così lo «sdegno» iniziale (v. la) viene ora specificato come «morte» (v. 5c).

v. 1a. «sdegno»: è sinonimo di ira e ne sottolinea propriamente l'espressione esterna, in tal caso la calamità del Mar Rosso. Questo sdegno divino si contrappone alla precedente manifestazione dell'ira divina perché, a differenza di quella (cfr. 18, 20c), dura fino alla fine e dunque non può essere temperato dalla misericordia (cfr. «implacabile»); emerge con chiarezza il carattere ultimativo del presente castigo.

v. 1b-3. L'irrevocabilità del giudizio divino è giustificata dall'ostinazione egiziana a combattere gli Ebrei, ostinazione prevista da Dio, ma non certo voluta. Il v. 2 specifica concretamente ciò che Dio vede nella sua prescienza. Il v. 2ab fa riferimento a Es 12,31-33, dove dapprima faraone e poi il popolo fanno pressione perché Israele si affretti a partire; il v. 2c riprende Es 14,5-9, dove si narra il voltafaccia egiziano e l'inseguimento fino al mare. Il racconto di Esodo non menziona i riti di lutto e i lamenti funebri degli Egiziani, ma questi si possono dedurre implicitamente dal testo di Nm 33,4.

vv. 4.5. «destino»: se i Greci conoscono un destino personificato, che predetermina gli eventi in modo ineluttabile e misterioso, lo Pseudo-Salomone pur usando il medesimo termine gli dà un significato diverso: non si tratta di una necessità cieca, indipendente da Dio e dalla libertà umana, bensì della conseguenza del cieco e ostinato peccato egiziano. La lenta sequenza delle piaghe, fino all'ultima e drammatica moria dei primogeniti, voleva essere da parte di Dio un forte invito alla riflessione e al ravvedimento; ne era però scaturita soltanto una serie di rifiuti, l'ultimo dei quali davvero emblematico (cfr. v. 3). Con questa figura del destino l'autore intende dunque rappresentare drammaticamente il mistero del peccato, realtà inspiegabile, ma tristemente presente nella storia dell'uomo.

vv. 6-12. Questa seconda unità si apre con un versetto che funge da titolo e da principio generale: obbediente agli ordini, la creazione coopera alla salvezza di Israele (v. 6). L'esperienza del prodigioso passaggio del Mar Rosso (vv. 7-8) e il dono delle quaglie, evidenziato dal contrasto con le piaghe egiziane (vv. 10-12), convergono al centro dell'unità, il v. 9, che sottolinea infatti la lode di Israele a Dio salvatore.

v. 6. L'autore interpreta gli eventi miracolosi dell'esodo come un nuovo intervento creatore di Dio; egli riprende così il tema della partecipazione del cosmo alla lotta contro gli empi, a cui aveva dedicato un primo accenno in 5,17 e una lunga riflessione nel quinto dittico (16,15-29). Lo Pseudo-Salomone può aver pensato alla teoria filosofica del mutuo scambio degli elementi; il suo intento però è di sottolineare la docilità della natura al volere divino.

v. 7. Dopo il principio generale (cfr. v. 6) l'autore offre qui alcuni esempi dell'attività creatrice di Dio al momento dell'esodo. Anche se nella sua espressione letterale il v. 7a farebbe piuttosto pensare a Nm 10,34, si riferisce certamente a Es 14, 19.20, dove la colonna di nube viene a interporsi tra l'accampamento ebraico e gli inseguitori egiziani. La nube rappresenta la presenza di Dio in mezzo al suo popolo e il verbo «coprire d'ombra» ricorda l'espressione di Gn 1,2, dove lo spirito di Dio aleggia sulle acque; con ciò si vuole affermare che Dio è nuovamente all'opera con la sua potenza creatrice. Il parallelo col racconto della creazione continua al v. 7b, dove l'emergere improvviso della terra asciutta dalle acque richiama Gn 1,9, e anche al v. 7d, dove l'immagine della pianura verdeggiante rievoca la sequenza di Gn 1,11-13.

v. 9. La rievocazione storica diventa inno e preghiera, esprimendo così la partecipazione dell'autore e della sua generazione al cantico di Mosè (cfr. Es 15) e il valore attuale della liberazione pasquale. Due immagini simboleggiano questa lode-preghiera: la prima, quella dei cavalli alla pastura richiama un'immagine parallela di Is 63,11-14 e forse si contrappone al tracollo dei cavalli egiziani in mare (Es 14,28); la seconda, quella degli agnelli esultanti, richiama l'immagine del Sal 114,4.6 e fa pensare ai cori di danza di Maria e delle donne al mare (Es 15,20).

vv. 10-12. Se la rievocazione del miracolo del mare (vv. 7-8) era sfociata nella lode (v. 9), quest'ultima viene ulteriormente motivata da un nuovo argomento, dal ricordo cioè delle piaghe egiziane; il ricordo non solo permette di rievocare ciò che è passato, ma permette pure una nuova e più profonda comprensione di quegli eventi alla luce del nuovo intervento salvifico divino. Il v. 10b ricorda anzitutto la terza piaga (cfr. Es 8,12-15), rileggendola però alla luce di Gn 1,24-25; la piaga rappresenta così un sovvertimento nella prosperità della terra: invece di animali terrestri produce zanzare, cioè esseri alati. Il v. 10c rievoca la seconda piaga (cfr. Es 7,26-8,11) di nuovo alla luce del racconto della creazione; infatti l'acqua invece di animali acquatici (cfr. Gn 1,20-21) produce le rane, animali piuttosto terrestri. Queste produzioni “anomale” della terra e del fiume richiamano alla mente dell'autore un'altra produzione “anomala” del mare, questa volta però a favore degli Israeliti: il miracolo delle quaglie. Anche se cronologicamente l'episodio si colloca nel contesto delle peregrinazioni nel deserto (cfr. Es 16,13; Nm 11,31-32), viene qui anticipato a motivo del tema. Parlando di «produzione» (v. 11a) e passando sotto silenzio nell'espressione «salirono dal mare» la menzione del vento (cfr. Nm 1,31), lo Pseudo-Salomone vuole di nuovo rileggere il miracolo alla luce del racconto di Gn 1: il mare anziché animali acquatici produce animali volatili.

vv. 13-17. La presente unità riprende il tema della prima ma ne allarga pure l'orizzonte con l'introduzione dei Sodomiti, non menzionati per nome, e soprattutto col passaggio alla prospettiva escatologica. Tre sono i momenti del castigo divino: «castighi» (v. 13a), «giudizio» (v. 15a), «cecità» (v. 17a), accompagnati tutti da una riflessione comparativa col comportamento dei Sodomiti: vv. 13d-14; 15b-16; 17b.

v. 13abc. I castighi si riferiscono alla catastrofe finale de gli Egiziani menzionata sopra (vv. 1-5). Essi piombano terribili ed inaspettati; erano stati tuttavia preceduti dai segni premonitori dei fulmini (circa questa tradizione, assente nel racconto di Esodo, cfr. Sal 77, 18-19 e la ricca tradizione giudaica: Filone, Vit. Mos. 2, 254; Giuseppe Flavio, Ant. 2, 343-344; Targum Es 14,24 [N]); questi segni rappresentano l'estremo tentativo di Dio di indurre gli Egiziani alla riflessione e alla conversione.

vv. 13d-14. Si adduce ora la causa di quel castigo: l'odio degli Egiziani per gli stranieri (v. 13d). E questo un problema molto vivo al tempo dell'autore; si comprende allora perché venga particolarmente accentuato, ripreso più volte e paragonato al comportamento dei Sodomiti (v. 14a).

vv. 15-16. Una traduzione più accurata della BC ci permette di cogliere meglio il senso: «E non solo! Ci sarà un giudizio diverso per loro, perché (quelli) accolsero con odio degli stranieri; ma questi, dopo aver accolto con gioia persone che condividevano già i loro diritti, le oppressero con duri lavori». Col v. 15 si passa dal piano storico al piano escatologico: non solo le varie piaghe d'Egitto conducono all'ultima piaga della catastrofe del mare, ma quest'ultima, a sua volta, è la premessa del giudizio escatologico. Il termine «giudizio» significa letteralmente «visita»; si tratta appunto della visita escatologica, che sarà positiva per i giusti (cfr. 2,20 [BC = «soccorso»]; 3,7.9.13), negativa invece per gli Egiziani; essi diventano così tipo degli empi. Il confronto Sodomiti-Egiziani continua anche su questo piano escatologico. Circa i primi l'autore sottolinea anzitutto l'inospitalità senza alcuna allusione diretta ai loro peccati sessuali (cfr. Gn 19, 1-11), e poi prospetta nei loro confronti un giudizio meno sfavorevole; circa i secondi lo Pseudo-Salomone ne accentua la colpevolezza

v. 17. In questo contesto escatologico il versetto non vuole semplicemente rievocare la piaga delle tenebre, che egli ha già lungamente descritto (cfr. c. 17), bensì la cecità ad essa conseguente e cioè la condizione dell'uomo che vive fuori della torah, essendo essa la vera luce (cfr. 18,4). È da questa cecità che furono colpiti gli Egiziani, come un tempo i Sodomiti alla porta della casa di Lot (Gn 19,11). Contrapposto a loro sta il giusto Lot, che rappresenta l'Israele fedele alla legge, modello per la generazione contemporanea a cui l'autore si rivolge.

vv. 18-21. Riprendendo dalla seconda unità (vv. 6-12) il tema della creazione che coopera alla salvezza del popolo santo, l'autore in questi ultimi versetti descrive la nuova creazione; infatti la salvezza storica degli Ebrei anticipa e prefigura precisamente la salvezza escatologica, simboleggiata appunto dalla nuova creazione. Al versetto iniziale che funge da titolo e da principio generale (v. 18) segue una duplice coppia parallela: animali (v. 19) – elementi fisici (v. 20); animali (v. 21ab) – elementi fisici (v. 21cd). Essi illustrano il principio della intercambiabilità degli elementi, all'apice dei quali lo Pseudo-Salomone colloca il cibo incorruttibile della nuova creazione.

v. 18. Grazie alla teoria greca dell'intercambiabilità degli elementi l'autore paragona gli eventi miracolosi dell'esodo a quanto avviene nel suono dell'arpa: pur conservando la medesima tonalità, le note variano nel loro ritmo, così gli elementi della natura si scambiavano le loro proprietà, pur permanendo nella loro natura. Mentre nell'antica creazione ogni elemento era legato a determinate regole e proprietà (cfr. Gn 1), nella nuova creazione gli elementi sono ormai intercambiabili, sempre comunque dietro l'esclusiva iniziativa di Dio.

vv. 19-20. I due versetti offrono alcuni esempi tratti dal racconto delle piaghe sulla intercambiabilità degli esseri animali e degli elementi. Il v. 19a si riferisce verosimilmente agli Israeliti stessi e al loro bestiame, che avanzarono attraverso le acque come esseri acquatici; l'emistichio seguente invece ala piaga delle rane (cfr. Sap 19,10c; Es 7,26-8,11); il v. 20 ricorda chiaramente il fenomeno del fuoco che ardeva tra la grandine e folgoreggiava fra le piogge (16,22cd) e il fenomeno dell'acqua che dimenticava la propria virtù e ravvivava sempre più il fuoco

v. 21. Questo versetto ricorda ancora la nuova proprietà del fuoco che non consuma gli animali delle piaghe, specialmente le cavallette (cfr. 16,18), ma soprattutto vuole attirare l'attenzione sul nuovo cibo. Nel deserto Dio aveva dato agli Ebrei un cibo celeste, per tutti i gusti, resistente al fuoco, segno della parola che nutre, e tale da condurre l'uomo al ringraziamento (16, 20.21.22.26.28); qui ci viene presentato il cibo della nuova creazione, le cui caratteristiche ricalcano quelle della manna: è un cibo ambrosiaco (viene dal cielo e, implicitamente, è segno della parola), resistente al fuoco, cioè incorruttibile, tale dunque da suscitare la lode (cfr. v. 22). È la realtà della vita che qui trionfa: non soltanto nella nuova creazione gli elementi cambiano funzione in favore dei giusti, ma questi avranno un cibo celeste incorruttibile, datore dunque di incorruttibilità. E di questa che la salvezza storica degli Israeliti al mare e il dono delle quaglie (vv. 6-12) erano figura ed anticipazione.

v. 22. La seconda persona dei verbi e il vocativo «Signore» conferiscono a questo versetto finale la forma di dossologia, interpretando così nel modo più felice il pensiero dello Pseudo-Salomone. Egli, infatti, volgendo indietro lo sguardo a tutta la storia delle piaghe, non può non esprimere tutto il suo sentimento di ringraziamento, di riconoscenza e di lode a Dio. Al centro del versetto c'è il verbo «hai reso glorioso»; il parallelismo col verbo precedente «hai magnificato» potrebbe affievolire la forza del primo, sì da indurre a interpretarlo come un semplice onorare, glorificare. In realtà è alle grandi opere di Dio, ai magnalia Dei, che il nostro verbo fa riferimento, acquistando così un forte significato soteriologico. Ora l'ultimo termine con cui si chiude il libro, «assistendolo» (in greco è alla fine del versetto), sottolinea enfaticamente l'incessante presenza salvifica di Dio; è a questa presenza salvifica, e nello stesso tempo imponente e gloriosa, che fa riferimento il verbo «rendere glorioso», perché gloria (kabôd) indica appunto quanto in Dio è appariscente per l'uomo, l'imponenza della sua manifestazione, che è sempre manifestazione salvifica. È proprio su questa presenza divina nella storia che l'autore vuole terminare l'intero libro, prefigurazione e anticipazione di una presenza definitiva che di lì a poco tempo inaugurerà i nuovi tempi: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).

(cf. MICHELANGELO PRIOTTO, Cantico dei Cantici – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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La luce illumina il cammino degli Israeliti 1Per i tuoi santi invece c'era una luce grandissima; quegli altri, sentendone le voci, senza vederne l'aspetto, li proclamavano beati, perché non avevano sofferto come loro 2e li ringraziavano perché non nuocevano loro, pur avendo subìto un torto, e imploravano perdono delle passate inimicizie. 3Invece desti loro una colonna di fuoco, come guida di un viaggio sconosciuto e sole inoffensivo per un glorioso migrare in terra straniera. 4Meritavano di essere privati della luce e imprigionati nelle tenebre quelli che avevano tenuto chiusi in carcere i tuoi figli, per mezzo dei quali la luce incorruttibile della legge doveva essere concessa al mondo.

La morte dei nemici e la salvezza dei giusti 5Poiché essi avevano deliberato di uccidere i neonati dei santi – e un solo bambino fu esposto e salvato –, tu per castigo hai tolto di mezzo la moltitudine dei loro figli, facendoli perire tutti insieme nell'acqua impetuosa. 6Quella notte fu preannunciata ai nostri padri, perché avessero coraggio, sapendo bene a quali giuramenti avevano prestato fedeltà. 7Il tuo popolo infatti era in attesa della salvezza dei giusti, della rovina dei nemici. 8Difatti come punisti gli avversari, così glorificasti noi, chiamandoci a te. 9I figli santi dei giusti offrivano sacrifici in segreto e si imposero, concordi, questa legge divina: di condividere allo stesso modo successi e pericoli, intonando subito le sacre lodi dei padri. 10Faceva eco il grido discorde dei nemici e si diffondeva il lamento di quanti piangevano i figli. 11Con la stessa pena il servo era punito assieme al padrone, l'uomo comune soffriva le stesse pene del re. 12Tutti insieme, nello stesso modo, ebbero innumerevoli morti, e i vivi non bastavano a seppellirli, perché in un istante fu sterminata la loro prole più nobile. 13Quanti erano rimasti increduli a tutto per via delle loro magie, allo sterminio dei primogeniti confessarono che questo popolo era figlio di Dio. 14Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo rapido corso, 15la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale, guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio, portando, come spada affilata, il tuo decreto irrevocabile 16e, fermatasi, riempì tutto di morte; toccava il cielo e aveva i piedi sulla terra. 17Allora improvvisi fantasmi di sogni terribili li atterrivano e timori inattesi piombarono su di loro. 18Cadendo mezzi morti qua e là, mostravano quale fosse la causa della loro morte. 19Infatti i loro sogni terrificanti li avevano preavvisati, perché non morissero ignorando il motivo delle loro sofferenze.

Minaccia di sterminio per Israele e intercessione di Aronne_ 20L'esperienza della morte colpì anche i giusti e nel deserto ci fu il massacro di una moltitudine, ma l'ira non durò a lungo, 21perché un uomo irreprensibile si affrettò a difenderli, avendo portato le armi del suo ministero, la preghiera e l'incenso espiatorio; si oppose alla collera e mise fine alla sciagura, mostrando di essere il tuo servitore. 22Egli vinse la collera divina non con la forza del corpo né con la potenza delle armi, ma con la parola placò colui che castigava, ricordando i giuramenti e le alleanze dei padri. 23Quando ormai i morti erano caduti a mucchi gli uni sugli altri, egli, ergendosi là in mezzo, arrestò l'ira e le tagliò la strada che conduceva verso i viventi. 24Sulla sua veste lunga fino ai piedi portava tutto il mondo, le glorie dei padri scolpite su quattro file di pietre preziose e la tua maestà sopra il diadema della sua testa. 25Di fronte a queste insegne lo sterminatore indietreggiò, ebbe paura, perché bastava questa sola prova dell'ira divina.

_________________ Note

18,5-19 La strage dei primogeniti egiziani è narrata in Es 11-12. Ad essa viene contrapposta la salvezza dei figli dei giusti (vv. 7-8). La strage è il castigo inferto da Dio agli Egiziani, perché il loro re aveva ordinato di uccidere i figli maschi degli Ebrei (Es 1,16). La notte in cui questa strage avviene è presentata nella cornice della Pasqua: mentre gli Ebrei celebrano la festa di liberazione, gli Egiziani assistono impotenti alla morte dei primogeniti.

18,9 L’offerta dei sacrifici in segreto si riferisce all’immolazione dell’agnello pasquale. Le sacre lodi dei padri sono i salmi “pasquali”, quelli cioè che cantano le grandi opere di Dio in favore del suo popolo (Sal 113-118; 136).

18,20-25 Nel deserto ci fu anche un intervento punitivo da parte di Dio nei confronti del proprio popolo, che si era ribellato (ribellione di Core, Nm 16,1-3, e mormorazione di tutto Israele contro Mosè e Aronne, Nm 17,6-15). L’autore riflette su questo fatto e risponde all’obiezione di chi sostiene che non esisterebbe distinzione tra giusti e ingiusti. L’ira di Dio, egli dice, non durò a lungo (v. 20), ma venne placata dalla preghiera di Aronne (v. 21).

18,24 portava tutto il mondo: la veste sacerdotale con i suoi ricami era simbolo dell’universo; sulle pietre preziose del pettorale erano incisi i nomi dei capostipiti delle tribù d’Israele (dodici, disposti su quattro file); sul diadema era incisa la frase: “Consacrato al Signore” (Es 28,36; Sir 45,6-22).

18,25 lo sterminatore: personificazione del castigo o flagello di Dio (Nm 17,12-15).

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Approfondimenti

v. 1a. «santi»: il termine definisce spesso il popolo di Israele sottolineando sia l'azione misteriosa di JHWH (cfr. 10,15.17; 18,5), sia il dono della legge (cfr. 18,1.9). Nel nostro caso è proprio il dono di quest'ultima che permette a Israele, nonostante i suoi peccati, di usufruire dello statuto di santità. L'aggettivo possessivo che accompagna il titolo di «santi» aggiunge infine una nota d'affetto e di intimità, ben lontana da un mero rapporto giuridico e in stridente contrasto col freddo pronome «essi» con cui l'autore designa gli Egiziani.

vv. 1b-2. Il castigo divino che raggiunge gli empi comporta pure una loro presa di coscienza e un riconoscimento (che non significa tuttavia pentimento) del male commesso, come ad es. appare dalla confessione degli empi di Sap 5,4-13 e dal dittico seguente (cfr. 18,19).

v. 3. Dalla luce si passa alla colonna di fuoco, ripetutamente menzionata nei testi di Esodo (13,21-22; 14,19.24; cfr. Nm 14,14); l'autore opera così un allargamento d'orizzonte per sottolineare che, al di là dei tre giorni della piaga, Israele era sempre accompagnato dalla luce.

  1. Qui appare il significato ultimo della luce: essa rappresenta la legge stessa; si tratta di un'idea tradizionale biblica (cfr. Is 2,5; Pr 6,23; Sal 119,105), che l'autore riprende e approfondisce ulteriormente tramite l'aggettivo «incorruttibile». L'uomo è chiamato da Dio all'incorruttibilità (cfr. 2, 23; BC = «immortalità»), cioè a stare vicino a Dio (6,19); proprio per l'amore divino per la vita delle sue creature egli ha infuso in esse il suo spirito incorruttibile (12,1). Ma come potrà l'uomo concretamente rispondere a questa chiamata divina all'incorruttibilità? Precisamente osservando le leggi (6,19), cioè tramite questa torah donata da Dio a Israele! E proprio questa la luce incorruttibile che accompagna costantemente il popolo; esso la dovrà non solo accogliere e vivere, ma anche testimoniare e portare al mondo intero. Appare qui chiaro in quale senso lo Pseudo-Salomone concepisca l'identità di Israele e anche giustifichi la sua presenza in mezzo alle nazioni. In questo contesto il significato primitivo della piaga s'è enormemente dilatato: le tenebre egiziane rappresentano l'ignoranza della torah ed implicitamente la preclusione all'incorruttibilità.

vv. 5-25. La struttura del dittico è costituita fondamentalmente da due unità: vv. 6-19; 20-25. Il motivo principale della prima è dato dalla morte del primogeniti egiziani, fatto che comporta però anche la salvezza degli Israeliti tramite la celebrazione della Pasqua; la seconda unità ha invece come tema unico la salvezza del popolo eletto, ottenuta grazie all'intercessione di Aronne; il v. 5 introduce non solo il dittico in questione, ma anche il seguente del c. 19. Mentre i vv. 20-25 costituiscono un brano unitario e ben articolato, l'unità 6-19 è costruita su tre piccoli brani facilmente riconoscibili: la notte della salvezza (vv. 6-9), il grido degli Egiziani (vv. 10-13), l'azione del logos (vv. 14-19). Le due unità del sesto dittico sono letterariamente unite dal termine logos-parola (vv. 15.22); si tratta della corrispondenza più importante, sulla quale si basa la contrapposizione Ebrei-Egiziani: tramite la parola gli Egiziani sono colpiti a morte, tramite la parola intercessoria di Aronne gli Ebrei ottengono la liberazione dalla morte. All'epoca della Sapienza la Pasqua è diventata una chiave teologica per interpretare tutta la storia della salvezza, cosicché la rievocazione della Pasqua egiziana permette allo Pseudo-Salomone non solo di rimontare all'epoca dei patriarchi (cfr. 18, 6), ma soprattutto di sottolineare l'attualità di questa festa in quanto celebrazione d'alleanza e momento di forte attesa escatologica (cfr. 18,7-9). Nel contesto pasquale il giudizio sui primogeniti egiziani acquista una dimensione nuova, escatologica, a prima vista impensata, e anche l'intercessione di Aronne assume un forte carattere d'attualità.

v. 5. L'autore, giunto al termine di una storia di rifiuto, interpreta la decima piaga e l'annegamento degli Egiziani nel mare come segno della condanna di Dio. Si tratta di una condanna definitiva; infatti l'espressione «tutti insieme» con la sua sfumatura di totalità non lascia più spazio per ulteriori piaghe e soprattutto l'uso del verbo «far perire» richiama la perdizione che viene da Dio, al di là di una semplice catastrofe naturale (questo verbo compare sempre, direttamente o indirettamente, in contesti in cui si tratta della perdizione che proviene da Dio: 4,19; 12,6.12; 14,6; 18,19).

vv. 6-9. Quest'unità presenta una progressiva specificazione dei contenuti. Al preannuncio della Pasqua ai patriarchi (v. 6) segue l'attesa del popolo, qualificata dall'autore come duplice attesa: della salvezza per i giusti e della rovina per i nemici (v. 7). Il v. 8 riprende i due elementi, approfondendo però quello positivo; infatti la salvezza dei giusti viene specificata come chiamata e glorificazione di Israele (v. 8b). Infine la chiamata e la glorificazione di Israele sono ulteriormente precisate nella descrizione della celebrazione pasquale al v. 9.

v. 6. Lo Pseudo-Salomone interpreta la notte pasquale come il compimento di una parola già annunciata al patriarchi (cfr. G n 15, 13-14); i plurali «padri» e «promesse» invitano tuttavia a non limitare questo preannuncio pasquale a un momento storico, bensì a riferirlo al complesso delle promesse patriarcali, come fa ad es. il Targum Es 12,42. Caratteristica poi del nostro testo è l'evidenziazione della conseguenza di tale preannuncio: «cosicché... potessero rallegrarsene» (BC = «perché... stessero di buon animo»). In riferimento alle promesse sopra citate, si tratta verosimilmente non solo della gioia di Abramo per la futura liberazione dei suoi discendenti dalla schiavitù egiziana, ma anche della sua gioia per la nascita di Isacco e per la liberazione del medesimo al momento del sacrificio.

vv. 7-8. L'attesa dell'evento pasquale da parte del popolo di Dio presuppone non più l'epoca patriarcale, bensì l'ultimo tempo del soggiorno in Egitto. Al v. 8, tramite il pronome «ci», l'autore e la generazione del suo tempo entrano direttamente in scena come protagonisti di quella storia: attraverso il memoriale liturgico la storia passata diventa storia ed esperienza presente. Lo Pseudo-Salomone definisce gli Israeliti come «tuo popolo» e «giusti». Nel linguaggio biblico «popolo» è un appellativo quasi esclusivo di Israele, ma ciò che fonda questo stretto rapporto è piuttosto il genitivo che lo accompagna: «di Dio» o il pronome corrispondente. È in questa particolare relazione con Dio che Israele in quanto popolo nasce, è qualificato e trova la sua identità. L'appellativo «i giusti» a partire da Sap 10, 20 fino alla fine rappresenta sempre Israele; si tratta di un Israele ideale, sistematicamente contrapposto agli Egiziani e una volta ai Cananei (12,9), un Israele ideale perciò, che incarna storicamente la figura del giusto dei primi capitoli e che mostra come, nonostante la persecuzione, Dio lo conduce al successo. La chiamata di Dio del v. 8b è l'invito a celebrare il sacrificio pasquale (cfr. Es 3, 18; 5, 3), chiamata che continua ogni anno con la celebrazione della Pasqua fino all'epoca dell'autore (cfr. «ci»).

v. 9. «legge divina»: nel lungo capitolo di Es 12 il termine torah (legge) compare una volta sola al v. 49 a conclusione di una pericope dove, al di là delle singole prescrizioni rituali sulla Pasqua, il tema di fondo è costituito dalla circoncisione, condizione irrinunciabile per la partecipazione alla celebrazione pasquale; la circoncisione, infatti, è il segno dell'alleanza e dell'appartenenza al popolo eletto (Gn 17,1.14) e quindi anche la condizione per la partecipazione al culto. Alla luce di questo contesto la legge di Sap 18,9 designa più specificatamente il “patto”, temine nel quale converge il concetto di alleanza e, più velatamente, il concetto di circoncisione. Come già la tradizione biblica (cfr. 1Re 8,9.21; Ger 31,32) e specialmente quella targumica (cfr. ad es. il Targum Zc 9, 11), anche lo Pseudo-Salomone rilegge la Pasqua alla luce dell'alleanza, sicché questa festa diventa il momento dell'unità, dove attorno all'alleanza e alla circoncisione il popolo ritrova la sua vera identità. La partecipazione alla celebrazione pasquale si traduce in un impegno (cfr. «si imposero»), che però non è un semplice impegno di solidarietà fra uomini, bensì una fraternità profonda creata dall'accettazione del dono divino dell'alleanza; si tratta, infatti, della legge «della divinità» (BC = «divina»), dove la specificazione vuole precisamente sottolineare la dimensione soprannaturale e l'iniziativa gratuita di Dio in favore dell'uomo. «beni e pericoli»: l'impegno dei partecipanti alla celebrazione pasquale è caratterizzato, oltre che dall'umanità (cfr. «concordi»), soprattutto dalla disponibilità a condividere beni e pericoli; col termine «beni» l'autore allude certamente al dono della manna o delle quaglie o dell'acqua, ma soprattutto ai beni spirituali, cioè alle promesse divine, come apparirà chiaro nell'imminente episodio del deserto (vv. 20-25). «canti di lode dei padri»: si tratta del canto dell'Hallel; quella Pasqua preannunciata ai patriarchi (v. 6) è ora motivo di canto e di ringraziamento per la generazione dell'esodo, inizio di una lode che è giunta ininterrotta sino alla generazione dell'autore.

vv. 10-13. Questa breve unità descrive la reazione degli Egiziani alla strage dei loro primogeniti. L'unità si apre con il lamento degli Egiziani che piangono i figli e si chiude con il riconoscimento da parte dei medesimi Egiziani della figliolanza divina di Israele; il grido iniziale è discorde (v. 10a; BC = «confuso»), il riconoscimento finale invece è unanime (v. 13b).

v. 10. Lo Pseudo-Salomone parte dal dato tradizionale di Es 11,6 e 12,30, dove si accenna al grande grido che strazia l'Egitto dopo la morte dei primogeniti; la sua originalità consiste soprattutto nel confrontare questo grido disperato con il canto pasquale degli Ebrei.

vv. 11-12. «Schiavo-padrone» e «popolano-re»: indicano le due categorie sociologiche estreme, entro le quali si collocano tutte le altre categorie intermedie. Dunque tutti gli Egiziani, senza eccezione alcuna, sono colpiti dalla stessa piaga; a differenza degli Ebrei, dove l'alleanza fonda l'intima unità fra i membri (v. 9bcd), qui è il castigo a creare una solidarietà d'altronde negativa e forzata. La vastità e la gravità della piaga emergono in crescendo tramite la successione degli emistichi: dapprima la frase lapidaria di 12b, poi l'iperbole dell'emistichio seguente, ed infine, in tutta la sua gravità, l'affermazione di 12d.

v. 13. «figlio di Dio»: il riferimento è a Es 4,22-23 in cui, con lo sguardo già rivolto alla decima piaga, si afferma chiaramente la figliolanza divina di Israele e la sua conseguente incompatibilità col servizio a faraone. Come gli empi dei primi capitoli, dapprima in forma dubitativa e sarcastica (2,18), poi forzati dalla realtà del giudizio divino (5,5), sono costretti a vedere in Israele il figlio di Dio, così i padri egiziani, privati drammaticamente dei loro primogeniti sono costretti a riconoscere che Israele, illeso dalla strage, non appartiene a loro, bensì a Dio, ne è il figlio per eccellenza.

vv. 14-19. La breve unità presenta una struttura binaria: vv. 14-16; 17-19. Dapprima viene descritta l'azione punitiva del logos in una cornice prettamente cosmica (cfr. il ricco vocabolario di termini naturali e cosmici: «silenzio-notte-tutte le cose-cielo-terra»), poi la descrizione passa invece al piano personale e psicologico (cfr. il vocabolario psicologico: «fantasmi-sogni-atterrire-timori-terrificanti»). Il nesso fra le due parti è costituito letterariamente dai due avverbi «allora» e «improvvisamente» (BC = «improvvisi»); il primo fa riferimento al tempo (mezzanotte), il secondo alla repentinità dell'evento.

vv. 15-16. Emerge in primo piano la figura possente e grandiosa della parola (logos), alla cui azione è attribuito l'eccidio dei primogeniti egiziani. Essa viene qualificata come onnipotente. Quest'aggettivo in 7,23 è riferito allo spirito della sapienza e in 11,17 all'azione punitrice di Dio; il verbo corrispondente ha sempre come soggetto Dio (11,23; 12,18; 14,4) e una volta la sapienza (7,27); così il sostantivo è costantemente riferito a Dio (7,25; 11,20; 12,15.17); dunque siamo di fronte a una qualità tipicamente divina. Anche le altre due qualificazioni «dal cielo» e «dal tuo trono regale» fanno riferimento alla sede di Dio (cfr. 9,4.10.16; 16,20). La figura del logos rappresenta cosi una personificazione della volontà divina, al fine di sottolineare che la parola di Dio è davvero presente nella storia degli uomini, efficace e dinamica. La descrizione del logos continua con l'immagine del guerriero inflessibile, che piomba sull'Egitto e che con la sua spada acuta colpisce a morte. Il vocabolario rinvia costantemente a Sap 5,17-23, dove tramite l'immagine tradizionale del guerriero si descrive l'intervento risolutore e definitivo di Dio con un totale sconvolgimento cosmico e la sconfitta degli empi. Così la piaga egiziana diventa pure segno e anticipazione del giudizio finale. Quest'interpretazione dello Pseudo-Salomone trova dei paralleli interessanti specialmente nella tradizione targumica (cfr. Targum Es 11,4: 12,12-13.23.27.29), dove è proprio alla parola che si attribuisce l'uccisione dei primogeniti e la salvezza degli

vv. 17-19. A mezzanotte apparizioni di terribili sogni sconvolgono l'animo dei primogeniti egiziani, provocando in loro timori inaspettati; la conseguenza di tutto ciò è che i primogeniti escono dalle loro case e cadono mezzi morti, chi qua, chi là; non muoiono però repentinamente, ma lentamente, mostrando la causa della loro morte. A chi mostrino la causa della loro morte non è detto; probabilmente ai genitori e agli altri Egiziani non toccati dalla piaga. Questa rivelazione tramite sogni ha lo scopo di rendere i primogeniti coscienti e non semplicemente oggetto del castigo divino.

vv. 20-25. La precedente descrizione della decima piaga potrebbe far sorgere l'obiezione che non solo gli Egiziani, ma anche gli Israeliti vennero colpiti in seguito da una moria nel deserto; l'autore risponde rievocando l'episodio di Nm 17,6-15, dove, in contrapposizione alla punizione degli Egiziani tramite la parola, evidenzia la salvezza degli Ebrei grazie alla parola d'intercessione. Il brano è caratterizzato da un movimento di tipo concentrico: annuncio della piaga e del suo carattere limitato (v. 20), Aronne usa l'arma della liturgia (v. 21abc), ferma il flagello (v. 23), indossa le insegne liturgiche (v. 24), annuncio della fine della piaga e del suo carattere limitato (v. 25).

v. 20. Lo Pseudo-Salomone interpreta la strage di Nm 17 come un giudizio divino su Israele; si tratta però di un giudizio limitato nel tempo e con valore educativo, è cioè una prova di Dio.

v. 21. «un uomo»: si tratta di Aronne, la figura dominante di questa unità. Egli è incensurabile come Abramo (cfr. Gn 17,1; Sap 10,5), Giobbe (cfr. Gb 1, 1.8; 2,3) ed Ester (cfr Est 8,12n), e come Mosè (cfr. Sap 10,15) è servo di Dio; con ciò lo Pseudo-Salomone presenta assai positivamente la figura di Aronne e le attribuisce un'importanza maggiore rispetto alla tradizione anticotestamentaria. Il dato nuovo della rilettura di Sapienza è costituito non solo dal fatto che è Aronne a prendere l'iniziativa (cfr. «si affrettò»), ma soprattutto dalla sua preghiera di intercessione, di cui in Nm 17,6-15 manca infatti ogni accenno esplicito. L'evidenziazione della preghiera significa che lo Pseudo-Salomone interpreta l'intervento di Aronne come un atto di intercessione; il carattere di espiazione rimane, perché legato all'offerta dell'incenso e alla menzione successiva della veste sacerdotale (v. 24), tuttavia diventa preminente l'aspetto di intercessione, cioè della preghiera.

v. 22. «parola»: il significato immediato è quello di parola di preghiera, con riferimento al v. 21c; tuttavia dietro questo termine significativo si cela pure un significato più profondo. Nel contesto della memoria liturgica (cfr. v. 22d) la funzione fondamentale del ricordare consiste nell'attualizzazione della storia salvifica e questa è resa possibile grazie al ruolo determinante della parola, che prende il posto dell'evento passato e ne rende presente ed efficace il valore salvifico. Se Aronne vince la piaga, è dunque grazie a questa parola! Nella memoria liturgica di Aronne, sebbene il nostro testo lo dica indirettamente, è presente ed operante la parola, che, in quanto parola di salvezza donata da Dio a Israele tramite l'alleanza, sconfigge la piaga. L'autore continua così la riflessione di 18,15-16: qui il logos colpisce i primogeniti egiziani salvando in tal modo gli Ebrei; nell'episodio del deserto è il medesimo logos che, grazie ala memoria liturgica di Aronne, sconfigge la piaga salvando ancora una volta il popolo eletto; tuttavia questo viene detto non esplicitamente, ma per via d'allusione tramite l'uso del termine logos.

v. 23. Come il giusto sta di fronte ai suoi persecutori e incute loro un grande timore (5,1-2) e come il logos sta di fronte agli Egiziani e semina la morte (18,16), così Aronne sta (BC = «ergersi») in mezzo e ferma la moria. Egli non resiste a Dio, anche se inizialmente la piaga è stata da lui inviata, perché in Aronne è presente la parola; come Dio può suscitare una piaga, così può anche fermarla. Infine lo stare di Aronne ricorda l'intercessione di Mosè e di Finees (cfr. Sal 106,23.30).

v. 24. Tre sono gli elementi essenziali del vestito liturgico di Aronne: la lunga veste talare (v. 24a), il pettorale (v. 24b) e il diadema (v. 24d). La prima rappresenta il meglio del lavoro umano e del materiale terrestre (cfr. Es 28,3; Sir 45,10-11), sicché essa diventa un microcosmo offerto tramite la liturgia a Dio; la liturgia del sacerdozio di Aronne diventa così, accanto ai miracoli dell'esodo, segno e tappa della grande lotta del cosmo contro gli empi. I nomi dei patriarchi incisi sul pettorale di Aronne significano che egli nell'esercizio del suo sacerdozio entra in stretta comunione con loro, anzi li rappresenta grazie alla memoria liturgica; è così che la promessa e l'alleanza si attualizzano in Israele. Il diadema (BC = «corona») indica la lamina d'oro fissata in fronte alla tiara tramite cordicelle di color giacinto; ora, almeno a partire dal I sec. a.C., questa lamina portava l'iscrizione del tetragramma del nome divino a ad esso allude il temine «maestà». È grazie a questa presenza del nome ineffabile che Aronne è consacrato a Dio (cfr. Es 28,36; 39,30) e ne rappresenta in modo del tutto particolare la presenza e la maestà.

v. 25. «lo sterminatore»: l'autore, riprendendo il termine da Es 12,23, ricollega intenzionalmente la piaga di Nm 17 a quella dei primogeniti egiziani; in entrambi gli episodi lo sterminatore agisce alle dipendenze di Dio; contro i primogeniti però il castigo è assoluto e inarrestabile, contro il popolo eletto è invece limitato. Grazie alle insegne sacerdotali, che fanno di Aronne il rappresentante del cosmo, dei patriarchi e di Dio stesso, lo sterminatore si intimorisce e indietreggia; in altre parole, l'intercessione di Aronne è pienamente accolta da Dio.

(cf. MICHELANGELO PRIOTTO, Cantico dei Cantici – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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