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DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

CAPITOLO IV

ELEZIONE ED UFFICIO DELL’ABBADESSA, IL CAPITOLO, LE UFFICIALI E LE DISCRETE

1 Le suore siano tenute ad osservare la forma canonica nell’elezione dell’abbadessa. 2 Procurino a tempo di avere il ministro generale o un provinciale dell’ordine dei frati minori, 3 che le istruisca nella parola di Dio, perché l’elezione avvenga nella concordia di tutte e per la comune utilità. 4 Non sia eletta nessuna non professa. 5 Se venisse eletta una non professa, o in altro modo, non le si obbedisca, se non avrà prima professato la forma della nostra povertà. 6 Alla sua morte, sia eletta un’altra abbadessa.

7 Se ad un dato momento sembrasse alla generalità delle suore che la suddetta abbadessa non fosse conveniente al servizio e alla utilità di esse, 8 le predette suore siano tenute, quanto prima, ad eleggersi un’altra abbadessa e madre nella stessa forma.

9 L’eletta poi consideri quale onere ha ricevuto, e a chi dovrà «render conto» del gregge affidatole (cf Mt 12,36; Lc 16,2; Eb 13,17). 10 S’impegni soprattutto di precedere le altre nelle virtù e nei santi costumi, piuttosto che nell’ufficio, perché le suore le obbediscano perché provocate dal suo amore più che dal timore. 11 Si guardi da affetti particolari, perché amando di più qualcuna, non sorga scandalo tra tutte. 12 Consoli le afflitte. Sia anche «ultimo rifugio a chi soffre» (cf Sal 32 (31), 7), perché se presso di lei venisse meno il sostegno della salute, non prevalga nelle inferme il male della disperazione.

13 Serva in ogni modo alla comunità, ma soprattutto in chiesa, in dormitorio, al refettorio, nell’infermeria e nel provvedere le vesti: 14 e la vicaria sia tenuta agli stessi obblighi.

15 L’abbadessa sia tenuta a riunire le suore a capitolo* almeno una volta la settimana; 16 dove lei e le suore sian tenute a confessare umilmente le offese comuni e pubbliche e le negligenze. 17 Lì conferisca con tutte le suore delle cose riguardanti l’utilità e l’onestà del monastero; 18 spesso infatti il Signore rivela alla più giovane** ciò che è meglio. 19 Non si facciano debiti gravi, se non con il comune consenso delle suore e per necessità manifesta; e questo attraverso il procuratore. 20 Badi l’abbadessa con le sue suore che non sia accettato in monastero alcun deposito, 21 poiché spesso da questo sorgono turbamenti e scandali.

22 Per conservare l’unità dell’amore vicendevole e della pace, con il consenso di tutte le suore, vengano elette le ufficiali del monastero. 23 Così vengano elette almeno otto suore come discrete, delle quali l’abbadessa possa servirsi in quanto è richiesto dalla forma della nostra vita. 24 Le suore possano e debbano, se sembrerà utile, rimuovere tali ufficiali e discrete ed eleggerne altre al loro posto.

_________________ Note al CAP. IV *4,15-21: È evidente l’intenzione della conduzione comunitaria del monastero, dove il capitolo riveste una decisiva autorità. Chiara vede il suo ufficio materno come una sequela della perfezione del santo Vangelo: Gesù è il Maestro e la guida, lei e le sorelle sono delle “ancelle” che lo seguono e conducono un’esistenza al modo delle pie donne, sullo stile di Maria vergine e di Maria di Betania. Si tratta di una vita contemplativa, di famiglia, di penitenza per la Chiesa e di lavoro nella comunità, che matura grazie ad atteggiamenti concreti di carità, servizio e collaborazione, nel silenzio e nella clausura.

_**In questo verso compare fino ad oggi il termine latino “minori”, mentre la bolla scrive “iuniori”; cioè il Signore rivela “alla più giovane” ciò che è meglio._

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Approfondimenti

Dalla dimensione evangelica della fraternità scaturisce una forma di autorità e di governo logicamente conseguenti: in questo Chiara non è “democratica”, è semplicemente cristiana. È fondamentale a questo riguardo analizzare il capitolo 4. Dopo aver precisato le modalità di elezione dell’abbadessa e della sua eventuale deposizione, al versetto 8 inizia la sezione dedicata a colei che è eletta come «abbadessa e madre», di cui vengono delineate le qualità e i compiti. Ci soffermiamo sui versetti 8-9, perché sono paradigmatici del rapporto che Chiara aveva con la Regola di Benedetto, in questo caso – e non poteva essere altrimenti, essendo la regola base dell’istituzione monastica – presa come testo di riferimento principale.

Vediamo in proposito qualche differenza significativa con la Regola benedettina: per Benedetto il criterio primario di scelta dell’abate è quello delle qualità personali (RBen 64,2); per Chiara in primo piano sono l’unità e il bene della comunità. La Regola benedettina prevede il caso che il priore venga deposto (65,18-20) per il suo comportamento indegno. Per la Regola non bollata 5, 3-4 il ministro generale può essere destituito dall’incarico nel capitolo di Pentecoste se vive carnaliter et non spiritualiter. Nella RsC invece, come nella Rb, pur rimanendo il principio del cosiddetto “controllo dal basso”, non si fa accenno a un’indegnità morale e di comportamento dell’abbadessa, ma semplicemente del suo non essere più in grado di servire l’utilità comune della fraternità, senza specificazione dei motivi.

Chiara non cita quasi mai letteralmente la Regola di San Benedetto, se non in 4,15 riguardo al capitolo settimanale; prende a prestito concetti ed espressioni variandoli liberamente, combinando passi differenti, a volte anche estrapolandoli dal loro contesto, con la stessa modalità letteraria usata nelle lettere ad Agnese di Boemia nei confronti delle fonti liturgiche e patristiche. Questa modalità di citazione deriva da una conoscenza ampia, dettagliata e profonda del testo, da una frequentazione abituale.

La preoccupazione che l’abbadessa osservi in tutto la vita comune assente nelle altre Regole, nasce dagli abusi che si verificavano frequentemente nei monasteri e di cui si trova traccia nel canone 26 del Concilio Lateranense II del 1139. In questa prima presentazione dell’autorità Chiara pone l’abbadessa sul piano delle altre sorelle, vuole che sia una come tutte le altre senza privilegi o distinzioni di sorta. Nel capitolo 10, dove riprende il tema in parallelo con la Regola bollata, completa la sua visione “kenotica” dell’autorità, ponendo l’abbadessa addirittura al di sotto delle altre, come serva di tutte le sorelle: la familiarità è qui descritta infatti come caratteristica fondamentale del rapporto tra l’abbadessa e le sorelle, al pari di tutti i rapporti all’interno della fraternità. Alla base c’è un valore evangelico ben più profondo di un semplice atteggiamento esteriore: è la minorità, la povertà di sé che sta proprio al centro dell’intuizione francescana e che plasma dal di dentro tutte le espressioni della vita. La figura biblica di riferimento è il Dominus che si è fatto servus: di Gesù servo la madre deve essere presenza e segno. Per questo Chiara, seguendo Francesco, chiede che l’abbadessa sia serva di tutte le sorelle, ancilla, come lei stessa si definisce, al punto che le sorelle dicere possint ei et facere sicut dominae ancillae suae (10,4): «L’abbadessa abbia tanta familiarità nei loro confronti che possano parlarle e trattarla come le signore con la propria serva»). Non che con questo venga meno la dimensione dell’obbedienza, tutt’altro, solo che questa ha come unica motivazione non il rispetto dell’autorità, ma la promessa fatta a Dio: «Le sorelle suddite poi ricordino che per Dio hanno rinnegato le proprie volontà. Perciò siano fermamente tenute ad obbedire alle loro abbadesse in tutto ciò che hanno promesso al Signore di osservare e non è contrario all’anima e alla nostra professione» (10,2-3). Poche parole per ricordare alle sorelle le motivazioni di una scelta, la scelta della sequela di Cristo secondo il vangelo, che ha in sé il suo sufficiente valore e nel cui ricordo c’è già tutta la forza dell’obbedienza.

Centrale nella struttura comunitaria clariana è invece il ruolo del capitolo. Con sapiente intuizione la Forma vitae clariana unisce pertanto in un’unica riunione il momento penitenziale – quello che nel corso dei secoli si era strutturato come capitolo delle colpe e si svolgeva solitamente dopo l’ora di Prima – e il momento di trattazione delle questioni comunitarie, ciò che riguarda l’utilitas et honestas monasterii. Dietro questo legame c’è un’intuizione profonda: quando tutte, madre e sorelle, hanno confessato le proprie mancanze contro la comunità, gli animi si trovano nella migliore disposizione, in umiltà e verità, a trattare ciò che riguarda il bene di tutte, senza che interessi personali o sentimenti negativi vengano a interferire sul discernimento. Niente come il riconoscimento del proprio peccato apre il cuore all’azione dello Spirito. Verità, umiltà e familiarità caratterizzano dunque il capitolo clariano. Non c’è accenno alla proclamatio, l’accusa reciproca, neppure si dice esplicitamente che l’abbadessa impone la penitenza o fa l’esortazione, cosa forse scontata. Chiara vuole sottolineare, ancora una volta, che la madre è sul piano delle altre, accomunata dalla confessione delle proprie colpe. Lungi dall’essere solo un esercizio ascetico-penitenziale, come veniva vissuto primariamente in altri Ordini, il capitolo della Forma vitae è il momento privilegiato d’incontro della comunità in cui l’unità dell’amore reciproco, attraverso il perdono dato e ottenuto, si rinsalda e cresce di intensità.

Su questa linea si situano anche gli altri due elementi della struttura comunitaria: le officiali e le discrete, che vengono elette da tutte le sorelle. Rispetto all’ordinamento benedettino si è operato un rovesciamento. «Riteniamo perciò necessario – per salvaguardare la pace e la carità – far dipendere unicamente dall’abate tutta l’organizzazione del suo monastero» (RBen 65,11). Lo stesso fine, la custodia della pace e della carità o l’unità dell’amore reciproco, viene raggiunto in due modalità opposte: in Benedetto si crea unità dall’alto, affidando a uno solo il governo del monastero; in Chiara dal basso, corresponsabilizzando le sorelle e facendole partecipare, con peso giuridico, alle decisioni che riguardano la vita della comunità, qui in particolare la scelta delle officiali e delle discrete, o addirittura la loro rimozione nel caso che questo sembri utile et expediens (semplicemente «utile e conveniente»: che fiducia Chiara dimostra verso la rettitudine delle sorelle!). Una tale audacia evangelica non era scontata, neppure nel XIII secolo: basta esaminare qualche testo contemporaneo a Chiara, come le Istituzioni di San Sisto in Roma, secondo le quali la priora viene eletta da alcune sorelle tra le più anziane e prudenti, scelte dalla comunità, mentre le officiali sono nominate o deposte dalla priora stessa col consiglio delle medesime sorelle. Chiara sceglie un cammino inverso che presuppone una crescita comune nella libertà evangelica, nel discernimento del bene da attuare uscendo dalla ristrettezza degli interessi e delle posizioni personali.

Delle officiali non si dice altro se non della modalità di elezione: doveva essere scontato di chi si stava parlando, delle sorelle incaricate di determinati compiti a servizio della comunità (portinaia, infermiera, celleraria, ecc.). Le discrete formano invece il consiglio più ristretto dell’abbadessa, la quale è tenuta – anche qui sottolineiamo l’obbligo – a servirsi del loro consiglio in alcune questioni diverse da quelle trattate in capitolo con tutte le sorelle, quelle attinenti alle singole persone.

Per la scelta delle consigliere dell’abbadessa torna la discretio come virtù fondamentale, al punto che un aggettivo assume il valore di sostantivo: non è l’età a contare, e neppure la sapienza dottrinale o i meriti personali – le qualità richieste nella scelta dei decani –, ma la discretio, «madre di tutte le virtù» dice Benedetto, che è capacità di discernere il bene in tutte le situazioni. Si è affermato erroneamente che l’istituzione delle discrete è una novità di Chiara: è invece un’istituzione del tempo che ritroviamo sia nelle Costituzioni prenarbonensi dei Frati minori, i consiglieri del custode, sia tra le Domenicane, le sorelle scelte per consigliare la priora. La novità di Chiara nell’ambito della struttura di governo non va dunque ricercata tanto nell’originalità delle istituzioni, quanto nello spirito di fraternità evangelica che le anima e le e orienta all’unico fine, l’unità dell’amore. Nel capitolo 4 Chiara raggiunge i vertici della sua abilità di legislatrice, integrando elementi monastici tradizionali ed elementi nuovi. Più che a delle norme ci troviamo di fronte allo specchio di una vita vissuta, con le sue problematiche e le sue risposte, intuite alla luce del vangelo e passate al vaglio in quarant’anni di esperienza personale.

Tratto da: Federazione S. Chiara di Assisi ● La Regola di Chiara di Assisi: il Vangelo come forma di vita


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CAPITOLO III

UFFICIO DIVINO, DIGIUNO, CONFESSIONE E COMUNIONE

1 Le suore che sanno leggere recitino l’ufficio divino secondo l’usanza dei frati minori, dal momento in cui potranno avere i breviari, senza canto*. 2 Coloro che per cause ragionevoli non potessero recitare le ore canoniche, dicano, come le altre suore, i Pater noster (cf Mt 6,9-13).

3 Quelle che non sanno leggere dicano ventiquattro Pater noster per il mattutino, cinque per le lodi, 4 per prima, terza, sesta e nona, sette per ciascun’ora; dodici per il vespro, sette per compieta. 5 Per i defunti dicano sette Pater noster con il Requiem aeternam, dodici a mattutino, 6 essendo le suore che sanno leggere tenute a recitare l’ufficio dei morti. 7 Quando poi morirà qualche suora del nostro monastero, recitino cinquanta Pater noster.

8 Le suore digiunino sempre. 9 Per il Natale del Signore, però, in qualunque giorno cada, possano mangiare due volte. 10 Per le giovinette deboli e per le inservienti fuori monastero, l’abbadessa con misericordia dia dispense. 11 In tempo di necessità manifesta, le suore non siano tenute al digiuno corporale.

12 Con il permesso dell’abbadessa, si confessino almeno dodici volte l’anno. 13 In quest’occasione, si guardino dall’aggiungere altri discorsi estranei alla confessione e alla salvezza dell’anima. 14 Si comunichino sette volte, cioè: per Natale, Giovedì santo, Pasqua, Pentecoste, Assunzione della beata Vergine, festa di san Francesco, Ognissanti. 15 Per comunicare le suore sane e quelle malate, al cappellano sarà permesso celebrare in clausura.

___________________ Note al CAP. III *In conformità alle disposizioni di recitare l’Ufficio secondo l’uso e i tempi dei Frati minori; interessante la proibizione di cantare, proprio in segno di distinzione dalle «coriste benedettine», in nome della povertà e della semplicità.

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Approfondimenti

I Frati minori avevano scelto di adottare non un rito locale qualsiasi o di un Ordine monastico, ma l’Ufficio celebrato dalla Curia papale, per significare lo stretto vincolo che univa la nuova fraternitas al papa e alla Sede apostolica, oltre che per un’esigenza di uniformità liturgica all’interno dell’Ordine. Il rito della Curia papale era poco diffuso fuori Roma. Era stato adottato anche dall’Ordine ospedaliero di Santo Spirito in Saxia sotto il pontificato di Innocenzo III. Per le Sorelle povere si tratta piuttosto di esprimere con l’unità liturgica l’appartenenza alla famiglia minoritica, nella direzione in cui già era andata la regola di Innocenzo IV del 1247. L’Ufficio adottato dalle Sorelle povere è quindi quello corrente nell’Ordine dei Frati minori, come si trova in Ordo breviarii e Ordo missalis fratrum minorum secundum consuetudinem romanae curiae frutto dell’adattamento operato dal ministro generale Aimone di Faversham nel 1243-44.

La distinzione chierici/laici per una comunità femminile ovviamente non può essere recepita se non come distinzione tra chi sa leggere e chi non sa leggere, già presente nella Rnb 2, dove si distingue tra chierici, laici che sanno leggere e laici che non sanno leggere, distinzione assente nella Rb, che fa differenza solo tra chierici e laici. La differenziazione tra sorelle che sanno leggere e quelle che non sanno leggere c’è anche nei testi di Ugolino e Innocenzo, dove si specifica pure la possibilità che le monache oltre che leggere sappiano anche cantare (per Ugolino è possibilità, per Innocenzo è dato di fatto).

La peculiarità della Forma vitae di San Damiano rispetto alla Regola bollata e alle due regole papali appare nella precisazione legendo sine cantu. In questa panoramica sulla Regola di Chiara non possiamo addentrarci nei particolari della problematica, che andrebbe approfondita in modo accurato. Ci pare tuttavia che sia in gioco qualcosa di importante, tanto più che in due versetti viene ripetuto per due volte il gerundio legendo. Mettiamo a confronto i due passi paralleli della Regola bollata e della Forma vitae clariana: «Clerici faciant divinum officium secundum ordinem sanctae romanae Ecclesiae excepto psalterio, ex quo habere poterunt breviaria»; «Sorores litteratae faciant divinum officium secundum consuetudinem fratrum minorum, ex quo habere poterunt breviaria, legendo sine cantu». Quattro elementi:

  1. la prescrizione della recita dell’Ufficio divino;
  2. il rito adottato;
  3. i libri liturgici;
  4. un’eccezione al rito stesso adottato:
  • excepto psalterio per i frati nei confronti dell’ordo della Curia papale;
  • legendo sine cantu per le sorelle nei confronti della consuetudo dell’Ordine minoritico.

Al sine cantu si sono date varie interpretazioni più o meno ampie, ma esaminando altri testi normativi medievali vediamo che in essi significa solo e semplicemente “senza canto”, in opposizione a in cantu o cum cantu.

L’esclusione del canto per le Sorelle povere le distingue dal monachesimo tradizionale di cui anche l’ordo sancti Damiani alla fine degli anni ’40 era ormai per molti aspetti un’espressione: basta guardare la rilevanza che nei testi paralleli di Ugolino e Innocenzo ha il canto come elemento della lode di Dio e strumento di edificazione per coloro che ascoltano. Ma segna pure una differenza con l’Ordine francescano stesso, per il quale il canto era diventato parte integrante della propria liturgia, mentre l’itineranza della prima fraternitas si stava tramutando in stabilità monastica. L’Ufficio curiale era diurno e notturno, cantato in chiesa e recitato fuori di essa; per la celebrazione pubblica e corale si usava un breviario dal testo diffuso e completo, mentre per la recita privata fuori del coro i cappellani della Curia papale come poi i frati minori potevano usare un breviario ridotto – le letture del mattutino erano notevolmente abbreviate – e senza annotazioni musicali: testimonianza significativa è il Breviario di san Francesco. Chiara non adotta la liturgia corale, quella celebrata in canto nei conventi, che richiedeva libri costosi e un’accurata preparazione, ma la recita senza canto dei cappellani della curia papale o dei frati itineranti: una scelta di essenzialità, di sobrietà, di nudità della parola, di povertà anche nella forma di preghiera. È probabile che anche la modalità di celebrazione liturgica delle sorelle di San Damiano abbia avuto un’evoluzione, analogamente a quella della fraternità minoritica e di altre comunità femminili penitenziali le quali, in un progressivo processo di strutturazione monastica, da una preghiera prolungata consistente dalla recita di un determinato numero di Pater noster e prostrazioni, passavano alla celebrazione dell’Ufficio liturgico: pur nell’adozione dell’Ufficio regolare, che avvenne almeno fin dalla professione della forma vivendi di Ugolino e nel Processo di canonizzazione è testimoniata già prima del 1224, la modalità sine cantu è rimasta nella Regola definitiva quale segno e rimando alle origini penitenziali della comunità di San Damiano. Una rilettura dunque della propria identità, ancora una volta, in chiave evangelico-penitenziale più che monastica.

Significativa per il nostro sguardo al contesto penitenziale, oltre che altamente espressiva della libertà spirituale della nostra autrice sempre attenta più alla persona che ha davanti che alla norma in se stessa, è la possibilità data alle sorelle che ne fossero per giusto motivo impedite di sostituire la recita dell’Ufficio divino con un certo numero di Pater noster, analogamente alle sorelle che non sanno leggere. Nelle consuetudini monastiche, come nella Regola bollata, tale sostituzione era propria dei laici o degli illetterati che non partecipavano all’Ufficio corale, così pure in alcune regole laicali come il Memoriale propositi dell’ordine laicale dei Penitenti o quelle degli ordini cavallereschi dei Templari, approvata dal Concilio di Troyes del 1128, e dei cavalieri di Santiago. Una prescrizione simile a quella di Chiara si trova nella versione del 6 giugno 1252 della Quoniam frequenter del cardinale Rainaldo: qui però la possibilità è ristretta a coloro che si trovano fuori clausura per motivi relativi al bene del monastero. Anche in questo caso dunque Chiara non inventa nulla, ma adotta ciò che già esiste e le sembra opportuno. La sua originalità, il suo tocco personale, diremmo, è lo spirito con cui anima la norma. Si limita a dire: «per un ragionevole impedimento». L’aggettivo rationabilis, usato anche per le uscite dalla clausura e per gli ingressi in monastero, è un termine che indica ragionevolezza, realismo, capacità di distinguere l’essenziale dall’accidentale. È proprio uno dei fili conduttori della Regola quello di lasciare all’abbadessa e alle singole sorelle un ampio spazio di discernimento del bene nelle diverse situazioni, appellandosi alla libertà e responsabilità di ciascuna: il che è molto più esigente rispetto a delle norme rigide e inflessibili, uguali sempre e per tutte.

Tratto da: Federazione S. Chiara di Assisi ● La Regola di Chiara di Assisi: il Vangelo come forma di vita


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CAPITOLO II

COME DEBBONO ESSERE ACCETTATE LE POSTULANTI

1 Se qualcuna, per ispirazione divina, verrà da noi per abbracciare questa norma di vita, l’abbadessa sia tenuta a richiedere il consenso di tutte le suore; 2 se la maggioranza acconsentirà, avuta la licenza del signor cardinale nostro protettore*, possa accettarla. 3 Se vedrà che debba essere accettata, la esamini diligentemente, oppure la faccia esaminare circa la fede cattolica e i sacramenti della Chiesa. 4 Se crederà tutte queste cose e vorrà con fedeltà crederle e osservarle sino alla fine, 5 né avrà marito o, se l’avesse, che egli sia già entrato in religione, con l’autorizzazione del vescovo diocesano, dopo aver emesso il voto di continenza; 6 ed anche se non vi sia impedimento per l’età troppo avanzata né debolezza per l’osservanza di questo genere di vita; 7 allora le si esponga con diligenza il tenore della vita nostra.

8 Se sarà ritenuta idonea, le si dicano le parole del Vangelo: «vada, venda» i suoi averi e s’impegni a distribuirli «ai poveri» (cf Mt 19,21). 9 Se non potrà farlo, basterà la buona volontà. 10 Si guardi bene l’abbadessa e le suore di agognare le sue sostanze temporali, perché liberamente possa disporne come il Signore l’ispirerà. 11 Se poi chiedesse consiglio, l’inviino a persone giudiziose e «timorate di Dio» (cf At 13,16), con il consiglio delle quali i suoi beni siano distribuiti ai poveri. 12 Tosata in tondo e deposte le vesti secolari, le siano date tre tonache ed il mantello. 13 D’allora in poi, non le sarà più lecito uscire dal monastero, senza una ragione utile, ragionevole, manifesta e probabile**. 14 Terminato poi l’anno della prova, sia ricevuta alla obbedienza, promettendo di osservare per sempre questa vita e forma della nostra povertà.

15 Nessuna sia velata durante l’anno di prova. 16 Le suore possano avere le mantellette per sollievo ed onestà di servizio e di lavoro. 17 Ma l’abbadessa le provveda con discrezione dei vestiti, secondo la qualità delle persone, i luoghi, i tempi, il freddo delle regioni, come vedrà convenire alla necessità. 18 Le giovinette ricevute in monastero prima del tempo d’età permessa, siano tosate in tondo; 19 e, deposto l’abito secolare, siano vestite dell’abito religioso, come parrà all’abbadessa. 20 Raggiunta l’età legale, rivestite come le altre, emettano la professione. 21 L’abbadessa provveda ad esse e alle altre novizie con sollecitudine una maestra, 22 che le istruisca nella santa conversazione e nell’onestà dei costumi, secondo la forma della nostra professione.

23 Nell’esame e nella recezione delle sorelle inservienti fuori del monastero, si osservi la forma predetta; e possano portare i calzamenti. 24 Nessuna possa con noi risiedere in monastero, se non ricevuta a norma della nostra professione. 25 E per amore del santissimo e dilettissimo bambino, «reclinato nel presepio, avvolto in poveri pannicelli» (cf Lc 2,7.12), e della sua santissima madre, ammonisco, supplico ed esorto le mie suore di vestirsi sempre di panni vili.

___________________ Note al CAP. II *Il cardinale protettore è una presenza determinante negli eventi e nella vita di Chiara e dell’Ordine.

**Chiara interpreta il significato della clausura in modo diverso dal card. Ugolino. Per lei è un modo per facilitare e proteggere la vita contemplativa, per garantire l’intimità con Dio e il dialogo orante delle sorelle. Si tratta di un’esigenza d’amore che vuole intrattenersi, senza distrazioni, davanti all’Eterno sommamente amato. È necessaria la libertà della mente dagli strepiti distrattivi, la libertà del cuore dagli affetti parentali e mondani, la libertà del corpo dalle futili esigenze fisiche (LCla 23,2-5: FC 520). La virtù teologale che vi soggiace è la carità dialogante con lo Sposo. Per il cardinale Ugolino, invece, l’attenzione si sposta su un piano diverso. Egli crea delle norme affinché le religiose siano salvaguardate da un punto di vista morale, in particolare in campo affettivo e nell’ambito della castità. La virtù di base è la prudenza, accompagnata dalla carità. Entrambe devono esistere e operare insieme, evitando gli inconvenienti negativi che l’una o l’altra potrebbero creare.

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Approfondimenti

Passando agli elementi che denotano il carattere penitenziale della forma di vita delle Sorelle povere, notiamo subito il risalto che la Regola dà all’atto di ingresso in monastero consistente nella tonsura, nella deposizione degli abiti secolari e nella consegna dell’abito di penitenza: tre tonache e il mantello. Non sembra prevista una differenza tra l’abito delle novizie e quello delle professe, come accade invece in Rb 2,9 in cui si parla espressamente di pannos probationis: le tonache dei novizi si differenziano da quelle dei professi perché senza cappuccio. Nulla di preciso si dice riguardo al velo, a cui invece la Regola di Innocenzo come poi quella di Urbano IV dedicano un certo spazio, precisando anche che le novizie lo devono portare bianco: per l’essenzialità che caratterizza tutto il testo clariano non ci si sofferma sugli usi comuni ai monasteri del tempo. La prescrizione Nulla infra tempus probationis veletur (2,15: «Nessuna sia velata durante il tempo di prova»), non indica la proibizione di avere il capo velato – era disdicevole che una donna tonsurata andasse a capo scoperto – ma, a nostro parere, formalizza il divieto di ricevere la consacrazione delle vergini durante il noviziato, analogamente alle costituzioni delle Domenicane di Montargis del 1250. In ambito monastico l’uso di dare l’abito ai novizi, ad eccezione della cocolla, era relativamente recente, poiché la Regola di Benedetto, come già quella del Maestro, concedeva l’abito religioso solo al termine del noviziato, al momento della professione. Mentre i primi Cisterciensi, fedeli alla stretta osservanza della Regola benedettina, continuavano a dare l’abito al termine dell’anno di prova, le Consuetudini cluniacensi diffusero l’uso di fare la tonsura e la vestizione all’inizio del noviziato. Nella Forma vitae di Chiara i gesti simbolici del taglio dei capelli e dell’assunzione dell’abito religioso posti subito dopo l’ingresso in monastero – notiamo che i passi paralleli di Ugolino e Innocenzo parlano solo del mutamento di abito, mentre alla tonsura si accenna solo nell’ambito degli usi della vita quotidiana – più che alle consuetudini recenti dei monasteri benedettini sono da collegare a quel contesto penitenziale femminile in cui si erano sviluppati nel corso dei secoli. Tonsura e assunzione dell’abito di penitenza segnano l’ingresso in quella categoria di “servi Dei”, di penitenti alla quale, da parte dell’autorità ecclesiastica, erano concessi taluni privilegi e, in particolare, difesa da possibili vessazioni di parenti o di autorità civili. Non meraviglia che, per una sorta di assimilazione al sentire comune, nei monasteri femminili medievali la tonsura, intesa come gesto di penitenza e di abbandono del mondo, ma anche come rito di iniziazione e di messa in tutela, si sia imposta già nell’alto Medio Evo. Chiara stessa nel corso del testo indica la sua scelta religiosa con i termini inequivocabili di «fare penitenza», come Francesco nel suo Testamento. Dunque per Chiara l’ingresso in monastero è già un radicale abbandono del mondo per porsi definitivamente al servizio di Cristo, benché il legame giuridico con la comunità si attui solo al momento della ricezione all’obbedienza. E chiaramente penitenziale è la qualità delle vesti, che la santa raccomanda con toni accorati in uno dei passaggi della Regola in cui la sua sensibilità spirituale emerge con toni del tutto personali. Siamo alla fine dello stesso capitolo 2. Dopo aver trattato dell’accoglienza e ricezione all’obbedienza delle sorelle che prestano servizio fuori del monastero e precisato la professione della forma di vita come condizione per risiedere in monastero, senza neppure spezzare la frase, esce in questa bellissima esortazione: _«E per amore del santissimo e dilettissimo bambino, «reclinato nel presepio, avvolto in poveri pannicelli» (cf Lc 2,7.12), e della sua santissima madre, ammonisco, supplico ed esorto le mie suore di vestirsi sempre di panni vili» (RCla 2,25). Fin dai primi secoli penitenti, chierici e monaci si distinguevano dai secolari per l’abito di qualità comune e il colore grigio o nero, bandendo vesti colorate, ornamenti vari e tutto ciò che poteva dare adito a lusso o vanità223. Chiara raccomanda quindi alle sorelle di mantenersi sempre, anche con l’aspetto esteriore, nella condizione di chi ha scelto la vita di penitenza, indossando indumenti di poco prezzo, vilibus, per quanto riguarda il tipo di stoffa e il colore. Notiamo una significativa differenza col testo parallelo di Francesco: anche il capitolo 2 della Rb si conclude con la stessa raccomandazione ai frati, ma cambia completamente la prospettiva. Nella RCLa non c’è il confronto con i ricchi di questo mondo che vestono sfarzosamente – pure fuori luogo per delle donne rinchiuse – e neppure la preoccupazione del disprezzo di se stessi, a cui esorta Francesco. In Chiara lo sguardo è solo rivolto al Bambino, santissimo e dilettissimo, avvolto in pannicelli poverelli (quanta tenerezza verso Gesù bambino esprimono i superlativi e diminutivi) e reclinato nella mangiatoia: per amore suo e della sua santissima Madre, che per prima ha condiviso la povertà del Figlio, vuole che le sorelle si vestano poveramente. Chiara non teme neppure di raddrizzare la rotta spirituale di Francesco, per mettere ancora una volta al centro della sua scelta penitenziale la contemplazione, amorosa e stupita, dell’incarnazione del Figlio di Dio.

Se l’abito è segno esterno della vita di penitenza evangelica, questo non impedisce che ogni sorella abbia le vesti di cui ha bisogno, secondo le caratteristiche di ciascuna, i luoghi e le stagioni: la Forma vitae 2,17 si ispira in questo alla Regola bollata e alla Regola benedettina, dove il discernimento attento e premuroso nel vestire i singoli monaci è uno dei compiti dell’abate. Proprio questo senso di discrezione e di attenzione alla persona, con le sue necessità e fragilità, porta Chiara a prevedere l’uso di mantellette per il servizio e il lavoro. La possibilità di usare un abito più agevole per il lavoro era già stata prevista sia da Benedetto, sia da Ugolino e Innocenzo: tutte e tre le regole prevedono in questo caso gli scapularia. Dai testi papali pare comunque che anche lo scapolare non fosse pratico da portare (grave et molestum dice Ugolino), per cui Chiara, con la sua grande discrezione e senso pratico, non lo adotta prevedendo al suo posto le mantellulas. Il mantello corto non è un’invenzione di Chiara, ma quanta sensibilità e premura materna possiamo cogliere in quel desiderio di alleviare alle sorelle il peso della fatica!

«D’allora in poi, non le sarà più lecito uscire dal monastero, senza una ragione utile, ragionevole, manifesta e probabile» (RCla 2,13) Chi entra tra le Sorelle povere e vi riceve i segni della penitenza, abbraccia fin dall’inizio anche l’impegno a vivere nella stretta reclusione. Con la sobrietà che la caratterizza, Chiara riassume in soli quattro aggettivi le motivazioni che possono giustificare un’eventuale uscita dal monastero: nelle Regole di Ugolino e di Innocenzo IV i casi vengono esplicitati più diffusamente e con una sottolineatura maggiore della severità della norma claustrale. È un motivo da discernere volta per volta, e anche in queste scelte emerge l’atteggiamento di fondo che è in Chiara, quello della fiducia nella capacità che le abbadesse e le sorelle, presenti e future, sapranno operare questo discernimento, a partire dal loro amore per ciò che è essenziale. Un discernimento che si appoggia per lei su questa libertà dell’amore e nell’amore.

Tratto da: Federazione S. Chiara di Assisi ● La Regola di Chiara di Assisi: il Vangelo come forma di vita


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BOLLA DI PAPA INNOCENZO IV

Prologo

1 Innocenzo vescovo, servo dei servi di Dio. 2 Alle dilette figlie in Cristo Chiara abbadessa e alle altre suore del monastero di San Damiano d’Assisi, salute e apostolica benedizione. 3 La Sede apostolica è solita acconsentire ai pii voti e prestare un favore benevolo alle oneste richieste dei supplicanti. 4 Ora da parte vostra ci è stato richiesto umilmente che la forma di vita, nella quale dovete vivere in comune in unità di spirito e di povertà altissima, 5 datavi dal beato Francesco e da voi accettata spontaneamente, 6 e che il nostro venerabile fratello vescovo di Ostia e Velletri ha ritenuto fosse da approvare, come è detto con chiarezza nella lettera dello stesso vescovo, 7 noi dovessimo confermare con autorità apostolica. 8 Inclinati dunque alle richieste della vostra devozione, ritenendo legittimo e grato quanto sull’argomento ha fatto lo stesso vescovo, la confermiamo con autorità apostolica e con il patrocinio del presente scritto, 9 facendo inserire il tenore di quel testo verbalmente in questa bolla; il testo è questo: 10 Rinaldo*, per bontà divina vescovo di Ostia e di Velletri, alla sua carissima madre e figlia in Cristo donna Chiara, abbadessa di San Damiano d’Assisi 11 e alle sue suore, presenti e future, salute e paterna benedizione.

CAPITOLO I

NEL NOME DEL SIGNORE INIZIA LA FORMA DI VITA DELLE SORELLE POVERE 1 La forma di vita** dell’Ordine delle “Sorelle Povere”, istituito dal beato Francesco, è questa: 2 osservare il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo, vivendo in obbedienza, senza proprietà e in castità. 3 Chiara, indegna serva di Cristo e pianticella del beatissimo padre Francesco,*** promette obbedienza e riverenza al signor papa Innocenzo e ai suoi legittimi successori e alla Chiesa romana. 4 E come all’inizio della sua conversione, insieme alle sue sorelle, promise obbedienza al beato Francesco, così promette di mantenerla inviolabilmente ai suoi successori. 5 Le altre suore siano sempre tenute ad obbedire ai successori del beato Francesco, a suor Chiara e alle altre abbadesse elette canonicamente. ___________________ Note al Prologo e al CAP. I *Rinaldo di Ienne, (fino a qualche decennio fa era più noto come dei Conti di Segni), cardinale protettore del monastero di S. Damiano e degli altri monasteri ad esso ispirati; fu anche protettore dei Frati minori. Ienne si trova nel Lazio, più precisamente sull’Aniene, a sud-est di Subiaco. Rinaldo, eletto papa col nome di Alessandro IV (1254-1261), canonizzerà Chiara.

**Forma di vita, o “Forma vivendi”, è l’espressione usata da S. Francesco (RCla 6,2); anche il card. Ugolino la definisce fin dall’inizio “Forma” (2Ugo 1,5: FC 2209) e non “Regola”, forse a motivo del Concilio Lateranense IV che vietava di creare altre Regule (CLat 13,1: FC 2200). Questa “forma” è esemplata sulla Regola bollata dei Frati minori: Chiara testimonia non a caso di essersi continuamente nutrita dei precetti e delle ammonizioni di Francesco.

***“Ancella di Cristo” e “Pianticella di Francesco”, sono due termini cari a Chiara: indicano i due aspetti della sua umile e grata relazione con Cristo e Francesco.

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Approfondimenti

Chiara si vide approvare la sua “Regola” con la stessa Bolla (“Solet annuere”), con la quale, nel 1223, era stata approvata quella di Francesco. Chiara desiderava ardentemente che la sua Regola fosse approvata prima della sua morte, e di questo parlò personalmente con Innocenzo IV che le fece visita nel monastero di San Damiano. Il papa concederà la sua approvazione, da Assisi. Tutto avvenne nei seguenti giorni del mese di agosto 1253: sabato 9 (firma della bolla), domenica 10 (consegna della bolla a Chiara), lunedì 11 (morte di Chiara).

È la prima “Regola”, nella storia della Chiesa, ad essere stata scritta da una donna per altre donne, e questo è importante, non solo come primato storico, ma anche perché lo scritto è pervaso da una sensibilità, che manca in altri documenti giuridici della stessa epoca.

Infatti, mentre Chiara vive quello che prescrive nella sua “Regola”, lo stesso non accadeva per i pontefici, che emanavano le altre (Ugolino e Innocenzo IV). Ad esempio, a proposito della clausura, nella “Regola di Chiara” si parla del silenzio e della cura delle ammalate o di altri aspetti della vita comune, con una capacità di adattamento affidata alla discrezione della abbadessa, che non appare negli altri testi, quasi irrigiditi nel loro “giuridismo”.

Un altro esempio, il confronto con le “Costituzioni di Montargis”, che furono utilizzate, nello stesso periodo, da monasteri di domenicane. In dette “Costituzioni” una larga parte è lasciata a una specie di “codice di punizioni”, nel quale si prevedono tutti i casi di colpa leggera, grave, gravissima per le pene corrispondenti. Nella “Regola di Chiara” non c'è nulla di tutto questo: prevale, invece, lo spirito di fiducia verso le “sorores” (“sorelle”), che dovranno vivere quanto si prescrive: vi è uno spirito esortativo, non impositivo, e il suo linguaggio è più spirituale ed evangelico che giuridico.

Tanto è vero che Chiara non usò mai la parola “Regola”, preferendo, invece, l'espressione “Forma di vita delle sorelle povere”.

Tratto da: Clarisse di Padova ● Gli scritti di S. Chiara d'Assisi


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CAPITOLO XII – DI COLORO CHE VANNO TRA I SARACENI E TRA GLI ALTRI INFEDELI

1 Quei frati che, per divina ispirazione, vorranno andare tra i Saraceni e tra gli altri infedeli, ne chiedano il permesso ai loro ministri provinciali. 2 I ministri poi non concedano a nessuno il permesso di andarvi se non a quelli che riterranno idonei ad essere mandati. 3 Inoltre, impongo per obbedienza ai ministri che chiedano al signor Papa uno dei cardinali della santa Chiesa romana, il quale sia governatore, protettore e correttore di questa fraternità, 4 affinché, sempre sudditi e soggetti ai piedi della medesima santa Chiesa, stabili nella fede cattolica, osserviamo la povertà, l’umiltà e il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo, che abbiamo fermamente promesso.

Pertanto a nessuno, in alcun modo, sia lecito di invalidare questo scritto della nostra conferma o di opporsi ad esso con audacia e temerarietà. Se poi qualcuno presumerà di tentarlo, sappia che incorrerà nello sdegno di Dio onnipotente e dei suoi beati apostoli Pietro e Paolo.

papa Onorio III

Dal Laterano, il 29 novembre 1223, anno ottavo del nostro pontificato.

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Approfondimenti

Prima di ogni cosa Francesco sottolinea con forza e chiarezza che per andare in missione occorre la divina ispirazione, ossia mettersi nelle condizioni di ascoltare la voce di Dio e cogliere il suo divino volere. La dedizione all’attività missionaria verso popoli stranieri e comunità non cristiane è sempre frutto di un serio discernimento che l’autorità propone a coloro che sentono particolarmente questa vocazione apostolica.

Le condizioni richieste per andare tra i saraceni e gli altri infedeli sono le seguenti: avere il permesso del ministro provinciale ed essere idonei per questo tipo di missione. Sono indicazioni abbastanza generiche che lasciano intravedere il riconoscimento di un ruolo normativo più forte da parte del ministro provinciale, il quale non solo esercita un certo margine di discrezionalità per la valutazione dei frati candidati alla missione, ma è soprattutto il rappresentante della Chiesa e della stessa fraternità nel cui nome i missionari sono inviati. Verso la fine del XIII secolo, l’invio dei frati missionari divenne di competenza diretta del ministro generale. Tuttavia, molte volte alcuni frati erano direttamente designati dal papa e scelti per missioni abbastanza particolari, di natura anche diplomatica.

I frati non potevano improvvisarsi missionari, in quanto l’idoneità alla missione comportava una debita preparazione dottrinale da verificarsi con un esame da parte del ministro provinciale. Sicuramente, era necessario verificare anche lo stato di salute fisica dei frati che si aprivano alla missione.

Nel progetto di una fraternità in missione, l’andare tra i saraceni è una forma e una conseguenza dell’andare per il mondo che caratterizza in modo fondamentale lo stato di vita francescano. L’annuncio rivolto ai saraceni rientra in un progetto più grande di fraternità che si apre alla missione verso il mondo non cristiano. Questa collocazione è completamente persa nella Regola bollata perché il capitolo XII chiude completamente la Regola definitiva senza essere preceduto o seguito da un richiamo alla predicazione e alla missione. Non siamo a conoscenza del motivo dello spostamento avvenuto nella Regola definitiva. Forse si è voluto evidenziare lo stretto rapporto tra l’attività missionaria e i tempi più importanti della vita francescana, cioè la cattolicità, l’evangelicità e la povertà-umiltà. Difatti, il capitolo XII si occupa anche del particolare legame dell’Ordine con la Chiesa romana e offre una sintesi della stessa vita francescana.

Non possiamo e non dobbiamo negare il grande influsso che ebbe il cardinale Ugolino vescovo di Ostia (poi papa Gregorio IX) nelle origini e nell’evoluzione delle istituzioni francescane; il suo intervento si fece sentire fortemente nello sviluppo dell’Ordine e nella redazione della Regola definitiva; inoltre si prodigò come intermediario anche per diverse questioni nate all’interno delle prime comunità di frati e nei rapporti con la Curia romana. Pur convenendo con Francesco nella sostanza del suo ideale, egli aveva una visione molto diversa da quella del Poverello – che amava e venerava come inviato di Dio –, a proposito della vita fraterna, della missione dei frati e della loro presenza nelle istituzioni ecclesiastiche. Infine il cardinale di Ostia ottenne ai frati lettere commendatizie per poter essere accolti da tutti i prelati della Chiesa universale come cattolici e fedeli: questo, unitamente alla divisione in Provincie, permise all’Ordine di crescere e ai frati di maturare un’esperienza di missione e di fraternità allargata più convinta e significativa.

C’è una visione universale dell’Ordine minoritico che prende forma a partire dall’urgenza di annunciare il Vangelo e che si ricollega a un’immagine di Chiesa aperta verso il mondo e gli altri popoli. Francesco fece propria la visione di una Chiesa aperta al mondo e di una missione incompiuta, ritrovando, così, nelle diversità culturali e religiose, una possibile sfida e una grande risorsa per l’annuncio stesso del Vangelo.

Per quanto concerne la figura del cardinale protettore e l’obbedienza alla Chiesa, di cui ci parla nei vv. 3-4 di Regola bollata XII, possiamo dire che, ritornato dall’Oriente, Francesco prese atto delle difficoltà che insidiavano dall’esterno e ancor più dall’interno il cammino dell’Ordine. Così, durante il colloquio con papa Onorio III, chiese come cardinale protettore Ugolino di Ostia; tale richiesta assicurava lo stretto legame con la Chiesa cattolica e la continuità della Regola all’interno dell’Ordine. L’autorità del cardinale protettore fu limitata, nel tempo, a tre ambiti specifici: l’abbandono o l’allontanamento dalla fede cattolica; l’allontanamento dell’Ordine dall’obbedienza alla Santa Sede; la decadenza dell’osservanza della propria Regola. In tal senso, la figura autorevole del cardinale protettore è al servizio della comunione fraterna ed ecclesiale. È il caso proprio in cui l’istituzione garantisce l’affermarsi dinamico e positivo del carisma nella storia e nella vita della Chiesa.

La Regola si conclude proprio richiamando al senso di fedeltà totale verso la Chiesa di cui Francesco si preoccupò molto, specialmente negli ultimi anni di vita.

Tratto da: FRATI MINORI di Canepanova – Pavia ● Centenari francescani: la Regola bollata


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CAPITOLO XI – CHE I FRATI NON ENTRINO NEI MONASTERI DELLE MONACHE

1 Comando fermamente a tutti i frati di non avere rapporti o conversazioni sospette con donne, 2 e di non entrare in monasteri di monache, eccetto quelli ai quali è stata data dalla Sede Apostolica una speciale licenza. 3 Né si facciano padrini di uomini o di donne affinché per questa occasione non sorga scandalo tra i frati o riguardo ai frati.

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Approfondimenti

Questo testo è introdotto da un fermo comando di Francesco espresso in prima persona e rivolto a tutti i frati senza distinzione alcuna: «Comando fermamente a tutti i frati». Tale espressione è presente altrove nella Regola per vietare ai frati di ricevere denaro o pecunia [Rb IV, 1: FF 87] e per prescrivere loro di obbedire ai propri ministri [Rb X, 3: FF 101]. Nel Testamento il Santo rafforza tale formula di comando aggiungendo “per obbedienza” nel proibire ai frati di chiedere privilegi alla Curia romana [2Test 25: FF 123] e nel vietare ai frati sia chierici che laici di aggiungere spiegazioni alla Regola [Test 38: FF 130].

È importante notare subito che l’Assisiate non vieta i rapporti dei frati con le donne: il divieto riguarda solo relazioni o conversazioni sospette. È tale aggettivo, infatti, a chiarire il tenore di questa prima prescrizione, che non va intesa come una totale chiusura verso le donne, motivata da sfiducia o da percezione negativa delle stesse da parte di Francesco. Ciò che la Regola vuole preservare è la vita casta dei frati, proibendo loro situazioni sospette con donne che potrebbero metterla in pericolo e generare scandalo. Infatti la vita itinerante dei frati li poneva in situazione che potevano metterne a rischio la castità professata.

Il secondo divieto che Francesco rivolge a tutti i frati in Rb XI è quello di non entrare nei monasteri delle monache: tale norma fa riferimento alla legislazione conciliare e monastica. Si tratta di una problematica della Chiesa di ogni tempo e regolata da norme comuni, tese a preservare monaci e monache da pericoli contro la castità. In ogni caso, il problema si pone con una certa peculiarità per l’Ordine dei frati minori, dal momento che fin dai primordi dell’esperienza evangelica di Francesco si unirono a lui e ai suoi frati Chiara e le altre donne. Il divieto di Rb XI, tuttavia, non può essere inteso come un riferimento diretto alla comunità di Chiara o ai monasteri ad esso collegati, ma alla stregua di un divieto riguardante tutti i monasteri di monache, come voleva la tradizione canonica della Chiesa.

Il terzo divieto di Rb XI rivolto ai frati è che non si facciamo padrini di uomini e di donne. Quest’ultima norma, come le due precedenti, è assunta dal diritto e dalla tradizione monastica ed è finalizzata a tutelare la castità dei frati e la loro libertà verso i rapporti familiari e gli obblighi conseguenti. I frati dovevano evitare ogni ombra di scandalo, essere fedeli alle norme della Chiesa e rinunciare ad ogni forma di parentela, come conseguenza della sequela del Signore Gesù. È importante notare come l’affermazione «affinché per questa occasione non sorga scandalo tra i frati o riguardo ai frati» riguardi soltanto l’ultimo divieto e non tutto il capitolo.

Per Francesco i frati non solo non devono dare scandalo ma sono chiamati a dare il buon esempio, attraverso il santo operare che gli permette di generare il Signore portandolo nel loro cuore e nel loro corpo, vivendo cioè una maternità di lui che li mette in grado di donarlo agli altri attraverso l’esempio, appunto, della loro vita [1Lf 10: FF 178/2]. Ciò che invece allontana o distoglie dal Signore e dalla sua sequela è considerato cattivo esempio [Amm III, 11: FF 151; Rnb VI, 6: FF 14]. Il cattivo esempio è una pietra di inciampo sul cammino della sequela. Cattivo esempio e scandalo non sono equivalenti né sinonimi, ma il primo può generare il secondo quando colui che ne è colpito inciampa o cade nel cammino di sequela e nel vivere la propria vocazione (tra cattivo esempio e scandalo c’è dunque una relazione di causa-effetto). Nel caso di Rb XI lo scandalo tra i frati e circa i frati impedirebbe loro di vivere totalmente e liberamente il Vangelo così come prescritto dalla Regola professata. La lettura Rb XI non può pertanto che aprirsi a questi temi più ampi della sequela del Signore, pena il rischio di rimanere imprigionati nei divieti e nei precetti. Del resto, questi non sono fine a se stessi, ma hanno come unico obiettivo di aiutare i frati a vivere il vangelo in obbedienza, senza nulla di proprio e in castità.

Oggi, per grazia di Dio, viviamo in una società che non frappone barriere fra uomo e donna: si lavora insieme, ci si confronta, si intrecciano relazioni ed amicizie, ci si frequenta per stare insieme e condividere gioie e fatiche. La sfida per noi oggi è altrettanto o ancor più impegnativa che per il frate medievale. Internet, ad esempio, con le sue risorse e potenzialità, da una parte rappresenta una grande opportunità facilitando il lavoro e le relazioni, dall’altra apre al rischio di una estraniazione dalla realtà per rifugiarsi in relazioni virtuali, sottraendo tempo prezioso ai fratelli in carne ed ossa, e in definitiva al Signore, con conseguenze negative sulla vita affettiva e religiosa dei frati.

Tratto da: FRATI MINORI di Canepanova – Pavia ● Centenari francescani: la Regola bollata


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CAPITOLO X – DELL’AMMONIZIONE E DELLA CORREZIONE DEI FRATI

1 I frati, che sono ministri e servi degli altri frati, visitino ed ammoniscano i loro frati e li correggano con umiltà e carità, non comandando ad essi niente che sia contro alla loro anima e alla nostra Regola. 2 I frati, poi, che sono sudditi, si ricordino che per Dio hanno rinnegato la propria volontà. 3 Perciò comando loro fermamente di obbedire ai loro ministri in tutte quelle cose che promisero al Signore di osservare e non sono contrarie all’anima e alla nostra Regola. 4 E dovunque vi siano dei frati che si rendono conto e riconoscano di non poter osservare spiritualmente la Regola, debbano e possono ricorrere ai loro ministri. 5 I ministri, poi, li accolgano con carità e benevolenza e li trattino con tale familiarità che quelli possano parlare e fare con essi così come parlano e fanno i padroni con i loro servi; 6 infatti, così deve essere, che i ministri siano i servi di tutti i frati. 7 Ammonisco, poi, ed esorto nel Signore Gesù Cristo, che si guardino i frati da ogni superbia, vana gloria, invidia, avarizia, cure o preoccupazioni di questo mondo, dalla detrazione e dalla mormorazione. 8 E coloro che non sanno di lettere, non si preoccupino di apprenderle, ma facciano attenzione che ciò che devono desiderare sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione, 9 di pregarlo sempre con cuore puro e di avere umiltà, pazienza nella persecuzione e nella infermità, 10 e di amare quelli che ci perseguitano e ci riprendono e ci calunniano, poiché dice il Signore: «Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano e vi calunniano; 11 beati quelli che sopportano persecuzione a causa della giustizia, poiché di essi è il regno dei cieli. 12 E chi persevererà fino alla fine, questi sarà salvo».

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Approfondimenti

Questo testo è il risultato di una rielaborazione di più passaggi della Regola non bollata. L’operazione effettuata dal redattore è abbastanza chiara: riunire in un unico testo i passaggi riguardanti la vita fraterna dispersi nella Regola precedente. L’elaborazione è guidata da una sostanziale conferma del materiale precedente, rispetto al quale è presente solo qualche aggiunta che non cambia, ma ribadisce e amplia il precedente dettato. Nel nostro testo si evidenziano chiaramente due parti: la prima (vv. 1-6) è il risultato dell’unione di Rnb IV e VI, nei quali erano già state trattate le questioni relative alla vita fraterna. La seconda parte (vv. 7-12) organizzata invece su due livelli, assumendo così la struttura binaria della Rnb XVII, dove si contrapponeva lo spirito della carne e lo spirito del Signore. In sintesi possiamo affermare che per realizzare i rapporti fraterni richiesti nella prima parte occorre che i singoli frati, indipendentemente dal ruolo svolto, siano uomini evangelici, liberi da certi vizi e forti di certe virtù.

Tre sono gli elementi che emergono dal testo riguardo ai ministri: la loro qualifica: I frati che sono ministri e servi degli altri frati; il loro compito: visitino ed ammoniscano i loro fratelli e li correggano con umiltà e carità; i limiti della loro azione di autorità: non comandando ad essi niente che sia contro la loro anima e la nostra Regola.

Sia per il primo che per il secondo gruppo della fraternità, l’accento è posto sulla qualifica identitaria di frati, cui poi si aggiunge la diversificazione dei ruoli: ministri-servi e sudditi. L’elemento guida della formulazione del testo è la parità tra i due gruppi, essenzialmente accomunati da una stessa natura di fratelli, anche se caratterizzati da una diversità funzionale. Interessante è la fedeltà del linguaggio impiegato dal Santo nei testi legislativi: termini quali abate, priore, prelato, superiore, non solo sono sempre assenti, ma persino vietati. Al contrario, i due termini ministri e servi rappresentano le uniche e costanti qualifiche utilizzate da Francesco per i frati posti in posizione d’autorità sugli altri.

La richiesta fatta ai ministri di visitare i frati, determina la natura del loro servizio e inverte tutta la cultura feudale, dove era il servo che doveva muoversi e non il padrone. Infatti, suggerisce il Santo, chi è servo ha l’obbligo di scomodarsi mettendosi in cammino verso colui che è tenuto a servire. In queste visite i ministri ammoniscano e correggano i frati, ma questo sia fatto con umiltà e carità. A seguire si specificano i confini del potere di intervento del ministro: non comandando ad essi niente che sia contro la loro anima e la nostra Regola. Il comandare e l’ubbidire dovevano essere esercitati nell’ambito degli stessi parametri validi sia per i ministri che per i sudditi, cioè all’interno dell’elemento oggettivo che è la Regola, con le sue specifiche richieste, e dell’elemento soggettivo, rappresentato dall’anima del singolo. Le scelte che non sono contro l’anima non implicano sempre una scelta tra il bene e il male, ma anche tra fedeltà e infedeltà alla propria vocazione minoritica. La proposta del Santo si fonda su una visione antropologica per cui l’altro non è un sottoposto, ma un pari grado, secondo la quale il ministro non sarà mai un padrone, ma sempre un fratello il quale, prima di richiedere l’obbedienza, dovrà avere rispetto dei suoi compagni, ascoltando con attenzione e sottomissione i bisogni oggettivi della situazione e quelli dei suoi fratelli, sempre nel rispetto delle diversità e unicità della loro anima.

L’affermazione “comando loro fermamente di obbedire”, formulata in prima persona da Francesco, può essere accolta e realizzata solo se i frati si ricordano la loro fondamentale scelta, quella che per Dio hanno rinnegato la propria volontà. L’obbedienza al ministro non è assoluta e indiscriminata, ma è richiesta solo riguardo alle cose di Dio, cioè agli ambiti in cui si realizza la propria consegna al Signore. Nel fare l’obbedienza, il suddito deve chiedersi se la richiesta del ministro rientri tra le cose che egli aveva promesso a Dio e che non si oppongono alla sua anima e alla Regola. Insomma, il frate deve restare vigile e responsabile nell’obbedire, deve cioè essere capace di ascoltare la Regola e la propria anima in una modalità che lo porterà ad esiti diversi, eppure tutti manifestazioni dello stesso desiderio di fare la volontà di Dio in obbedienza ai fratelli.

La visione della Regola sull’obbedienza è essenzialmente dialettica e circolare, dove l’uno è servo, l’altro suddito, e reciprocamente sono disposti a lavarsi i piedi. Tale struttura circolare delle relazioni fraterne, tese ad un’obbedienza reciproca per il mutuo servizio, ha la sua verifica o la sua occasione per essere praticata quando insorgono difficoltà: se il frate si trova nella difficoltà di non poter osservare la Regola secondo lo Spirito ricorra al ministro.

L’espressione secondo lo Spirito sarà da intendere: osservare la Regola secondo lo Spirito che la traduce in vita, attuando il programma di umiltà e povertà, preghiera ininterrotta, pazienza e carità evangelica esposto nella seconda parte del capitolo. Si può ritenere che la lettura spirituale della Regola e la sua osservanza implichi il coinvolgimento del singolo in una relazione con il testo fatta di responsabilità e ascolto, nella quale la sua identità vocazionale trovi il riferimento oggettivo per poter rispondere a Dio e farne la sua volontà.

Il dover e poter ricorrere al ministro quando il frate percepisce di non poter vivere spiritualmente la Regola indica e implica indubbiamente uno stato di confidenza e di reciprocità tra i due. La libertà da parte del frate di potersi rivolgere al suo ministro per renderlo partecipe delle sue difficoltà, ha in quest’ultimo il soggetto fondamentale per compiere un simile processo di affidamento. Francesco esorta il ministro a mostrarsi familiare con i frati in difficoltà, ribaltando la logica dominante del servo e del padrone: i padroni sono i frati in difficoltà, i servi son invece i loro ministri. Di fatto, si abolisce ogni logica di potere istituzionale per innescarne una nuova, fondata sul vangelo: il primo sia il servo di tutti.

Ma perché questa visione circolare dei rapporti, preferita a quella piramidale medievale, possa essere realizzata, si stabiliscono le qualità dei singoli frati, elencando una serie di vizi da evitare e di virtù da custodire. Ogni compito giuridico assegnato ai singoli sarebbe del tutto inutile e vano se ciascun frate non fuggisse una serie di vizi legati all’esteriorità dell’apparire e non coltivasse, invece, l’autenticità del cuore. Il progetto evangelico della fraternità è importante, ma senza la qualità altrettanto evangelica dei singoli tutto sarebbe impossibile e senza verità.

Il Santo esorta i suoi frati a evitare una serie di vizi, i quali girano attorno al centro nucleare dello spirito della carne. L’uomo che vive nella carne è guidato da un unico criterio: fare della propria persona il centro del mondo. L’uomo, che vive dell’esteriorità, nel desiderio spasmodico di essere riconosciuto e onorato, sarà superbo e vanaglorioso se otterrà quanto cercato o invece invidioso se vedrà nelle mani degli altri quanto agogna; quell’uomo sarà roso da una grande avarizia nel condividere i beni o costantemente preoccupato dalle cose del mondo e vivrà sicuramente rapporti difficili con gli altri, con i quali si relazionerà secondo un atteggiamento improntato alla mormorazione e detrazione. Quest’uomo non solo vive la propria vita senza Dio, ma anche nella solitudine, cioè senza la possibilità di godere di rapporti autentici di fraternità.

È chiaro, allora, che un frate animato dallo spirito della carne non potrà mai realizzare il progetto evangelico di una fraternità in cui regni la responsabilità e il rispetto tra i fratelli. Quell’uomo vivrà il mandato di ministro come potere personale, accumulando per sé un tesoro fraudolento a pericolo della sua anima o vivrà la sua vocazione minoritica nell’incapacità di donare la propria persona agli altri vagando sempre fuori dall’obbedienza.

La richiesta del Santo di non preoccuparsi di imparare a coloro che non sanno leggere, si presenta come una specificazione particolare del pericolo di esteriorità e di ricerca di successo che corrono i frati. Lo studio era divenuto ormai una scelta strategica e necessaria che, per quanto importante, costituiva al tempo stesso un rischio e un pericolo per l’anima minoritica: la scienza come modo di apparire agli occhi degli altri e su di essi dominare. La richiesta di Francesco rivolta a coloro che non sanno leggere non costituiva indubbiamente un rifiuto o una proibizione degli studi, come se essi fossero assolutamente contrari allo spirito minoritico. Tuttavia, con il richiamo agli illetterati di non preoccuparsi di imparare a leggere, egli ricordava implicitamente l’elemento caratteristico dell’iniziale ispirazione dei primi frati ad essere illetterati e sottomessi a tutti. Se da una parte gli studi erano uno strumento necessario e buono, dall’altra il loro utilizzo era però anche rischioso e pericoloso. Il Santo era convinto che per colui che non sapeva leggere sarebbe stato più facile restare un frate minore libero dal desiderio di potere e teso verso il servizio umile degli altri. Lo sforzo supremo e unico a cui deve tendere il frate minore è quello di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione: questo significa poter riattuare in sé quegli stessi sentimenti di Cristo, quando ha assunto la condizione di servo ponendosi a servizio di tutti coloro che erano diventati suoi nemici. Solo guardando a Dio e al suo modo di agire il frate minore potrà avere dei sentimenti adeguati e fraterni verso coloro che sembrerebbero non essere fratelli.

In tal senso, il pregare sempre costituisce non tanto un’azione religiosa-rituale di tipo ininterrotto, quanto un atteggiamento di riferimento costante e continuato a Cristo a cui conformare la propria vita. Il cuore puro è la condizione preliminare per vedere e accogliere questa logica divina manifestata da Dio in Cristo: solo i puri di cuore potranno vedere e adorare lo Spirito del Signore e compiere la sua santa operazione. A di fuori da questa logica, ogni atto religioso-cultuale di preghiera non solo è inutile, ma anche menzognero.

Inoltre c’è un chiaro invito ad amare i nemici: nei testi di Francesco i persecutori e gli avversari non sono mai i cattivi di fuori, ma sempre i frati stessi, le cui relazioni interne possono diventare a volte difficili e contraddittorie, al punto da farne dei nemici. È solo guardando a Cristo che si potrà continuare ad essere fratello nella pazienza e nell’umiltà.

L’uomo evangelico che si rivolge a Cristo, aderendo al suo Spirito che genera relazioni fraterne, è colui che non pretende nulla e dona tutto, che non mantiene nulla per sé e restituisce tutto. Quest’uomo soltanto potrà essere costruttore di una vera fraternità, perché innanzitutto la costruisce e realizza in sé, mantenendo la sua identità di frate in una situazione che sembra altrimenti negarla; inoltre, è cosciente che essa costituisce l’unica possibilità per ricreare rapporti nuovamente fraterni.

La conclusione del capitolo X, caratterizzata da una serie di testi biblici, rappresenta un’eccezione nella rielaborazione giuridica del testo, eppure era necessaria se si voleva dare consistenza giuridica a quanto in precedenza Francesco esortava a fare ai suoi frati, spingendoli a vivere la pazienza e l’umiltà nei confronti dei persecutori e ad amare i loro nemici. Solo l’accoglienza assoluta della parola di Cristo può permettere di entrare nel suo Spirito e rendere un uomo frate minore, cioè forte di una logica nuova che produce un’operazione santa nei confronti degli altri fratelli trasformatisi in nemici.

Il primo testo invita ad amare i nemici e pregare per coloro che ci perseguitano. Il comando ha la sua forza e validità soltanto in base alla parola di Cristo, il quale non dà altra spiegazione che la sua persona: “ma io vi dico”. Si entra così al centro della novità evangelica fondata su di una legge che è anzitutto una persona, la cui sequela permette di abbracciare uno stile di vita nuovo e originale.

I secondi due testi sottolineano come non si tratta di seguire Gesù per la morte, ma per la vita: chi avrà sopportato la persecuzione per la giustizia avrà il Regno di Dio e chi persevererà otterrà la salvezza. E la via della vita passa attraverso il dono completo di sé, unica possibilità per ribaltare la logica della violenza e dell’ingiustizia fonte di morte. Solo un uomo evangelico, che si pone alla sequela di Cristo, può essere un uomo fraterno. Non si tratta dunque di far funzionare dei meccanismi relazionali fondati sulla giustizia e sull’equa distribuzione, ma di avere il coraggio personale di restare fratelli di coloro che smettono di esserlo e assumono una logica di sopraffazione e rivalità. Solo in quel momento, quando si viene traditi nel progetto abbracciato comunitariamente, il singolo può effettivamente verificare e proclamare di essere un vero frate minore che muore per i suoi fratelli, realizzando così in sé uno spazio vitale offerto agli altri per una possibile rinascita delle relazioni evangeliche.

Tratto da: FRATI MINORI di Canepanova – Pavia ● Centenari francescani: la Regola bollata


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CAPITOLO IX – DEI PREDICATORI

1 I frati non predichino nella diocesi di alcun vescovo qualora dallo stesso vescovo sia stato loro proibito. 2 E nessun frate osi affatto predicare al popolo, se prima non sia stato esaminato ed approvato dal ministro generale di questa fraternità e non abbia ricevuto dal medesimo l’ufficio della predicazione. 3 Ammonisco anche ed esorto gli stessi frati che, nella loro predicazione, le loro parole siano ponderate e caste, a utilità e a edificazione del popolo, annunciando ai fedeli i vizi e le virtù, la pena e la gloria con brevità di discorso, poiché il Signore sulla terra parlò con parole brevi.

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Approfondimenti

Il capitolo IX relativo alla predicazione trasmette e regola uno degli aspetti costitutivi del primo gruppo raccolto attorno a frate Francesco, in un contesto mutato e rapidamente evolutosi negli anni dal 1221 al 1223: l’esperienza dell’esortazione rivolta a tutti, tematizzata nel capitolo XVII della Regola non bollata, è diventato un testo asciutto e ben preciso nelle indicazioni giuridiche, nella modalità della predicazione accogliendo le emergenti esperienze pastorali in merito. Un capitolo sulla predicazione costituisce, inoltre, una novità nel quadro delle Regole del tempo e può parzialmente collegarsi al capitolo XII della Regola bollata per quanti vanno tra i saraceni e gli infedeli, nel momento in cui, «quando vedranno che piace a Dio, annunzino la parola di Dio» (Rnb XVI, 7: FF 43).

Il testo si articola semplicemente in quattro versetti: i primi due con espressioni al negativo, di derivazione giuridica; i secondi due con espressioni esortative, in uno stile in cui è rintracciabile ancora il tocco di Francesco, non solo dei due verbi espressi in prima persona, ma anche nella successione incalzante dei termini.

Il divieto con cui si apre il capitolo accoglie quanto era stato formulato nella costituzione terza e decima del Concilio Lateranense IV, deciso a intervenire sulla cattolicità dei predicatori con un vigilante controllo da parte dei vescovi, ai quali, per primi, spettava il compito della predicazione, direttamente esercitato o delegandolo a persone di sicura fede ortodossa, affinché fosse annunciata la parola e l’esemplarità della vita. Sembra quasi crearsi uno sdoppiamento tra una parola riservata ai predicatori e un’esemplarità predicata con la propria testimonianza possibile da parte di tutti i frati. La predicazione non è più solo un’esortazione che poteva essere affidata a tutti, ma un ufficio di cui si è investiti dalla competente autorità, necessitando abilità specifiche.

Il secondo divieto di questo capitolo riguarda il permesso che i predicatori devono avere da parte del ministro e servo di tutta la fraternità. Il capitolo IX si apre dunque con due norme tassative che dicono della rapida evoluzione che c’è stata nel passaggio dalla esortazione alla predicazione sottoposta al controllo episcopale per evitare ogni pericolo ereticale e affidata, secondo le disposizioni lateranensi, alla categoria specializzata dei predicatori e non più a tutti i frati, che possono comunque esortare con parole alla conversione testimoniandola con la propria esemplarità.

Nei due versetti che aprono la seconda sezione del capitolo IX, appare esplicita la presenza del Santo con i due verbi coniugati in prima persona, oscillanti tra il negativo – ammonisco – e il positivo – esorto –, segno del suo intervento diretto nell’elaborazione della Regola bollata, frutto della collaborazione dei ministri e del cardinale Ugolino. Un primo dittico si rivolge esplicitamente ai frati impegnati nella predicazione, articolato nella qualità delle parole: esaminate e caste. La Regola esorta i predicatori ad annunciare solo “le santissime parole divine” (2Test 13: FF 115), che prima di essere proposte, devono riscaldarsi interiormente perché non siano fredde (2Cel 163: FF 747); parole provate al fuoco della passione, liberate da una sapienza carnale che si riempie di se stessa (Am VII: FF 156), e che diventa casta perché purificata dallo Spirito, così come Francesco definiva casta la cenere perché purificata dal fuoco (3Comp 15: FF 1414).

Un secondo dittico – utilità ed edificazione – specifica la finalità della predicazione rivolta al popolo. Il termine utilità si riferisce alla recezione della parola nell’esperienza personale dell’uditore che l’accoglie; un ascolto personale, capace di ampliarsi e di generare l’edificazione dell’intero popolo cristiano. Riscontriamo il tema evangelico dell’edificare la propria fede sulla roccia che è Cristo (Mt 7,24-27), con rimandi alla letteratura paolina laddove si parla di cristiani edificati sul fondamento degli apostoli e dei profeti, con Cristo pietra angolare (Ef 2,20). Un’unità con funzioni differenziate, ma con lo scopo di edificare il corpo di Cristo (Ef 4,20). Il dono che ognuno può avere si colloca in una gerarchia di carismi in vista della comune utilità ed edificazione di tutta la comunità cristiana (1Cor 14,1-5), evitando parole cattive, “ma piuttosto parole buone che possano servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano” (Ef 4,29).

I frati predicatori devono rivolgere ai fedeli un annuncio di tipo kerigmatico, con un forte appello alla conversione, che interpella il vissuto cristiano in vista di scelte decisive. Ad essere annunciati sono i vizi e le virtù, la pena e la gloria: quattro elementi in doppia coppia antitetica, che offrono uno spazio ben preciso della predicazione: due virtù morali – vizi e virtù –, in una prospettiva escatologica – pena e gloria –, dove il primo binomio antitetico è in connessione con il secondo binomio, altrettanto opposto. Sono tematiche classiche della predicazione medievale, con abbondanza di riferimenti patristici, ripresi nell’omiletica, e con significativi apporti derivanti dalle cerchie parigine a cui contribuì lo stesso Innocenzo III e il successore Onorio III. Il tema è caro a frate Francesco, lo riprende altrove nei suoi Scritti (Am XXVII: FF 177; Salvir: FF 256-258): la freschezza che il Santo apporta non sta tanto nella novità del tema che è ricorrente, quanto nella sua rielaborazione teologica-spirituale. È, infine, un annuncio kerigmatico da farsi nella essenzialità delle parole, senza disperderne o consumarne se non necessarie.

Tratto da: FRATI MINORI di Canepanova – Pavia ● Centenari francescani: la Regola bollata


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CAPITOLO VIII – DELLA ELEZIONE DEL MINISTRO GENERALE DI QUESTA FRATERNITÀ E DEL CAPITOLO DI PENTECOSTE

1 Tutti i frati siano tenuti ad avere sempre uno dei frati di quest’Ordine come ministro generale e servo di tutta la fraternità e a lui devono fermamente obbedire. 2 Alla sua morte, l’elezione del successore sia fatta dai ministri provinciali e dai custodi nel Capitolo di Pentecoste, al quale i ministri provinciali siano tenuti sempre ad intervenire, dovunque sarà stabilito dal ministro generale; 3 e questo, una volta ogni tre anni o entro un termine maggiore o minore, così come dal predetto ministro sarà ordinato. 4 E se talora ai ministri provinciali ed ai custodi all’unanimità sembrasse che detto ministro non fosse idoneo al servizio e alla comune utilità dei frati, i predetti frati ai quali è commessa l’elezione, siano tenuti, nel nome del Signore, ad eleggersi un altro come loro custode. 5 Dopo il Capitolo di Pentecoste, i singoli ministri e custodi possano, se vogliono e lo credono opportuno, convocare, nello stesso anno, nei loro territori, una volta i loro frati a capitolo.

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Approfondimenti

Ciò che viene in primo luogo comandata è l’opportunità che i frati si diano un ministro generale e servo, al quale tutti dovranno sottostare in ferma obbedienza. Si passa poi a considerare il Capitolo generale, ma soltanto limitatamente al suo compito di provvedere ad eleggere il ministro generale alla sua morte; è in tale contesto che viene dichiarata l’opportunità dell’assemblea generale, costituita dai ministri provinciali e dai custodi, lasciando al ministro generale la facoltà di scegliere sia il luogo in cui convenire, sia la scansione temporale con cui dev’essere celebrato il Capitolo stesso: ogni tre anni, oppure, come gli sembrerà opportuno, a scadenza maggiore o minore. L’attenzione torna poi a focalizzarsi sulla figura del ministro generale, presentando la possibilità di destituirlo dal suo ufficio di governo nel caso in cui egli fosse valutato, da parte dei ministri provinciali e dai custodi, non sufficiente per adempiere in maniera adeguata il suo incarico. Il capitolo si conclude dando la facoltà ai singoli ministri e custodi di radunare i frati delle loro giurisdizioni dopo Pentecoste, successivamente alla conclusione del Capitolo generale, ogniqualvolta esso venga celebrato.

“Ministro e servo”, costituisce un’espressione nuova soltanto in parte; tuttavia l’aggiunta della parola “servo” a “ministro” accentua maggiormente l’inclinazione al servizio che dovrebbe connotare l’ufficio di questa figura di governo. Il frate ministro che è stato posto al di sopra di tutti gli altri, vive un servizio temporaneo a favore di tutta la Fraternità, caratterizzato da un atteggiamento di espropriazione radicale. Il ministro e servo generale, chiamato a vivere un legame di obbedienza nei confronti del papa, convoca l’assemblea capitolare generale e stabilisce sia il luogo che il tempo preciso in cui essa debba tenersi, al servizio e alla comune utilità dei frati. Non si possono evidenziare altri compiti connessi con l’autorità di governo del ministro e servo generale; altre facoltà sono di pertinenza dei ministri provinciali, così come si possono evidenziare alcune attenzioni concrete che i ministri debbono avere nei confronti dei frati: attenzioni che, probabilmente, accomunano i ministri sia generali che provinciali. Il Santo raccomanda loro di prendersi cura sollecita, così come sembrerà opportuno sulla base delle effettive necessità, dei frati ammalati; di visitare e ammonire i frati che sono loro sottomessi, eventualmente correggendoli con umiltà e carità, evitando di comandare qualcosa che sia contrario all’anima e alla Regola; di mostrarsi accoglienti e familiari nei confronti di quei frati che si recheranno presso di loro per esprimere la propria situazione di impossibilità nell’osservare la Regola secondo lo Spirito; di ammettere coloro che domandano di intraprendere questa vita; di imporre la penitenza con misericordia a quei frati che avranno fatto ricorso a loro al fine di ricevere il perdono dei peccati per i quali ciò è stato ordinato e se tuttavia non sono sacerdoti, la faranno imporre da parte di altri sacerdoti dell’Ordine; di concedere ai frati che riterranno idonei il permesso di andare tra i saraceni e tra gli altri infedeli.

Non una via facile, ma votata al dono di sé mediante l’obbedienza ad altri è quella che i frati debbono percorrere, soprattutto quando il contesto attuale bolla come poco convincente la strana necessità del sacrificio. La diffusa mentalità efficientista e tecnocratica pare conferire credibilità soltanto a ciò che immediatamente produce e sin da subito funziona. Laddove, invece, non vi sia la possibilità di una misurazione quasi immediata dei risultati ottenuti e, soprattutto, qualora siano richiesti un certo sforzo e la pazienza dell’attesa, spesso l’impresa viene troppo precipitosamente dichiarata inutile, se non addirittura fallimentare. Le possibilità vitali connesse con il “patire obbedienza”, in realtà, mostrano tutta la vitalità racchiusa nei percorsi di chi sa consegnarsi fiduciosamente all’altro. A questo proposito possiamo citare un passaggio della Lettera agli Ebrei, dove appare chiaro il legame stretto con l’esperienza del patire, da cui scaturisce il frutto dell’obbedienza: lo stesso Signore Gesù «pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti quelli che gli obbediscono» (Eb 5,8-9). Il Figlio impara a dire il suo sì al Padre assumendo pienamente il rischio di un abbandono difficile, e tale adesione ricade a beneficio di salvezza su tutti coloro che sapranno adeguatamente reinterpretare nella loro esistenza questa obbedienza.

L’identità evocata dal nome di “Ministro generale” attribuito a colui che sta a capo dell’Ordine evidenzia come il ministro e servo generale debba fondamentalmente sapersi proporre quale espressione di una Fraternità di cui si pone a servizio. L’obbedienza richiesta anche da parte del ministro generale offre a lui stesso la possibilità di mettere in atto l’arte difficile e coraggiosa di interpretare le nuove domande che possono nascere anche presso i frati. A tal riguardo potrebbe essere opportuno chiedersi se il rischio di soggettivismo che si può manifestare in ragione delle iniziative dei singoli frati non possa verificarsi in misura inversamente proporzionale alla capacità del ministro di mantenersi autenticamente in ascolto.

Tratto da: FRATI MINORI di Canepanova – Pavia ● Centenari francescani: la Regola bollata


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CAPITOLO VII – DELLA PENITENZA DA IMPORRE AI FRATI CHE PECCANO

1 Se dei frati, per istigazione del nemico, avranno mortalmente peccato, per quei peccati per i quali sarà stato ordinato tra i frati di ricorrere ai soli ministri provinciali, i predetti frati siano tenuti a ricorrere ad essi, quanto prima potranno senza indugio. 2 I ministri, poi, se sono sacerdoti, loro stessi impongano con misericordia ad essi la penitenza; se invece non sono sacerdoti, la facciano imporre da altri sacerdoti dell’Ordine, così come sembrerà ad essi più opportuno, secondo Dio. 3 E devono guardarsi dall’adirarsi e turbarsi per il peccato di qualcuno, perché l’ira ed il turbamento impediscono la carità in sé e negli altri.

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Approfondimenti

Il testo di questo capitolo, piuttosto breve, vuole dare indicazioni su come regolarsi nei casi di gravi colpe pubbliche dei frati: si rivolge anzitutto ai frati che hanno peccato, invitandoli a ricorrere ai ministri; e in secondo luogo dà indicazioni ai ministri sul comportamento da tenere con questi fratelli.

Tra le parole significative del nostro testo, merita attenzione l’espressione “per istigazione del nemico”, perché il riferimento al “nemico” tentatore ritorna anche altrove negli Scritti di Francesco, sia con l’identica espressione usata nella Lettera a un ministro, sia parlando di “istigazione del diavolo” (Rnb XIII, 1: FF 39), sia parlando ripetutamente della sua instancabile attività (Am XXVII, 5: FF 177; Rnb V, 7: FF 18; VII, 10: FF 25; VIII, 4: FF 28; XXII, 13: FF 58). Nemico può essere anche “il corpo, per mezzo del quale pecchiamo”, al quale vengono subito accostati “altri nemici visibili e invisibili” (Am 10, 2.4: FF 159), e nemici dell’uomo posso essere anche “la carne, il mondo e il diavolo” (1Lf II, 11: FF 178/5; 2Lf 69: FF 204).

Per tre volte, nei suoi Scritti, il Santo parla dei “peccati mortali” (Cant 29: FF 263; 1Lf II, 15: FF 178/6; 2Lf 82: FF 205), mostrando una acuta coscienza della loro gravità, e moltissime volte parla di peccati: ricordiamo soltanto quella volta in cui all’inizio del Testamento usa la concisa espressione “essere nei peccati” per indicare la propria condizione, prima dell’incontro con i lebbrosi che gli cambiò la vita. Emerge in lui una profonda consapevolezza della umana condizione di peccatori, a fronte della chiara percezione della bontà di Dio, che è il solo bene; ma quella che potrebbe essere una negativa percezione dell’uomo è invece una cristiana intuizione, per cui ci si vede come peccatori salvati, redenti dalla bontà di Dio. È la fede profonda nell’azione di salvezza di Dio che permette di riconoscere con tanta chiarezza la condizione di peccato da cui l’uomo è stato salvato. L’aggiunta dell’aggettivo “mortale” o dell’avverbio “mortalmente”, come nel nostro caso, esplicita quel legame tra peccato e morte che viene già annunciato nei primi capitoli della Genesi e che è una ferma convinzione della fede cristiana, che proclama in Gesù il salvatore dal peccato e dalla morte.

Merita attenzione l’espressione «quei peccati per i quali è stato ordinato tra i frati di ricorrere ai soli ministri provinciali»: di che peccati si tratta? Gregorio IX nella bolla Quo Elongati chiarisce che si tratta solo di peccati pubblici e manifesti (Bolla “Quo elongati” di Gregorio IX: FF 2735). Le Costituzioni Narbonensi, la prima raccolta organica di quelle norme attuative della Regola chiamate Costituzioni, danno un contenuto a questi peccati pubblici, citando espressamente cinque casi: «per il delitto di lussuria, di disobbedienza contumace, di accettazione del denaro contro la Regola, di per se stessi o per mezzo di un’altra persona, di grave furto e di violenta percossa di un altro». Comprendiamo come con il passare degli anni si rende sempre più necessario ricorrere a delle norme esplicative, quali le Costituzioni, per attuare e fornire indicazioni più specifiche al dettato della Regola, unitamente a cercare di applicare ai diversi tempi e alle diverse situazioni le indicazioni della stessa.

Il nostro testo, parlando del ricorso ai ministri, prevede che essi possano essere o non essere sacerdoti. Si fa qui riferimento alla situazione degli inizi e dei primi decenni dell’Ordine, quando le cariche di governo potevano essere ricoperte da qualsiasi frate, sacerdote o laico che fosse. Nel nostro testo, se i ministri non sono sacerdoti, sono invitati a far imporre la penitenza “dai sacerdoti dell’Ordine”: si può dunque dedurre che nel 1223, quando viene stesa la norma della Regola, i frati sacerdoti erano già presenti in numero sufficiente da permettere che ad essi si potesse fare normalmente ricorso. Con questa prescrizione la Regola viene incontro alla disposizione del Concilio Lateranense IV che invitava i fedeli a confessare almeno una volta all’anno, al proprio parroco, i loro peccati, mentre se per giusto motivo volevano rivolgersi ad un altro sacerdote dovevano ottenere licenza dal proprio parroco. Si comprende il riferimento esplicito nel nostro testo ai “sacerdoti dell’Ordine”.

L’amministrazione della penitenza è regolata dalle espressioni “con misericordia e secondo Dio”, che caratterizzano in senso tipicamente francescano la correzione fraterna. Non è importante sapere soltanto che cosa fare con i fratelli che peccano, ma è altrettanto importante sapere come comportarsi con loro. “Misericordia” è una parola importante nel vocabolario francescano. Essa è la caratteristica di Dio, ma diventa anche il tratto che caratterizza i suoi fedeli, in particolare quando si tratta della misericordia da avere verso i fratelli, nel contesto di relazioni difficoltose. In questi contesti la misericordia rimane l’unica vera indicazione importante, che manifesta nel comportamento del discepolo le qualità del maestro. Mentre per comprendere meglio l’espressione “secondo Dio”, potremmo confrontarla con le molte volte in cui Francesco dice di comportarsi “secondo il Vangelo” o “secondo la forma del santo Vangelo”, o anche “secondo quel che dice il Signore”. Il dato che emerge da queste espressioni è la volontà di conformarsi a una forma che non ci diamo da noi stessi ma che accogliamo da Dio, attraverso le vie che egli ha scelto per rivelarsi a noi.

La frase finale del nostro capitolo mette in guardia dall’ira e dal turbamento nei confronti del peccato del fratello, atteggiamenti da evitare perché contrastano radicalmente con quello che deve essere il criterio fondamentale: la carità. Va segnalato che la coppia “ira e turbamento” ricorre altrove negli Scritti del Santo (Rb VII, 3: FF 95; Rnb V, 7: FF 18; Rnb X, 4: FF 35) e normalmente segnala un peccato che potrebbe definirsi di appropriazione: si tratta di un atteggiamento che spesso scatta di fronte al peccato altrui e che è l’esatto contrario di quello che Francesco chiama “il vivere senza nulla di proprio” (Cfr. Am XI: FF 160), che consiste nel riconoscere e assecondare l’azione del Signore nel bene che facciamo, senza appropriarcene indebitamente, pensando di possedere il bene che facciamo. Oltre che dei beni che appartengono al Signore, ci si può appropriare anche del male che è nel fratello: forma triste di appropriazione, alla quale il povero evangelico si oppone con la forza della carità.

Tratto da: FRATI MINORI di Canepanova – Pavia ● Centenari francescani: la Regola bollata


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