📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA: Regole; a Diogneto ● PROFETI ● Concilio Vaticano II ● NUOVO TESTAMENTO

Capitolo VIII – L’ufficio divino nella notte

Levata durante l'inverno 1 Durante la stagione invernale, cioè dal principio di novembre sino a Pasqua, secondo un calcolo ragionevole, la sveglia sia verso le due del mattino, 2 in modo che il sonno si prolunghi un po’ oltre la mezzanotte e tutti si possano alzare sufficientemente riposati.

Intervallo tra l'Ufficio notturno e quello del mattino 3 Il tempo che rimane dopo l’Ufficio vigilare venga impiegato dai monaci, che ne hanno bisogno, nello studio del salterio o delle lezioni.

Levata d'estate 4 Da Pasqua, invece, sino al suddetto inizio di novembre, l’orario venga disposto in modo tale che, dopo un brevissimo intervallo nel quale i fratelli possono uscire per le necessità della natura, l’Ufficio vigiliare sia seguito immediatamente dalle Lodi, che devono essere recitate al primo albeggiare.

=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti

CAPITOLI 8-11 – Introduzione alla sezione sull'Opus Dei Nei testi più antichi, per “OPUS DEI” (Opera di Dio) s'intende tutta la vita spirituale del monaco o, semplicemente, la vita monastica. Poi a poco a poco il significato si restrinse a designare la vita di orazione organizzata intorno alla lettura della Parola di Dio, alla salmodia e alla preghiera silenziosa. Questo è il senso di “Opus Dei” nella RB, con particolare riferimento alla Preghiera liturgica comune, l'Ufficio Divino, o come diciamo oggi, la Liturgia delle Ore. I capitoli della RB che la prendono in considerazione sono:

  • cc.8-18 che riguardano l'ordinamento dell'Ufficio Divino,
  • cc.19-20 che riguardano il modo di pregare,
  • c.47 sulle norme per il segnale dell'ora dell'Ufficio Divino e per la disciplina in coro (appendice 1),
  • c.52 sull'oratorio del monastero (appendice 2).

Importanza dell'Ufficio Divino nella RB Al gruppo dei capitoli relativi alla dottrina ascetica segue un blocco di capitoli relativi alla preghiera. C'è da notare la loro posizione, quasi a dire che l'Opus Dei è l'occupazione principale della vita cenobitica. Nella RM, invece, il direttorio dell'Ufficio si trova nei cc.33-45, dopo l'argomento sul dormitorio e la levata.

È senza dubbio errato considerare i Benedettini come “fondati per il coro”; ma è anche certo che nella mente di SB, interpretata poi da tutta la tradizione benedettina, la liturgia costituisce l'occupazione conventuale essenziale e primaria a cui nulla deve anteporsi: “Nihil Operi Dei praeponatur” (Nulla si anteponga all'Opera di Dio – RB 43,3).

La sezione sull'Ufficio Divino è molto omogenea sia dal punto di vista dell'argomento che del vocabolario e dello stile. Vi abbondano, sotto questo aspetto, anormalità linguistiche, vocaboli e modi di dire del latino volgare, della lingua corrente del sec. VI. È probabile che tutto il blocco dei cc.8-18 formasse un fascicolo a se` che conteneva il “corpus liturgico” dei monaci prima della redazione della RB; fu poi inserito da SB nel corpo della sua Regola con alcune modifiche. Rileviamo l'importanza di questa sezione che risulta dal fatto stesso della quantità, della minuziosità con cui viene stabilita ogni parte dell'Ufficio Divino e dal posto preminente che occupa nella Regola, subito dopo la sezione dottrinale e prima della parte legislativa propriamente detta.

CAPITOLO 8 – L'Ufficio Divino della notte Passare in veglia buona parte della notte era una pratica molto comune nella Chiesa primitiva, secondo la mistica dell'“attesa dello Sposo” (cf. anche Dante, Paradiso X, 140-141: “Nell'ora che la Sposa di Dio surge a mattinar lo Sposo perché l'ami”). La vigilia domenicale, iniziata con la grande veglia pasquale, risale ai tempi apostolici. Le altre vigilie notturne cominciarono a celebrarsi in occasione delle maggiori solennità liturgiche e delle feste dei martiri locali.

Però, se i chierici e il popolo cristiano passavano in orazione alcune notti (o parte di esse), i monaci si alzavano tutte le notti sia per recarsi comunitariamente alla salmodia sia per l'orazione privata. Perciò la giornata del monaco comincia con l'ufficio notturno e da esso logicamente SB inizia le sue prescrizioni. Finora lo si è chiamato, ma impropriamente, “Mattutino”; dopo la riforma liturgica, “Ufficio delle Letture”.

1-2: Levata durante l'inverno L'Ufficio Divino – è chiaro – non poteva abbracciare tutta la notte; il corpo e lo spirito hanno necessità di riposo. È certo che le prime generazioni di monaci dominarono il sonno fino all'inverosimile. Si pensi, in occidente stesso, a S. Colombano il quale voleva che il monaco “venisse stanco al giaciglio, dormisse già mentre camminava e fosse costretto a levarsi prima ancora che cessasse il sonno”. Con il suo buon senso e con la sua discrezione, SB vuole che, “secondo una ragionevole valutazione” (v.1), i monaci si alzino riposati e a digestione compiuta. Per cui si alzavano d'inverno all'ottava ora della notte (nell'orario di SB tutto il tempo diurno e notturno veniva diviso in dodici parti uguali). Da RB 41,9 risulta che vespro e cena dovevano aver luogo con la luce del giorno: al massimo quindi i monaci andavano a letto circa un'ora dopo il tramonto, cioè verso la fine della prima ora notturna; e poiché si alzavano all'ottava ora della notte, il riposo durava sette buone ore notturne; a Natale, quando ogni ora notturna era di circa 75 minuti, il riposo raggiungeva le nostre nove ore, poi man mano si scendeva fino a un minimo di ore 6,15 nostre (quando Pasqua capitava verso il 20 aprile), ma allora forse si regolavano andando a letto un po' prima. Per tutto l'inverno, dunque, la durata del sonno oscillava tra le otto ore e mezzo e le sette ore.

3: Intervallo tra l'Ufficio notturno e quello del mattino Il sonno più che sufficiente già concesso esclude che si ritorni a letto dopo l'Ufficio notturno. SB ritarda di quasi due ore la levata rispetto a RM, ma sopprime il “secondo sonno” concesso da RM dopo l'Ufficio notturno in inverno e dopo le lodi mattutine d'estate. In questo SB dipende da Cassiano (Inst 2,13; 3,5) che criticava l'uso del “secondo sonno” allora assai diffuso. Perciò dopo l'Ufficio notturno, i monaci di SB disponevano di un tempo più o meno lungo. I fratelli che ne avevano bisogno impiegavano tale tempo nello studio del salterio e delle lezioni (sono le “letture brevi” che si recitavano a memoria come viene detto in RB.9,10 e 12,4). Nel testo originale c'è la parola “meditationi” che non si deve intendere nel senso odierno di meditazione, ma nel senso di “esercizio-esercitarsi”, che comporta insieme l'imparare a memoria e l'esercitarsi nella salmodia. E i fratelli che già sapevano il salterio a memoria, e che quindi non avevano bisogno di tale studio, cosa facevano? Certo non tornavano a letto; avranno impiegato tale tempo nella lettura o nella preghiera personale.

4: Levata d'estate Per il periodo estivo non è fissata un'ora precisa per la levata. Essa doveva essere regolata in modo tale che, tra l'Ufficio notturno e quello del mattino, ci fosse solo un piccolo intervallo. Nei mesi aprile-maggio e settembre-ottobre si hanno in media dalle 8 alle 7 ore di sonno continuo; a giugno di meno, fino a un minimo di 5 ore; ma forse si andava un po' più tardi all'Ufficio notturno (il quale d'estate e' più corto non essendoci le letture come si vedrà al c.10); la siesta prevista da SB (RB 48,5) serviva appunto a compensare il difetto del sonno notturno, specialmente nel periodo centrale.

Tratto da:APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


🔝C A L E N D A R I OHomepage

Capitolo VII – L’umiltà

Necessità dell'umiltà 1 La sacra Scrittura si rivolge a noi, fratelli, proclamando a gran voce: «Chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato». 2 Così dicendo, ci fa intendere che ogni esaltazione è una forma di superbia, 3 dalla quale il profeta mostra di volersi guardare quando dice: «Signore, non si è esaltato il mio cuore, né si è innalzato il mio sguardo, non sono andato dietro a cose troppo grandi o troppo alte per me». 4 E allora? «Se non ho nutrito sentimenti di umiltà, se il mio cuore si è insuperbito, tu mi tratterai come un bimbo svezzato dalla propria madre».

La scala di Giacobbe 5 Quindi, fratelli miei, se vogliamo raggiungere la vetta più eccelsa dell’umiltà e arrivare rapidamente a quella glorificazione celeste, a cui si ascende attraverso l’umiliazione della vita presente, 6 bisogna che con il nostro esercizio ascetico innalziamo la scala che apparve in sogno a Giacobbe e lungo la quale questi vide scendere e salire gli angeli. 7 Non c’è dubbio che per noi quella discesa e quella salita possono essere interpretate solo nel senso che con la superbia si scende e con l’umiltà si sale. 8 La scala così eretta, poi, è la nostra vita terrena che, se il cuore è umile, Dio solleva fino al cielo; 9 noi riteniamo infatti che i due lati della scala siano il corpo e l’anima nostra, nei quali la divina chiamata ha inserito i diversi gradi di umiltà o di esercizio ascetico per cui bisogna salire.

I dodici gradini dell'umiltà_ 10 Dunque il primo grado dell’umiltà è quello in cui, rimanendo sempre nel santo timor di Dio, si fugge decisamente la leggerezza e la dissipazione, 11 si tengono costantemente presenti i divini comandamenti e si pensa di continuo all’inferno, in cui gli empi sono puniti per i loro peccati, e alla vita eterna preparata invece per i giusti. 12 In altre parole, mentre si astiene costantemente dai peccati e dai vizi dei pensieri, della lingua, delle mani, dei piedi e della volontà propria, come pure dai desideri della carne, 13 l’uomo deve prendere coscienza che Dio lo osserva a ogni istante dal cielo e che, dovunque egli si trovi, le sue azioni non sfuggono mai allo sguardo divino e sono di continuo riferite dagli angeli. 14 È ciò che ci insegna il profeta, quando mostra Dio talmente presente ai nostri pensieri da affermare: «Dio scruta le reni e i cuori» 15 come pure: «Dio conosce i pensieri degli uomini». 16 Poi aggiunge: «Hai intuito di lontano i miei pensieri» 17 e infine: «Il pensiero dell’uomo sarà svelato dinanzi a te». 18 Quindi, per potersi coscienziosamente guardare dai cattivi pensieri, bisogna che il monaco vigile e fedele ripeta sempre tra sé: «Sarò senza macchia dinanzi a lui, solo se mi guarderò da ogni malizia». 19 Ci è poi vietato di fare la volontà propria, dato che la Scrittura ci dice: «Allontanati dalle tue voglie» 20 e per di più nel Pater chiediamo a Dio che in noi si compia la sua volontà. 21 Perciò ci viene giustamente insegnato di non fare la nostra volontà, evitando tutto quello di cui la Scrittura dice: «Ci sono vie che agli uomini sembrano diritte, ma che si sprofondano negli abissi dell’inferno» 22 e anche nel timore di quanto è stato affermato riguardo ai negligenti: «Si sono corrotti e sono divenuti spregevoli nella loro dissolutezza». 23 Quanto poi alle passioni della nostra natura decaduta, bisogna credere ugualmente che Dio è sempre presente, secondo il detto del profeta: «Ogni mio desiderio sta davanti a te». 24 Dobbiamo quindi guardarci dalle passioni malsane, perché la morte è annidata sulla soglia del piacere. 25 Per questa ragione la Scrittura prescrive: «Non seguire le tue voglie». 26 Se dunque «gli occhi di Dio scrutano i buoni e i cattivi» 27 e se «il Signore esamina attentamente i figli degli uomini per vedere se vi sia chi abbia intelletto e cerchi Dio», 28 se a ogni momento del giorno e della notte le nostre azioni vengono riferite al Signore dai nostri angeli custodi, 29 bisogna, fratelli miei, che stiamo sempre in guardia per evitare che un giorno Dio ci veda perduti dietro il male e isteriliti, come dice il profeta nel salmo e, 30 pur risparmiandoci per il momento, perché è misericordioso e aspetta la nostra conversione, debba dirci in avvenire: «Hai fatto questo e ho taciuto».

31 Il secondo grado dell’umiltà è quello in cui, non amando la propria volontà, non si trova alcun piacere nella soddisfazione dei propri desideri, 32 ma si imita il Signore, mettendo in pratica quella sua parola, che dice: «Non sono venuto a fare la mia volontà, ma quella di colui che mi ha mandato». 33 Cosa che pure un antico testo afferma: «La volontà propria procura la pena, mentre la sottomissione conquista il premio».

34 Terzo grado dell’umiltà è quello in cui il monaco per amore di Dio si sottomette al superiore in assoluta obbedienza, a imitazione del Signore, del quale l’Apostolo dice: «Fatto obbediente fino alla morte».

35 Il quarto grado dell’umiltà è quello del monaco che, pur incontrando difficoltà, contrarietà e persino offese non provocate nell’esercizio dell’obbedienza, accetta in silenzio e volontariamente la sofferenza 36 e sopporta tutto con pazienza, senza stancarsi né cedere secondo il monito della Scrittura: «Chi avrà sopportato sino alla fine questi sarà salvato». 37 E ancora: «Sia forte il tuo cuore e spera nel Signore». 38 E per dimostrare come il servo fedele deve sostenere per il Signore tutte le possibili contrarietà, esclama per bocca di quelli che patiscono: «Ogni giorno per te siamo messi a morte, siamo trattati come pecore da macello». 39 Ma con la sicurezza che nasce dalla speranza della divina retribuzione, costoro soggiungono lietamente: «E di tutte queste cose trionfiamo in pieno, grazie a colui che ci ha amato», 40 mentre altrove la Scrittura dice: «Ci hai provato, Signore, ci hai saggiato come si saggia l’argento col fuoco; ci hai fatto cadere nella rete, ci hai caricato di tribolazioni». 41 E per indicare che dobbiamo assoggettarci a un superiore, prosegue esclamando: «Hai posto degli uomini sopra il nostro capo». 42 Quei monaci, però, adempiono il precetto del Signore, esercitando la pazienza anche nelle avversità e nelle umiliazioni, e, percossi su una guancia, presentano l’altra, cedono anche il mantello a chi strappa loro di dosso la tunica, quando sono costretti a fare un miglio di cammino ne percorrono due, 43 come l’Apostolo Paolo sopportano i falsi fratelli e ricambiano con parole le offese e le ingiurie.

44 Il quinto grado dell’umiltà consiste nel manifestare con un’umile confessione al proprio abate tutti i cattivi pensieri che sorgono nell’animo o le colpe commesse in segreto, *45 secondo l’esortazione della Scrittura, che dice: «Manifesta al Signore la tua via e spera in lui». 46 E anche: «Aprite l’animo vostro al Signore, perché è buono ed eterna è la sua misericordia», 47 mentre il profeta esclama: «Ti ho reso noto il mio peccato e non ho nascosto la mia colpa. 48 Ho detto: «confesserò le mie iniquità dinanzi al Signore» e tu hai perdonato la malizia del mio cuore».

49 Il sesto grado dell’umiltà è quello in cui il monaco si contenta delle cose più misere e grossolane e si considera un operaio incapace e indegno nei riguardi di tutto quello che gli impone l’obbedienza, 50 ripetendo a se stesso con il profeta: «Sono ridotto a nulla e nulla so; eccomi dinanzi a te come una bestia da soma, ma sono sempre con te».

51 Il settimo grado dell’umiltà consiste non solo nel qualificarsi come il più miserabile di tutti, ma nell’esserne convinto dal profondo del cuore, 52 umiliandosi e dicendo con il profeta: «Ora io sono un verme e non un uomo, l’obbrobrio degli uomini e il rifiuto della plebe»; 53 «Mi sono esaltato e quindi umiliato e confuso» 54 e ancora: «Buon per me che fui umiliato, perché imparassi la tua legge».

55 L’ottavo grado dell’umiltà è quello in cui il monaco non fa nulla al di fuori di ciò a cui lo sprona la regola comune del monastero e l’esempio dei superiori e degli anziani.

56 Il nono grado dell’umiltà è proprio del monaco che sa dominare la lingua e, osservando fedelmente il silenzio, tace finché non è interrogato, 57 perché la Scrittura insegna che «nelle molte parole non manca il peccato» 58 e che «l’uomo dalle molte chiacchiere va senza direzione sulla terra».

59 Il decimo grado dell’umiltà è quello in cui il monaco non è sempre pronto a ridere, perché sta scritto: «Lo stolto nel ridere alza la voce».

60 L’undicesimo grado dell’umiltà è quello nel quale il monaco, quando parla, si esprime pacatamente e seriamente, con umiltà e gravità, e pronuncia poche parole assennate, senza alzare la voce, 61 come sta scritto: «Il saggio si riconosce per la sobrietà nel parlare».

62 Il dodicesimo grado, infine, è quello del monaco, la cui umiltà non è puramente interiore, ma traspare di fronte a chiunque lo osservi da tutto il suo atteggiamento esteriore, 63 in quanto durante l’Ufficio divino, in coro, nel monastero, nell’orto, per via, nei campi, dovunque, sia che sieda, cammini o stia in piedi, tiene costantemente il capo chino e gli occhi bassi; 64 e, considerandosi sempre reo per i propri peccati, si vede già dinanzi al tremendo giudizio di Dio, 65 ripetendo continuamente in cuor suo ciò che disse, con gli occhi fissi a terra il pubblicano del Vangelo: «Signore, io, povero peccatore, non sono degno di alzare gli occhi al cielo». 66 E ancora con il profeta: «Mi sono sempre curvato e umiliato».

Epilogo 67 Una volta ascesi tutti questi gradi dell’umiltà, il monaco giungerà subito a quella carità, che quando è perfetta, scaccia il timore; 68 per mezzo di essa comincerà allora a custodire senza alcuno sforzo e quasi naturalmente, grazie all’abitudine, tutto quello che prima osservava con una certa paura; 69 in altre parole non più per timore dell’inferno, ma per timore di Cristo, per la stessa buona abitudine e per il gusto della virtù. 70 Sono questi i frutti che, per opera dello Spirito Santo, il Signore si degnerà di rendere manifesti nel suo servo, purificato ormai dai vizi e dai peccati. =●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti

L'umiltà, nella RB come nella tradizione patristica e monastica anteriore, esprime un concetto completo con molti e diversi elementi, un compendio di cammino ascetico; un'ascesi che non solo sbocca alla contemplazione, ma include già in se stessa una levatura mistica di grande efficacia. Perché umiltà significa anzitutto imitazione di Cristo secondo la prospettiva paolina; cioè non solo l'imitazione esterna dell'esempio di Gesù storico, ma la comunione intima con i suoi sentimenti, la partecipazione alla “kenosis” di Colui che “non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio”, ma preferì la nostra pochezza e miseria, e nel suo amore arrivò a dare la vita per noi sulla croce.

Lungo tutta la salita dell'umiltà avanza Cristo con il monaco, o meglio il monaco accompagna Cristo fino al profondo del suo annichilimento. I momenti più dolorosi di questo cammino di croce, tanto difficile per la nostra natura umana, rappresentano altrettante modalità dell'imitazione di Cristo. Cosi` nel 2° gradino il monaco ripete: “Non sono venuto a fare la mia volontà, ma la volontà di colui...” (Gv 6,38); nel 3° obbedisce con Cristo “fattosi obbediente sino alla morte...” (Fil 2,8); nel 4° – il gradino del martirio dell'obbedienza – ripete: “Per te siamo messi a morte ogni giorno, siamo considerati come pecore da macello” (Sal 43,22). Altre frasi tremende mette SB sulla bocca del monaco umile nel 6° e 7° gradino, fino a “Io sono verme e non uomo” (Sal 21,7) di Cristo sulla croce. Siamo proprio alla più alta vetta dell'umiltà (RB 7,5). E allora precisamente il monaco arriva a quel grado di “amore di Dio che, divenuto perfetto, scaccia via il timore” (RB 7,67) e si realizza la grande trasformazione interiore per opera dello Spirito Santo; come si verificò in Cristo quando, giunto al fondo della sua “kenosis”, “proprio per questo Dio lo esaltò e gli diede un nome che è al di sopra di ogni altro nome” (Fil.2,9).

Ecco dunque la scala dell'umiltà. Siamo partiti con il timor di Dio, siamo condotti lungo il cammino da Cristo e procediamo con Cristo e, al termine di questa pedagogia arriva lo Spirito Santo e si comincia ad operare con quella carità perfetta che scaccia il timore e si va avanti senza sforzo, naturalmente. Così, lungo la scala dell'umiltà, operano nel monaco Padre, Figlio e Spirito Santo.

Tratto da:APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


🔝C A L E N D A R I OHomepage

Capitolo VI – L’amore del silenzio

Uso della parola in genere 1 Facciamo come dice il profeta: «Ho detto: Custodirò le mie vie per non peccare con la lingua; ho posto un freno sulla mia bocca, non ho parlato, mi sono umiliato e ho taciuto anche su cose buone». 2 Se con queste parole egli dimostra che per amore del silenzio bisogna rinunciare anche ai discorsi buoni, quanto più è necessario troncare quelli sconvenienti in vista della pena riservata al peccato! 3 Dunque l’importanza del silenzio è tale che persino ai discepoli perfetti bisogna concedere raramente il permesso di parlare, sia pure di argomenti buoni, santi ed edificanti, perché sta scritto: 4 «Nelle molte parole non eviterai il peccato» 5 e altrove: «Morte e vita sono in potere della lingua».

Uso della parola nelle relazioni con i superiori 6 Se infatti parlare e insegnare é compito del maestro, il dovere del discepolo è di tacere e ascoltare. 7 Quindi, se bisogna chiedere qualcosa al superiore, lo si faccia con grande umiltà e rispettosa sottomissione.

Parole sconvenienti 8 Escludiamo poi sempre e dovunque la trivialità, le frivolezze e le buffonerie e non permettiamo assolutamente che il monaco apra la bocca per discorsi di questo genere.

=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti

Non c'è nella Bibbia una vera e propria dottrina sul silenzio, né si può parlare del silenzio come virtù o valore raccomandato; la Scrittura è piena di testi che si riferiscono a entrambe le cose: «C'è un tempo per tacere e un tempo per parlare» (Qo 3,7b). La lingua è un dono di Dio, attraverso cui gli uomini comunicano fra di loro ed esprimono a Dio i sentimenti del loro cuore. A volte è importante tenerla a freno, mentre a volte sarebbe vigliaccheria e mancanza di fedeltà tacere. Nei libri sapienziali troviamo una pedagogia per il buon uso della lingua: il saggio, a differenza dello stolto, sa meditare e pesare le sue parole. Discepoli e coltivatori di tale saggezza, i monaci cristiani fin dalla più remota antichità praticarono e insegnarono la moderazione nell'uso della parola. Tutta la tradizione (Apoftegmi, storie monastiche, regole cenobitiche, trattati spirituali, ecc...) lo testimonia; ma nessuno parla di silenzio assoluto, perché tacere sempre non è umano, però è necessario moderarsi, perché la lingua facilmente passa il limite e arriva a mormorazioni, calunnie, detrazioni, conversazioni peccaminose: parlare molto, cioè, equivale ad esporsi di più al peccato. Si tratta quindi di un silenzio ascetico.

Il silenzio poi ha grande importanza per la vita del monaco, in quanto è in funzione della quiete in Dio la “hesychia”, la tranquillità; l'accento veniva posto sopratutto sulla “ritiratezza”, sul rimanere in cella, “tacendo e sedendo” dice S. Girolamo. Anche per Cassiano, che pure dedica al silenzio tre dei suoi indizi di umiltà, esso è in funzione della preghiera, aiuta il monaco a raggiungere la “preghiera di fuoco” ed è il segno della raggiunta unità della persona in Dio. Così si proibiva ai monaci di parlare fuori delle celle e di ritrovarsi a parlare in refettorio; molti monasteri erano famosi per il silenzio che vi regnava, ma sembra più un titolo di gloria che una parte della dottrina di ascesi.

La “taciturnitas” La nozione di equilibrio fra tacere e parlare, con evidente inclinazione a favore del silenzio, la lingua latina dei monaci la espresse con il termine taciturnitas (che non corrisponde al nostro italiano “taciturnità”, la quale può comportare anche quell'aria di musoneria che diviene così pesante e fastidiosa nei contatti col prossimo). Silere e silentium significano astenersi totalmente dal parlare; taciturnitas significa l'abitudine a far caso al silenzio, il volontario e virtuoso amore al silenzio, frutto di umiltà e di raccoglimento, che concede la facoltà di esprimersi con moderazione, soltanto se necessario, discretamente. Perciò si potrebbe tradurre anche “amore al silenzio” con tutto il significato spiegato sopra (cioè anche modo di parlare).

Il silenzio nella RB SB tratta brevemente della “taciturnità”, in un solo capitolo di soli 8 vv.in cui rimane sui principi, dandoci un capitolo più omogeneo, coerente, anche se molto breve. Nella RB abbiamo 4 volte la parola taciturnitas e 4 volte la parola silentium. “Silentium” indica un aspetto disciplinare, funzionale (silenzio a tavola, RB. 38,5; silenzio notturno, RB. 42,1; silenzio durante la siesta, RB. 48,5; silenzio nell'oratorio, RB. 52,2) e significa silenzio in senso stretto, cioè astensione totale dal parlare. “Taciturnitas” (RB. 6 titolo; 6,2-3; 7,56; 42,9) denota, come detto sopra, moderazione, sobrietà, discrezione nell'uso della parola e, come si usa tradurre, amore al silenzio. Alla “taciturnitas”, non al “silentium” SB dedica un capitolo della sua sezione ascetica.

STRUTTURA del capitolo 6 Comincia all'improvviso con una citazione dal salterio brevemente commentata, rafforzata da altre due citazioni dei Proverbi (vv. 1-5); passa all'uso della parola nei rapporti con i superiori (vv. 6-7), condanna solennemente le parole sconvenienti (v. 8). Vediamo il testo:

1-5: Uso della parola in genere SB parte da una citazione scritturistica che serve di base e di principio al suo insegnamento: mettiamo in pratica ciò che dice il salmista. Nel salmo 38 citato, il salmista oppresso dai dolori si propone di tacere assolutamente per non dare all'empio occasione di bestemmiare (quindi notiamo che il contesto del salmo è diverso da come viene applicato in RB). Il v. 3 del salmo dice così: «Ammutolito, in silenzio, tacevo, ma a nulla serviva, e più acuta si faceva la mia sofferenza»; invece la versione della Volgata era: “silui a bonis” che RB (e RM prima) ha inteso: “mi sono astenuto anche dal dire cose buone”, da cui l'argomentazione derivante. L'atteggiamento del salmista viene indicato come generale disposizione d'animo del monaco. “Anche dai buoni discorsi ci si deve “a volte” interdum astenere per amore al silenzio”, tanto più dalle parole cattive! E nel v. 3 SB insiste: “è tanta l'importanza del silenzio – cioè: tale è la gravità e la serietà di questa dimensione nella vita monastica – che ecc...” Come si deve interpretare la frase: perfectis discipulis “ai discepoli perfetti”? Si deve intendere che a questi soltanto si deve dare raramente licenza di parlare, lasciando più libertà ai meno perfetti? Sì, se si considera il parallelo con la RM la quale distingue tra la categoria dei “perfetti” e quella dei “tiepidi, imperfetti e meno solleciti” (RM 9,48); secondo altri, invece, qui si intende semplicemente i monaci in quanto tali e in quanto devono sforzarsi di essere, dovendo essi per il loro stesso stato mirare alla perfezione. Alla citazione del salmo 38 SB aggiunge altri due testi scritturistici del genere sapienziale, brevi e incisivi: Pr 10,19 e Pr 18,21. In tutti e tre i testi biblici citati, la ragione addotta per frenare la lingua è quella di evitare il peccato, questo è nella generale tradizione ascetica del monachesimo primitivo.

6-7: Uso della parola nelle relazioni con i superiori I monaci, da perfetti discepoli, devono parlare assai poco, giacché parlare è funzione del maestro, mentre al discepolo tocca ascoltare. Si torna al concetto dell'abate come “dottore”; si tace per ascoltare la voce del maestro che è l'abate e, attraverso l'abate, il Maestro per antonomasia: Cristo. è interessante notare l'importanza dei vv. 6-7 per la relazione del silenzio con l'obbedienza (capitolo 5) e con l'umiltà (capitolo 7). Il discepolo ascolta per mettere in pratica ciò che gli si comanda e in tal modo torna a Dio attraverso il cammino dell'obbedienza (Prol. 1-2). Il monaco poi tace per umiltà (v. 1: “mi sono umiliato”) e parla con umiltà (v. 7); tanto il parlare (il modo di parlare) che il tacere sono in rapporto con l'umiltà. Si tratti di rispondere all'abate quando domanda un parere o si tratti di chiedergli qualcosa, i fratelli debbono mantenersi sempre entro i limiti dell'umiltà, docilità e riverenza.

8: Parole sconvenienti Infine, con accento severo ed energico, SB condanna i discorsi non convenienti alla dignità di monaco, non solo le trivialità – il che pare ovvio – ma anche le parole giocose e non necessarie. Questo ultimo versetto contribuisce a dare un aspetto ancora più rigoroso e molto forte al capitolo che senza dubbio è in una linea rigida e severa.

CONCLUSIONE Ma... per fortuna, altri passi della RB che si riferiscono alla “taciturnitas” (=amore al silenzio e uso corretto, monastico, della parola) mitigano e umanizzano l'aspetto serio e un pò duro del capitolo 6. A giudicare dal v.6, il silenzio regna come norma generale nel monastero e per parlare ci vuole un permesso speciale che si accorda solo raramente. Ma da altri testi si deduce che la proibizione di parlare non era così assoluta: i monaci non erano soggetti ad una legge che li obbligava a convivere senza comunicare tra loro. Il silenzio assoluto si osservava in certi luoghi e in certe ore: durante i pasti (RB 38,5); in dormitorio, tanto durante il riposo notturno (RB 42,1) quanto durante la siesta (RB 48,5). In altri luoghi era molto meno rigoroso (o veniva trasgredito spesso); in RB 26,1-2 si proibisce di parlare con lo scomunicato; in RB 67,5-6 si ordina di non parlare di ciò che si è visto fuori del monastero. I monaci quindi parlavano e ridevano pure! Tra le mortificazioni suggerite in quaresima (RB 49,7) si dice di togliere qualcosa alla loquacità e... alle buffonerie (= “scurrilitate”, lo stesso vocabolo che nel capitolo 6 è condannato assolutamente, “aeterna clausura in omnibus locis damnamus”! v. 8).

Nel capitolo 6, dato che si tratta della sezione spirituale, a SB interessa enunciare il principio e presentare il valore del silenzio, facendone vedere l'aspetto austero, essenzialmente ascetico. La dimensione mistica della taciturnità i monaci la scopriranno a poco a poco, avanzando nel cammino dell'unione con Dio, man mano che si familiarizzano con la S. Scrittura e gli altri testi della tradizione patristica e monastica che SB prescrive (RB 73,2-6). Cassiano, per esempio, dice che è impossibile arrivare all'“orazione pura” se lo spirito è disturbato dal ricordo di conversazioni recenti (Coll. 9,13), che l'“orazione di fuoco” consiste in un gemito inenarrabile che trascende la parola (Coll. 9,25), che l'anima giunta alla vetta della contemplazione penetra in una meditazione e concentrazione così assoluta che non si può esprimere (Coll. 9,27). Però SB si mantiene nei limiti della “vita pratica”, che non va oltre l'estirpazione dei vizi e l'acquisto delle virtù; la sua “taciturnitas” è puramente ascetica. Il capitolo 6 è un commento e ampliamento di 4 strumenti delle buone opere:

  • 51°: custodire la propria lingua da parole cattive o disoneste;
  • 52°: non amare il parlare molto;
  • 53°: non dire parole inutili o eccitanti al riso;
  • 54°: non amare di ridere molto o in maniera smodata (RB. 51-54).

Si noti anche la finalità educativa e di carità della RB. A proposito dell'uso della parola abbiamo tre volte questa espressione: rationabiliter cum humilitate “ragionevolmente con umiltà” in:

  • RB.31,7 a proposito del cellario;
  • RB.61,4 a proposito dell'ospite;
  • RB.65,4 a proposito del priore.

E nel capitolo 7,60 sostituisce “dire poche parole e sante” di RM con: “dire parole poche e ragionevoli (sensate)”. A SB interessa di meno che le conversazioni siano edificanti (come nella RM), quanto piuttosto che abbiano senso, che avvengano nella ragionevolezza e nella calma. Così in RB 31,7.13-14: come deve rispondere il cellario a chi gli chiede qualcosa fuori luogo o quando non può concedere qualcosa. Così RB.66,2-4 a proposito del portinaio: che risponda subito, rivolga parole di benvenuto, con tutta la mansuetudine e umiltà, con fervore di carità. La pedagogia di SB tende sopratutto a promuovere il buon uso della parola nelle relazioni concrete; siamo indirizzati dunque sul terreno delle relazioni fraterne, un argomento di cui RM non si occupa mai, ma che per SB è di capitale importanza.

Perciò la tradizione monastica ha assegnato pure un tempo per la ricreazione comune: parteciparvi e portarvi il proprio contributo di pensiero, di amore e di gioia è un atto di obbedienza e di carità.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


🔝C A L E N D A R I OHomepage

Capitolo V – L’obbedienza

Obbedienza pronta e sue motivazioni 1 Il segno più evidente dell’umiltà è la prontezza nell’obbedienza. 2 Questa è caratteristica dei monaci che non hanno niente più caro di Cristo 3 e, a motivo del servizio santo a cui si sono consacrati o anche per il timore dell’inferno e in vista della gloria eterna, 4 appena ricevono un ordine dal superiore non si concedono dilazioni nella sua esecuzione, come se esso venisse direttamente da Dio. 5 È di loro che il Signore dice: «Appena hai udito, mi hai obbedito» 6 mentre rivolgendosi ai superiori dichiara: «Chi ascolta voi, ascolta me». 7 Quindi, questi monaci, che si distaccano subito dalle loro preferenze e rinunciano alla propria volontà, 8 si liberano all’istante dalle loro occupazioni, lasciandole a mezzo, e si precipitano a obbedire, in modo che alla parola del superiore seguano immediatamente i fatti. 9 Quasi allo stesso istante, il comando del maestro e la perfetta esecuzione del discepolo si compiono di comune accordo con quella velocità che è frutto del timor di Dio: 10 così in coloro che sono sospinti dal desiderio di raggiungere la vita eterna.

Motivazione biblica dell'obbedienza 11 Essi si slanciano dunque per la via stretta della quale il Signore dice: «Angusta è la via che conduce alla vita»; 12 perciò non vivono secondo il proprio capriccio né seguono le loro passioni e i loro gusti, ma procedono secondo il giudizio e il comando altrui; rimangono nel monastero e desiderano essere sottoposti a un abate. 13 Senza dubbio costoro prendono a esempio quella sentenza del Signore che dice: «Non sono venuto a fare la mia volontà, ma quella di colui che mi ha mandato».

Qualità, sopratutto interiori, dell'obbedienza 14 Ma questa obbedienza sarà accetta a Dio e gradevole agli uomini, se il comando ricevuto verrà eseguito senza esitazione, lentezza o tiepidezza e tantomeno con mormorazioni o proteste, 15 perché l’obbedienza che si presta agli uomini è resa a Dio, come ha detto lui stesso: «Chi ascolta voi, ascolta me». 16 I monaci dunque devono obbedire con slancio e generosità, perché «Dio ama chi dà lietamente». 17 Se infatti un fratello obbedisce malvolentieri e mormora, non dico con la bocca, ma anche solo con il cuore, 18 pur eseguendo il comando, non compie un atto gradito a Dio, il quale scorge la mormorazione nell’intimo della sua coscienza; 19 quindi, con questo comportamento, egli non si acquista alcun merito, anzi, se non ripara e si corregge, incorre nel castigo comminato ai mormoratori.

=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti

In tutte le lingue il concetto di obbedienza deriva da “audire” e significa sempre la “disposizione ad ascoltare l'altro e a fare la sua volontà”: ascoltare e obbedire derivano dalla stessa radice etimologica. In latino abbiamo ob-audire “ascoltare” e ob-oedire “obbedire”: vocaboli vicinissimi che nella letteratura cristiana sono in relazione con la radice ebraica “shemà”, il cui significato è primariamente “ascoltare” e in secondo luogo “obbedire”.

La religione ebraica si riassume essenzialmente in questo concetto di obbedienza: ascoltare Dio e compiere i suoi desideri. Era la religione dell'obbedienza alla rivelazione di Dio; il culto di Dio consisteva essenzialmente nell'obbedienza (cf. ad esempio 1Sam 15-22) e l'essenza del peccato nella disobbedienza alla volontà di Dio manifestata nei comandamenti, nella Legge e nei Profeti. Nel NT appare con grande evidenza il valore essenziale dell'obbedienza. La vita di Gesù, come la presentano i Sinottici e come la interpretano S. Giovanni e S. Paolo, non è altro che la storia di un'obbedienza totale alla volontà del Padre attraverso il cammino della passione, della croce, della morte ignominiosa: Gesù accetta tutto pienamente per pura obbedienza al Padre. L'intera esistenza di Gesù si riduce ad una totale conformità alla volontà del Padre: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 4,34); Gesù non è venuto per fare la sua volontà, ma quella del Padre (Gv 6,38); Egli non parla per iniziativa propria, ma il Padre parla in lui (Gv 3,44); per questo chi vede lui vede il Padre (Gv 14,9-10).

Per il cristiano non basta in effetti accogliere il messaggio di Gesù, bisogna conformarsi alla volontà del Padre, come Gesù la manifesta «non chiunque mi dice: Signore, Signore..., ma chi fa la volontà...» (Mt 7,21): il vero discepolo di Gesù compie la volontà del Padre. Il valore cristiano dell'obbedienza è posto in rilievo sopratutto da S. Paolo: tutta l'opera salvifica di Gesù si riassume, secondo Filippesi 2, nella sua morte come atto di obbedienza al Padre, in contrapposizione alla disobbedienza di Adamo. L'obbedienza di Gesù è, per S. Paolo, il fondamento della salvezza (Rm 1,19); la fede è l'obbedienza alla predicazione del messaggio di salvezza (Rm 10,16; 2Cor 7,15; 2Tess 1,8); il cristiano è l'uomo che obbedisce al Vangelo di Nostro Signore Gesù Cristo (2Tess 1,18).

L'obbedienza occupa quindi, senza dubbio, una posizione-chiave nella storia divina della salvezza. I Padri della Chiesa non cessarono di segnalarlo con grande insistenza. Ma questa idea incontrò un'eco straordinaria soprattutto tra i monaci a cominciare dalle prime generazioni. In effetti i Padri del Deserto, ammaestrati dalla loro esperienza, erano giunti a due conclusioni: primo, che senza il rinnegamento di sé non si giunge a una vera adesione alla volontà di Dio; secondo, che il rinnegamento consiste essenzialmente nella rinuncia alla propria volontà, “muro di bronzo – a dire dell'abate Poimene – che separa l'uomo da Dio” (Apophtegmata, Poimene 54). I testi monastici trattano di continuo questo tema sotto tutti gli aspetti:

  • obbedire a Dio;
  • obbedire alla Scrittura;
  • obbedire ai Padri del monachesimo;
  • obbedire ai fratelli e, in particolare,
  • obbedire al proprio anziano spirituale, se si vive come anacoreta, o
  • obbedire al superiore e alla regola, se si vive come cenobita.

In tal modo si andò elaborando a poco a poco una teoria e in pratica il concetto dell'obbedienza religiosa. Si suole distinguere un'obbedienza ascetica o educativa (più specifica degli eremiti) e un'obbedienza funzionale o sociale al servizio della comunità (propria dei cenobiti). In realtà i due aspetti sono complementari: l'obbedienza ascetica è necessaria per realizzare l'obbedienza funzionale nella maniera più perfetta possibile; l'obbedienza sociale, poi, ha sempre un aspetto ascetico ed educativo. In ogni caso, i legislatori monastici del cenobitismo (Pacomio, Basilio, ecc.) non si mostrano meno esigenti, riguardo all'obbedienza, dei Padri spirituali degli eremiti. S.Basilio richiede un'obbedienza universale e senza condizioni.

Quanto detto sopra è il fondo biblico e monastico in cui situare il concetto di obbedienza nella RB. SB ne parla nell'ambito della dottrina ascetica, la dottrina dell'obbedienza viene cioè riportata alla scala dell'umiltà nel contesto dell'itinerario ascetico proposto ai monaci. Nel capitolo 5 si tratta in senso proprio dell’obbedienza al superiore; ci sono poi altri due capitoli che trattano specificamente dell'obbedienza: RB. 68 (L'obbedienza nelle cose impossibili) e RB. 71 (L'obbedienza reciproca). Ma dell'obbedienza se ne parla con frequenza, dal principio del prologo all'epilogo; ricordiamo che per SB l'obbedienza è il cammino attraverso cui si ritorna a Dio (Prol. 2). Incontestabilmente nella RB l'obbedienza costituisce l'asse dell'itinerario monastico.

Obbedienza pronta e sue motivazioni Il v.1 sembrerebbe in contraddizione con il capitolo 7. Ma qui non si parla di gradino nel senso di una serie come nel capitolo 7, “primo” qui significa “il principale” o più perfetto, “primo nel tempo”, “fondamentale” dal punto di vista della pedagogia monastica. Quindi la frase “primus humilitatis gradus” del v.1 si può tradurre: “Il principio dell'umiltà”, “la manifestazione più evidente dell'umiltà” e simili. Questa nozione del primato (nel senso spiegato) dell'obbedienza nella formazione cenobitica è unanime nella tradizione monastica.

«Obbedienza senza indugio» “sine mora”: è il carattere più evidente della vera obbedienza e SB vi insiste per tutta la prima parte del capitolo. L'amore di Cristo balza evidentemente come il motivo fondamentale e il più nobile per obbedire. L'idea non è nuova: il monaco impugna le gloriose armi dell'obbedienza per militare sotto Gesù Cristo vero Re (Prol. 3). Si ricordino anche gli strumenti 10 e 21 del capitolo 4. Evidente anche il richiamo nella struttura grammaticale al “Niente anteporre all'amore di Cristo” di RB 4,21 e al “Nulla assolutamente antepongano a Cristo” di RB.72,11. Possono però esserci altri motivi meno elevati anche se validi e la RB li enumera: il servizio santo a cui si sono consacrati, il timore dell'inferno, il desiderio della vita eterna; ma in tutti e tre questi motivi è sempre supposto e incluso il primo, quello dell'amore integrale a Cristo, da cui il monaco non può prescindere. SB descrive, accumulando molte espressioni, l'atteggiamento fedele del monaco e la prima caratteristica dell'obbedienza: prontezza come dinanzi a un comando di Dio, rapidità, quasi simultaneità tra l'ordine del superiore e l'esecuzione del discepolo. “Lasciando incompiuto...”. Cassiano avverte che al segnale dell'orazione e del lavoro si interrompeva anche una lettera dell'alfabeto già iniziata (Inst 4,12).

Letteralmente il v.10 recita «quibus ad vitam aeternam gradiendi amor incumbit» tanta perfezione d'obbedienza è un bisogno e una gioia dell'anima perché incombe, incalza (questo è il senso del verbo latino) l'amore per la vita eterna di cui si diceva negli strumenti delle buone opere “desiderarla con tutto l'ardore spirituale” (RB 4,46). Segue una descrizione breve ma abbastanza completa e precisa dell'obbedienza cenobitica.

Motivazione biblica dell'obbedienza La Regola viene paragonata alla “strada stretta” (v. 11) di cui si parla nel discorso della montagna (Mt 7,14); poi si definisce l'obbedienza prima al negativo, poi al positivo. Negativamente è rinunciare alla volontà propria: “non vivono secondo il proprio capriccio personale” e “non obbediscono ai desideri e gusti propri” (v. 12). Le espressioni richiamano due strumenti delle buone opere: RB 4,59 e 60. Positivamente l'obbedienza è:

  • camminare secondo il giudizio e la volontà di un altro;
  • passare la vita in monastero;
  • desiderare di essere sottomessi a un abate;
  • si imita in tal modo il Signore che disse di se stesso: “Non sono venuto a fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato (Gv 6,38).

Il primo elemento corrisponde al 61° strumento delle buone opere e, insieme al secondo (stabilità in monastero, RB 4,78), caratterizza i cenobiti che “vivono in monastero militando sotto una Regola e un abate” (RB 1,2).

Il terzo elemento vuole indicare il carattere libero e volontario dell'obbedienza su cui si insisterà in seguito; la Regola dice altrove che l'obbedienza è un bene (RB 71,1) e pertanto desiderabile (ma qui SB dice che “desiderano essere sottomessi”!). Tutto ciò proviene dal quarto elemento messo sopra, che riassume, concludendola, questa parte del capitolo: l'imitazione di Cristo.

Qualità, sopratutto interiori, dell'obbedienza La Regola insiste sulle qualità che deve avere l'obbedienza cenobitica per essere veramente gradita a Dio e “dolce agli uomini”. Quest'ultima espressione è un tocco sapiente e amorevole di umanità e finezza psicologica del santo Patriarca. Anche per il superiore dare un ordine non è sempre facile: riesce perciò di conforto per lui incontrare un'obbedienza sollecita e sorridente. Dunque si obbedisca senza esitazione o ritardo – si raccomanda ancora la celerità – o svogliatezza oppure con mormorazioni o proteste (v.14), ma volentieri e serenamente, perché “Dio ama chi dona con gioia” (v.16).

Di buon animo: parole importanti che devono penetrare nell'animo del monaco. “Dio guarda nel profondo del cuore” (v. 18); obbedire esteriormente non basta, se l'atto non è accompagnato dalla buona volontà profonda e sincera di chi obbedisce: l'obbedienza si deve interiorizzare.

Tra tutti i difetti che annullano il valore dell'obbedienza, il peggiore è il vizio della mormorazione. SB ne ha un'avversione particolare, sia essa esteriore o solo interiore, e dice che i mormoratori incorreranno nella pena prevista (v.19). Certo, questa nota finale, redatta sullo stile del codice penale, suona un po' strana in questo capitolo di pura spiritualità; perché è chiaro che qui non si parla del giudizio di Dio, ma della disciplina regolare contro la mormorazione. Senza dubbio la clausola stona. Ma SB era un “uomo pratico secondo Gesù Cristo”.

Nel capitolo V possiamo individuare due motivazioni principali per l'obbedienza monastica:

  1. motivazione ascetica (rinunzia a se stesso, alla propria volontà, ai propri gusti);
  2. motivazione sopratutto teologica (obbedire per amore di Cristo).

Dai testi biblici del capitolo V appare la figura di Cristo:

  • come colui al quale si obbedisce (Lc 10,16 citato nel v. 6 e nel v. 15)
  • e come colui che si imita nell'obbedire (Gv 6,38 citato nel v. 13).

In altre parole: Cristo è rappresentato

  • una volta nell'abate che ordina
  • e una volta nel monaco che obbedisce.

Ecco i due aspetti che risultano dai due testi evangelici:

  • obbedire come Cristo e
  • obbedire come a Cristo.

Ambedue gli aspetti dell'obbedienza – comandare e obbedire – hanno il fondamento ultimo in Gesù Cristo.

L'abate non potrebbe esigere un'obbedienza assoluta senza essere autorizzato da Gesù (di cui fa le veci in monastero, RB 2,2); e d'altra parte l'obbedienza è cristologica in quanto ispirata dall'amore a Cristo (RB 5,13)

«Cristo appare sia come Maestro che come discepolo, poiché di fatto egli è nel medesimo tempo, inseparabilmente, il Verbo che legifera e il Servo che si umilia. Così in questa relazione monastica fondamentale, Cristo è rappresentato nella sua esistenza drammatica e nelle sue dimensioni totali: la sua sovranità divina e la sua umiliazione fino all'estremo..., una cosa non esiste senza l'altra. E la gloria e la genuinità sublime del monachesimo e della sua teologia viva sta proprio in questa rappresentazione drammatica, o meglio sacramentale, della Persona e della vita di Cristo.» (H.U. Von Balthasar)

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


🔝C A L E N D A R I OHomepage

Capitolo IV – Gli strumenti delle buone opere

Il decalogo 1 Prima di tutto amare il Signore Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze; 2 poi il prossimo come se stesso. 3 Quindi non uccidere, 4 non commettere adulterio, 5 non rubare, 6 non avere desideri illeciti, 7 non mentire; 8 onorare tutti gli uomini, 9 e non fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi.

Rinuncia a se stesso e opere di misericordia 10 Rinnegare completamente se stesso. per seguire Cristo; 11 mortificare il proprio corpo, 12 non cercare le comodità, 13 amare il digiuno. 14 Soccorrere i poveri, 15 vestire gli ignudi, 16 visitare gli infermi, 17 seppellire i morti ; 18 alleviare tutte le sofferenze, 19 consolare quelli che sono nell’afflizione.

Odiare il mondo, amare Cristo 20 Rendersi estraneo alla mentalità del mondo; 21 non anteporre nulla all’amore di Cristo.

Mansuetudine e sincerità; vizi da evitare 22 Non dare sfogo all’ira, 23 non serbare rancore, 24 non covare inganni nel cuore, 25 non dare un falso saluto di pace, 26 non abbandonare la carità. 27 Non giurare per evitare spergiuri, 28 dire la verità con il cuore e con la bocca, 29 non rendere male per male, 30 non fare torti a nessuno, ma sopportare pazientemente quelli che vengono fatti a noi; 31 amare i nemici, 32 non ricambiare le ingiurie e le calunnie, ma piuttosto rispondere con la benevolenza verso i nostri offensori, 33 sopportare persecuzioni per la giustizia. 34 Non essere superbo, 35 non dedito al vino, 36 né vorace, 37 non dormiglione, 38 né pigro; 39 non mormoratore, 40 né maldicente.

Retto giudizio di sé 41 Riporre in Dio la propria speranza, 42 attribuire a Lui e non a sé quanto di buono scopriamo in noi, 43 ma essere consapevoli che il male viene da noi e accettarne la responsabilità.

Novissimi 44 Temere il giorno del giudizio, 45 tremare al pensiero dell’inferno, 46 anelare con tutta l’anima alla vita eterna, 47 prospettarsi sempre la possibilità della morte.

Custodia di sé 48 Vigilare continuamente sulle proprie azioni, 49 essere convinti che Dio ci guarda dovunque. 50 Spezzare subito in Cristo tutti i cattivi pensieri che ci sorgono in cuore e manifestarli al padre spirituale. 51 Guardarsi dai discorsi cattivi o sconvenienti, 52 non amare di parlar molto, 53 non dire parole leggere o ridicole, 54 non ridere spesso e smodatamente.

Spirito di preghiera e di compunzione 55 Ascoltare volentieri la lettura della parola di Dio, 56 dedicarsi con frequenza alla preghiera; 57 in questa confessare ogni giorno a Dio con profondo dolore le colpe passate 58 e cercare di emendarsene per l’avvenire.

Sottomissione della carne e dello spirito 59 Non appagare i desideri della natura corrotta, 60 odiare la volontà propria, 61 obbedire in tutto agli ordini dell’abate, anche se – Dio non voglia! – questi agisse diversamente da come parla, ricordando quel precetto del Signore:» Fate quello che dicono, ma non fate quello che fanno». 62 Non voler esser detto santo prima di esserlo, ma diventare veramente tale, in modo che poi si possa dirlo con più fondamento. 63 Adempiere quotidianamente i comandamenti di Dio.

Amore fraterno 64 Amare la castità, 65 non odiare nessuno, 66 non essere geloso, 67 non coltivare l’invidia, 68 non amare le contese, 69 fuggire l’alterigia 70 e rispettare gli anziani, 71 amare i giovani, 72 pregare per i nemici nell’amore di Cristo, 73 nell’eventualità di un contrasto con un fratello, stabilire la pace prima del tramonto del sole.

Fiducia nella misericordia del Signore 74 E non disperare mai della misericordia di Dio.

La “paga” per l'uso degli strumenti 75 Ecco, questi sono gli strumenti dell’arte spirituale! 76 Se li adopereremo incessantemente di giorno e di notte e li riconsegneremo nel giorno del giudizio, otterremo dal Signore la ricompensa promessa da lui stesso: 77 «Né occhio ha mai visto, né orecchio ha udito, né mente d’uomo ha potuto concepire ciò che Dio ha preparato a coloro che lo amano».

la “officina” per l'uso degli strumenti 78 L’officina poi in cui bisogna usare con la massima diligenza questi strumenti è formata dai chiostri del monastero e dalla stabilità nella propria famiglia monastica.

=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti

CAPITOLI 4-7: Sezione ascetica La Regola non è un trattato di teologia ascetico-mistica e quindi in essa non si possono cercare grandi disquisizioni sulle virtù, sui vizi, sulla preghiera e la contemplazione. S.Benedetto per queste cose rimanda a:

  1. Sacra Scrittura
  2. Padri della Chiesa
  3. Scrittori monastici (RB.73,2-6)

Però un “corpus ascetico” propriamente detto, considerato dalla tradizione come base e fondamento della spiritualità benedettina, lo forma un gruppo di quattro capitoli dedicati interamente a esporre una serie di linee ascetiche e una dottrina sopra alcune virtu` considerate come fondamentali per la vita del monaco:

  • cap. 4: Gli strumenti delle buone opere;
  • cap. 5: L'obbedienza;
  • cap. 6: L'amore al silenzio;
  • cap. 7: L'umiltà.

Il capitolo 4 è un lungo elenco di massime morali molto brevi; a un esame anche superficiale appare che buona parte, sia dei termini che del contenuto dottrinale, si ritrova nei capitoli 5-6-7, con i quali forma una unità letteraria, li prepara e in un certo senso ne anticipa la dottrina.

Si è parlato giustamente di “trilogia benedettina”, cioè: obbedienza, taciturnità, umiltà. Ma sarebbe errato considerare queste tre virtù basilari dell'ascetismo monastico su uno stesso piano. L'umiltà è la madre dell'obbedienza e della taciturnità; obbedienza e taciturnità sono due modalità di uno stesso comportamento di sottomissione; nei due casi il superiore è considerato sotto due aspetti differenti: l'obbedienza rende omaggio ai suoi ordini, la taciturnità ai suoi insegnamenti. Legando insieme obbedienza e taciturnità in forza dell'ascolto che è il loro momento comune, ritroviamo l'idea della loro filiazione dell'umiltà (idea che è propria di Cassiano): significa dare prova di umiltà mortificare la propria volontà e sottomettersi all'anziano, trattenere la lingua e moderare la voce.

È difatti nel capitolo 7 della RB, nella scala dell'umiltà, l'obbedienza è il tema più rilevante dei quattro primi gradini, mentre la taciturnità, già presente nel quarto gradino, è materia propria dei gradini 9, 10 e 11. Possiamo dunque dire che l'obbedienza è l'umiltà nell'agire, la taciturnità è l'umiltà nel parlare: l'una è pronta ad agire, l'altra lenta a parlare.

Abbiamo dunque la trilogia propriamente monastica: obbedienza – taciturnità – umiltà (capitoli 5-6-7), dopo il capitolo 4 sulle buone opere, che ha un carattere più universale.

Capitolo IV – Gli strumenti delle buone opere Il capitolo ha una fisionomia particolare: è tutta una serie di precetti brevi, quasi sempre formulati secondo il medesimo schema, che i monaci potevano imparare a memoria (procedimento usato anche per i catecumeni quando si preparavano al battesimo, fino ai nostri catechismi di qualche anno fa). Questo genere di insegnamento sotto forma di proverbi fu molto amato dai cristiani e dai monaci antichi. Si ricordino: i “Monita” dell'abate Porcario, le “Sentenze' di Evagrio Pontico, tanto che alcuni credono che SB abbia preso un elenco che andava in giro per i monasteri e lo abbia tramandato nella Regola.

La visione della vita monastica come appare dal “catechismo” in forma di massime che è il capitolo 4 della RB è questa: il monaco è l'operaio di Dio (Prol. 14; RB 7,49.70) che, nell'officina del monastero, in compagnia e in comunione con gli altri operai che formano la sua famiglia religiosa, fatica notte e giorno in un lavoro interamente spirituale – l'arte spirituale del v.75 – maneggiando strumenti spirituali che sono le virtù, sperando e fidando della grazia e della misericordia del suo Signore che, nel giorno benedetto in cui riconsegnerà gli attrezzi, possa ricevere la ricompensa delle sue fatiche: «Ciò che occhio non ha mai visto, né orecchio mai udito, né mai entrato in cuore di uomo: questo, Dio ha preparato per coloro che lo amano» (1Cor 2,9).

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


🔝C A L E N D A R I OHomepage

Capitolo III – La consultazione della comunità

Convocazione di tutta la comunità per le questioni importanti 1 Ogni volta che in monastero bisogna trattare qualche questione importante, l’abate convochi tutta la comunità ed esponga personalmente l’affare in oggetto. 2 Poi, dopo aver ascoltato il parere dei monaci, ci rifletta per proprio conto e faccia quel che gli sembra più opportuno. 3 Ma abbiamo detto di consultare tutta la comunità, perché spesso è proprio al più giovane che il Signore rivela la soluzione migliore.

Comportamento dei monaci e dell'abate nel consiglio 4 I monaci poi esprimano il loro parere con tutta umiltà e sottomissione, senza pretendere di imporre a ogni costo le loro vedute; 5 comunque la decisione spetta all’abate e, una volta che questi avrà stabilito ciò che è più conveniente, tutti dovranno obbedirgli. 6 D’altra parte, come è doveroso che i discepoli obbediscano al maestro, così è bene che anche lui predisponga tutto con prudenza ed equità.

Autorità della Regola 7 Dunque in ogni cosa tutti seguano come maestra la Regola e nessuno osi allontanarsene. 8 Nessun membro della comunità segua la volontà propria, 9 né si azzardi a contestare sfacciatamente con l’abate, dentro o fuori del monastero. 10 Chi si permette un simile contegno, sia sottoposto alle punizioni previste dalla Regola. 11 L’abate però dal canto suo operi tutto col timor di Dio e secondo le prescrizioni della Regola, ben sapendo che di tutte le sue decisioni dovrà certamente rendere conto a Dio, giustissimo giudice.

Consiglio degli anziani per le questioni di minore importanza 12 Se poi in monastero si devono trattare questioni di minore importanza, si serva solo del consiglio dei più anziani, 13 come sta scritto: «Fa’ tutto col consiglio e dopo non avrai a pentirtene».

=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti

Questo capitolo finisce di determinare la costituzione organica della comunità, stabilendo il ruolo che spetta a ciascun membro nel governo del monastero. Nella RM è un tutt'uno col capitolo 2 sull'abate e difatti è strettamente collegato con esso. Tuttavia SB se ne distacca e ne fa un capitolo a sé in cui, pur dipendendo dalla RM, notiamo una sua originalità. Possiamo ricordare brevemente i precedenti storici del consiglio degli anziani nella tradizione monastica: le assemblee degli anacoreti di Scete; nelle “Vite” copte di S. Pacomio, si racconta che il superiore generale riuniva i “grandi” o “anziani” della “koinonia”; le Regole di S. Basilio presentano un parallelo perfetto con le disposizioni della RB. Tuttavia in questi passi si tratta sempre di un consiglio ridotto scelto, composto di uomini “capaci di giudicare” e sembra che essi non si limitano ad esporre il loro parere, ma danno un voto abbastanza decisivo. In SB c'è una impostazione diversa del cenobio e quindi dei rapporti tra abate e comunità.

1-3: Convocazione di tutta la comunità (per cose di maggiore importanza). Quando si tratta di affari di grande importanza, deve essere convocata tutta la comunità. Si tratta proprio di un consiglio generale. Esso ha le seguenti caratteristiche:

  • lo convoca l'abate,
  • espone il problema lo stesso abate,
  • l'abate infine, udito il parere di tutti, riflette sulla cosa e decide quanto ritiene opportuno.

Si tratta perciò di un consiglio puramente consultivo. Quindi la convocazione dei fratelli a consiglio non significa una restrizione dei poteri abbaziali o un voler dare una forma “democratica” alla direzione del monastero. Per SB l'autorità dell'abate è intangibile e non ammette opposizione alcuna. Tutto questo appare chiaro e senza alcun dubbio dal testo della RB: l'abate non perde assolutamente nulla della sua autorità. Bisogna pure notare, però, che queste riunioni non possono fare a meno di stimolare l'interesse di tutti per l'andamento del monastero: sono una vera partecipazione al governo del cenobio, anche se la decisione rimane dell'abate. I monaci cessano di essere dei minorenni a cui si presenta tutto già stabilito e definitivo; sono persone adulte che pensano con la loro testa, hanno idee e convinzioni proprie che l'autorità deve soppesare e apprezzare. Si instaura così un dialogo generale in cui i monaci si manifestano, si conoscono, formano realmente una comunità. Quindi questa disposizione di Benedetto di convocare tutti senza eccezione ha un'importanza decisiva per l'instaurazione di autentiche relazioni tra monaci e monaci, e tra monaci e abate, per la formazione di quello spirito di famiglia, caratteristico dei cenobi benedettini. Il motivo ultimo di questa determinazione è spirituale. SB non si rifà a una legge esteriore, come sembra fare la RM (nella RM il consiglio si riferisce solo ai beni materiali e si basa sul principio della proprietà corporativa: “le sostanze del monastero sono di tutti e di nessuno” (RM 2,48); ma ad una profonda convinzione basata sulla fede: “spesso è al più giovane che il Signore rivela la soluzione migliore” (v.3). SB qui allude certamente al passo di Mt 11,25: “... hai tenute nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” e pensa a Samuele e a Daniele che giudicarono gli anziani (cf 1Sam 3 e Dan 13), come dirà espressamente in un altro capitolo (RB 63,6). Principio spirituale quindi, ma anche – a pensarci bene – molto umano e psicologico; si tratta di sapere ciò che chiede il Signore a una comunità in una data situazione e il Signore lo può rivelare a uno dei membri meno qualificati (principio spirituale); ma SB sa pure che i monaci giovani in genere hanno maggiore entusiasmo e generosità e sono liberi da pregiudizi e da interessi personali (principio umano).

4-6: Comportamento dei monaci e dell'abate Seguono alcune norme pratiche sulla maniera di manifestare il proprio parere: è il galateo monastico delle riunioni di famiglia. Se SB vuole che l'abate consulti i fratelli, ciò non dispensa questi ultimi dai doveri di umiltà e di rispetto; essi sono chiamati ad esporre il proprio parere e non a farlo prevalere a tutti i costi; quindi sottomissione, umiltà, obbedienza a ciò che l'abate decide alla fine. Troviamo espressioni che richiamano l'atteggiamento da tenersi nell'ufficio divino (RB 20,1) e che si rifanno al vocabolario dell'obbedienza; quella dell'obbedienza e della sottomissione è in ogni circostanza la strada maestra per i monaci che hanno scelto di “militare sotto la Regola e un abate” (RB 1,2). Ci si potrebbe chiedere: la RB proibisce di “sostenere ostinatamente” il proprio parere; ma se uno insiste sulla sua idea senza petulanza, con calma e semplicità, è lecito o no secondo SB? È impossibile rispondere con sicurezza! Senza dubbio, l'abate deve tener conto dei consigli che gli si danno; la convocazione dei fratelli non può ridursi a una pura commedia; certo, la decisione ultima spetta a lui, ma questa non può essere dettata da arbitrarietà; SB chiede che egli penda dalla parte più conveniente, più opportuna (v.5) e aggiunge, in una frase solenne, che “se è doveroso per i discepoli obbedire, altrettanto doveroso è per il maestro decidere con prudenza e giustizia” (v.6). Abbiamo perciò una botta di qua e una di là, come appare molto di più nel brano seguente.

7-11: Autorità della Regola Si enuncia ora un principio assoluto e di portata generale: “In ogni cosa tutti seguano la Regola come maestra e nessuno ardisca temerariamente allontanarsene” (v.7). Qual'è il significato esatto di un principio così categorico? Che esso valga sia per i monaci che per l'abate è indiscutibile. Perciò – ci si domanda – allontanarsi talvolta dal contenuto letterale o anche dal senso della Regola implica necessariamente temerarietà e bisogna quindi evitarlo ad ogni costo? O non piuttosto a volte si può – e talvolta si deve – date le circostanze, prescindere dai precetti della Regola? In tutti i modi, sembra certo che questa frase, grave e maestosa, più che per i monaci (anche per loro, certamente) è scritta per porre rimedio ad eventuali capricci dell'abate, il quale con ogni probabilità va considerato incluso in quel “nessuno” del versetto seguente: “nessuno in monastero segua i capricci del proprio cuore” (v.8). In compenso, segue nei vv.9-10 una frase per salvaguardare l'autorità dell'abate: non discutere insolentemente o altercare sfacciatamente con lui (ma naturalmente in riunione con umiltà e delicatezza si può contraddirlo). Poi (v.11) di nuovo un richiamo per l'abate. Come si vede, è quasi un tira e molla tra i due poli del cenobio: comunità e abate. I correttivi dell'autorità abbaziale sono dunque due: il timore del giudizio divino (rendiconto a Dio, cf. RB 2 e RB 64 più di una volta) e la Regola cui anche lui deve sottomettersi.

12-13: Consiglio degli anziani (per cose di minore importanza) Quando si tratta di minora – “affari di minore importanza, contrapposto a “praecipua” del v.1), l'abate si limita a consultare gli anziani. Per “anziani” non si intende una categoria sociale (cioè in rapporto all'età, anche se essa poteva avere una certa importanza), ma una categoria spirituale; nella RB se ne parla come di coloro che, essendo più maturi spiritualmente, più formati nella vita monastica, disimpegnano i vari uffici: decani, maestro dei novizi, portinai...; SB conclude con una citazione esplicita della Scrittura (l'unica del capitolo) che in realtà è composta di due citazioni: Prov 31,3 e Sir 32,34 (ricordiamo l'uso libero che SB fa della Bibbia come uno che ne ha grande familiarità e cita a memoria): “Fa ogni cosa con il consiglio...”, un principio di saggezza umana corroborata dalla Parola di Dio; così il “padre del monastero” utilizza la prudenza e l'esperienza dei fratelli prima di prendere una decisione, in modo che tutti collaborino alla ricerca della volontà di Dio, che è l'unica cosa che importa.

Conclusione In questo capitolo terzo SB riconosce che l'abate ha – come diremmo oggi – un carisma particolare come superiore; ma questo carisma non può essere visto al di fuori del contesto di una comunità viva e di una Regola. In SB notiamo l'insistenza tra diritti e doveri dell'abate (abbiamo visto quasi un tira e molla): non vuole assolutamente limitare il potere dell'abate, che anzi appare nel capitolo piuttosto rinforzato; quanto ai doveri, li propone con una forza nuova; non consistono solo (come per RM) nell'ascoltare tutti, ma l'abate è invitato a “disporre ogni cosa con prudenza e giustizia” (v.6), ad “agire sempre con timor di Dio e rispetto della Regola” (v.11), pensando al giudizio divino. Queste raccomandazioni denotano un senso nuovo della fallibilità del superiore. SB cerca di equilibrare e sintetizzare questi tre elementi”

  • il carisma abbaziale di guida e maestro;
  • il dono del discernimento che ha la comunità;
  • la sapienza accumulata dalla tradizione e codificata nella Regola.

Tutti sono sotto la Regola. Questo è un punto importante: tutti, abate e monaci, sono sotto la Regola; per SB essa è norma suprema. Senza dubbio il ricorso alla Regola è in relazione alle difficoltà del momento; però c'è un elemento permanente: in tutti i tempi, e sopratutto in periodi di rilassamento, la comunità e l'abate non possono avere salvaguardia che il rispetto religioso di una Regola intangibile; un abate non è niente senza una Regola. Per SB il consiglio dei fratelli è consultivo. Pur conservando questo spirito della costituzione benedettina del monastero, la Chiesa è intervenuta nel corso dei secoli per eliminare o prevenire abusi e ha limitato in qualche punto e in certe circostanze i poteri abbaziali; così pure per determinati casi ha imposto e reso deliberativo il voto dei monaci. Oggi il Codice di Diritto Canonico e le Costituzioni delle singole Congregazioni fissano delle norme precise per il capitolo di famiglia.

Tratto da:APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


🔝C A L E N D A R I OHomepage

Capitolo II – L’Abate

1 Un abate degno di stare a capo di un monastero deve sempre avere presenti le esigenze implicite nel suo nome, mantenendo le proprie azioni al livello di superiorità che esso comporta. 2 Sappiamo infatti per fede che in monastero egli tiene il posto di Cristo, poiché viene chiamato con il suo stesso nome, 3 secondo quanto dice l’Apostolo: «Avete ricevuto lo Spirito di figli adottivi, che vi fa esclamare: Abba, Padre!»

Cristo Maestro e Pastore: così l'abate 4 Perciò l’abate non deve insegnare, né stabilire o ordinare nulla di contrario alle leggi del Signore, 5 anzi il suo comando e il suo insegnamento devono infondere nelle anime dei discepoli il fermento della santità. 6 Si ricordi sempre che nel tremendo giudizio di Dio dovrà rendere conto tanto del suo insegnamento, quanto dell’obbedienza dei discepoli 7 e sappia che il pastore sarà considerato responsabile di tutte le manchevolezze che il padre di famiglia avrà potuto riscontrare nel gregge. 8 D’altra parte è anche vero che, se il pastore avrà usato ogni diligenza nei confronti di un gregge irrequieto e indocile, cercando in tutti i modi di correggerne la cattiva condotta, 9 verrà assolto nel divino giudizio e potrà ripetere con il profeta al Signore: «Non ho tenuto la tua giustizia nascosta in fondo al cuore, ma ho proclamato la tua verità e la tua salvezza; essi tuttavia mi hanno disprezzato, ribellandosi contro di me». 10 E allora la giusta punizione delle pecore ribelli sarà la morte, che avrà finalmente ragione della loro ostinazione.

Duplice insegnamento: con la parola e con l'esempio 11 Dunque, quando uno assume il titolo di Abate deve imporsi ai propri discepoli con un duplice insegnamento, 12 mostrando con i fatti più che con le parole tutto quello che è buono e santo: in altri termini, insegni oralmente i comandamenti del Signore ai discepoli più sensibili e recettivi, ma li presenti esemplificati nelle sue azioni ai più tardi e grossolani. 13 Confermi con la sua condotta che bisogna effettivamente evitare quanto ha presentato ai discepoli come riprovevole, per non correre il rischio di essere condannato dopo aver predicato agli altri 14 e di non sentirsi dire dal Signore per i suoi peccati: «Come ti arroghi di esporre i miei precetti e di avere sempre la mia alleanza sulla bocca, tu che hai in odio la disciplina e ti getti le mie parole dietro le spalle?» 15 e ancora: «Tu che vedevi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello, non ti sei accorto della trave nel tuo».

L'imparzialità dell'Abate 16 Si guardi dal fare preferenze nelle comunità: 17 non ami l’uno più dell’altro, a eccezione di quello che avrà trovato migliore nella condotta e nell’obbedienza: 18 non anteponga un monaco proveniente da un ceto elevato a uno di umili origini, a meno che non ci sia un motivo ragionevole per stabilire una tale precedenza. 19 Ma se, per ragioni di giustizia, riterrà di dover agire così lo faccia per chiunque; altrimenti ciascuno conservi il proprio posto, 20 perché, sia il servo che il libero, tutti siamo una cosa sola in Cristo e, militando sotto uno stesso Signore, prestiamo un eguale servizio. Infatti, «dinanzi a Dio non ci sono parzialità» 21 e una cosa sola ci distingue presso di lui: se siamo umili e migliori degli altri nelle opere buone. 22 Quindi l’abate ami tutti allo stesso modo, seguendo per ciascuno una medesima regola di condotta basata sui rispettivi meriti.

La correzione tempestiva ed efficace dell'Abate 23 Per quanto riguarda poi la direzione dei monaci, bisogna che tenga presente la norma dell’apostolo: «Correggi, esorta, rimprovera» 24 e precisamente, alternando i rimproveri agli incoraggiamenti, a seconda dei tempi e delle circostanze, sappia dimostrare la severità del maestro insieme con la tenerezza del padre. 25 In altre parole, mentre deve correggere energicamente gli indisciplinati e gli irrequieti, deve esortare amorevolmente quelli che obbediscono con docilità a progredire sempre più. Ma è assolutamente necessario che rimproveri severamente e punisca i negligenti e coloro che disprezzano la disciplina. 26 Non deve chiudere gli occhi sulle eventuali mancanze, ma deve stroncarle sul nascere, ricordandosi della triste fine di Eli, sacerdote di Silo. 27 Riprenda, ammonendoli una prima e una seconda volta, i monaci più docili e assennati, 28 ma castighi duramente i riottosi, gli ostinati, i superbi e i disobbedienti, appena tentano di trasgredire, ben sapendo che sta scritto: «Lo stolto non si corregge con le parole» 29 e anche: «Battendo tuo figlio con la verga, salverai l’anima sua dalla morte».

Dirigere le anime 30 L’abate deve sempre ricordarsi quel che è e come viene chiamato, nella consapevolezza che sono maggiori le esigenze poste a colui al quale è stato affidato di più. 31 Bisogna che prenda chiaramente coscienza di quanto sia difficile e delicato il compito che si è assunto di dirigere le anime e porsi al servizio dei vari temperamenti, incoraggiando uno, rimproverando un altro e correggendo un terzo: 32 perciò si conformi e si adatti a tutti, secondo la rispettiva indole e intelligenza, in modo che, invece di aver a lamentare perdite nel gregge affidato alle sue cure, possa rallegrarsi per l’incremento del numero dei buoni.

Primato delle anime sugli affari temporali 33 Soprattutto si guardi dal perdere di vista o sottovalutare la salvezza delle anime, di cui è responsabile, per preoccuparsi eccessivamente delle realtà terrene, transitorie e caduche, 34 ma pensi sempre che si è assunto l’impegno di dirigere delle anime, di cui un giorno dovrà rendere conto 35 e non cerchi una scusante nelle eventuali difficoltà economiche, ricordandosi che sta scritto : «Cercate anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in soprappiù» 36 e anche: «Nulla manca a coloro che lo temono».

Osservazione escatologica conclusiva 37 Sappia inoltre che chi si assume l’impegno di dirigere le anime deve prepararsi a renderne conto 38 e stia certo che, quanti sono i monaci di cui deve prendersi cura, tante solo le anime di cui nel giorno del giudizio sarà ritenuto responsabile di fronte a Dio, naturalmente oltre che della propria. 39 Così nel continuo timore dell’esame a cui verrà sottoposto il pastore riguardo alle pecore che gli sono state affidate mentre si preoccupa del rendiconto altrui, si fa più attento al proprio 40 e corregge i suoi personali difetti, aiutando gli altri a migliorarsi con le sue ammonizioni.

=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti

Esclusi dalla sua prospettiva eremiti, sarabaiti e girovaghi, SB comincia ad organizzare il cenobio che, per sua definizione, è una società con una legge che lo regola e un capo che ne costituisce l'anima e il fondamento. Ecco allora, all'inizio della RB, questo fondamentale capitolo che, dopo il 7°, è il più lungo (a parte il prologo) e senza dubbio uno dei più gravi e solenni.

SB dedica all'abate e alla sua funzione due capitoli: il secondo, dove la figura del superiore è esaminata in connessione con la dottrina spirituale che deve insegnare; e il 64°, che tratta dell'elezione dell'abate e in cui è ripreso il tema dei compiti affidatigli. Tuttavia, dell'abate si parla in quasi tutta la Regola per l'importanza del ruolo come lo concepisce SB, sopratutto nella “sezione disciplinare”. È l'abate che sceglie il priore e il cellario (RB 65,11; 31,1) e forse anche i decani (RB 21,1); che si prende cura degli scomunicati (RB 27-28) ed eventualmente può cacciare un monaco recalcitrante (RB 28,6). All'abate sono affidati la responsabilità dell'amministrazione, gli uffici più importanti nella liturgia; egli può cambiare l'ordine dei posti e la misura dei cibi e delle bevande.

La figura dell'abate come SB la propone e come è vista nella prospettiva di oggi Dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II, la questione dell'abate è stata molto discussa e studiata, specialmente a causa della crisi in cui si è trovata la figura del superiore nelle comunità religiose. Le cause sono varie:

  • l'esigenza di una maggiore democraticità nei confronti dei superiori troppo accentratori e dittatoriali;
  • la necessità di rendere più responsabili i membri della comunità, evitando i rischi di infantilismo;
  • la profonda revisione cui è stata soggetta la comunità religiosa.

Perciò si è cercato di riscoprire attraverso molti studi le differenti figure del superiore nella tradizione monastica. Sono due, in particolare, le immagini più note:

  • La figura dell'anziano di provata esperienza e dotato di carismi personali, capace di avviare il discepolo alla vita monastica e di dirigerlo personalmente. Questa immagine, ben conosciuta sopratutto dagli apoftegmi e dalle collazioni di Cassiano, vede l'anziano circondato da discepoli, ma il rapporto non è stabile e l'obbedienza, pur ritenuta un valore importante, non è una virtù obbligante né stabile. Ciò che lega anziano e discepolo è sopratutto la parola e l'esempio del maggiore; è così che il discepolo cresce e può diventare a sua volta maestro e padre di altri.
  • La figura di superiore nella tradizione pacomiana. La comunità è stabile e numerosa, l'accento è posto sopratutto sulla “koinonia” tra i membri di cui il superiore è garante, colui che deve consolidarla e renderla fervente. La funzione abbaziale è dunque un servizio reso alla comunità dei fratelli.

Il termine “abate” “Abbas-abate” dall'aramaico abba = padre, nel NT si applica solo a Dio, Padre del Signore Nostro Gesù Cristo e Padre nostro ed è Gesù che lo pronuncia e lo Spirito Santo lo pone sulle nostre labbra (Rm 8,15). Allora, come è possibile applicarlo ad un uomo? Tanto più che Gesù dice: “Non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo” (Mt 23,9). S. Girolamo si indignava che ci fossero nei monasteri quelli che chiamavano altri o si facevano chiamare con tale nome. In realtà, l'unica giustificazione possibile per attribuire ad un uomo, sul piano religioso, il nome di “abbà” è quella di rendere omaggio all'unica paternità di Dio che tale uomo rappresenta.

Agli inizi del monachesimo si cominciò ad usare tra i monaci la parola abbà (in Egitto apà in copto) senza alcun riferimento a potere di governo; si dava a monaci venerando non come puro titolo onorifico, ma come a veri padri spirituali, persone attraverso le quali si esercitava la paternità di Dio nel deserto; apa-abba non era l'uomo che governava in monastero, ma solo il monaco che era arrivato alla perfezione ed era ripieno dello Spirito di Dio, che possedeva il discernimento degli spiriti, la scienza spirituale, era capace di pronunciare parole di salvezza ispirate dallo Spirito Santo, capace di generare figli secondo lo Spirito, fino a formare in loro monaci perfetti e futuri “padri spirituali”, questa è l'immagine più comune che si ritrova negli Apoftegmi e in Cassiano.

Però, come si sa, le parole si evolvono con l'uso e cambiano di senso; piano piano “abba” si trasforma in puro titolo onorifico o titolo di governo; il suo significato tecnico, caratteristico e pregnante di “padre spirituale”, di “anziano” che guida le anime andò man mano sfumando. In occidente il termine “abbas-abate” si impose sugli altri – “padre”, “preposto”, “maggiore” – con cui si designava il superiore di una comunità monastica; nel secolo VI era la parola maggiormente usata e in tal senso la troviamo in RB e RM.

La responsabilità dell'abate SB vuole che l'abate stesso per primo sia consapevole di ciò che comporta il suo nome e sin dall'inizio si appella al suo senso di responsabilità: “deve realizzare con i fatti il nome di superiore”. Se dunque il termine di abate nella RB non richiama il concetto di uomo carismatico, anziano, che comunica lo Spirito ai monaci, tuttavia acquista un nuovo e profondo significato: l'abate fa in monastero le veci di Cristo, e di questo ne siamo convinti per fede. È il grande principio fondamentale – non si tratta di una opinione, di una pia credenza, ma è materia di fede – che è divenuto nella RB la definizione dell'abate.

L'abate secondo la Regola del Maestro Che cosa significa che l'abate fa le veci di Cristo nel monastero? La formula è una sintesi della dottrina esposta a lungo nella RM e di cui restano solo poche tracce in SB. Il succo della RM è questo: l'abate esercita una funzione analoga a quella del vescovo e appartiene come lui alla categoria dei “dottori”, cioè di quei ministri posti da Cristo a capo della Chiesa dopo gli “apostoli” e i “profeti” (1Cor 12,28); come il vescovo governa la Chiesa, così l'abate governa solamente una “schola” di Cristo, cioè il monastero; come il vescovo è assistito da presbiteri, diaconi e chierici, così l'abate si fa coadiuvare da “preposti” (decani nella RB). Questo parallelo tra superiori ecclesiastici e monastici era comune nei testi del secolo VI (così a proposito delle comunità pacomiane, così in Cassiano, ecc.) e si appoggiava sui medesimi testi scritturistici: “Pasci le mie pecorelle...” (Gv 21,17); “Chi ascolta voi, ascolta me” (Lc 10,16).

Il concetto di “dottore” successore degli apostoli dà modo poi alla RM di inserire l'abbaziato nella gerarchia cristiana a fianco all'episcopato. Pare comunque che il successivo sviluppo dell'abate-pontefice rivestito delle insegne pontificali tragga origine non dal testo della RM ma dall'importanza temporale dei monasteri, dal peso cioè da essi esercitato sulla società in campo giuridico, economico e culturale.

L'Abate – dottore L'abate dunque è successore degli apostoli, in quanto “dottore”; rappresentante di Cristo in quanto “abate-padre”. Questi due aspetti sono uniti, dato che “apostoli” e “dottori” sono emissari del Signore. Ci agganciamo così al concetto di monastero come “schola”: la scuola di Cristo deve avere il suo “dottore” che fa le veci dell'unico Maestro. Quindi, non preoccupandosi dell'uso del termine “abate” presso i monaci di Egitto e di altre parti, la RM va subito al NT e si riferisce direttamente a Cristo; così abate non significa altro che “dottore”: le due nozioni hanno lo stesso significato, di una autorità derivante da Cristo. Questa dunque la concezione dell'abate nella RM. SB, nella sua concisione, conserva la sostanza di questa dottrina, pur con modifiche e particolarità proprie, frutto di una diretta e sofferta esperienza in questo campo. SB, cioè, prova che il superiore fa le veci di Cristo dal fatto che è chiamato con il suo stesso nome: “abba-padre”. Al lettore moderno suona molto strano il fatto che Cristo è chiamato “Padre”; e i commentatori hanno cercato di interpretare questo passo che è uno dei più studiati di tutta la Regola! Si sono trovati molti testi di epoca patristica in cui Cristo viene designato come Padre; attraverso Giustino, Clemente Alessandrino, Origene, Atanasio, Agostino, Evagrio Pontico, Cesario di Arles e molti altri, abbiamo la certezza che la dottrina della paternità di Cristo è molto antica, piuttosto comune, tradizionale e ortodossa.

La dottrina della paternità di Cristo Si dà a Cristo il nome di Padre in quanto è il nuovo Adamo (Rm 5,12-21); Sposo della Chiesa (Ef 5,23-33; 1Cor 6,16; Ap 21,9); Maestro dei cristiani (Mt 23,10 ecc.) e il maestro era generalmente considerato come il “padre spirituale” dei suoi discepoli. Cristo può chiamarsi Padre in quanto è la manifestazione della paternità di Dio: Egli è infatti “irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza” (Eb 1,3). In che senso bisogna prendere la paternità di Cristo di cui l'abate è vicario secondo la RB? Si tratta anzitutto di una paternità spirituale, e poi anche di una paternità adottiva, secondo l'altra affermazione di Prol 3-7 in cui si dice che Egli (cioè Cristo, secondo l'interpretazione più comune considerato il contesto e il parallelo con la RM) ci ha adottato come figli. Notiamo che la RB è più cauta che la RM (in cui nel prologo c'è il lungo commento al “Padre Nostro” come preghiera diretta a Cristo), però anche qui appare Cristo come Padre adottivo dei monaci e questa paternità fonda la sua autorità su di loro, come quella dell'abate suo vicario. Tuttavia, l'applicazione del testo paolino di Rom 8,15 non è molto appropriata in quanto la frase, nonostante i paralleli nella letteratura patristica, si riferisce per Paolo direttamente a Dio Padre, non al Figlio. Potremmo dire che dando a Cristo il nome di Padre, SB vuole reagire contro la tendenza ariana di considerare il Figlio come inferiore al Padre. Nello sforzo di salvaguardare la divinità del Signore Gesù, troviamo la ragione per cui è messa in ombra la considerazione di Cristo come “Fratello”, per cui la cristologia di SB risulta un pò unilaterale, mentre si è notata la sua devozione alla Trinità: Dio Padre, Dio Figlio, Dio Spirito sono chiaramente posti in evidenza nella Regola. Ricordiamo il riferimento esplicito all'opera dello Spirito Santo in un momento culminate della Regola: RB 7,70. è senza dubbio come fratello, e non come Padre, che il NT presenta Gesù. I testi sono chiari e numerosi: sono suoi fratelli tutti i poveri, gli abbandonati, gli afflitti (Mt 25,40); “andate a dire ai miei fratelli” (Mt 28,10); Gesù parla di “Padre mio” e “Padre vostro” (Gv 20,17); “primogenito di una moltitudine di fratelli”, dice Paolo (Rom 8,29)...

La unilateralità cristologica della RB presenta l'abate quale vicario non di Cristo-Fratello, ma di Cristo-Padre: eleva l'abate da un livello umano e fraterno – che Cristo adottò nella sua vita mortale – a un piano superiore, eccelso, quasi divino. Certo, ci sono molti passi in cui SB (a differenza della RM) ricorda all'abate la sua condizione di uomo peccatore, di luogotenente, ecc., ma nella RB viene quasi canonizzata una distanza, un livello incolmabile tra l'abate e i monaci. È difficile immaginare l'abate benedettino come un S. Pacomio che serve fraternamente la “koinonia” (= la comunità) con una dedizione e una umiltà non solo interna ma esterna e visibile. Perciò quando alcuni autori dicono che l'abate paragonato al “paterfamilias” romano di potere assoluto, o al “signore feudale” spirituale e nello stesso tempo guerriero, o a un “principe-prelato” dell'epoca barocca, o al “padre-abate” idealizzato e romanticamente sopraelevato dalla restaurazione monastica, sono soltanto delle evoluzioni diverse, attraverso i tempi, della idea originale, si deve riconoscere che, sì, le trasformazioni si devono alle circostanze socio-politiche cambiate; però il fatto di vedere l'abate su un piano notevolmente superiore ai monaci, ha il suo fondamento stesso nella RB (e molto più nella RM).

Posizione dell'abate rispetto a Cristo Posto il principio fondamentale – che l'abate è il vicario di Cristo-Padre – il resto del capitolo contiene continue e insistenti esortazioni dirette all'abate stesso, perché compia fedelmente il suo ufficio che si va definendo a poco a poco. In primo luogo appaiono due immagini, due analogie, corrispondenti a due attributi di Cristo attestati nel Vangelo e illustrati abbondantemente nella tradizione letteraria e dall'arte paleocristiana: Cristo Maestro e Pastore; così l'abate. “Voi mi chiamate Maestro e Signore, e dite bene, perché lo sono” (Gv 13,13), “Io sono il Buon Pastore” (Gv 10,14): sono parole di Gesù. Rappresentante di Cristo in monastero, l'abate di conseguenza esercita l'ufficio di maestro e di pastore.

Abate – maestro Come maestro, l'abate “insegna, stabilisce, comanda”, allo stesso modo degli antichi maestri, solo che non insegna una dottrina propria; non impone una sua propria volontà, la sua dottrina è di Cristo, i suoi precetti debbono conformarsi costantemente alla volontà di Cristo. Il governo e la dottrina di lui dovranno essere fermento di santità nell'animo dei monaci; l'idea del fermento è un'allusione alla parabola del Signore (Mt 3,33); si applica, naturalmente, sopratutto all'opera di formazione e di insegnamento, che costituisce un essenziale compito dell'abate e distingue il carattere di lui da quello comune e semplice di capo, di superiore (si ricordi quanto detto sopra dell'idea di abate quale uomo con il carisma di “dottore” secondo la letteratura monastica e sopratutto in RM). Come maestro, l'abate dovrà render conto non solo della sua dottrina, ma anche della condotta dei discepoli. Il che evidentemente non esime costoro dal giudizio divino, come invece pretende la RM (per lo meno in tre passi: RM 1,87.90-92; 2,35-38; 7,53-56: con questo ragionamento i monaci non debbono fare altro che obbedire all'abate e su quest'ultimo ricade tutta la responsabilità dei loro atti). Nella RB non c'è riferimento alcuno a questa strana teoria che fa dei monaci degli “irresponsabili” eterni “minorenni”. Tuttavia l'abate è responsabile dei monaci.

L'abate – pastore Come pastore, si imputeranno all'abate le deficienze del gregge, qualora esse dipendano dalla negligenza del pastore. Il “paterfamilias”, il capo della casa, ha affidato a lui pastore la custodia e l'incremento del gregge; come i servi della parabola evangelica, l'abate dovrà render conto del frutto e sarà ritenuto responsabile di ogni mancanza dovuta alla sua incuria. Si noti la forza con cui SB accentua questa cura pastorale: “tutto lo zelo” [per le anime turbolenti], “con ogni diligenza” [ogni rimedio per le loro infermità]. Solo allora, se il gregge si mostra ostinatamente ribelle, sarà responsabile in proprio della sua rovina e l'abate sarà assolto nel giudizio divino.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


🔝C A L E N D A R I OHomepage

Capitolo I – Le varie categorie di monaci 1 È noto che ci sono quattro categorie di monaci.

2 La prima è quella dei cenobiti, che vivono in un monastero, militando sotto una regola e un abate.

3 La seconda è quella degli anacoreti o eremiti, ossia di coloro che non sono mossi dall’entusiastico fervore dei principianti, ma sono stati lungamente provati nel monastero, 4 dove con l’aiuto di molti hanno imparato a respingere le insidie del demonio; 5 quindi, essendosi bene addestrati tra le file dei fratelli al solitario combattimento dell’eremo, sono ormai capaci, con l’aiuto di Dio, di affrontare senza il sostegno altrui la lotta corpo a corpo contro le concupiscenze e le passioni.

6 La terza categoria di monaci, veramente detestabile è formata dai sarabaiti: molli come piombo, perché non sono stati temprati come l’oro nel crogiolo dell’esperienza di una regola, 7 costoro conservano ancora le abitudini mondane, mentendo a Dio con la loro tonsura. 8 A due a due, a tre a tre o anche da soli, senza la guida di un superiore, chiusi nei loro ovili e non in quello del Signore, hanno come unica legge l’appagamento delle proprie passioni, 9 per cui chiamano santo tutto quello che torna loro comodo, mentre respingono come illecito quello che non gradiscono.

10 C’è infine una quarta categoria di monaci, che sono detti girovaghi, perché per tutta la vita passano da un paese all’altro, restando tre o quattro giorni come ospiti nei vari monasteri, 11 sempre vagabondi e instabili, schiavi delle proprie voglie e dei piaceri della gola, peggiori dei sarabaiti sotto ogni aspetto.

12 Ma riguardo alla vita sciagurata di tutti costoro è preferibile tacere piuttosto che parlare. 13 Lasciamoli quindi da parte e con l’aiuto del Signore occupiamoci dell’ordinamento della prima categoria, ossia quella fortissima e valorosa dei cenobiti.

=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti

Le specie dei monaci S. Benedetto dà come cosa risaputa che le specie dei monaci sono quattro, contando anche quelle dei falsi. Usa cioè un clichè tradizionale già definito da oltre un secolo. S. Girolamo, parlando dei monaci egiziani, enumera tre specie” cenobiti, anacoreti e “remnuot” (sarabaiti); Cassiano ne enumera quattro: cenobiti, anacoreti, sarabaiti e falso anacoreti che erano usciti dai cenobi. SB è d'accordo con ambedue riguardo alle prime tre categorie, ma unisce i falsi anacoreti (di Cassiano) alla terza categoria (i sarabaiti) e aggiunge la quarta dei girovaghi, meno sviluppata ai tempi di Girolamo e di Cassiano, ma ricordata da Agostino.

Prima specie: i cenobiti La prima specie è quella dei cenobiti, coloro che vivono in monastero, cioè insieme. “Cenobita” – in Cassiano “cenobiota” – viene dal greco “koinos” = comune e “bios” = vita. È la prima specie anche per Cassiano, non tanto forse nella valutazione (Cassiano, e anche SB, probabilmente, hanno una stima superiore della vita eremitica), ma sopratutto perché ritenuta più adatta e più sicura per la maggioranza degli uomini; prima anche cronologicamente perché – dice Cassiano – ebbe i suoi inizi nella comunità apostolica di Gerusalemme. Quando la maggior parte dei monaci abbracciarono la vita comune, il termine “cenobita” e “cenobio” furono usati più raramente e furono sostituiti da “monaco” e “monastero”.

Militando sotto la Regola e l'abate Per il verbo “militando”, vedi il concetto della vita monastica come milizia nel commento al prologo (incluso nel concetto di “schola”).Il cenobitismo si basa su due colonne: la Regola e l'abate. La prima, la Regola, è una legge scritta costituita da usanze tradizionali, la “disciplina coenobiorum” di cui parla Cassiano, tramandata oralmente e poi fissata nello scritto; ha il carattere di stabilità e di autorità; la mancanza di essa è un pericolo per gli eremiti che non siano ben formati e la causa principale della cattiva condotta dei sarabaiti e girovaghi. La seconda colonna, l'abate, è la regola vivente, una persona costituita in autorità che interpreta la legge scritta.

Seconda specie: gli anacoreti o eremiti La RB non distingue tra i due nomi. Essi formano, come per S. Girolamo e per Cassiano, la seconda specie. “Anacoreta” viene dal greco “ana”, che significa lontananza e “koreo”, che significa abitare e perciò significa “colui che vive in disparte”; “eremita” viene dal greco “eremos”, che significa luogo deserto. Praticamente i due termini sono sinonimi, anche se anacoreta si riserva per i grandi asceti del deserto. SB spiega chi sono questi eremiti: avendo vissuto da solo per tre anni nello speco sublacense, egli sa per esperienza i pericoli di quella vita che in se stessa è di alta perfezione.

La vita eremitica Tanto superiore al normale temperamento degli uomini, la vita eremitica esige particolarissima chiamata divina e formazione spirituale per non cadere in illusioni; perciò SB determina bene i requisiti dei veri eremiti. Non si tratta di gente che è al primo fervore della vita spirituale, ma di chi ha fatto un lungo tirocinio in monastero. Già S. Girolamo voleva lo stesso e così Cassiano; l'idea che gli eremiti debbano prima formarsi nei cenobi era comunissima nell'antico monachesimo, tanto che a volte il cenobio era considerato quasi unicamente come scuola di solitari (non è questo evidentemente il caso della RB). Figli legittimi dei cenobiti, gli eremiti costituiscono quasi un monachesimo di élite, un'aristocrazia monastica; hanno superato il livello comune e possono accedere al combattimento da soli nell'eremo.

L'idea della lotta, il tema della milizia cristiana domina in questo versetti: il monastero e considerato come una specie di accademia militare dove si debbono formare le unità speciali degli anacoreti. La comunità dei fratelli è come un esercito in combattimento attivo e continuo contro il demonio; i cenobiti si aiutano l'un l'altro come buoni compagni d'armi. Gli eremiti escono dalle loro file ben addestrati o equipaggiati o armati (tali sono i significati attribuibili al termine “instructi”) per il combattimento individuale nella vita del deserto. Quali nemici speciali dei solitari si citano i pensieri: è noto quanto gli eremiti dell'oriente dovettero lottare contro i pensieri, ed è chiaro che questo è un pericolo molto più grave per un eremita privo com'è, a differenza del cenobita, del sostegno dei fratelli e dei superiori. Allettamenti della carne: altro genere di lotta frequentissima presso i solitari; si ricordino le tentazioni di Antonio nel deserto e la lotta di SB a Subiaco (Dial.II, c.2). Dopo tanta insistenza sulla ormai acquisita sufficienza a combattere da soli, era necessaria questa aggiunta contro il pericolo di presunzione di sapore pelagiano; della necessità della grazia SB è convinto e la richiama ad ogni occasione.

Terza specie: i sarabaiti Con i “sarabaiti” irrompono nella RB i falsi monaci, per la degenerazione dei costumi che li rende una caricatura dei veri monaci. Secondo Herwegen, i sarabaiti sarebbero la corruzione del monachesimo di città, i girovaghi (quarta specie della RB) la corruzione del monachesimo di campagna. Il termine “sarabaita” deriva dall'egiziano “sar” = disperso e “abet” = monastero e significa “uno che vive per conto proprio”. Dice Cassiano: “Dal fatto che si staccavano dalle comunità dei cenobi e ognuno per conto suo badava ai propri bisogni, sono stati chiamati, con termine proprio della lingua egiziana, sarabaiti”. Secondo altri, deriverebbe dall'aramaico “sarab” = ribelle.

La tonsura, o taglio dei capelli, fu, fin dai primi secoli, un segno distintivo, benché ancora non esclusivo, dei chierici e dei monaci. Da principio significava solo portare i capelli corti. Ma almeno fin dal sec. VI, è in uso anche la “corona” di capelli lasciata sulla testa rasata; ma probabilmente i monaci usarono a lungo quella primitiva e a questa forse pensa SB. I preti diocesani usarono da molto tempo, fino a poco fa, la tonsura ridotta a un piccolo cerchio rasato al vertice del capo (volgarmente la “chierica” perché con la prima tonsura si entrava a far parte del clero). Presso i monaci e gli altri religiosi sono state varie fino ai tempi recenti le fogge della tonsura; presso i benedettini italiani, per es., essa consisteva in una sottile linea che incideva i capelli in senso orizzontale (la “corona”). La tonsura ha voluto sempre significare una speciale appartenenza a Dio e, specialmente per i monaci, la rinuncia alle vanità del mondo. Ciò spiega ancor meglio l'espressione di SB.

«Vivono a gruppi di due o tre...» È la frase di S. Girolamo e di Cassiano; gruppetti quindi molto esigui dove non si poteva svolgere una vita seriamente regolare e dove era facile mettersi d'accordo per seguire i propri comodi.

«...oppure da soli, senza pastore» È il caso dei falsi eremiti che SB raggruppa qui, mentre Cassiano ne fa la quarta specie di monaci. Non solamente sono senza Regola, ma anche senza un capo, appunto l'opposto dei cenobiti, che “militano sotto una regola e un abate” (v.2). SB, pur trattando male questi sarabaiti, usa però una certa moderazione nella sua critica e solo in questa ultima parte mostra il ridicolo del loro criterio di vita (v.9). S. Girolamo e Cassiano sono molto più duri e si dilungano nel bollare a fuoco e ridicolizzare questi monaci. Tuttavia ci si potrebbe porre il dubbio se questa critica non sia esagerata o ingiusta, per lo meno nel generalizzare in un modo così assoluto. Partendo dal cenobitismo ad oltranza, S. Girolamo e Cassiano mettono in ridicolo e criticano tutti quelli che non vivono secondo quelle leggi. Certamente, il monachesimo libero e vario che fioriva un po' dappertutto, poteva dar luogo ad abusi e sicuramente ne dava; certamente, molti di quei monaci erano ipocriti, Ma condannare in blocco tutta una maniera diversa di servire Dio nell'ascetismo, è un'altra cosa. In realtà pare che i sarabaiti non erano quelli che Cassiano (e SB) fanno apparire come cenobiti degenerati e rinnegati, ma la sopravvivenza, la naturale evoluzione dell'ascetismo premonastico, come è provato da molti testi dei secoli IV e V. Non perchè il cenobitismo stretto offre maggiori garanzie di andare a Dio, almeno teoricamente, si debbono disprezzare, in modo generale e assoluto, le altre specie di monaci (Colombas).

Quarta specie: i girovaghi Questa quarta specie è considerata la peggiore da SB. “Girovaghi” viene dal greco “ghiros” = giro e dal latino “vagus” = vagare. S. Agostino li chiama “circumcelliones”, cioè vaganti di cella in cella. SB bolla a fuoco questi vagabondi; l'intera vita la passano così: sono la scrocconeria e la fannullaggine divenuta sistema, schiavi dei propri capricci (è chiaro che non si sarebbero mai adattati a vivere sotto un abate!) e della propria golosità (è l'aspetto più degradante della loro vita). La RM indugia a lungo (ben 62 versetti) a descrivere i costumi e le arti degli ingordi girovaghi, ma con tono caricaturale e particolari esagerati, anche se pittoreschi, al cui confronto spicca la gravità e la sobrietà di SB. Anche qui si potrebbe fare l'osservazione, almeno come dubbio, fatta sopra per i sarabaiti. In realtà questi monaci chiamati girovaghi hanno una tradizione degna di tutto rispetto: il cosiddetto monachesimo itinerante che risale alle origini stesse della Chiesa. Effettivamente esisteva nella Chiesa primitiva una categoria speciale di cristiani i quali, senza patria, senza casa, viaggiava di città in città compiendo l'ufficio di predicatori ambulanti. Man mano poi che le comunità cristiane si consolidarono intorno ai vescovi stabili, questa classe di predicatori perse la sua ragion d'essere. Tuttavia alcuni continuarono questa vita errabonda non come predicatori del vangelo, ma per motivi ascetici. Questa pare l'origine dei girovaghi così strapazzati in RM e RB, monaci che volevano prendere sul serio l'imitazione di Gesù Cristo il quale “non aveva dove posare il capo” (Lc 9,58); soli o in piccoli gruppi praticavano la più stretta povertà, vivevano di ciò che davano loro o dei frutti che trovavano nelle campagne, passavano la notte in rifugi di fortuna o all'addiaccio e ritenevano un titolo di gloria essere chiamati vagabondi o pazzi.

Conclusione: la Regola è scritta per i cenobiti SB si ferma solo alla prima specie. È chiaro che esclude la terza e la quarta. Ma che dire degli eremiti? Senza dubbia è una categoria legittima; ma SB la considera superiore o inferiore ai cenobiti? La questione è dibattuta. Certamente, ispirandosi come fa a Cassiano, SB dovrebbe ritenere l'opinione comune secondo cui la vita ancoretica rappresenta la realizzazione più perfetta dello stato monastico; però non la ritiene la via più comune e sopratutto non adatta alla maggior parte degli uomini.

“Fortissima specie” o “la specie migliore”: SB è preso dall'eccellenza di questa specie, anche di fronte agli eremiti, appunto perché la virtù che lo stato cenobitico dà modo di esercitare continuamente, sopratutto l'obbedienza, la carità fraterna e la pazienza, lo rendono il più adatto di tutti, il più umano, il meno esposto alle illusioni.

“Valoroso” o “fortissimo” esprime la fortezza d'animo che questa categoria richiede, perché la pratica quotidiana e perseverante delle virtù monastiche, nella monotonia delle azioni e nella stabilità di luogo e di confratelli, costituisce veramente una continua sofferenza (che fecero paragonare la vita monastica vissuta integralmente a un lento martirio).

Iniziando la grande opera dell'organizzazione della vita del cenobio nei suoi elementi costitutivi, ascetici e disciplinari, SB si richiama all'aiuto do Dio, come ha raccomandato di fare al discepolo prima di iniziare qualunque opera buona (cf. Prol. 4)

= ● = ● = ● = ● = ● = ● = ● = ● = ● = ● =

La vita monastica non è un fatto particolare del cristianesimo, ma è un fenomeno universale con caratteristiche simili in tutte le religioni e in tutti i tempi e luoghi. Nasce da alcune aspirazioni religiose e morali profondamente radicate nell'animo umano, aspirazioni a volte vaghe e deboli, ma che in alcuni individui riescono a superare gli istinti più forti della natura e a riempire tutta l'esistenza. Queste aspirazioni si possono ridurre a due:

a) ascetismo, che è la tendenza dell'uomo alla purificazione continua dei suoi peccati e al dominio delle passioni; b) misticismo, che è il desiderio di realizzare in qualche maniera, già da questo mondo, l’unione con la divinità.

Fuori del cristianesimo Il monachesimo, in definitiva, non è che la realizzazione pratica di queste aspirazioni o aneliti in uno stile di vita che permette di raggiungerli. In questo senso l'origine del fenomeno monastico si perde nella notte dei tempi. Le manifestazioni conosciute presentano una grande varietà. L'India, paese profondamente sensibile ai problemi della religione, della santità, della purificazione interiore, costituisce un esempio insigne: si conosce il monachesimo da tempo immemorabile, vere moltitudini di monaci di religione brahmanista o jainista o buddhista attraversano tutta la storia: il monachesimo hindu e buddhista è fiorente in molti paesi dell'oriente.

Nell'Antico Testamento Nell'AT si trovano dei precursori al monachesimo cristiano: le scoperte archeologiche a Qumran, vicino al Mar Morto, hanno suscitato nuovo interesse per la storia del monachesimo, rivelandoci qualcosa dei monaci esseni.

Presso i filosofi classici Non mancano elementi “monastici” neppure nella vita e nella dottrina dei filosofi classici, in particolare i pitagorici.

Nel cristianesimo L'apparizione del fenomeno monastico in seno al cristianesimo non è così facilmente databile. Sappiamo che la chiesa apostolica e quella dei martiri hanno avuto le loro vergini consacrate e i loro asceti, che si debbono considerare come autentici predecessori dei monaci: praticavano il celibato, conducevano vita povera e austera, si andavano raggruppando a poco a poco. Nella seconda metà del secolo III alcuni, particolarmente in Egitto, si ritirarono nel deserto. S. Antonio Abate (Antonio il Grande), anche se non fu il primo a ritirarsi, è considerato il padre dei monaci (250-356). Così si formò praticamente il monachesimo cristiano, man mano, senza che sia possibile assegnargli un fondatore, una data precisa, una culla determinata. Nacque un po' in tutte le parti come prodotto della santità e della fecondità delle diverse chiese locali.

Nel IV secolo Nel IV secolo, terminata l'era delle persecuzioni, all'inizio della libertà della chiesa, il movimento monastico assume uno sviluppo enorme, e ciò senza dubbio fu causato dall'ondata di profano e di mediocre che era penetrata nella chiesa. Infatti uno dei luoghi comuni del monachesimo primitivo era il richiamo continuo e l'entusiasmo ammirato verso la prima comunità di Gerusalemme; e in realtà i monaci si considerarono come gli eredi e i continuatori di quella comunità ideale. Cassiano lanciò la teoria che i cenobiti erano i discendenti in linea retta, per una successione ininterrotta, di quei primi credenti, i quali “stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno” (Atti 2,44-45) e “avevano un cuore solo e un'anima sola” (Atti 4,32).

In pieno secolo IV e V i nuovi asceti formavano un vero “maremagnum” variopinto e a volte un po' caotico; c'erano tutti i tipi e con le forme di vita le più varie; accanto a persone famose per virtù e santità non mancavano persone superbe che caddero nello scisma o nell'eresia, né i mediocri o i fanatici. A tutta questa schiera, dopo altri e diversi titoli, si cominciò a dare indistintamente il nome di monaci.

Il termine “monaco” presso i classici e i Padri Greci Il termine “monaco”, di origine greca (monakos), deriva dall'aggettivo “monos”, che vuol dire “solo”, “unico”; presso gli scrittori classici significa “in un unico modo”, “di un solo posto”, “semplice”, “unico nel suo genere”, “solitario”. Eusebio di Cesarea e Atanasio cominciarono ad usarlo per i nuovi asceti col significato tecnico di persona non sposata, celibe; ma per loro il monaco è anzitutto un imitatore di Cristo e del suoi apostoli in un distacco che separa, ma nello stesso tempo unisce (“separato da tutti e unito a tutti”, secondo l'espressione di Evagrio Pontico). Comunque, nella letteratura del IV secolo – l'epoca d'oro del monachesimo – il termine tecnico “monakos” significa “separato” e “celibe”.

Il termine “monaco” presso i Latini Il termine greco “monakos” fu latinizzato in “monachus” ed esprimeva essenzialmente la condizione del solitario, del separato dalla gente del mondo. Nello stesso tempo si parla anche dell'idea di unità che il termine racchiude: unità di pensiero, unità di proposito, unità di condotta. Così gradualmente il significato di “monachus” si andò allargando fino a comprendere praticamente tutte le classi di asceti. Il doppio concetto di “solo” e di “uno” era verificato nell'isolamento dal secolo e nell'unità fisica o morale in cui si viveva; perciò si applicò anche a quelli che vivevano in comune. Il termine “monaco”, assente dalle Regole madri (Pacomio, Basilio, Agostino) che usano frater, predomina però negli scritti di Cassiano e appare già nella generazione seguente.

Il termine “monaco” in S. Benedetto S. Benedetto usa frequentemente il termine “monachus” – insieme a quello di “frater” – fin dal primo capitolo della Regola. Ormai il termine aveva acquistato una pienezza di significato ed era una specie di titolo di nobiltà spirituale. Lo avevano glorificato con la loro vita personaggi eminenti come Antonio e tanti altri e lo avevano esaltato con i loro scritti Atanasio, Girolamo, Palladio, Rufino, Agostino, Cassiano, ecc. Il monaco non era più solamente il “celibe”, il “separato”, il “solitario”; era anche il “saggio” per antonomasia, l'“atleta”, il “soldato di Cristo”, il nuovo “martire”, il “compagno degli angeli”, insomma il tipo dell'uomo nuovo come appare agli occhi della fede, l'uomo che aspira a ricopiare sempre più pienamente l'immagine di Cristo morto e risorto. In questo contesto il termine “monachus” nella RB ha delle esigenze, è un titolo che obbliga, un programma di santità e costituisce un rimprovero continuo per chi lo porta indegnamente.

Il termine “monaco” oggi Col sorgere di nuovi istituto religiosi nel medioevo e dopo, il termine “monaco” è venuto a restringersi designando, in occidente, solo i figli di S. Benedetto e i certosini, per distinguerli dai “frati” (francescani, domenicani, agostiniani...) e dai membri degli ordini e congregazioni moderne (gesuiti, passionisti, redentoristi, salesiani, ecc.).

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


🔝C A L E N D A R I OHomepage

Necessità di ascoltare la parola di Dio e di obbedirgli 1 Ascolta, figlio mio, gli insegnamenti del maestro e apri docilmente il tuo cuore; accogli volentieri i consigli ispirati dal suo amore paterno e mettili in pratica con impegno, 2 in modo che tu possa tornare attraverso la solerzia dell’obbedienza a Colui dal quale ti sei allontanato per l’ignavia della disobbedienza. 3 Io mi rivolgo personalmente a te, chiunque tu sia, che, avendo deciso di rinunciare alla volontà propria, impugni le fortissime e valorose armi dell’obbedienza per militare sotto il vero re, Cristo Signore. 4 Prima di tutto chiedi a Dio con costante e intensa preghiera di portare a termine quanto di buono ti proponi di compiere, 5 affinché, dopo averci misericordiosamente accolto tra i suoi figli, egli non debba un giorno adirarsi per la nostra indegna condotta. 6 Bisogna dunque servirsi delle grazie che ci concede per obbedirgli a ogni istante con tanta fedeltà da evitare, non solo che egli giunga a diseredare i suoi figli come un padre sdegnato, 7 ma anche che, come un sovrano tremendo, irritato dalle nostre colpe, ci condanni alla pena eterna quali servi infedeli che non lo hanno voluto seguire nella gloria. 8 Alziamoci, dunque, una buona volta, dietro l’incitamento della Scrittura che esclama: «È ora di scuotersi dal sonno!» 9 e aprendo gli occhi a quella luce divina ascoltiamo con trepidazione ciò che ci ripete ogni giorno la voce ammonitrice di Dio: 10 «Se oggi udrete la sua voce, non indurite il vostro cuore!» 11 e ancora: «Chi ha orecchie per intendere, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese!». 12 E che dice? «Venite, figli, ascoltatemi, vi insegnerò il timore di Dio. 13 Correte, finché avete la luce della vita, perché non vi colgano le tenebre della morte».

Che cosa ci dice il Signore (Sal 33 e 14) 14 Quando poi il Signore cerca il suo operaio tra la folla, insiste dicendo: 15 «Chi è l’uomo che vuole la vita e arde dal desiderio di vedere giorni felici?». 16 Se a queste parole tu risponderai: «Io!», Dio replicherà: 17 «Se vuoi avere la vita, quella vera ed eterna, guarda la tua lingua dal male e le tue labbra dalla menzogna. Allontanati dall’iniquità, opera il bene, cerca la pace e seguila». 18 Se agirete così rivolgerò i miei occhi verso di voi e le mie orecchie ascolteranno le vostre preghiere, anzi, prima ancora che mi invochiate vi dirò: «Ecco sono qui!». 19 Fratelli carissimi, che può esserci di più dolce per noi di questa voce del Signore che ci chiama? 20 Guardate come nella sua misericordiosa bontà ci indica la via della vita! 21 Armati dunque di fede e di opere buone, sotto la guida del Vangelo, incamminiamoci per le sue vie in modo da meritare la visione di lui, che ci ha chiamati nel suo regno. 22 Se, però, vogliamo trovare dimora sotto la sua tenda, ossia nel suo regno, ricordiamoci che è impossibile arrivarci senza correre verso la meta, operando il bene. 23 Ma interroghiamo il Signore, dicendogli con le parole del profeta: «Signore, chi abiterà nella tua tenda e chi dimorerà sul tuo monte santo?». 24 E dopo questa domanda, fratelli, ascoltiamo la risposta con cui il Signore ci indica la via che porta a quella tenda: 25 «Chi cammina senza macchia e opera la giustizia; 26 chi pronuncia la verità in cuor suo e non ha tramato inganni con la sua lingua; 27 chi non ha recato danni al prossimo, né ha accolto l’ingiuria lanciata contro di lui»; 28 chi ha sgominato il diavolo, che malignamente cercava di sedurlo con le sue suggestioni, respingendolo dall’intimo del proprio cuore e ha impugnato coraggiosamente le sue insinuazioni per spezzarle su Cristo al loro primo sorgere; 29 gli uomini timorati di Dio, che non si insuperbiscono per la propria buona condotta e, pensando invece che quanto di bene c’è in essi non è opera loro, ma di Dio, 30 lo esaltano proclamando col profeta: «Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome dà gloria!». 31 Come fece l’apostolo Paolo, che non si attribuì alcun merito della sua predicazione, ma disse:» Per grazia di Dio sono quel che sono» 32 e ancora: «chi vuole gloriarsi, si glori nel Signore». 33 Perciò il Signore stesso dichiara nel Vangelo: «Chi ascolta da me queste parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio il quale edificò la sua casa sulla roccia. 34 E vennero le inondazioni e soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia».

Il Signore aspetta la nostra risposta 35 Dopo aver concluso con queste parole il Signore attende che, giorno per giorno, rispondiamo con i fatti alle sue sante esortazioni. 36 Ed è proprio per permetterci di correggere i nostri difetti che ci vengono dilazionati i giorni di questa vita 37 secondo le parole dell’Apostolo: «Non sai che con la sua pazienza Dio vuole portarti alla conversione?» 38 Difatti il Signore misericordioso afferma: «Non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva». 39 Dunque, fratelli miei, avendo chiesto al Signore a chi toccherà la grazia di dimorare nella sua tenda, abbiamo appreso quali sono le condizioni per rimanervi, purché sappiamo comportarci nel modo dovuto. 40 Perciò dobbiamo disporre i cuori e i corpi nostri a militare sotto la santa obbedienza. 41 Per tutto quello poi, di cui la nostra natura si sente incapace, preghiamo il Signore di aiutarci con la sua grazia. 42 E se vogliamo arrivare alla vita eterna, sfuggendo alle pene dell’inferno, 43 finché c’è tempo e siamo in questo corpo e abbiamo la possibilità di compiere tutte queste buone azioni, 44 dobbiamo correre e operare adesso quanto ci sarà utile per l’eternità.

La “scuola del servizio del Signore”: il monastero come “scuola” 45 Bisogna dunque istituire una scuola del servizio del Signore 46 nella quale ci auguriamo di non prescrivere nulla di duro o di gravoso; 47 ma se, per la correzione dei difetti o per il mantenimento della carità, dovrà introdursi una certa austerità, suggerita da motivi di giustizia, 48 non ti far prendere dallo scoraggiamento al punto di abbandonare la via della salvezza, che in principio è necessariamente stretta e ripida. 49 Mentre invece, man mano che si avanza nella vita monastica e nella fede, si corre per la via dei precetti divini col cuore dilatato dall’indicibile sovranità dell’amore. 50 Così, non allontanandoci mai dagli insegnamenti di Dio e perseverando fino alla morte nel monastero in una fedele adesione alla sua dottrina, partecipiamo con la nostra sofferenza ai patimenti di Cristo per meritare di essere associati al suo regno.

=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti

Benedetto nacque a Norcia verso il 480. Mandato a studiare a Roma, a 20 anni circa, verso il 500, fuggì la corruzione e la miseria del mondo e si rifugiò dapprima in un piccolo borgo, Affile, a 50 km da Roma, ove pensava di vivere con altre pie persone in forma ascetica. Cerca poi la solitudine nella valle dell'Aniene, sui monti Simbruini, desiderando di piacere solo a Dio.

Inizia così in una grotta l'esperienza eremitica nella sua forma più pura, tra incredibili asperità e penitenze per vari anni: lotta contro il demonio, lotta con se stesso, preghiera, macerazioni. Così egli pensa di vivere per sempre.

Ma il Signore ha altri disegni: molti, attirati dalla sua santità, vogliono mettersi sotto la sua guida, e allora l'anacoreta inizia la sua esperienza di cenobita e di padre di monaci. Costruisce a Subiaco o meglio nella valle sublacense 12 piccoli monasteri, con dodici monaci ciascuno, retti ognuno da un proprio capo, ma tutti dipendenti da Benedetto stesso.

Nel corso degli anni matura nel santo un altro ideale di organizzazione e di vita cenobitica. Verso il 529 si reca a Montecassino, dove fonda il grandioso monastero. Qui, nella piena maturità degli anni e del pensiero, egli scrive la Regola con una organizzazione che consenta a tutti di vivere e lavorare nel recinto della clausura, con una costituzione che poggi sulla stabilità dei monaci. Dalla Regola, che è il riflesso fedele della sua vita – come dice S. Gregorio Magno – appare che l'autore:

  • è un innamorato di Cristo, Signore e Re, e insieme di Cristo sofferente e paziente, obbediente al Padre;
  • è convinto che nella vita quotidiana in seno alla comunità si può trovare Dio, oggetto della sua ricerca, poichè nella comunità stessa si realizza il mistero pasquale di Cristo morto e risorto.

Benedetto muore a Montecassino nel 547 o qualche anno dopo.

S. Benedetto non compose la Regola di getto, ma durante la sua vita, un po' per volta, aggiungeva un nuovo pensiero che modificava o precisava il pensiero precedente; questa elaborazione continua durò fino al termine della sua vita, perché cambiavano le circostanze e maturava le sue esperienze di vita monastica.

S. Benedetto, come qualsiasi altro autore monastico del VI secolo, non aveva la pretesa di fare un'opera nuova e originale; le regole cenobitiche si proponevano di codificare dottrine ascetiche e usi-tradizioni per i monasteri. S. Benedetto, attraverso uno studio profondo ed assiduo, aveva familiare oltre la Bibbia, la precedente letteratura patristica e monastica.

Il latino usato da S. Benedetto non è classico, libresco o artificiale, come quello di Cassiodoro o di Boezio, né fiorito e ornato come quello di Cassiano, ma è la lingua viva del sec. VI come si parlava in Italia, ricca di vitalità e facile a capirsi da tutti, senza per altro essere una lingua veramente “volgare”.

Alla Regola è preposto un lungo Prologo di 50 vv., in cui S.B. prepara l'animo del monaco ad accogliere con cuore largo e docile gli insegnamenti in essa contenuti.

Il Prologo della RB – uno dei documenti più belli del monachesimo antico – è una catechesi, una istruzione religiosa in cui si descrive la vocazione del monaco e le grandi prospettive del suo itinerario spirituale.

Ha una forma letteraria e un sapore marcatamente sapienziale, con i termini di padre e figlio, l'invito a seguire attentamente le esortazioni del maestro, l'uso dell'imperativo, il tema delle due strade, quello della morte e della vita.

L'uso dei verbi all'imperativo (ascolta, apri, accogli, chiedi al Signore...) eè caratteristico del genere sapienziale; non è un imperativo severo o proprio del giudice: S.B. appare un “ottimista” nei confronti di Dio, come i saggi dell'A.T., vede sopratutto la dolcezza della chiamata di Dio e la bellezza dell'ideale che mostra al discepolo.

Tre persone compaiono nel Prologo: Cristo, l'autore, il candidato. Quest'ultimo ha solo il ruolo dell'ascolto; l'autore si eclissa presto per riapparire solo nel finale; è CRISTO che appare come il vero protagonista, la sua persona domina tutto il discorso. Cristo è l'autentico maestro che va scoprendo al discepolo il “cammino che conduce alla vita” in un dialogo bellissimo, del quale egli conserva l'iniziativa.

In tal modo la vocazione monastica appare come l'incontro con una persona, Gesù Cristo, sempre vivo, sempre presente, e l'esistenza del monaco consiste in un dialogo con Lui: difatti Egli chiama il monaco, lo interroga personalmente, risponde alla sua preghiera.

La “scuola del servizio del Signore”: il monastero come “scuola”

«Dobbiamo dunque istituire una “scuola del servizio del Signore”». Abbiamo qui il concetto di monastero come scuola: la frase richiama la parola di Gesù in Mt 11,29: «Imparate da me...». Nel monastero si è discepoli dell'unico e vero Maestro che è Cristo, come nella grande scuola che è la Chiesa (parallelo tra monastero e Chiesa).

Ma il termine scuola ha un significato più ampio. La parola nel senso originario designava un luogo o una condizione di nobile agio e riposo, dove si praticava l'otium dei romani. Poi è passata a significare una sala di riunione per diversi gruppi: soldati, studenti, operai, ecc., o ancora l'associazione stessa e le sue attività. Più in particolare, il termine stesso designa un corpo di militari o di funzionari al servizio dello stato o del re. Questo significato è compreso nella frase “una scuola per il servizio del Signore”; in quanto alla milizia, abbiamo già visto la frase all'inizio del prologo (v.3). Quindi il termine “schola” comprende tutti e tre i significati delle tre cose, e cioè:

  • luogo dove si apprende e si imita;
  • luogo dove si serve il padrone;
  • luogo dove si milita sotto il sovrano

e qui si tratta di obbedire e di agire, quindi luogo di metodica e disciplinata esercitazione con incluso il concetto di libertà da altre occupazioni.

Inoltre, il servizio del funzionario e soprattutto del soldato non avviene senza lotta, senza fatica, senza pericoli; militare implica non solamente l'azione ma anche la pena e la sofferenza, concetti che saranno espressi poco piuù avanti (v. 50) come partecipazione alle sofferenze di Cristo per mezzo della pazienza. Questo tema della pazienza avrà poi uno sviluppo meraviglioso nei capitoli sull'obbedienza (RB 5) e sull'umiltà (RB 7).

Ci appare così tutta la ricchezza del termine schola, che è anche palestra e corpo militare e officina (RB 4) e ci richiama volta per volta:

  • la docilità dell'allievo,
  • l'obbedienza del soldato,
  • l'attività e l'impegno dell'operaio e del funzionario;

così ci permette di avere sempre presente la persona di Cristo sotto tre aspetti complementari:

  1. il Maestro che insegna,
  2. il Sovrano che comanda,
  3. il Redentore sulla croce.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


🔝C A L E N D A R I OHomepage

XII. La vera scienza 1. Attendendo e ascoltando con cura, conoscerete quali cose Dio prepara a quelli che lo amano rettamente. Diventano un paradiso di delizie e producono in se stessi, ornati di frutti vari, un albero fruttuoso e rigoglioso. 2. In questo luogo, infatti, fu piantato l'albero della scienza e l'albero della vita; non l'albero della scienza, ma la disubbidienza uccide. 3. Non è oscuro ciò che fu scritto: che Dio da principio piantò in mezzo al paradiso l'albero della scienza e l'albero della vita, indicando la vita con la scienza. Quelli che da principio non la usarono con chiarezza, per l'inganno del serpente furono denudati. 4. Non si ha vita senza scienza, né scienza sicura senza vita vera, perciò i due alberi furono piantati vicino. 5. L'apostolo, comprendendo questa forza e biasimando la scienza che si esercita sulla vita senza la norma della verità, dice: «La scienza gonfia, la carità, invece, edifica». 6. Chi crede di sapere qualche cosa, senza la vera scienza testimoniata dalla vita, non sa: viene ingannato dal serpente, non avendo amato la vita. Lui, invece, con timore conosce e cerca la vita, pianta nella speranza aspettando il frutto. 7. La scienza sia il tuo cuore e la vita la parola vera recepita. 8. Portandone l'albero e cogliendone il frutto abbonderai sempre delle cose che si desiderano davanti a Dio, che il serpente non tocca e l'inganno non avvince; Eva non è corrotta ma è riconosciuta vergine. Si addita la salvezza, gli apostoli sono compresi, la Pasqua del Signore si avvicina, si compiono i tempi e si dispongono in ordine, e il Verbo che ammaestra i santi si rallegra. Per lui il Padre è glorificato; a lui la gloria nei secoli. Amen.

=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti

Al capitolo XII troviamo un'interpretazione allegorica dei due alberi del paradiso terrestre che serve a definire il corretto rapporto tra scienza e pratica di vita: “non si ha vita senza scienza, né scienza sicura senza vita vera, perciò i due alberi furono piantati vicino”.

Un’interpretazione letterale della frase riportata ci offre una sintesi della capacità di conoscenza degli uomini di progredire nel sapere scientifico e alla ricerca di senso del concreto quotidiano, immerso come è nella gioia e nei problemi da affrontare nel vissuto. Il progredire della tecnologia impone di definire un corretto rapporto tra scienza e pratica di vita.

Una componente essenziale della natura umana è la ricerca di senso che da sempre ogni uomo, credente e non credente, cerca di capire. L’esistenza è un problema sempre aperto, un’esperienza continua, che non può mai concludersi definitivamente. Essa è costantemente protesa verso il futuro di cui l’uomo è continuamente preoccupato.

L’uomo deve accettare il suo destino di essere mortale per poter vivere meglio e deve riconoscere che sa ben poco, che la ragione ha dei limiti, che la scienza può sbagliare. Il problema è: quanto e che cosa si può e si deve fare.

Il sapere umano deve aiutare a relativizzare la ragione e ad essere consapevole che «dal cuore degli uomini escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza», per usare le parole di Mc 7,21-23, in modo da cercare i segni di una fraternità, all’insegna di una comune miseria, fra gli uomini di tutti i tempi e paesi.

In questo senso, la storia si scopre così una miniera di insegnamenti sulla natura debole e inferma dell’uomo, sulla sua condizione tanto ridicola quanto risibile.

Il senso di assurdità del vivere e il continuo risorgere nella speranza e nell’impegno è tipico dell’etica cristiana che aiuta la ricerca del meglio, spogliato dai fronzoli dell’enfasi, del clamore, dell’ostentazione per vivere con semplicità e pensare con grandezza.

La Lettera di Diogneto è un invito alla ricerca di una felicità e nel modo migliore per conseguirla: da qui l’abbandono di ogni orgoglio intellettuale, l’accettazione dell’esistenza nei suoi vari aspetti, della tolleranza verso le nostre fragili illusioni, le nostre piccinerie per accettare appunto i piaceri che la vita ci può offrire, sopportando i mali e le avversità.

Tratto da: La vita e la scienza nella Lettera a Diogneto – di Bonaventura Marino


🔝C A L E N D A R I OHomepage