📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

PRIMO DISCORSO DI ELIFAZ

Dio punisce i cattivi e corregge i buoni 1Elifaz di Teman prese a dire: 2“Se uno tenta di parlare, ti sarà gravoso? Ma chi può trattenere le parole? 3Ecco, sei stato maestro di molti e a mani stanche hai ridato vigore; 4le tue parole hanno sorretto chi vacillava e le ginocchia che si piegavano hai rafforzato. 5Ma ora che questo accade a te, ti è gravoso; capita a te e ne sei sconvolto. 6La tua pietà non era forse la tua fiducia, e la tua condotta integra la tua speranza? 7Ricordalo: quale innocente è mai perito e quando mai uomini retti furono distrutti? 8Per quanto io ho visto, chi ara iniquità e semina affanni, li raccoglie. 9A un soffio di Dio periscono e dallo sfogo della sua ira sono annientati. 10Ruggisce il leone, urla la belva, e i denti dei leoncelli si frantumano; 11il leone perisce per mancanza di preda, e i figli della leonessa si disperdono.

L’uomo non può essere giusto davanti a Dio 12A me fu recata, furtiva, una parola e il mio orecchio ne percepì il lieve sussurro. 13Negli incubi delle visioni notturne, quando il torpore grava sugli uomini, 14terrore mi prese e spavento, che tutte le ossa mi fece tremare; 15un vento mi passò sulla faccia, sulla pelle mi si drizzarono i peli. 16Stava là uno, ma non ne riconobbi l'aspetto, una figura era davanti ai miei occhi. Poi udii una voce sommessa: 17“Può l'uomo essere più retto di Dio, o il mortale più puro del suo creatore? 18Ecco, dei suoi servi egli non si fida e nei suoi angeli trova difetti, 19quanto più in coloro che abitano case di fango, che nella polvere hanno il loro fondamento! Come tarlo sono schiacciati, 20sono annientati fra il mattino e la sera, senza che nessuno ci badi, periscono per sempre. 21Non viene forse strappata la corda della loro tenda, sicché essi muoiono, ma senza sapienza?“. _________________ Note

4,13 Negli incubi delle visioni notturne: probabilmente si tratta di un’ispirazione divina, ricevuta in una visione notturna, come avveniva per i patriarchi biblici (ad es. Gen 15,12).

4,19 nella polvere: allusione al corpo dell’uomo e alla sua origine dalla terra (Gen 2,7).

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Approfondimenti

PRIMO DISCORSO DI ELIFAZ (4,1-5,27) Con il primo intervento di Elifaz (cc. 4-5) si entra nel vivo della Disputa. Dopo l'introduzione del narratore (4, 1), il discorso si apre con un esordio di Eli-faz che, rivolgendosi a Giobbe, evidenzia il contrasto fra i suoi atteggiamenti passati e presenti (4, 2-6). Gli offre poi le sue riflessioni scaturite dall'osservazione (4, 7-11), dalla visione (4, 12-21), e di nuovo dall'osservazione (5, 1-7), per concludere con un inno alla grandezza e potenza di Dio che innalza gli afflitti e fa perire gli astuti con l'annuncio della beatitudine dell'uomo che accetta la correzione di Dio (5, 8-26), seguito da un'incitazione a Giobbe ad accogliere il frutto di tale investigazione (5, 27). Lo scopo di Elifaz è di ristabilire un quadro di certezze entro il quale comprendere anche la vicenda dell'amico. Infatti l'iniziale monologo di Giobbe ha fatto esplodere le precedenti prospettive, fino a mettere in dubbio il bene stesso della vita. Elifaz cerca di persuadere Giobbe rispetto ad alcune tradizionali concezioni sulle conseguenze delle azioni umane e il manifestarsi della giustizia di Dio.

Dio punisce i cattivi e corregge i buoni (4,2-6) Nell'esordio, Elifaz si preoccupa dapprima (v. 2) di giustificare la propria impellente esigenza di prendere la parola, di esprimere la propria opinione, sollecitato così fortemente dalle circostanze. Riguardo ai fatti, egli rileva una dissonanza nel comportamento di Giobbe che, nella disgrazia, si mostra incapace di aiutare se stesso, là dove, in passato, era riuscito con gli altri (vv. 3-4; cfr. Is 35,3). Ma ancor più Giobbe manifesta la sua debolezza (cfr. Prv 24,10) nello sgomento per quel che gli accade. Le parole di Elifaz (v. 5) riferiscono una sottile, tragica consapevolezza dell'avvicinarsi ineluttabile della sventura, che perciò non deve suscitare sorpresa, non quella che mostra Giobbe. Soprattutto, per Elifaz il turbamento di Giobbe sembra in contrasto con il suo atteggiamento religioso (v. 6). Viene introdotta qui una questione fondamentale: il rapporto fra la fede e la vita, fra ciò che l'uomo pensa e come si comporta, fra le ragioni e le attese connesse all'agire dell'uomo. Elifaz insinua che il contegno di Giobbe non è altro che riporre fiducia nei propri sforzi.

vv. 7-11. La prima argomentazione di Elifaz si fonda sulla connessione fra le azioni dell'uomo e le relative conseguenze. La concezione portata da Elifaz esclude che la rovina possa abbattersi sull'uomo esente da colpa e integrato nella comunità (cfr. Sal 1,3; 37,25; Sir 2,10), bensì, basandosi sull'osservazione (4,8) degli eventi, Elifaz sostiene che le afflizioni sono il frutto di chi le ha seminate (cfr. Os 8,7; 10,12-13; Prv 22,8; Sir 7,3). Il giudizio di Dio si compie durante la vita dell'uomo. E la rovina manifesta la collera di Dio per la condotta malvagia dell'uomo. La metafora del leone (vv. 10-11), di solito intesa come il venir meno della forza aggressiva e della prepotenza del malvagio (cfr. Sal 7,3; 17,12; 22,14; 35,16-17; 58,7), può anche riferirsi al venir meno di Giobbe che non ha perso qualcosa, ma che lui stesso è perduto (cfr. Sal 119,176; 31,13).

L’uomo non può essere giusto davanti a Dio Elifaz riferisce poi una visione notturna (vv. 12-17; cfr. Zc 1,8) che ricorda quelle dei patriarchi e dei profeti. Nel descrivere tale visione Elifaz si sofferma sulle circostanze dell'evento, nel sonno profondo (v. 13, cfr. Gn 2,21; 15,12); sullo stato d'animo che suscita in lui: il panico (v. 14). L'oggetto della visione non è costituito da immagini (come nella tradizione della rivelazione biblica), che appaiono offuscate, ma da una voce che Elifaz ascolta. Il messaggio ha un contenuto inquietante (v. 17). Il verbo ṣdq, «essere giusto», e il termine ṣaddîq, «giusto», indicano un atteggiamento corretto da parte dell'uomo, conforme alle regole della comunità cui apparteneva, tuttavia in epoca postesilica; se ne accentuò il riferimento alle esigenze della torah di JHWH (cfr. Sal 1; 119). La conoscenza che Elifaz ha ricevuto in una rivelazione e che propone come un interrogativo di cui è scontata la risposta, insinua e apre un varco incolmabile fra Dio e l'uomo. Pone il dito in quella ferita profonda, ontologica, da cui l'uomo è attraversato: ogni uomo ha una congenita tendenza verso il male. Questo insegnamento si trova anche altrove nella Scrittura (cfr. Gn 8,21; 1Re 8,46; Prv 20,9; Qo 7,20; Sal 51,7; Gb 14,4; 15,14; 25,4) e richiama il racconto delle origini sottolineandone l'esito finale (Gn 3): la separazione, la distanza immensa fra l'uomo e Dio. A sostegno di tutto ciò, Elifaz porta come argomento (vv. 18-21) la sfiducia di Dio verso i suoi servi (anche in 15,15-16). Elifaz è ignaro, ironia dell'autore, di attribuire a Dio lo stesso atteggiamento che il Satan manifesta nel Prologo. Per Elifaz se Dio non si fida dei suoi servi, la corte celeste ancor meno si fida dell'uomo fatto di argilla. Tre immagini sono usate per parlare della fragilità dell'uomo. L'uomo è come polvere (cfr. Gn 2,7; 3,19; Gb 10,9; 33,6), come l'erba (cfr. Sal 90,5-6), come la tenda (cfr. Is 38,12; Qo 12,6). La sua fine è la morte che avviene senza che egli sia pervenuto alla sapienza. Per la prima volta ricorre il termine ḥokmâ, «sapienza», che indica la comprensione dell'ordine delle cose e del mondo e consente l'atteggiamento congruente dell'uomo agli eventi (cfr. Prv 1,2-6). La sapienza appare come un ideale della vita (cfr. 3,23) per Giobbe, mentre per Elifaz l'uomo muore privo di sapienza.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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DISPUTA

Primo discorso di Giobbe 1 Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno. 2Prese a dire: 3“Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: “È stato concepito un maschio!”. 4Quel giorno divenga tenebra, non se ne curi Dio dall'alto, né brilli mai su di esso la luce. 5Lo rivendichino la tenebra e l'ombra della morte, gli si stenda sopra una nube e lo renda spaventoso l'oscurarsi del giorno! 6Quella notte se la prenda il buio, non si aggiunga ai giorni dell'anno, non entri nel conto dei mesi. 7Ecco, quella notte sia sterile, e non entri giubilo in essa. 8La maledicano quelli che imprecano il giorno, che sono pronti a evocare Leviatàn. 9Si oscurino le stelle della sua alba, aspetti la luce e non venga né veda le palpebre dell'aurora, 10poiché non mi chiuse il varco del grembo materno, e non nascose l'affanno agli occhi miei! 11Perché non sono morto fin dal seno di mia madre e non spirai appena uscito dal grembo? 12Perché due ginocchia mi hanno accolto, e due mammelle mi allattarono? 13Così, ora giacerei e avrei pace, dormirei e troverei riposo 14con i re e i governanti della terra, che ricostruiscono per sé le rovine, 15e con i prìncipi, che posseggono oro e riempiono le case d'argento. 16Oppure, come aborto nascosto, più non sarei, o come i bambini che non hanno visto la luce. 17Là i malvagi cessano di agitarsi, e chi è sfinito trova riposo. 18Anche i prigionieri hanno pace, non odono più la voce dell'aguzzino. 19Il piccolo e il grande là sono uguali, e lo schiavo è libero dai suoi padroni. 20Perché dare la luce a un infelice e la vita a chi ha amarezza nel cuore, 21a quelli che aspettano la morte e non viene, che la cercano più di un tesoro, 22che godono fino a esultare e gioiscono quando trovano una tomba, 23a un uomo, la cui via è nascosta e che Dio ha sbarrato da ogni parte? 24Perché al posto del pane viene la mia sofferenza e si riversa come acqua il mio grido, 25perché ciò che temevo mi è sopraggiunto, quello che mi spaventava è venuto su di me. 26Non ho tranquillità, non ho requie, non ho riposo ed è venuto il tormento!“. _________________ Note

3,8 Il Leviatàn (“tortuoso”) è un mostro dell’antica mitologia orientale, rappresentato come un coccodrillo (vedi 26,13; 40,25).

3,17 Là i malvagi cessano di agitarsi: nel pensiero di Giobbe, come in quasi tutto l’AT, l’esistenza che attende l’uomo dopo la morte non è vita; è un’esistenza di ombre, dove buoni e cattivi stanno assieme, senza affetti né speranze (vedi 1Sam 28,19), Dio non è invocato e non interviene (vedi Sal 88,11-13). L’ambito in cui Dio manifesta la sua giustizia è ristretto, dunque, alla vita presente.

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Approfondimenti

DISPUTA 3,1 – 31,40. Il dialogo di Giobbe con gli amici e la sfida a Dịo (cc. 3-31) apre la grande sezione (3,1-42,6) che costituisce il corpo del libro, che sta tra il Prologo (1,1-2,13) e l'Epilogo (42,7-17). Per l'omogeneità delle tematiche affrontate e della prospettiva teologica sviluppata, esso si colloca all'interno del dibattito sapienziale della comunità giudaica postesilica. La svolta narrativa operata in questa sezione è radicale rispetto al Prologo e all'Epilogo. Innanzitutto la forma espressiva usata è quella poetica; inoltre un aspetto di grande rilievo narrativo è dato dal passaggio dal racconto del narratore onnisciente nel Prologo all'uso del discorso riferito o diretto, quale forma predominante adottata nell'intera sezione. Il narratore, presente, cede la parola ai personaggi, adotta differenti prospettive, consente la dialogicità dei punti di vista. Nondimeno, nell'emergere del personaggio nel dialogo, è presente una correlazione dialogica, intrinseca, tra l'intenzione diretta di colui che parla e quella rifratta dell'autore. Nell'attuale struttura narrativa del libro di Giobbe, la Disputa è composta da tre cicli di discorsi di Giobbe con i tre amici, è aperta e chiusa da due monologhi di Giobbe e costituisce sul piano narrativo la “complicazione”. In essa si trovano diversi tentativi di spiegare e risolvere il problema di Giobbe.

Primo discorso di Giobbe 3,1-26. Il monologo iniziale di Giobbe (c. 3) contiene una maledizione che si estende a tutta l'esistenza come enigma e fonte di inquietudine (cfr. 3,20.23). Motivi lessicali e tematici inducono alla suddivisione del monologo in una breve introduzione (vv. 1-2), seguita dalla maledizione della notte del concepimento e del giorno della nascita (vv. 3-10), da domande sul significato dell'esistenza (vv. 11-12), da considerazioni sulla morte come «riposo» tra eguali (vv. 13-19), da domande sull'enigma dell'esistenza e l'agire di Dio (vv. 20-26).

vv. 1-2. Il narratore introduce il monologo di Giobbe e ne offre la chiave di lettura: Giobbe maledice il giorno della sua nascita.

vv. 3-10. L'esordio di Giobbe contiene la maledizione non di Dio ma della sua esistenza. Giobbe non solo maledice il giorno in cui è nato (vv. 3a.4-5), come il profeta Geremia (20,14-16), ma anche la notte del suo concepimento (vv. 3b.6-9) come inizio della vita e ingresso nella storia (cfr. Sal 139,16). L'invettiva di Giobbe vorrebbe trasformare quel giorno in tenebra (in opposizione a Gn 1,3) così che non sia annoverato nel computo del tempo, e rendere quella notte sterile e a cui sia preclusa la luce. Giobbe respinge anche la gioia connessa all'evento della vita (vv. 3b.6b.7b). Scosso dall'amarezza, giunge a contestare quella concezione per cui il figlio significava, per i genitori, una benedizione (cfr. Sal 127,3) e il vertice dell'esistenza (cfr. Gn 30,1; Ger 20,15).

vv. 11-12. Giobbe comincia ora a porre delle domande. La sofferenza costituisce sempre, per l'uomo, una situazione privilegiata da cui scaturiscono le domande profonde dell'esistenza. Il dolore dilata la coscienza e la rende più profonda. Così Giobbe (v. 11), come Geremia (20,17-18), colpito tanto duramente nella sua persona, manifesta, attraverso gli interrogativi, come al nascere e al vivere avrebbe preferito il morire.

vv.13-19. Queste parole di Giobbe costituiscono un tentativo di illustrare la morte. Essa rappresenta la negazione dell'esistenza personale, la cessazione di ogni sofferenza, l'estinguersi di tutte le differenze e contrasti sociali (cfr. Sal 49,11-12; Qo 9,2-6). Ma più di tutto, la morte significa per Giobbe riposare (3,13.17.26). Essa si oppone alla vita, fonte inesauribile di inquietudine (cfr. 3,17.26).

20-23. Gradualmente diventa evidente, per il lettore, che le domande di Giobbe sono indirizzate a Dio. Giobbe non vive la propria fede in modo generico, ma in profondo rapporto con Dio. Anche nella tragedia permane il fondamentale riferimento a Dio. Nondimeno Giobbe considera che la vita, come itinerario da percorrere, si sottrae alla conoscenza umana. La stessa protezione di Dio (cfr. 1,10) diventa per l'uomo un limite e un impedimento (3,23; cfr. 19,8). Ciò rende Giobbe infelice e pieno di amarezza (v. 20) per la vita che gli è stata data, al punto da preferire la morte (v. 21-22; cfr. Sir 41,2).

24-26. Giobbe descrive ora il presente, quel che gli accade e percepisce. Lo fa in modo dinamico (espresso dalla triplice ripetizione del verbo «venire, entrare»), con un crescendo drammatico sulla sciagura che dall'esterno piomba su di lui e lo tormenta nell'intimo. Infatti entra in lui il gemito, il sospiro al posto del cibo; quel che teme gli avviene; non ha riposo e giunge a lui l'inquietudine.

Il monologo presenta alcuni importanti elementi di contrasto e di continuità con il Prologo, Infatti, alla presentazione idealizzata della personalità di Giobbe, subentra ora una rappresentazione in cui egli appare attraversato da profondi interrogativi esistenziali. Pertanto, dopo aver messo in rilievo la perseveranza di Giobbe, ora se ne introduce un altro carattere, la protesta.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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La corte celeste 1 Accadde, un giorno, che i figli di Dio andarono a presentarsi al Signore, e anche Satana andò in mezzo a loro a presentarsi al Signore. 2Il Signore chiese a Satana: “Da dove vieni?”. Satana rispose al Signore: “Dalla terra, che ho percorso in lungo e in largo”. 3Il Signore disse a Satana: “Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male. Egli è ancora saldo nella sua integrità; tu mi hai spinto contro di lui per rovinarlo, senza ragione”. 4Satana rispose al Signore: “Pelle per pelle; tutto quello che possiede, l'uomo è pronto a darlo per la sua vita. 5Ma stendi un poco la mano e colpiscilo nelle ossa e nella carne e vedrai come ti maledirà apertamente!“. 6Il Signore disse a Satana: “Eccolo nelle tue mani! Soltanto risparmia la sua vita”.

Malattia di Giobbe 7Satana si ritirò dalla presenza del Signore e colpì Giobbe con una piaga maligna, dalla pianta dei piedi alla cima del capo. 8Giobbe prese un coccio per grattarsi e stava seduto in mezzo alla cenere. 9Allora sua moglie disse: “Rimani ancora saldo nella tua integrità? Maledici Dio e muori!”. 10Ma egli le rispose: “Tu parli come parlerebbe una stolta! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?”. In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra.

L’arrivo dei tre amici di Giobbe 11Tre amici di Giobbe vennero a sapere di tutte le disgrazie che si erano abbattute su di lui. Partirono, ciascuno dalla sua contrada, Elifaz di Teman, Bildad di Suach e Sofar di Naamà, e si accordarono per andare a condividere il suo dolore e a consolarlo. 12Alzarono gli occhi da lontano, ma non lo riconobbero. Levarono la loro voce e si misero a piangere. Ognuno si stracciò il mantello e lanciò polvere verso il cielo sul proprio capo. 13Poi sedettero accanto a lui in terra, per sette giorni e sette notti. Nessuno gli rivolgeva una parola, perché vedevano che molto grande era il suo dolore. _________________ Note

2,4 Pelle per pelle: è un detto popolare; qui indica che Giobbe deve essere provato non solo con la privazione dei beni materiali, ma nella sua stessa persona.

2,8 seduto in mezzo alla cenere: immagine di estrema abiezione e di esclusione dalla società.

2,11 Teman, Sùach e Naamà: Teman è nella terra di Edom, ma il nome può anche indicare genericamente il sud; Sùach e Naamà sono sconosciuti. Probabilmente si vogliono indicare tre località famose per la sapienza (per Teman vedi Bar 3,22-23; Abd 8-9).

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Approfondimenti

2,1-6. La narrazione prosegue con una nuova convocazione della corte celeste. Nel dialogo, JHWH constata che Giobbe ha superato la prova dando conferma della sua integrità (v. 3). Il Satan, dal canto suo, smentito dai fatti, tace sull'accaduto e incalza nella sfida. Asserisce che la rivolta di Giobbe contro Dio si verificherà quando Giobbe sarà raggiunto, «toccato», nella sua stessa persona. È evidente come tutto l'impegno e la funzione del Satan si attua nel creare contrasti e scontri, alterando rapporti e concezioni. Inoltre, un'attenzione particolare è posta dal Satan sulle parole che si aspetta Giobbe pronunci, «ti maledirà apertamente» (2,5 come 1,11), che costituiva il peccato supremo (cfr. Es 22,27; Lv 24,15-16, così ancora in Gb 2,9). Tale enfasi sulle parole di Giobbe come criterio della sua fedeltà, più che altri suoi atti, è un elemento che prepara alla disputa successiva, lasciando, peraltro, a Giobbe un ampio spazio entro il quale formulare le sue accuse a Dio senza per questo venir meno alla sua caratterizzazione iniziale di uomo fedele. Anche tale componente va nel senso che la redazione del Prologo sia avvenuta in relazione con il corpo poetico. Dio acconsente di nuovo al progetto del Satan (v. 6), ma pone ancora dei limiti: la protezione della vita di Giobbe. E un tratto peculiare di JHWH, il Dio dei viventi, il fatto che egli operi per custodire la vita dell'uomo nella sua intenzionalità (cfr. per es. Sal 25,20; 86,2; 97,10; 121,7). Ciò che rimane in questione, nella scommessa del Satan, è sempre la fedeltà di Giobbe a Dio. Ma Giobbe continua a rimanere all'oscuro, ignaro del perdurare della prova.

v. 7. L'azione del Satan stavolta è descritta con un'estrema brevità e realizza una progressione nella dinamica della prova. La piaga (cfr. Es 9,9-10; Dt 28,27; 2Re 20,7) da cui è colpito Giobbe comportava, abitualmente, l'isolamento sociale (cfr. Lv 13,45-46), era incurabile e faceva parte delle maledizioni con cui JHWH poteva colpire Israele infedele alla brît (cfr. Dt 28,35).

vv. 8-10. Di nuovo, la reazione di Giobbe è fatta di gesti e di parole. Compare per la prima e unica volta la moglie di Giobbe (v. 9), le cui parole esprimono ormai la resa e la disperazione di chi gli sta vicino: ella si oppone a Giobbe che insiste e persevera proprio in quella integrità che Dio, invece, aveva apprezzato (2,3). Giobbe in risposta (v. 10), le rimprovera di aver parlato con la stoltezza di chi non comprende l'agire di Dio (cfr. Dt 32,5; Sal 74,18.22). Proseguendo in una confessione di fede, Giobbe dichiara che tutto proviene da Dio e pertanto l'uomo deve accettare tanto il bene che il male (cfr. Is 45,6-7; Qo 7,14). È un'affermazione razionale in cui si rivela anche il significato del comportamento di Giobbe che accoglie fino in fondo quanto gli accade. Non c'è disorientamento in Giobbe poiché per lui tutti gli avvenimenti scaturiscono da Dio. Nella tragedia egli è capace di quella suprema fedeltà a Dio che gradualmente ha costruito nel tempo. Che cosa potrà ancora accadere a Giobbe e come si concluderà la sua vicenda? Il dramma prospettato esige una soluzione che nell'antico racconto orale si presume seguisse immediatamente (ora in 42,11-17), ma non così nell'attuale libro canonico. Il narratore, a questo punto (v. 10c), conferma la valutazione su Giobbe che in tutto ciò che gli accadde non peccò. L'enfasi posta sul fatto che «non peccò con le sue labbra», si può anche comprendere come un riferimento prolettico (così come 1,11; 2,5), un'anticipazione e, insieme, una valutazione degli eventi successivi nei quali Giobbe è protagonista. Prende avvio ora, infatti, una fase nuova del la narrazione, con uno sviluppo formale inatteso e un significativo ampliamento dei contenuti e dell'intreccio.

vv. 11-13. La descrizione dell'arrivo degli amici con cui si conclude il Prologo, è di fatto destinata a introdurre il corpo poetico. La forma narrativa, qui adoperata, è quella del “sommario”, modello diffuso per la transizione fra due scene, e delinea, in sintesi, lo sfondo in cui avviene la disputa. Se i vicini si sono allontanati da Giobbe inorriditi per la maledizione che su di lui si è abbattuta, gli amici da lontano accorrono a lui per consolarlo. La descrizione si sviluppa intorno alla dimensione spaziale: gli amici lontani si fanno vicini, essi che, paradossalmente, diventeranno, nel corso del dialogo, antagonisti e avversari, e che, nell'epilogo, saranno riprovati da Dio (42,7-8). La diversa provenienza è l'unico elemento che differenzia i tre amici, come se, quali rappresentanti dei popoli dell'Oriente, noti per la sapienza, fossero convocati intorno a Giobbe. Tuttavia, giunti accanto a lui, tacciono, sconcertati e in attesa.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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PROLOGO (1,1-2,13)

Felicità e rettitudine di Giobbe 1 Viveva nella terra di Us un uomo chiamato Giobbe, integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male. 2Gli erano nati sette figli e tre figlie; 3possedeva settemila pecore e tremila cammelli, cinquecento paia di buoi e cinquecento asine, e una servitù molto numerosa. Quest'uomo era il più grande fra tutti i figli d'oriente. 4I suoi figli solevano andare a fare banchetti in casa di uno di loro, ciascuno nel suo giorno, e mandavano a invitare le loro tre sorelle per mangiare e bere insieme. 5Quando avevano compiuto il turno dei giorni del banchetto, Giobbe li mandava a chiamare per purificarli; si alzava di buon mattino e offriva olocausti per ognuno di loro. Giobbe infatti pensava: “Forse i miei figli hanno peccato e hanno maledetto Dio nel loro cuore”. Così era solito fare Giobbe ogni volta.

Giobbe viene messo alla prova 6Ora, un giorno, i figli di Dio andarono a presentarsi al Signore e anche Satana andò in mezzo a loro. 7Il Signore chiese a Satana: “Da dove vieni?”. Satana rispose al Signore: “Dalla terra, che ho percorso in lungo e in largo”. 8Il Signore disse a Satana: “Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male”. 9Satana rispose al Signore: “Forse che Giobbe teme Dio per nulla? 10Non sei forse tu che hai messo una siepe intorno a lui e alla sua casa e a tutto quello che è suo? Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani e i suoi possedimenti si espandono sulla terra. 11Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha, e vedrai come ti maledirà apertamente!“. 12Il Signore disse a Satana: “Ecco, quanto possiede è in tuo potere, ma non stendere la mano su di lui”. Satana si ritirò dalla presenza del Signore. 13Un giorno accadde che, mentre i suoi figli e le sue figlie stavano mangiando e bevendo vino in casa del fratello maggiore, 14un messaggero venne da Giobbe e gli disse: “I buoi stavano arando e le asine pascolando vicino ad essi. 15I Sabei hanno fatto irruzione, li hanno portati via e hanno passato a fil di spada i guardiani. Sono scampato soltanto io per raccontartelo”. 16Mentre egli ancora parlava, entrò un altro e disse: “Un fuoco divino è caduto dal cielo: si è appiccato alle pecore e ai guardiani e li ha divorati. Sono scampato soltanto io per raccontartelo”. 17Mentre egli ancora parlava, entrò un altro e disse: “I Caldei hanno formato tre bande: sono piombati sopra i cammelli e li hanno portati via e hanno passato a fil di spada i guardiani. Sono scampato soltanto io per raccontartelo”. 18Mentre egli ancora parlava, entrò un altro e disse: “I tuoi figli e le tue figlie stavano mangiando e bevendo vino in casa del loro fratello maggiore, 19quand'ecco un vento impetuoso si è scatenato da oltre il deserto: ha investito i quattro lati della casa, che è rovinata sui giovani e sono morti. Sono scampato soltanto io per raccontartelo”. 20Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello; si rase il capo, cadde a terra, si prostrò 21e disse: “Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!“.

22In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di ingiusto. _________________ Note

1,1 La terra di Us probabilmente è da collocare a est della terra di Canaan, nell’Idumea, fuori dal territorio di Israele. Giobbe non è ebreo, ma adora il Dio di Abramo.

1,6 I figli di Dio sono i membri della corte divina, gli angeli (vedi anche 38,7). Satana (“avversario”, “accusatore”) è l’accusatore di Giobbe, il suo nemico.

1,15 Sabei e Caldei: sono nomi di popolazioni nomadi, e sono utilizzati qui come sinonimi di predatori.

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Approfondimenti

Nel prologo al libro di Giobbe, S. Gerolamo constata che rendere dall’ebraico un testo simile «è come tentare di tenere fra le mani un’anguilla: più forte si preme, e più sfugge di mano». Questa frase famosa rende bene l’idea della complessità di questo scritto sapienziale, redatto quando la comunità di Israele sta vivendo il difficile rientro dall’esperienza traumatica dell’esilio (letteratura di crisi). Il rapporto con Dio si è incrinato e stenta a ripartire; e tale incrinatura è da attribuire anche alla crisi – all’apparenza senza soluzione – della dottrina tradizionale della retribuzione.

Il prologo in prosa, articolato in sei brevi scene distribuite tra cielo e terra, ha come tema la sofferenza considerata come prova della fede, e quindi in modo positivo, nella linea della più pura tradizione biblica.

Il motivo della sofferenza e il suo mistero rappresentano un tema piuttosto comune nella riflessione Antico Vicino Oriente. Diverse sfaccettature della sua trattazione:

  • sofferenza come conseguenza di una colpa (dottrina della retribuzione);
  • sofferenza come parte integrante della natura umana, come conseguenza della sua creaturalità;
  • sofferenza come forma di educazione e di disciplina divina nei confronti dell’uomo;
  • sofferenza come dato inspiegabile – l’impossibilità di tenere insieme la teologia di un Dio creatore buono con la constatazione della sofferenza del giusto.

La caratterizzazione di Giobbe come saggio non-israelita (originario della terra di Uz), e i riferimenti molteplici presenti nel libro a elementi culturali non israeliti: tutto ciò conferma l’impressione di uno scritto “al confine”, posto cioè in dialogo stringente con l’ambiente circostante... e su un tema delicatissimo come quello della sofferenza (presunta) innocente.

«Giobbe è un uomo misterioso, contemporaneo mio e tuo, perché si è fatto le stesse domande che ci facciamo noi... domande attuali, a cui non riusciamo a dare rispondere, come noi ci è riuscito lui. Chi è Giobbe? Insomma non si sa» (Wiesel).

«La sofferenza del giusto e la retribuzione sono tematiche rilevanti nel libro di Giobbe, ma il problema di fondo è questo: Può l’uomo essere più retto di Dio, o il mortale più puro del suo creatore (Gb 4,17)? Come può l’uomo porre condizioni al suo creatore o chiamarlo a rendergli ragione del proprio operato? Dio è totalmente al di fuori dell’orizzonte e della portata dell’uomo, eppure egli parla sia attraverso la sofferenza, sia attraverso le opere della creazione» (Lorenzin).

Tratto da: MASSIMILIANO SCANDROGLIO, PROFETI E SCRITTI: INTRODUZIONE E LETTURE – SCHEDE INFORMATIVE (SECONDA PARTE), Dispense ad uso degli studenti, Milano, 2021-2022


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=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●= CAPITOLO XII

VISITATORE, CAPPELLANO, CARDINALE PROTETTORE

1 Il nostro Visitatore sia sempre dell’ordine dei frati minori secondo la volontà ed il comando del nostro cardinale. 2 E sia tale della cui onestà e costumi si abbia piena conoscenza. 3 L’ufficio suo sarà di correggere, tanto nel capo come nelle membra, i difetti contro la forma della nostra professione. 4 Resti in un luogo pubblico, per poter esser visto da tutti e gli sia lecito parlare a gruppi o alle singole di ciò che riguarda la visita, come gli sembrerà più conveniente. 5 Anche il cappellano con un suo compagno chierico di buona fama, di prudente discrezione, e due fratelli laici di santa conversazione e amanti dell’onestà, 6 in aiuto alla nostra povertà, come sempre abbiamo avuto dal medesimo ordine dei frati minori, 7 in vista della pietà di Dio e del beato Francesco, noi chiediamo come grazia dall’ordine stesso. 8 Al cappellano non sia lecito entrare in monastero senza il compagno. 9 Quando entrano, restino in un luogo aperto, da potersi vedere tra loro e dagli altri. 10 Per la confessione delle malate che non potessero andare al parlatorio, per distribuire ad esse la comunione, per la estrema unzione e per la raccomandazione dell’anima delle stesse, sia permesso loro di entrare. 11 Per le esequie e per le messe solenni delle defunte, per scavare e aprire le sepolture, o per sistemarle, possano entrare individui capaci ed idonei, a discrezione dell’abbadessa. 12 Inoltre le suore siano fermamente tenute ad avere sempre per nostro governatore, protettore e correttore quel cardinale della santa Chiesa romana, che dal signor papa sarà stato stabilito per i frati minori: 13 perché sempre suddite e soggette ai piedi della stessa santa Chiesa, «stabili nella fede cattolica» (cf. Col 1,23), osserviamo la povertà e l’umiltà del Signore nostro Gesù Cristo e della sua santissima madre ed il santo Vangelo, come fermamente abbiamo promesso. Amen.

Epilogo

14 *Dato a Perugia, il 16 settembre, nell’anno decimo [1252] del pontificato del signor papa Innocenzo IV. 15 A nessuno assolutamente sia lecito menomare o contraddire temerariamente questa nostra bolla di conferma. 16 Se qualcuno poi presumerà di tentarlo, sappia d’incorrere nell’indignazione di Dio onnipotente e dei beati suoi apostoli Pietro e Paolo.

17 **Dato ad Assisi, il 9 agosto, anno decimoprimo [1253] del nostro pontificato. ___________________ Note all'Epilogo *La concessione della Regola da parte del card. protettore Rainaldo (Perugia, 16 settembre 1252), avviene poco dopo la sua visita a Chiara gravemente malata (LCla 26,12-17: FC 529).

**La bolla di approvazione da parte di Innocenzo IV (Assisi, 9 agosto 1253), avviene dopo la sua seconda visita a Chiara morente (PCan 3,107-109: FC 235).

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CAPITOLO XI

CUSTODIA DELLA CLAUSURA

1 La portinaia sia matura nei costumi e discreta, di età conveniente, e di giorno resti nella stanza aperta, senza porta. 2 Le sia assegnata un’altra socia idonea, che all’occasione la sostituisca in tutto. 3 La porta sia munita di due diverse serrature di ferro, con due battenti e spranghe; 4 perché soprattutto di notte sia serrata con due chiavi, di cui una sia tenuta dalla portinaia e l’altra dall’abbadessa. 5 Di giorno non sia mai lasciata senza custodia, serrata sempre con una chiave. 6 Guardino bene con diligenza e procurino che la porta non resti mai aperta, eccetto il minimo che vorrà la convenienza. 7 Né assolutamente si apra a chi vuol entrare, se non gli fosse stato concesso dal sommo Pontefice, ovvero dal nostro signor cardinale. 8 Né permettano ad alcuno di entrare in monastero prima di giorno, né dopo il tramonto di rimanervi, eccetto in caso di necessità manifesta, ragionevole ed inevitabile. 9 Se in occasione della benedizione dell’abbadessa o per la consacrazione di qualche suora, o per motivo simile, sarà concesso a qualche vescovo di celebrar messa all’interno, egli si contenti di soci e ministri in minor numero possibile e i più onesti. 10 Se poi fosse necessario ad alcuni di entrare in monastero per lavori, l’abbadessa stabilisca con sollecitudine la persona conveniente alla porta, 11 che apra soltanto a quelli addetti al mestiere e non ad altri. 12 Le suore poi si guardino bene dal farsi vedere da quelli che entrano.

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CAPITOLO X

AMMONIZIONE E CORREZIONE DELLE SUORE

1 L’abbadessa ammonisca e visiti le sue suore, ed umilmente e caritativamente le corregga, non comandando loro alcunché contro l’anima loro e la nostra forma di professione. 2 Ma le suore suddite ricordino di aver rinnegato la volontà propria per Iddio. 3 Siano dunque tenute fermamente ad obbedire alle proprie abbadesse in quanto hanno promesso al Signore di osservare, e non è contro l’anima propria e la nostra professione. 4 L’abbadessa dimostri poi tanta familiarità ad esse, che possano dire e fare con lei come le padrone con la propria serva. 5 Così infatti deve essere, che l’abbadessa sia la serva di tutte le suore. 6 Perciò ammonisco ed esorto nel Signore Gesù Cristo, che le suore «si guardino da ogni» superbia, vanagloria, invidia, «avarizia, cura e sollecitudine di questo mondo» (cf. Mt 13,22; Lc 12,15; 21,34), detrazione e mormorazione, dissenso e divisione. 7 Siano invece sollecite vicendevolmente di conservare sempre l’unità della mutua dilezione, che «è vincolo di perfezione» (cf. Ef 4,3; Col 3,14). 8 Coloro che non sanno di lettere, non si curino di apprenderle, 9 ma attendano a ciò che sopra ogni altra cosa debbono desiderare: avere lo spirito del Signore e la sua santa operazione, 10 pregarlo sempre con cuore puro e avere umiltà e pazienza nella tribolazione e nella malattia, 11 e amare quelli che ci perseguitano, riprendono e criticano; 12 poiché il Signore dice: «Beati quelli che soffrono per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. 13 Chi poi avrà perseverato sino alla fine, questi sarà salvo» (Mt 5,10; 10,22).

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CAPITOLO IX

PENITENZA DA IMPORSI ALLE SUORE CHE PECCANO; LE SUORE SERVIGIANE FUORI DEL MONASTERO

1 Se qualche suora, per istigazione del nemico, avrà peccato mortalmente contro la forma della nostra professione, dopo essere stata ammonita dall’abbadessa o da altre suore due o tre volte, 2 se non si sarà emendata, mangi pane e acqua in terra al refettorio davanti a tutte le suore tanti giorni quanti sarà restata contumace; 3 e sia sottoposta a pena maggiore, se l’abbadessa crederà. 4 Mentre resta contumace, si preghi perché il Signore illumini il suo cuore a penitenza. 5 Ma l’abbadessa e le sue suore debbono guardarsi dall’adirarsi o turbarsi per il peccato di qualcuna; 6 poiché l’ira e il turbamento impediscono la carità in sé e negli altri. 7 Se accadesse, Dio ne guardi, che sorgesse tra una suora e l’altra, a parole o a fatti, un’occasione di turbamento o di scandalo, 8 subito prima di «presentare al Signore l’offerta» (cf. Mt 5,23) della sua preghiera, non solo si prostri umilmente a terra ai piedi dell’altra, chiedendo perdono; 9 ma le chieda anche con semplicità che interceda per lei presso il Signore perché sia perdonata. 10 L’altra poi, memore della parola del Signore: «Se non perdonerete di cuore, nemmeno il Padre vostro» celeste «perdonerà a voi» (Mt 6,15; 18,35), 11 con liberalità perdoni alla propria sorella qualsiasi offesa fattale. 12 Le suore che servono non restino a lungo fuori del monastero, se non lo richieda una causa di manifesta necessità. 13 Debbono agire onestamente e parlar poco, per poter edificare chi le vede. 14 E si guardino con fermezza di avere sospetti incontri o convegni con uomini. 15 Né possono essere madrine di uomini o di donne, affinché per questa occasione non sorga mormorazione e turbamento. 16 Né abbiano la presunzione di riportare in monastero i pettegolezzi del mondo. 17 Fermamente siano tenute di non riferire fuori alcunché di quanto si dice e si fa in monastero, che possa ingenerare qualche scandalo. 18 Se qualcuna avesse per semplicità mancato in queste due cose, a disposizione dell’abbadessa, le sia imposta con misericordia la penitenza. 19 Se poi ne avesse la viziosa consuetudine, l’abbadessa le imponga una penitenza secondo la qualità della colpa, con il consiglio delle discrete. _________________ Note al CAP. IX 9,1-4: Quanto Francesco aveva dovuto eliminare dalla I Regola, per renderla più agevole e più strettamente giuridica, è qui conservato con valore ascetico.

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CAPITOLO VIII

LE SUORE NON SI APPROPRINO DI NULLA; VENGA CHIESTA L’ELEMOSINA; LE SUORE INFERME

1 Le suore non si approprino di nulla, né casa, né luogo, né cosa alcuna; 2 e «come pellegrine e forestiere» (Sal 38,13; 1Pt 2,11; Eb 11,13) in questo mondo, servendo al Signore in povertà e umiltà, mandino con confidenza per l’elemosina; 3 né debbono vergognarsene, poiché il Signore si fece per noi «povero» (2Cor 8,9) in questo mondo. 4 Questo è quel vertice di «povertà altissima» (2Cor 8,2), che rese voi, mie carissime sorelle, eredi e regine del «regno dei cieli» (Mt 5,3; Lc 6,20), vi ha rese povere di sostanze, ma vi ha sublimato di virtù. 5 Questa sia la vostra «porzione» che conduce alla «terra dei viventi (cf. Sal 141,6), 6 a cui, dilettissime sorelle, restando totalmente unite, nient’altro cercate sotto il cielo per sempre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo e della sua Madre santissima. 7 Non sia lecito a nessuna suora d’inviare lettere, o ricevere qualcosa, o darla fuori del monastero, senza permesso dell’abbadessa. 8 Né sia lecito ritenere qualcosa che l’abbadessa non abbia dato o permesso. 9 Se dai parenti o da altri sia dato qualcosa a qualcuna, glielo faccia dare l’abbadessa. 10 Se ne avrà bisogno l’interessata lo possa usare, altrimenti sia dato caritatevolmente a qualche altra suora che ne ha bisogno. 11 Se le fosse inviata un’offerta pecuniaria, l’abbadessa la faccia provvedere nelle cose di cui ha bisogno, con il consiglio delle discrete. 12 L’abbadessa sia fermamente obbligata sollecitamente di persona e per altre a provvedere, nei consigli, nei cibi e in quanto altro servisse nell’infermità alle suore malate, 13 e a provvedere caritatevolmente e con misericordia secondo le possibilità del luogo. 14 Poiché tutte sono tenute a provvedere e servire alle proprie sorelle inferme, come vorrebbero essere servite esse stesse nell’infermità. 15 Con fiducia l’una manifesti all’altra la propria necessità. 16 E se una madre ama e nutre la propria figlia carnale, con quanto maggiore diligenza una suora deve amare e nutrire la propria sorella spirituale! 17 Le inferme riposino su sacconi di paglia ed abbiano dei cuscini di piume; 18 e chi ne ha bisogno possa usare pantofole e calze di lana. 19 Le suddette malate, quando sono visitate da chi visita il monastero, possano ognuna rispondere brevemente qualche buona parola a chi le interroga. 20 Le altre suore non abbiano il permesso di parlare a coloro che entrano in monastero, se non presenti e ascoltanti due suore discrete, assegnate dall’abbadessa o dalla vicaria. 21 Questo sistema di parlare sia obbligatorio anche per l’abbadessa e la vicaria. _________________ Note al CAP. VIII 8,2-3: Mandino per l’elemosina è un’espressione ripresa dalla Regola bollata di Francesco, in cui il santo prescrive di andare per l’elemosina (vadant); qui, però, Chiara utilizza il termine mandino (mittant). Si tratta di due verbi diversi che fanno comprendere la diversità di stile nella comune vocazione: i frati seguono il Signore andando per il mondo (ReBu 3,1.11), le sorelle stanno con il Signore mandando per l’elemosina, perchè sono sedentarie come Maria di Betania.

8,7-11: I dettagli di queste norme di povertà e di distacco – tenendo presente la psicologia femminile – sono veramente eroici.

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Approfondimenti

Il capitolo 8 è l’altro passaggio/forza della Forma vitae in cui Chiara – continuando ad affiancare i temi della Regola bollata – traduce l’intuizione di Francesco sull’espropriazione, cuore della Christi vivendi forma, nello stile di vita della sua comunità penitenziale-claustrale. E come in Rb 6, al sine proprio segue, strettamente legato, il tema della fraternità, della cura vicendevole a cui le sorelle sono chiamate, con quella predilezione verso le sorelle inferme che potremmo dire parallela a quella di Francesco per i fratelli lebbrosi: è la forma di vita delle «sorelle povere», veramente, dove povertà e carità sono l’una sorgente dell’altra.

Mentre Rb 6 continua congiungendo con un et la santa povertà al suo frutto primo che è la carità, la familiarità tra i frati, fino a concludere con l’esortazione ad amare e servire i frati infermi, Chiara passa ora a un altro aspetto del sine proprio, quello personale. Per i versetti 8,7-11 la fonte principale di riferimento è qui la Regola di Benedetto, a cui la santa attinge i concetti di fondo cambiandone però i termini con grande libertà e talora distanziandosene decisamente. Si tratta del mandare lettere all’esterno o del ricevere qualcosa in dono: ed emerge, dalle operazioni che Chiara fa sul testo parallelo della Regola di Benedetto, ciò che per lei conta veramente:

  • il sine proprio che si traduce in trasparenza e stretto legame di obbedienza, per cui nessuna può ritenere “proprio” qualcosa e farne ciò che vuole. L’accento sembra posto non tanto sul ricevere quanto sul mandare, e il problema di fondo, confermato da tutto il contesto del capitolo, è più quello della povertà che non quello di una limitazione nelle relazioni epistolari. Scrivere una lettera era un avvenimento straordinario, per la difficoltà che comportava ed anche per il suo costo;
  • il senso di responsabilità ed il respiro della carità vicendevole all’interno della comunità: nel v. 9, in cui si tratta dei doni ricevuti da una singola sorella, Chiara si distanzia dal metodo benedettino, mettendo in secondo piano il principio ascetico – «E se l’abate glielo consente, sarà poi in sua facoltà decidere a chi destinare la cosa. Il fratello cui il dono era inviato, in tal caso non si rattristi, per non dare occasione al diavolo» (RBen 54,3-4) – per fermarsi sul senso di responsabilità della sorella che può giudicare da sola l’opportunità o meno di tenere il dono ricevuto, il suo reale bisogno, la sua distanza dal bisogno; e soprattutto lo sguardo di Chiara si allarga a desiderare che la sorella sia attenta alle altre, si accorga del possibile bisogno di un’altra: è il suo primo desiderio che l’amore sia il cuore delle relazioni tra le sue figlie e sorelle.

Il v.11, tutto scritto dalla mano di Chiara, in brevi parole affronta un tema molto problematico in un’epoca storica di grandi cambiamenti come la prima metà del Duecento, quello del rapporto col denaro. Francesco l’aveva rifiutato categoricamente in ogni sua forma: per lui, da ex-mercante, denaro era sinonimo di accumulo, reinvestimento, tesaurizzazione, potere. La Forma vitae prevede invece che ad una sorella possa essere inviato un dono in pecunia (ovvero: non denaro ma qualsiasi cosa che viene accettata in una compravendita che avviene col “baratto”). Chiara, che aveva alle spalle l’esperienza di una famiglia nobile, vedeva nell’avidità dei possedimenti terrieri il pericolo di venir meno alla stretta povertà, non certo in una piccola elemosina in denaro, che poteva essere utilizzata per le necessità di una singola sorella, senza con questo diventare fonte di sicurezza e di sostentamento per la comunità. Neppure lei tuttavia tratta questo argomento come cosa facile e scontata: il fatto che qui chieda all’abbadessa di ricorrere al consiglio delle discrete dimostra che lo considera un avvenimento rilevante e di delicato discernimento. Ciò che conta anche in questo caso è la discrezione e la provvidenza della madre verso la necessità di ogni sorella: di fronte a questo anche la paura di toccare e ricevere denaro sembra sbiadire.

Tratto da: Federazione S. Chiara di Assisi ● La Regola di Chiara di Assisi: il Vangelo come forma di vita


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CAPITOLO VII

MODO DI LAVORARE

1 Le suore alle quali il Signore ha dato la grazia di lavorare, dopo l’ora di terza lavorino, in un lavoro onesto e di utilità comune, con fedeltà e devozione, 2 in modo che, allontanato l’ozio, nemico dell’anima, «non spengano lo spirito» (1Ts 5,19) della santa orazione e di devozione, a cui tutte le altre cose temporali devono servire. 3 E l’abbadessa o la sua vicaria sia tenuta ad assegnare in capitolo davanti a tutte ciò che ognuna dovrà fare con le sue mani. 4 Altrettanto si faccia se fosse inviata da qualcuno qualche elemosina per necessità delle suore, perché in comune ne venga fatta memoria. 5 E queste cose siano distribuite dall’abbadessa o dalla vicaria per utilità comune, con il consiglio delle discrete.

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Approfondimenti

Lavorare con le proprie mani, manibus suis, ha nella forma di vita clariana una dimensione vocazionale, nel contesto di quella “conversione alla povertà” anche dal punto di vista sociale che caratterizzò il movimento evangelico nei secoli XII-XIV. Il lavoro manuale, anche quello più faticoso nei campi e nei boschi, era il sostentamento dei primi monasteri femminili affiliati all’Ordine cisterciense, ed è ben noto che il rapporto povertà-lavoro caratterizzò fin dagli inizi il movimento degli Umiliati. Questo tema è centrale nello svolgimento della Forma vitae e non a caso segue direttamente il capitolo 6, poiché della scelta di povertà il lavoro manuale è conseguenza diretta e importante. Una tematica difficile, al centro di gravi controversie nella vita dell’Ordine francescano mentre questo testo viene redatto: lavorare «con le proprie mani» era una parola di Francesco, uno dei distintivi delle origini, ed era per tutti i frati, senza distinzione. «E quelli che non sanno, imparino»: le parole del Testamento sono eco di un travaglio in atto e di una volontà precisa di Francesco. Con la Quo elongati di Gregorio IX, di fatto il Testamento veniva dichiarato non vincolante per i Frati minori e ritenuto un ostacolo alla crescita dell’Ordine. Ebbene, in questo clima, quando deve dire la sua parola sul lavoro, Chiara riprende quasi del tutto il testo parallelo della Regola bollata, ma nei punti più decisivi inserisce proprio le parole del Testamento. Dalla Regola bollata riprende la definizione del lavoro come “grazia”, che apre un orizzonte più vasto rispetto alla concezione tradizionale che vedeva il lavoro solo quale mezzo di sostentamento o impegno ascetico; a questo Chiara aggiunge l’orario del tempo di lavoro, necessario in una struttura monastica come la sua: post horam tertiae, dopo l’ora di terza. La fonte con cui è d’obbligo un confronto è il capitolo 48 della Regola di Benedetto: la Forma vitae clariana tralascia le numerose specificazioni dell’ora della fine del lavoro, dei vari tempi dell’anno liturgico in cui gli orari dei monaci cambiavano, e si distingue per l’assenza completa del tempo dedicato alla lectio divina, così importante nel testo benedettino. L’impressione è che Chiara si appoggi sulla struttura monastica esistente per costruirvi la sua forma, la lineare forma della sua vita povera. Ciò su cui si ferma con molta precisione è invece la descrizione della qualità, del modo di lavorare: il lavoro è grazia, prima di tutto, capacità, forza e salute sono dono gratuito di Dio.

Coscienza della grazia, honestas, comune utilità, fedeltà e devozione: questi gli atteggiamenti che Chiara ritiene importanti nell’andare incontro al quotidiano impegno del lavoro. E tra questi, emerge la sua tenacia nell’affermare che anche in questo campo lei è d’accordo con la posizione di Francesco: già dal tempo della composizione della Regola non bollata esistevano nell’Ordine tre categorie di frati, predicatores, laboratores, oratores, che via via porterà alla distinzione più netta tra chierici e laici, e il lavoro manuale non era più per tutti, dato che i frati stavano cominciando ad affrontare le esigenze della pastorale determinate dal Concilio Lateranense IV. Nel ribadire, nel Testamento, l’esigenza del lavoro manuale per tutti Francesco si mostrava contrario alla strada presa dai suoi frati, e Chiara, che con molta facilità poteva riconoscersi – all’interno della tripartizione della società medioevale in oratores, bellatores e laboratores – nella categoria degli oratores, con questo appropriarsi dell’espressione del Testamento si mette decisamente in linea col gruppo delle origini, in quelle intuizioni radicali. Non si tratta di nostalgia, ma di una scelta ben concreta di identità: lei sta dalla parte della minorità, questo è al cuore della sua vocazione e non ci sono motivi o mutamenti storici che possano farla deviare da essa, perché così era per Francesco, per il quale tutto ciò che allontanava da questa condizione di minori, soggetti ad ogni creatura (il guadagno, i ruoli, gli incarichi), non era conforme alla vocazione ricevuta. Importante anche l’aggiunta communem, communem utilitatem: nessuna sorella operi come fosse da sola, né per se stessa, ma all’interno del corpo della comunità e per la sua edificazione. È una parola fondante, che scorrendo il testo della Regola riemerge continuamente: l’appartenenza reciproca e quindi la responsabilità di ognuna nei confronti della comunità.

A San Damiano si praticava il lavoro della filatura, il più comune per le donne dell’epoca, largamente impiegate nell’industria tessile, e anche quello della tessitura, per lo più riservato alla manodopera maschile. Una piccola produzione artigianale finalizzata in parte alla carità verso le chiese povere, in parte – lo possiamo pensare – al sostentamento della comunità, che veniva completato dalla coltivazione dell’orto e dalle elemosine spontanee dei benefattori e di chi si affidava alla preghiera delle sorelle. Una scelta, quella del lavoro manuale, che le immetteva nella realtà quotidiana di tanta gente, di tante donne povere “involontarie”, la cui vita quotidiana ben conosceva sia la fatica di un lavoro scarsamente retribuito, sia l’umiliazione della mendicità. Tutto questo senza che le sorelle entrassero in quella forma di commercio in cui si trovarono coinvolti gli Umiliati e, in campo agricolo, i Cisterciensi, o in quella specializzazione che rese famosi i tessuti confezionati dalle beghine delle Fiandre. Il fine era sostentarsi, da povere, guardandosi da ogni forma di guadagno o di accumulo di beni: una scelta controcorrente sia nei confronti della nobiltà, a cui la gran parte delle sorelle di San Damiano proveniva, sia nei confronti della borghesia in crescente ascesa, per la quale l’economia era sempre più in funzione del massimo guadagno e dell’accumulo illimitato di denaro.

Tratto da: Federazione S. Chiara di Assisi ● La Regola di Chiara di Assisi: il Vangelo come forma di vita


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