📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

Regolamento comunitario 1Tu però insegna quello che è conforme alla sana dottrina. 2Gli uomini anziani siano sobri, dignitosi, saggi, saldi nella fede, nella carità e nella pazienza. 3Anche le donne anziane abbiano un comportamento santo: non siano maldicenti né schiave del vino; sappiano piuttosto insegnare il bene, 4per formare le giovani all’amore del marito e dei figli, 5a essere prudenti, caste, dedite alla famiglia, buone, sottomesse ai propri mariti, perché la parola di Dio non venga screditata. 6Esorta ancora i più giovani a essere prudenti, 7offrendo te stesso come esempio di opere buone: integrità nella dottrina, dignità, 8linguaggio sano e irreprensibile, perché il nostro avversario resti svergognato, non avendo nulla di male da dire contro di noi. 9Esorta gli schiavi a essere sottomessi ai loro padroni in tutto; li accontentino e non li contraddicano, 10non rubino, ma dimostrino fedeltà assoluta, per fare onore in tutto alla dottrina di Dio, nostro salvatore.

Motivazione cristologica del regolamento 11È apparsa infatti la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini 12e ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, 13nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo. 14Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le opere buone. 15Questo devi insegnare, raccomandare e rimproverare con tutta autorità. Nessuno ti disprezzi!

Approfondimenti

(cf LETTERA A TITO – Introduzione, traduzione e commento a cura di Rosalba Manes © EDIZIONI SAN PAOLO, 2011)

Regolamento comunitario Il v. 1 svolge una triplice funzione: introduce il contesto rispetto alle posizioni degli eretici di 1,10-16, si presenta come il titolo dell'intero capitolo e costituisce una sorta di inclusione con 2,15.

Al v. 2 inizia un catalogo di sei virtù. La prima categoria a essere interpellata è quella degli uomini anziani. Ad essa sono riferite nonne che riguardano il modo di essere (devono essere seri, sobri, assennati); altre riguardano invece il modo di incarnare la fede (devono essere saldi nella fede, nell'amore e nella pazienza).

Alle donne anziane è richiesto un comportamento santo, che coinvolga la totalità della loro vita, spaziando in tutti gli aspetti della quotidianità (come abitudini alimentari personali e caratteristiche della relazione e del dialogo interpersonale) e facendo di questa una sorta di cattedra, da cui insegnare alle giovani ciò che conviene. Il loro insegnamento relativo al bene ha una dimensione familiare che tocca anche la sfera comunitaria e si risolve in un'autentica edificazione della famiglia e della Chiesa.

Seguono nel codice i requisiti tipici della donna credente sposata, che si caratterizza essenzialmente per l'amore al marito e ai figli. Da essi emerge un'alta concezione della fedeltà coniugale che esige la sottomissione: ciò che fonda l'esortazione alle mogli a essere sottomesse ai loro mariti non si trova nella relazione coniugale, ma nella necessità di evitare che l'assenza di sottomissione sortisca effetti negativi sull'intera comunità. Manca l'elemento della reciprocità (che richiede all'uomo un comportamento corrispondente).

Sorprende la laconicità dell'esortazione rivolta agli uomini più giovani. L'invito a essere assennati, comune anche agli anziani e alle giovani, mostra che questa direttiva dev'essere ritenuta vincolante per tutti. La stringatezza con cui si descrive questa categoria è un artificio retorico impiegato al fine di far emergere la figura di Tito. Torna in primo piano il capo della comunità e la centralità dell'incarico a lui affidato. Si evoca un altro strumento pedagogico per istruire la comunità, oltre a quello di fornire orientamenti comportamentali precisi: l'esemplarità della vita. Tito può istruire la comunità in un duplice modo: con le parole e con le opere. Egli deve presentare se stesso come «esempio di opere buone» che all'interno della lettera sono il segno distintivo della retta fede. L'esemplarità di vita è uno degli elementi caratteristici delle lettere Pastorali: per l'episcopo (cfr. lTm 3,2-7; Tt 1,7-9), per i diaconi (cfr. l Tm 3,8-12) e per i presbiteri (cfr. Tt 1,5-6). Essa non svolge solo una funzione parenetica, ma appartiene al dinamismo vitale della successione apostolica: Tito dev'essere modello, alla maniera dell'apostolo.

Segue a sorpresa un'esortazione che sembra fuori posto, forse a dare maggiore enfasi all'importanza della sottomissione e del silenzio, in chiave apologetica contro i dissidenti. L'intenzione dell'autore è di proporre la solidità delle strutture sociali come tratto distintivo delle comunità cristiane, per presentare la Chiesa come fattore stabilizzante per la società. I tratti caratteristici di uno schiavo autenticamente discepolo di Gesù sono la fedeltà e l'affidabilità nell'amministrare il patrimonio del suo padrone. Emerge così dal testo una visione secondo cui, testimoniando la fede, gli schiavi mostrano la loro disponibilità ad accettare la propria posizione sociale come conforme alla volontà di Dio.

Motivazione cristologica del regolamento Dopo il piccolo regolamento che cerca di disciplinare i vari stati di vita in 2,2- 1O, segue il fondamento che lo sorregge, o meglio la motivazione cristologica da cui esso sgorga. Nei vv. 2-1O si enuncia «ciò che è conforme alla sana dottrina», cioè l'agire derivante da una giusta conoscenza, nei vv. 11-14 si chiarisce invece il contenuto della «sana dottrina», cioè i fondamenti dell'insegnamento che Tito deve trasmettere.

Il verbo «rendere visibile», ripreso poi in 3,4, suggerisce il carattere repentino dell'apparizione ed esprime un chiaro riferimento al mistero dell'incarnazione. Con l'espressione «a tutti gli uomini» appare la dimensione universale del progetto salvifico di Dio in consonanza con la visione presente anche in 1Tm 2,1.4.6. La grazia di Dio che si è manifestata presenta quattro caratteristiche:

  1. proviene da Dio; è «salvifica» (qualità che ricorda l'attribuzione a Cristo dell'appellativo «salvatore»);
  2. è «universale», cioè per tutti;
  3. si presenta come capace di «insegnare», opera che il Risorto condivide con gli uomini, affidandola ai predicatori del Vangelo come Paolo (cfr. Tt 1,3);
  4. è per «noi», per i credenti, coloro che si impegnano a imparare.

La pedagogia della grazia presenta un duplice aspetto: quello negativo della rinuncia alle passioni mondane e quello positivo di un nuovo stile di vita. Rinnegando le passioni, l'uomo non è più schiavo del peccato per vivere nella grazia, coltivando i valori della sapienza, della giustizia e di quella pietà che corrisponde alla religiosità più genuina. L'opera pedagogica della grazia si realizza così nel promuovere nella storia presente del credente le stesse qualità di Dio.

Appaiono i due poli della vita cristiana: il presente dell'etica, segnato dalla prima epifania, come tempo che scorre e passa, e il futuro escatologico della beatitudine e della gloria, segnato dalla seconda epifania, che è eterno. Tra i due tempi si colloca l'attesa e la speranza che è detta «beata» perché ha per oggetto la seconda venuta di Cristo. Essa riceve lo stesso attributo di Dio e si potrebbe dire che la «beata speranza» è Cristo stesso, che rivelerà al tempo stabilito la gloria del Padre.

L'espressione «grande Dio e salvatore» risveglia la memoria storica del popolo d'Israele riportandolo all'esodo. In 2,14, poi, è come se si spezzasse l'ordine cronologico del racconto epifanico, ormai proteso al futuro, per rievocare un episodio trascorso che torna vividamente alla memoria: «ha dato se stesso per noi». Dal futuro della «manifestazione della gloria» nella venuta del Cristo si verifica una sorta di flashback, per trasferirsi con la mente a un momento passato della storia, segnato da una consegna, da un dono. In Tt 2,14 la voce del discepolo fa spazio al maestro, perché sembra che qui sia Paolo a parlare, con un'espressione a lui tanto cara, presente nella lettera ai Galati, ma che ricorre poi in altri passi dell'epistolario paolino divenendo una formula che conferisce al testo un tono squisitamente liturgico. Tt 2,14 evoca quindi l'idea della morte di Gesù e rinvia all'annuncio legato alla tradizione dell'ultima cena (cfr. Lc 22,19-20; 1Cor 11,23-25), con le sue connotazioni di rappresentatività, di sacrificio e di riconciliazione.

Cristo riscatta l'umanità ferita dal male del peccato e la sposa facendola «sua». Non la riscatta con denaro, ma a prezzo del suo sangue. La sposa riscattata dal Cristo è il popolo cristiano, che è stato reso puro attraverso il sacrificio sulla croce e che appartiene a lui in una dimensione di intimità e comunione tipica dell'alleanza, di quel matrimonio tra Dio e il suo popolo che stimola nell'uomo il fiorire delle «opere buone». Queste sono il segno caratteristico dell'elezione, la cartina al tornasole della salvezza accolta e del cristianesimo incarnato, garanzia di una fede autentica e di una «conoscenza della verità intimamente unita a un'autentica vita religiosa» (cfr. Tt 1,1). Lo zelo per le opere buone diviene, a sua volta, l'epifania della dimensione fondamentale della vita cristiana: il dinamismo della fede che opera per mezzo dell'amore (cfr. Gal 5,6). Appare qui la profonda connessione tra cristologia ed etica. Alle «opere buone» l'autore della lettera conferisce un valore normativo in rapporto alla fede: sono un segno distintivo, proprio del cristiano autentico.

A conclusione dell'esposizione dottrinale viene espressa l'urgenza impellente di illustrare un tale insegnamento senza esitazione alcuna. All'interno del popolo cristiano un ruolo speciale spetta a Tito che deve usare «ogni» autorità conferitagli. Il v. 15 è così importante nell'economia dell'intera lettera da rappresentare la chiave di volta funzionale, poiché apporta una sorta di intensificazione o potenziamento della valenza retorica del messaggio. Esso appare una sorta di spartiacque tra i cc. 1-2, il cui tema dominante è la «sana dottrina», e il c: 3, il cui cuore è l'esercizio delle «opere buone». Paolo comunica l'urgenza delle istruzioni epistolari e svela il segreto di ciò che tiene unite l'ortodossia e l'ortoprassi: l'autorità intesa come canale comunicativo privilegiato. L'espressione «con ogni autorità» e il monito «nessuno ti disprezzi!» presentano l'autorità di Tito come assoluta. Si può pensare che a causa dei dissidenti l'autorità apostolica sia contrastata. Perciò l'autore della lettera la rilancia con forza e con espressioni molto incisive.


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Indirizzo e saluto 1Paolo, servo di Dio e apostolo di Gesù Cristo per portare alla fede quelli che Dio ha scelto e per far conoscere la verità, che è conforme a un’autentica religiosità, 2nella speranza della vita eterna – promessa fin dai secoli eterni da Dio, il quale non mente, 3e manifestata al tempo stabilito nella sua parola mediante la predicazione, a me affidata per ordine di Dio, nostro salvatore –, 4a Tito, mio vero figlio nella medesima fede: grazia e pace da Dio Padre e da Cristo Gesù, nostro salvatore.

I presbiteri e il vescovo 5Per questo ti ho lasciato a Creta: perché tu metta ordine in quello che rimane da fare e stabilisca alcuni presbìteri in ogni città, secondo le istruzioni che ti ho dato. 6Ognuno di loro sia irreprensibile, marito di una sola donna e abbia figli credenti, non accusabili di vita dissoluta o indisciplinati. 7Il vescovo infatti, come amministratore di Dio, deve essere irreprensibile: non arrogante, non collerico, non dedito al vino, non violento, non avido di guadagni disonesti, 8ma ospitale, amante del bene, assennato, giusto, santo, padrone di sé, 9fedele alla Parola, degna di fede, che gli è stata insegnata, perché sia in grado di esortare con la sua sana dottrina e di confutare i suoi oppositori.

La presenza di dissidenti 10Vi sono infatti, soprattutto fra quelli che provengono dalla circoncisione, molti insubordinati, chiacchieroni e ingannatori. 11A questi tali bisogna chiudere la bocca, perché sconvolgono intere famiglie, insegnando, a scopo di guadagno disonesto, quello che non si deve insegnare. 12Uno di loro, proprio un loro profeta, ha detto: «I Cretesi sono sempre bugiardi, brutte bestie e fannulloni». 13Questa testimonianza è vera. Perciò correggili con fermezza, perché vivano sani nella fede 14e non diano retta a favole giudaiche e a precetti di uomini che rifiutano la verità. 15Tutto è puro per chi è puro, ma per quelli che sono corrotti e senza fede nulla è puro: sono corrotte la loro mente e la loro coscienza. 16Dichiarano di conoscere Dio, ma lo rinnegano con i fatti, essendo abominevoli e ribelli e incapaci di fare il bene.

Approfondimenti

(cf LETTERA A TITO – Introduzione, traduzione e commento a cura di Rosalba Manes © EDIZIONI SAN PAOLO, 2011)

Indirizzo e saluto La lettera a Tito si apre con un “indirizzo” dal carattere programmatico, il più ampio e articolato delle lettere Pastorali sia nella presentazione di Paolo e della sua autorità, sia nella descrizione del compito affidato a Tito. Sorprende il contatto con il prescritto di Rm 1,1-7 con cui condivide la prolissità nel delineare il profilo dell'apostolo. Mentre nella lettera ai Romani si pone l'accento sulla cristologia, nella lettera a Tito si insiste sullo stretto nesso tra l'apostolo e il successore, tra l'origine e l”'oggi” della vita ecclesiale. Contiene una vera e propria teologia dell'apostolato che, facendo leva sull'esaltazione della figura di Paolo e sulla credibilità del suo insegnamento, vede nell'esemplarità dell'apostolo la via maestra per camminare nella «sana dottrina» che da Cristo discende alla Chiesa di tutti i tempi, grazie al ministero degli apostoli e dei loro successori. L'indirizzo ha la funzione di fornire l'identikit del mittente e del destinatario (ambedue fittizi per via del ricorso alla pseudepigrafia), di creare una comunicazione empatica tra i due interlocutori e di introdurre proletticamente il contenuto e l'intento della lettera. La fede dei credenti non è tanto ciò che l'autore/redattore della lettera si propone, ma l'orizzonte dell'apostolato della tradizione paolina, il suo punto di partenza. Il messaggio della lettera a Tito non è finalizzato a suscitare la fede, ma ad essere in comunione con la fede che già dimora presso i cristiani di Creta. Compito di Tito è dare alla fede cristiana radici ancor più profonde. La conoscenza della verità e la vita religiosa è un altro orizzonte dell'apostolato di Paolo. L'autore collega intimamente la fede alla verità. Conoscere la verità è il risultato della trasmissione della tradizione e dell'insegnamento degli apostoli. La sequela della verità viene presentata come via di fecondità. L'autore collega la «conoscenza della verità» a una «autentica vita religiosa», mostrando che conoscere la verità della fede non è un fatto puramente intellettuale, ma implica una dimensione profondamente etica. Si pone così l'accento sulla necessità che la fede e la prassi quotidiana coincidano. La fede cristiana si qualifica pertanto in virtù del connubio tra l'elemento dottrinale e la sua espressione etica, che informa il vivere del credente e che lo modella in base a valori validi in quanto garantiti da Dio stesso. La parola eterna di Dio prende corpo nell'annuncio affidato a Paolo, che assume un ruolo centrale e fondante nella vita della Chiesa. La predicazione apostolica realizza le promesse divine e assume un carattere quasi sacramentale di realtà di compimento, di realtà che realizza ciò che annuncia, sull'esempio della predicazione dei profeti dell'AT e del Cristo stesso. Il Verbo eterno continua a incarnarsi e a manifestarsi nell'annuncio cristiano, la cui autorità non proviene dall'uomo ma dal comando di Dio che sceglie di designare l'apostolo per tale servizio. Nella visione della lettera a Tito, pertanto, la rivelazione è strettamente legata al Vangelo di Paolo e al suo annuncio. La predicazione apostolica riceve qui una rilevanza soteriologica e così lo stesso Paolo, che viene “canonizzato” come parte integrante del dinamismo della rivelazione e della storia della salvezza.

Al v, 4 compare finalmente il destinatario (fittizio) della lettera: si tratta di Tito. Il legame tra Paolo e Tito viene qualificato da due aggettivi: «autentico», relativo a «figlio», e «comune», relativo a «fede». Essi, oltre a rivelare il profondo affetto e la piena armonia di Tito con Paolo, manifestano la continuità tra il ministero dell'apostolo e quello del suo successore, legittimando così il ruolo di Tito e offrendo «una dichiarazione “ufficiale” sul successore insediato dall'apostolo e incaricato del proseguimento dell'azione apostolica». L'enfasi sul legame di generazione spirituale che intercorre tra Paolo e Tito, suo collaboratore, è rafforzato dalla constatazione della comunione nella fede. La comunione che unisce Tito a Paolo diviene normativa, ergendosi a criterio che «decide tra ciò che è legittimo e ciò che non lo è, tra chi è “erede” e chi non lo è».

I presbiteri e il vescovo Dopo aver proclamato solennemente l'autorità legittima e indiscussa di Paolo e la credibilità del suo ministero, seguono le istruzioni che Paolo dà a Tito. Le circostanze del soggiorno di Tito sull'isola di Creta fungono da cornice per mettere in scena questa fiction epistolare che si apre con una serie di istruzioni desunte dal genere della «deontologia professionale» tipica dell'etica ellenistica (1,5-9). Segue poi l'identikit dei dissidenti (1,10-16), che rappresentano, insieme alla necessità di stabilire presbiteri in ogni città dell'isola, la preoccupazione pastorale principale della lettera. Poiché mai nel NT si fa riferimento a un'attività missionaria di Paolo a Creta, la scelta dell'isola come luogo fittizio dell'attività di Tito potrebbe esser stata dettata dalla volontà di affidare ai due discepoli di Paolo, Tito e Timoteo, incarichi da svolgere in differenti terre di missione (Creta ed Efeso).

Appare la necessità di ricondurre l'organizzazione della comunità eristiana al discepolo di Paolo e a Paolo stesso, allo scopo di legittimare la sua struttura ecclesiologica. L'interesse maggiore è rivolto all'apostolo e all'episcopo, che rappresentano l'origine dello sviluppo ecclesiologico. Appare in filigrana l'idea della tradizione: Tito deve trasmettere istruzioni che a sua volta ha ricevuto da Paolo. Tito succede a Paolo nella direzione della comunità cristiana di Creta e riceve il testimone dalle mani stesse dell'apostolo. Ora spetta a lui continuare e portare a compimento ciò che Paolo ha impiantato. Questo pone l'accento sulla stima di cui Tito gode agli occhi di Paolo, ma anche sull'enorme responsabilità di assumere in toto la difficile eredità del suo maestro e padre.

Tito dovrà dispiegare tutte le energie del suo ministero continuando l'opera organizzativa intrapresa da Paolo e nominando presbiteri. Il termine «presbitero» (che in greco significa «[più] anziano») nel giudaismo era impiegato per le autorità locali o di tutto il popolo a Gerusalemme. Esso non appare nel corpus paulinum se non nelle Pastorali, dove designa un ufficio e non una classe d'età. La necessità di nominare presbiteri attesta il successo dell'evangelizzazione realizzata da Paolo e l'espansione del fenomeno della cristianizzazione. Il compito affidato a Tito di costituire presbiteri in ogni città risulta impegnativo se si pensa che Creta era detta l'isola «dalle cento città». Secondo la visione tipica della tradizione paolina è l'apostolo che innesca il meccanismo di trasmissione del ministero apostolico su cui si fonda la Chiesa. Di fronte a lui, tutti gli altri ministeri passano in secondo piano.

Inizia in 1,6 il profilo del presbitero e dell'episcopo che mostra numerose affinità con 1Tm 3,1-7 e 5,17-21. I cataloghi che compaiono in questa sezione risentono dello spiccato guSto etico tipico delle liste presenti nella letteratura ellenistica. Poiché per i «presbiteri» si usa il plurale e per l'«episcopo» il singolare, alcuni hanno pensato che la struttura ecclesiale comportasse un presbitero scelto tra i suoi colleghi per fare da «episcopo», cioè da supervisore alla comunità. Ma con ogni probabilità siamo di fronte a una fluttuanza di vocabolario dovuta all'imprecisione degli incarichi; per cui il termine «episcopo» sarebbe un altro titolo del «presbitero» poiché entrambi hanno il compito di presiedere e quello di insegnare.

Una comunità ecclesiale è la Chiesa di Gesù Cristo quando si nutre dell'insegnamento apostolico. Laddove esso è rigettato, vi è eterodossia e auto-espulsione dalla Chiesa. La «parola degna di fede» richiama il v. 3, dove la «parola» della predicazione di Paolo manifesta il progetto salvifico eterno di Dio «che non mente».

La presenza di dissidenti La comunità di Creta non si presenta omogenea, ma è caratterizzata da gruppi eterogenei. È con questa realtà che il responsabile deve fare i conti. Pertanto, alla descrizione delle qualità che aiutano a rimanere nella verità e a promuoverla, segue l'identikit di chi alla verità ha preferito la menzogna. È chiaro qui il riferimento a un gruppo proveniente dal giudaismo (cfr. vv. 10.14) che, per denaro, è disposto a ingannare la gente, ribellandosi a Dio. Questo gruppo, che si caratterizza per il rifiuto della verità e per l'ipocrisia che mostra nell'osservare precetti di purità assai rigorosi, è decisamente condannato: la menzogna è una «gramigna» poiché mira a distruggere intere famiglie. Per ovviare a questo sfacelo il responsabile della comunità deve insegnare il corretto modo di vita cristiana per tutte le categorie di uomini correggendo con fermezza «perché siano saldi nella fede» (v. 13).

I «puri» sono «coloro che confidano nella redenzione a opera di Gesù Cristo, i quali grazie alla sua morte si sentono un popolo di nuova costituzione». La fede in Cristo redentore purifica, l'assenza di fede invece orienta verso stili di vita che danneggiano gli uomini. Si ribadisce qui la bontà della creazione, espressa in modo più esplicito in 1Tm 4,3-4, e il primato della purezza del cuore di chi si conforma all'insegnamento enunciato da Gesù (cfr. Mt 5,8; 15,11.18).

I dissidenti non agiscono in modo conforme alla «sana dottrina» e non adottano un comportamento esemplare. La profonda scollatura tra il dire e il fare rivela la presenza in loro del relativismo etico e di una religiosità “fai da te”, che li rende simili agli idolatri. L'etica (ortoprassi) di cui il responsabile si fa garante all'interno della comunità, appare quindi il criterio per distinguere l'ortodossia dalla eterodossia e la cartina al tornasole di adesione autentica alla fede in Cristo.


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Esortazione accorata a Timoteo 1Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: 2annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento. 3Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, pur di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo i propri capricci, 4rifiutando di dare ascolto alla verità per perdersi dietro alle favole. 5Tu però vigila attentamente, sopporta le sofferenze, compi la tua opera di annunciatore del Vangelo, adempi il tuo ministero.

Congedo di Paolo 6Io infatti sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. 7Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. 8Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione.

La passione di Gesù e la passione di Paolo 9Cerca di venire presto da me, 10perché Dema mi ha abbandonato, avendo preferito le cose di questo mondo, ed è partito per Tessalònica; Crescente è andato in Galazia, Tito in Dalmazia. 11Solo Luca è con me. Prendi con te Marco e portalo, perché mi sarà utile per il ministero. 12Ho inviato Tìchico a Èfeso. 13Venendo, portami il mantello, che ho lasciato a Tròade in casa di Carpo, e i libri, soprattutto le pergamene. 14Alessandro, il fabbro, mi ha procurato molti danni: il Signore gli renderà secondo le sue opere. 15Anche tu guàrdati da lui, perché si è accanito contro la nostra predicazione. 16Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto. 17Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone. 18Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.

Saluti finali 19Saluta Prisca e Aquila e la famiglia di Onesìforo. 20Erasto è rimasto a Corinto; Tròfimo l’ho lasciato ammalato a Mileto. 21Affréttati a venire prima dell’inverno. Ti salutano Eubùlo, Pudènte, Lino, Claudia e tutti i fratelli. 22Il Signore sia con il tuo spirito. La grazia sia con voi!

Approfondimenti

(cf LETTERE A TIMOTEO – Introduzione, traduzione e commento a cura di CARMELO PELLEGRINO © EDIZIONI SAN PAOLO, 2011)

Esortazione accorata a Timoteo L’autore comincia con il rivolgere al destinatario una vera e propria supplica e l’intensità dell’esortazione diventa ancor più evidente dall’incalzare di ben cinque imperativi, a cui faran­ no seguito altri quattro nel v. 5. Timoteo deve anzitutto «annunciare la Parola» (v. 2), come ha fatto il suo maestro (1Tm 1,11). Con il secondo verbo del v. 2 («sii pronto») l’autore esorta il discepolo a non farsi condizionare, nel proclamare le ragioni del Vangelo, da valutazioni di opportunità relative a «tempi» particolari: dovrà esercitare il suo ministero in tempo «opportuno e non opportuno». Segue una tema di imperativi collegati da un nesso logico. Ancora una volta si afferma che Timoteo deve svegliare la coscienza degli ascoltatori, affinché si rendano conto della loro condizione di peccatori («ammonisci»). Anche dopo che essi hanno aperto gli occhi sulla loro miseria, però, Timoteo deve sottoporre alla sua censura di pastore le loro azioni («rimprovera»). Tuttavia, per evitare che si abbattano, è necessario anche che egli li «esorti». Il buon maestro, infatti, non si limita a denunciare l’errore, ma incoraggia l’errante perché trovi fiducia e impari a non sbagliare più. Il concetto viene ulteriormente chiarito dalla specificazione conclusiva «con ogni magnanimità e istruzione». Questo binomio si riferisce a tutti e cinque gli imperativi del v. 2 e significa che Timoteo deve agire sempre con massima carità e verità completa. Al v. 3 si annuncia un «tem­po» (kairós) che sarà funesto per la sana dottrina. Perciò, bisogna cogliere ogni occasione per rendere presenti le ragioni del Vangelo prima che la situazione peggiori, come già rimarcato nel v. 2. L’incedere del discorso induce a considerare la «sana dottrina» (v. 3) come una metonimia indicante i «maestri di sana dottrina», i quali verranno purtroppo scartati a beneficio dei «maestri di favole». In poche e spietate parole, l’autore sta preannunciando anche al suo destinatario l’insuccesso pastorale a cui andrà incontro. Ciò viene descritto nei dettagli nel v. 4: da un lato, gli uomini storneranno l’udito dalla verità, dall’altro «si volgeranno» altrove, cioè in direzione delle «favole», sostantivo peggiorativo indicante la natura falla­ce dell’insegnamento eterodosso. Infine l’autore invita Timoteo alla sobrietà «in tutto» (v. 5): si cal­deggia una vigilanza onnicomprensiva che impedisca di addormentarsi nell’attesa della manifestazione di Cristo (1Ts 5,6-8). È un invito alla temperanza che abbrac­cia ogni aspetto della vita, esprimendo l’equilibrio e l’autocontrollo personale. La seconda ingiunzione non prescrive la mera sopportazione delle sofferenze ma piuttosto la loro accoglienza paziente: Paolo è colui che soffre per Cristo crocifisso-risorto (identico verbo in 2,9; cfr. anche 3,10-11), quindi Timoteo è invitato a condividere la sua tribolazione.

Congedo di Paolo Ancora una volta, a giustificare l’ampio rimando autobiografico, nel v. 6 affiora il motivo del «tempo» (cfr. 3,1; 4,3), a cui si aggiunge il tono estremo dei termini sacrificali qui utilizzati. Paolo sta per lasciare questo mondo: è urgente che Timoteo dia validamente continuità al suo ministero. Questa impellenza fornisce all’autore l’occasione per uno sguardo retrospettivo e per rinfrancare il suo collaboratore facendogli intravedere la ricompensa che spetta a chi serve con fedeltà. La posizione enfatica in cui è posto l’«io» iniziale (v. 6) richiama il «tu» del v. 5. Le tre frasi del v. 7 presentano il completamento in corso delle competizioni. Nel dettaglio, la prima frase riprende l’esortazione a Timo­teo di 1Tm 6,12, in cui il «buon combattimento» da «combattere» (cfr. anche 1Tm 4,10) è quello «della fede». La seconda proposizione esprime questo completamento attraverso il verbo «terminare» giustapposto all’immagine della «corsa», che in At 13,25 indica lo svolgimento di una vita umana e in At 20,24 esprime la conclusione del ministero paolino; ciò che viene sottolineato in 2Tm 4,7 non è ancora la vittoria finale ma il portare sino in fondo il percorso. La terza espressione («ho conservato la fede») si riferisce alla perseveranza di Paolo più che alla oggettiva salvaguardia del messaggio; anche in 1Tm 6,12 la raccomandazione mirava più alla condotta personale di Timoteo che alla sua attività di missionario. La sezione si chiude con un afflato di speranza. Se un alone minaccioso sem­brava accompagnare il «giudizio» in 4,1, tale nube viene diradata in 4,8 da una confortante promessa, espressa ancora una volta con la metafora sportiva. Al termine della sua attività apostolica spetta a Paolo il premio che si addice all’atleta vincitore: la «corona di giustizia» che gli verrà consegnata proprio da quel Signore che verrà a giudicare «in quel giorno». Questa ricompensa verrà tributata anche a tutti coloro che hanno amato «la sua manifestazione»: il tono estremo, definitivo è quindi rafforzato da costanti riferimenti al resoconto finale della parusia.

La passione di Gesù e la passione di Paolo I paralleli con la passione del Signore comin­ciano dalla diserzione generale, verificatasi per Gesù al momento della sua cattura nel Getsemani. La defezione ha assunto proporzioni anche qualitativamente gravi, se è vero che pure uno stretto collaboratore ora lo ha abbandonato. Si tratta di Dema, il quale, essendosi «innamorato» di questo mondo, cioè delle forze contrarie al Vangelo di Cristo, è partito verso la greca Tessalonica (v. 10). È l’allontanamento dei colla­boratori a motivare la richiesta a Timoteo di portare con sé proprio Marco, che nel NT compare come cooperante sia di Pietro che di Paolo (At 12,12.25; 15,37.39; Col 4,10; Fm 24; 1Pt 5,13). Il fatto che l’autore chieda un aiuto «per il mini­stero», unitamente al mantello dimenticato a Troade e ai libri, è stato interpretato come un riferimento a un imminente futuro pastorale dell’Apostolo che, quindi, non sarebbe in procinto di subire il martirio ma di essere rilasciato dalla prigionia e di proiettarsi in nuove imprese missionarie. Non si tratta di argomenti decisivi: la richiesta di Marco indica, in realtà, la persistente premura dell’Apostolo per l’attività missionaria pur essendo consapevolmente vicino al martirio (4,6-8); sulla stessa linea, il recupero di oggetti personali potrebbe indicare l’attenzione a disporre delle proprie povere cose a fini testamentari in prossimità della dipartita. Riprendendo il tema dell’infedeltà introdotto nel v. 10, viene men­ zionato nei vv. 14-15 un certo «Alessandro, il fabbro» al quale l’autore riserva un riferimento molto duro, peraltro proporzionato alla malvagità con cui costui gli si è opposto (ha procurato «molti mali» a Paolo; v. 14). Il contesto generale della lettera induce a identificarlo con un militante anti-paolino di una setta eretica. Nel v. 16, la menzione dell’opposizione a Paolo orienta il discorso verso un ulteriore riferimento alla passione del Signore. Affiora infatti il ricordo della prima difesa dell’Apostolo in tribunale, evocatrice del pro­cesso di Gesù. Paolo coglie l’occasione per ribadire nuovamente il motivo della sua solitudine. «Tutti mi hanno abbandonato» (v. 16; cfr. v. 10), dichiara, denunciando la mancanza di coraggio o di premura da parte dei suoi più vicini cooperatori. Ma, proprio come Gesù, anche Paolo invoca il perdono su chi lo ha danneggiato: «Nei loro confronti, non se ne tenga conto» (v. 16). Paolo non ha paura delle de­fezioni degli amici e delle «opere» malvagie dei nemici, perché è convinto che «da ogni male» (v. 18) lo libererà il Signore, come già avvenuto nella menzionata circostanza giudiziale, in cui scampò il pericolo di morte, qui metaforicamente indicato con la bocca del leone (v. 17). In 4,18 al motivo negativo della salvezza da ogni male fa seguito il motivo positivo della futura entrata nel «regno» celeste di Cristo, peraltro già evocato in 4,1.8. Quest’ultimo riferimento all’eternità beata induce a ritenere che i mali qui scongiurati dall’Apostolo siano soprattutto quelli spirituali dell’infedeltà e dell’apostasia e che egli abbia in vista la liberazione eterna. La dossologia con­ lusiva è la consequenziale espressione di gratitudine e lode nei confronti del suo Salvatore e Liberatore, ricorrente in modo analogo in 1Tm 1,17.

Saluti finali L’ultima brevissima sezione della lettera presenta un duplice riferimento ai saluti, quelli a cui Timoteo deve adempiere (v. 19) e quelli rivoltigli da Paolo (v. 21), per poi chiudersi con due distinte espressioni di commiato (v. 22). I saluti del v. 21 fanno comprendere che Paolo non è solo. Essi sembrano pertanto incongruenti rispetto all’affermazione del v. 11 («solo Luca è con me»). Si tratta però di una contraddizione apparente: Luca è l’unico della ristretta cerchia dei collaboratori a rimanergli accanto, mentre i nomi del v. 21 (tre uomini: Eubulo, Pudente, Lino; una donna: Claudia, nome tipicamente romano) appartengono a membri della locale comunità cristiana, come viene confermato dalla successiva espressione complessiva «e tutti i fratelli». La benedizione conclusiva si divide in due parti, la seconda delle quali è identi­ca all’espressione con cui si chiude 1Timoteo (6,21); nel nostro contesto, però, il riferimento plurale «la grazia sia con voi» è coerente rispetto al gruppo di persone salutate in 4,19. Inconsueta è invece la frase precedente: «Il Signore sia con il tuo spirito» che echeggia in modo sorprendente la scena lucana dell’annunciazione a Maria (Lc 1,28; cfr. anche Gal 6,18; Fil 4,23; Fm 25). Lo scopo dell’autore è quello di assicurare un’ultima volta Timoteo del fatto che il Signore non gli farà mancare l’aiuto necessario per adempiere fedelmente il suo ministero.


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I momenti difficili 1Sappi che negli ultimi tempi verranno momenti difficili.

Catalogo di vizi 2Gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanitosi, orgogliosi, bestemmiatori, ribelli ai genitori, ingrati, empi, 3senza amore, sleali, calunniatori, intemperanti, intrattabili, disumani, 4traditori, sfrontati, accecati dall’orgoglio, amanti del piacere più che di Dio, 5gente che ha una religiosità solo apparente, ma ne disprezza la forza interiore. Guàrdati bene da costoro!

I falsi maestri 6Fra questi vi sono alcuni che entrano nelle case e circuiscono certe donnette cariche di peccati, in balìa di passioni di ogni genere, 7sempre pronte a imparare, ma che non riescono mai a giungere alla conoscenza della verità. 8Sull’esempio di Iannes e di Iambrès che si opposero a Mosè, anche costoro si oppongono alla verità: gente dalla mente corrotta e che non ha dato buona prova nella fede. 9Ma non andranno molto lontano, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti, come lo fu la stoltezza di quei due.

Catalogo di virtù 10Tu invece mi hai seguito da vicino nell’insegnamento, nel modo di vivere, nei progetti, nella fede, nella magnanimità, nella carità, nella pazienza, 11nelle persecuzioni, nelle sofferenze. Quali cose mi accaddero ad Antiòchia, a Icònio e a Listra! Quali persecuzioni ho sofferto! Ma da tutte mi ha liberato il Signore! 12E tutti quelli che vogliono rettamente vivere in Cristo Gesù saranno perseguitati.

I malvagi e gli impostori 13Ma i malvagi e gli impostori andranno sempre di male in peggio, ingannando gli altri e ingannati essi stessi.

L'uomo di Dio 14Tu però rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente. Conosci coloro da cui lo hai appreso 15e conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene mediante la fede in Cristo Gesù. 16Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, 17perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona.

Approfondimenti

(cf LETTERE A TIMOTEO – Introduzione, traduzione e commento a cura di CARMELO PELLEGRINO © EDIZIONI SAN PAOLO, 2011)

I momenti difficili L’espressione «gli ultimi giorni» rimanda di per sé al periodo che precede immediatamente la parusia, la fine dei tempi in cui gli uomini saranno malvagi. Benché il sostantivo «uomini» sia abbastanza generico, l’argomentazione mira alle precisazioni del v. 5, dove è in gioco chiaramente l’attività degli eretici e il problema dell’apostasia. Anche in 2,2 gli «uomini» sono persone a cui viene affidato un incarico di natura ministeriale. Inoltre, sovente i vizi qui preconizzati rappresentano l’opposto di un requisito espressamente indicato dall’autore a pro­ posito dell’episcopo o di altri ministri. Qui, però, si tratta di un futuro relativo, persino coincidente con i tempi attuali per il destinatario della lettera, dal momento che lo stesso Timoteo è esortato a evitare gli empi insorgenti (v. 5) e i verbi che connotano le loro azioni dal v. 6 sono addirittura al presente. Per l’autore, quindi, gli ultimi tempi sono già cominciati e l’allerta è valida sin d’ora. La «difficoltà» di questi tempi è causata dal male oramai diffuso, come viene precisato nel catalogo di vizi.

Catalogo di vizi Questa lista è sconcertante per la sua lunghezza: elencando diciannove vizi è la seconda più numerosa del NT. Contiene diciassette aggettivi e due espressioni conclusive con cui l’autore indica da un lato ciò che questi uomini sono e ciò che invece dovrebbero essere (v. 4c), dall’altro lato ciò che sembrano e ciò che in realtà sono (v. 5ab). Gli avversari ostentano ipocritamente una relazione con Dio che non posseggono, perché in realtà hanno rifiutato la potenza insita nella pietà, cioè la vera forza vitale dello Spirito (2Tm 1,7.8) che opera nella condotta del credente producendo i suoi frutti (Gal 5,22). Da costoro Timoteo si deve guardare, non solo per preservare se stesso ma soprattutto per tener fuori dalla comunità la loro pessima influenza.

I falsi maestri Alcuni del gruppo sopra menzionato in seno alla comunità cristiana, si introducono nelle case di certe «donniccio­le», probabilmente benestanti. Con pretesti di natura spirituale, essi vanno incontro ai desideri peccaminosi – non soltanto di tipo sessuale – di queste, fornendo loro argomentazioni teoriche per sopprimere il senso di colpa legato ai propri comporta­ menti immorali. Le donne in questione appartengono a un particolare gruppo di persone empie: come per le vedove giovani inclini al peccato di 1Tm 5,13, l’atteggiamento delle frivole protagoniste di 2Tm 3,6-7 è descritto in termini di movimento, quindi di inquietudine, agitazione. Sono «mosse» da varie passioni (v. 6b). In un continuo quanto vano apprendimento dai menzionati intrusi, esse tentano di «giungere» (v. 7a) alla conoscenza della verità (cfr. 2,25 e 1Tm 2,4); al contrario, Timoteo sarà invitato a «rimanere» negli inse­gnamenti ormai imparati, grazie a persone autorevoli e alla Scrittura ispirata da Dio (vv. 14-15). Le donnicciole sono per lo più vittime di questi loro maestri, dai quali, in realtà, vengono ingannate nella dottrina, nella condotta e persino nella finanza. Il ritratto di questi “loschi figuri” presenta contatti con quello degli eretici di 1Tm 6,5, i quali considerano la «pietà» come fonte di guadagno; effettivamente, il secondo vizio della lista all’inizio del c. 3 ritraeva proprio gli uomini «attaccati al denaro» (v. 2). In definitiva il richiamo a queste donne risulta funzionale a colpire il vero obiettivo: i falsi maestri. Contrariamente a Timoteo, il quale deve sfor­zarsi di essere un ministro degno di approvazione (2,15), i falsi maestri sono riprovati in materia di fede, bocciati a un ideale esame sostenuto davanti a Dio (3,8), proprio come gli eretici di 1Tm 1,19, che, quanto alla fede, hanno addi­ rittura fatto naufragio. Per il nostro autore, essi si comportano come i maghi del faraone che si opposero a Mosè (cfr. Es 7,8-13), dei quali, però, imiteranno anche l’insuccesso.

Catalogo di virtù Attraverso una lista di nove elementi (vv. 10-1 la) che fa da contrappeso al precedente elenco vizioso (vv. 2-5), Timoteo viene presentato come chi segue integralmente l’esempio paolino, nell’insegnamento come nella condotta di vita. C'è da notare che, dopo aver rimarcato l’adesione del discepolo alla verità (con il riferimento al suo «insegnamento», v. 1Oa), l’autore ne riferisce l’osservanza della carità: infatti, egli afferma che Timoteo lo ha seguito nella «magnanimità» (v. lOc), virtù che nelle Pastorali compare solo in 1Tm 1,16, attribuita a Cristo, e in 2Tm 4,2, con riferimento al buon ministro. Nel noto testo paolino sulla carità compare il verbo corrispondente a questo termine (1Cor 13,4); la magnanimità, quindi, rappresenta una specificazione dell’amore. Non è un caso, perciò, che proprio l’«amore» sia la voce successiva tra quelle enunciate qui, seguita a sua volta dalla «pazienza», anch’essa annoverata come una delle declinazioni dell’amore in 1Cor 13,7. Gli ultimi tre membri dell’elenco virtuoso (la menzionata «pazienza», le «persecuzioni», le «sofferenze») vengono sviluppati nei vv. 11b-12 attraverso un triplice riferimento al campo semantico della persecuzione, applicato alle numerose traversie patite dall’Apostolo. In 1Tm 1,13, dove Paolo, volgendo lo sguardo al suo passato, si era auto-dichiarato «persecutore»; ora è diventato il perseguitato per definizione! L’autore vuole circostanziare questo ricordo, riferendo tre località che furono spettatrici delle tribolazioni paoline: Antiochia, dove l’Apostolo fu costretto a lasciare la città (At 13,50); Iconio, dove rischiò di essere lapidato (At 14,5); Listra, dove invece la lapidazione ai suoi danni fu effettivamente perpetrata (At 14,19). Tali città furono raggiunte durante il primo viaggio missionario di Paolo. Diventano allora pienamente comprensibili sia l’espressione del v. 11b: «quali persecuzioni ho sofferto», che appare come esclamazione separata, una sorta di digressione in forma di dolente riflessione sul passato-

I malvagi e gli impostori Nella spiegazione del nostro autore l’inganno degli impostori appare nella sua spietata verità: esso danneggia anche chi lo produce, estromettendolo dalla salvezza.

L'uomo di Dio Timoteo deve perseverare perché sa bene che le cose che ha appreso provengono da persone affidabili. L’attendibilità del messaggio è indissolubilmente connessa con l’attendibilità di chi lo trasmette (cfr. 1,5; 2,2). Ma chi sono i «maestri» da cui Timoteo ha imparato? In base al contesto immediato e al quadro tracciato all’inizio della lettera, si tratta anzitutto di sua madre e di sua nonna, nonché dello stesso Paolo. Ciò è confermato dalla seconda motivazione, espressa nel v. 15: per Timoteo lasciare la fede apostolica significherebbe abbandonare ciò che gli è stato insegnato sin dall’infanzia sulla base delle sacre Scritture d’Israele. Il carattere ispirato della Scrittura viene espresso come verità pacificamente condivisa. Il vero obiettivo dello scri­vente, però, è persuadere Timoteo dell’aggettivo che segue: la Bibbia è «utile» per l’insegnamento. Per un ministro di Cristo insegnare la verità è un importante compito, di cui qui si scandiscono le tappe principali mediante tre sostantivi, che nella traduzione sono stati resi con dei verbi:

1) «convincere»: colui che viene istruito deve essere anzitutto scosso, svegliato dal torpore dei suoi errori, a livello sia dottrinale sia comportamentale; 2) «correggere»: indica l’opera di paziente raddrizzamento spirituale; 3) «educare»: bisogna quindi disciplinare «nella giustizia», cioè, nella retta condotta (Ef 4,24), ciò che si è recuperato.

Gli empi degli ultimi giorni sono paragonabili agli avversari di Mosè; viceversa, il buon ministro di Cristo sarà completo e ben preparato in ogni opera buona quale autentico «uomo di Dio», espressione che nell’AT è applicata prevalen­temente proprio a Mosè (Dt 33,1; Gs 14,6; Sal 90,1; Esd 3,2; 1Cr 23,14; 2Cr 30,16). Non si tratta pertanto di una parenesi rivolta a tutti i battezzati, ma piuttosto di un’esortazione destinata a chi avrà incarichi di governo all’internodella comunità cristiana.


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Trasmissione e militanza 1E tu, figlio mio, attingi forza dalla grazia che è in Cristo Gesù: 2le cose che hai udito da me davanti a molti testimoni, trasmettile a persone fidate, le quali a loro volta siano in grado di insegnare agli altri. 3Come un buon soldato di Gesù Cristo, soffri insieme con me. 4Nessuno, quando presta servizio militare, si lascia prendere dalle faccende della vita comune, se vuol piacere a colui che lo ha arruolato. 5Anche l’atleta non riceve il premio se non ha lottato secondo le regole. 6Il contadino, che lavora duramente, dev’essere il primo a raccogliere i frutti della terra. 7Cerca di capire quello che dico, e il Signore ti aiuterà a comprendere ogni cosa.

In vista della gloria 8Ricòrdati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide, come io annuncio nel mio Vangelo, 9per il quale soffro fino a portare le catene come un malfattore. Ma la parola di Dio non è incatenata! 10Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna. 11Questa parola è degna di fede: Se moriamo con lui, con lui anche vivremo; 12se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; 13se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso.

I fatti del ministro operoso, le chiacchiere dei falsi maestri 14Richiama alla memoria queste cose, scongiurando davanti a Dio che si evitino le vane discussioni, le quali non giovano a nulla se non alla rovina di chi le ascolta. 15Sfòrzati di presentarti a Dio come una persona degna, un lavoratore che non deve vergognarsi e che dispensa rettamente la parola della verità. 16Evita le chiacchiere vuote e perverse, perché spingono sempre più all’empietà quelli che le fanno; 17la parola di costoro infatti si propagherà come una cancrena. Fra questi vi sono Imeneo e Filèto, 18i quali hanno deviato dalla verità, sostenendo che la risurrezione è già avvenuta e così sconvolgono la fede di alcuni.

Metafore domestiche 19Tuttavia le solide fondamenta gettate da Dio resistono e portano questo sigillo: Il Signore conosce quelli che sono suoi, e ancora: Si allontani dall’iniquità chiunque invoca il nome del Signore. 20In una casa grande però non vi sono soltanto vasi d’oro e d’argento, ma anche di legno e di argilla; alcuni per usi nobili, altri per usi spregevoli. 21Chi si manterrà puro da queste cose, sarà come un vaso nobile, santificato, utile al padrone di casa, pronto per ogni opera buona.

Il servo del Signore 22Sta’ lontano dalle passioni della gioventù; cerca la giustizia, la fede, la carità, la pace, insieme a quelli che invocano il Signore con cuore puro. 23Evita inoltre le discussioni sciocche e da ignoranti, sapendo che provocano litigi. 24Un servo del Signore non deve essere litigioso, ma mite con tutti, capace di insegnare, paziente, 25dolce nel rimproverare quelli che gli si mettono contro, nella speranza che Dio conceda loro di convertirsi, perché riconoscano la verità 26e rientrino in se stessi, liberandosi dal laccio del diavolo, che li tiene prigionieri perché facciano la sua volontà.

Approfondimenti

(cf LETTERE A TIMOTEO – Introduzione, traduzione e commento a cura di CARMELO PELLEGRINO © EDIZIONI SAN PAOLO, 2011)

Trasmissione e militanza I vv. 1-2 rappresentano un chiaro rimando a ciò che precede. L’appello enfatico iniziale («tu dunque», v. 1) trae una conclusione dagli esempi menzionati in 1,15-18: considerando che «tutti quelli dell’Asia» hanno abbandonato e che, nondimeno, vi è chi ha brillato nella fedeltà e nella generosità (Onesiforo), Timoteo viene esortato a farsi forte della grazia di Cristo, l’unica in grado di vincere ogni timidezza e di abilitarlo all’espletamento del ministero, nella sopportazione della sofferenza a esso connessa (v. 3). A questo punto che si inserisce l’invito paolino a esercitare il ministero con fedeltà, affrontando coraggiosamente le conseguenze che ciò comporta, in vista della giusta retribuzione. Tale racco­mandazione viene espressa con tre metafore: il soldato, l’atleta e l’agricoltore (vv. 3b-6), che definiscono il ministro di Cristo. Apparentemente, le tre metafore sono presentate in serie, senza una vera coerenza; a ben guardare, però, esiste un interessante filo logico. In pratica, l’autore ripete per tre volte il medesimo invito centrato sempre sugli stessi riferimenti: bisogna compiere bene il proprio «dovere» in vista della «ricompensa» che verrà tributata. Quanto al dovere da svolgere, l’autore dichiara che il soldato adempirà al proprio rinunciando agli interessi della vita comune, l’atleta sottoponendosi alla rigorosa disciplina agoni­stica, il contadino lavorando duramente; a proposito della remunerazione, invece, il milite anela al compiacimento del suo comandante, lo sportivo punta al premio, l’agricoltore solerte ha diritto per «primo» ai frutti della terra. Proprio quest’ultima specificazione chiarisce bene che qui è in gioco non il mero esercizio di un ufficio, quanto piuttosto l’eccellenza nel suo espletamento. Infatti, Timoteo deve essere un «buon» soldato (cfr. 1Tm 1,18; 6,12) alla stregua di Paolo (cfr. anche 2Tm 4,7), così come il premio spetta a un solo atleta e non ad altri (1Cor 9,24); perciò, il contadino che può rivendicare per «primo» la partecipazione ai frutti è quello che lavora duramente. Piuttosto criptica sembra, infine, la conclusione del v. 7: l’autore invita Timoteo a riflettere su ciò che ha detto sinora, poiché il Signore gli «darà intelligenza per ogni cosa». L’espressione da transizione. Anzitutto, essa allude all’invito a «soffrire insieme» verbalizzato nel v. 3 e spiegato nelle successive imma­gini: l’obbedienza del soldato e dell’atleta, nonché la fatica del contadino traducono in vivaci metafore i patimenti che attendono il ministro fedele, a cui, perciò, tra le righe, viene preannunciata la sofferenza; d’altro canto, l’invito a riflettere espresso nel v. 7 prelude al v. 8, dove viene ricordata la risurrezione di Gesù, evento che fornisce la garanzia della futura ricompensa, anch’essa vagheggiata nei vv. 4-5, la cui menzione, a sua volta, spiana la strada alla formula di fede pasquale di 2,11-13.

In vista della gloria Proprio seguendo la logica della sofferenza-ricompensa i vv. 8-13 si aprono con la cru­ciale menzione della risurrezione di Cristo (v. 8). La menzione combinata di risurrezione e discendenza davidica esprime la qualifica messianica di Gesù. Implicitamente, l’autore sta indicando la solida speranza dei cristiani che patiscono persecuzioni: essi non devono scoraggiarsi perché Dio, avendo risuscitato dai morti Cristo crocifisso, darà la vittoria anche ai suoi servi che patiscono per propagare il «Vangelo». Per questo, subito dopo (v. 9), Paolo afferma letteralmente di soffrire «in lui», postulando cioè un’identificazione tra il suo Vangelo e Cristo (che era stato menzionato poco prima). Ma proprio il fatto di soffrire «in lui», oltre che significare i patimenti subiti a causa dell’annuncio, esprime le mortificazioni che Paolo accetta in unione a Cristo (cfr. Fil 3,10), come verrà esplicitato poco più avanti (2Tm 2,11). La comunione del ministro fedele con il Signore crocifisso ricorda Col 1,24, ove l’Apo­stolo dichiara di completare, con le sofferenze della carne, la propria assimilazione a Cristo a favore della Chiesa. La professione di fede di 2,11-13 si suddivide in quattro stichi. I primi due esprimono le risposte positive di chi si unisce alle sofferenze di Cristo condividendone anche la gloria futura; gli altri due indicano le eventualità negative di chi rifiuta l’assimilazione al Signore.

I fatti del ministro operoso, le chiacchiere dei falsi maestri La risurrezione di Cristo fonda la per­severanza del credente nell’attuale tribolazione e la sua speranza nella gloria futura; Timoteo dovrà addirittura «scongiurare davanti a Dio» (v. 14) i suoi ascoltatori a non scendere al livello degli eretici, cioè a non lasciarsi trascinare nelle loro sterili contese verbali. Sulla linea di 1Tm 1,4; 6,4; Tt 3,9, qui non viene proibita la discussione con i falsi maestri: si ingiunge, piuttosto, di evitare le chiacchiere, ossia le futili diatribe capaci soltanto di ferire ulteriormente la comunione ecclesiale e di alimentare l’orgoglio saccente dei contendenti (1Cor 4,6; 8,1). Questa esortazione con cui l’autore sollecita Timoteo dovrà avere come destinatari anzitutto i ministri preposti alle comunità, cui compete la predicazione: sono soprattutto loro a correre il rischio di avventurarsi nelle dispute, non traendone alcuna utilità, anzi, contribuendo persino alla rovina degli «ascoltatori», cioè dei membri delle comunità. Nel v. 15 affiora l’aspetto positivo del monito: Timoteo dovrà sforzarsi di presentare se stesso a Dio come persona degna di approvazione. Questa prospettiva viene ribadita in 2Tm 2,15: il ministro svolge mansioni sacrali partecipando all’oblazione con la propria vita. Nel profilo del ministro di Cristo, pertanto, si congiungono i tratti del sacerdote e della vittima gradita a Dio. La perseveranza nelle tribolazioni connesse al ministero rappresenta la via concreta in cui si attuerà questa offerta spirituale e si proverà la fedeltà di Timoteo. Ma in cima alle raccomandazioni dell'autore vi è il menzionato divieto di «chiac­chiera», già espresso nel v. 14 e ribadito nel v. 16. I ripetuti riferimenti all’attività del ministero indicano che non si tratta semplicemente di evitare un coinvolgimento personale nelle dispute, ma anche di proibirle all’interno della comunità ecclesiale. Di tale proibizione si spiega anche il motivo, che è duplice. Anzitutto, consentire le futili dispute farebbe «crescere» i loro fruitori nella direzione erronea (v. 16b), quella dell’empietà: infatti, coltivare una dottrina fuorviarne conduce inesorabilmente ad abbracciare anche una condotta di vita difforme dal Vangelo. Inoltre, se Timoteo adottasse un atteggiamento accondiscendente nei confronti dei falsi insegnamenti, se ne avrebbe pure una propagazione incontrollabile, come avviene con una malattia che si contagia facilmente. Paragonando le eresie a una cancrena (v. 17a), l’autore recupera la metafora della salute con cui aveva già contrapposto l’insegnamento sano della tradizione apostolica alle falsità morbose degli oppositori (1Tm 1,10; 6,3; 2Tm 1,13; 4,3; Tt 1,9; 2,1).

Metafore domestiche L’autore riprende anzi­tutto la metafora della casa/famiglia per indicare la Chiesa, come già in 1Tm 3,14-15 dove essa veniva peraltro definita «colonna e sostegno della verità». Lì, l’immagine del «sostegno» alludeva al concetto di Chiesa «fondamento», che viene qui esplicita­to. Come la Parola di Dio non soccombe malgrado le peripezie dei suoi annunciatori, così anche la Chiesa non crolla e resta salda nonostante le chiacchiere eretiche, in quanto essa è posta da Dio. Nei vv. 20-21 la metafora della casa viene saldata a quella dei «vasi», già presente in 2Cor 4,7 con un termine che torna nel nostro brano: «Questo tesoro lo abbiamo in vasi di creta, affinché appaia che questa potenza straordinaria proviene da Dio e non da noi». Lì, il «tesoro» rimanda a Cristo «nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e conoscenza» (Col 2,3), mentre i «vasi di creta» rappresentano la contingente umanità dei ministri, espo­sti di continuo alla morte per tutte le sofferenze che devono affrontare. Proprio in questo fragile contenitore, però, è operante la potenza di Dio. Per questo, l’Apostolo può aggiungere che, se egli porta sempre e ovunque nel suo corpo il morire di Gesù, ciò avviene perché anche la vita di Gesù si manifesti nel suo corpo (2Cor 4,10b); inoltre, aggiunge: «Sempre infatti, pur essendo vivi, noi veniamo esposti alla morte a motivo di Gesù, affinché anche la vita di Gesù sia manifestata nella nostra carne mortale» (2Cor 4,11). Il binomio morte-vita rappresenta un punto di contatto con il Credo formulato in 2Tm 2,11-13, che ha però un’indole escatologica propria. In verità, la metafora dei «vasi», in 2Tm 2,20- 21, pur riferendosi alla stessa realtà, cioè i ministri del Vangelo, viene tuttavia utilizzata in modo originale rispetto a 2Cor 4,7-12. Anzitutto, essa è inserita nella più ampia metafora della casa, il cui vocabolario rimanda ai termini usati in 1Cor 3,10-12: lì Cristo è il «fondamento» posto dall’architetto Paolo, il quale in 1Cor 4,15 si autodefinisce anche «padre» della locale famiglia cri­stiana. Inoltre, alcuni materiali di fabbricazione dei vasi di 2Tm 2,20 vengono menzionati in 1Cor 3,12 in riferimento alla costruzione della comunità di Corinto. È da notare, infine, che mentre in 2Cor 4,7 i «vasi di creta» indicano l’inadeguatezza dei ministri fortificata dalla potenza di Dio, in 2Tm 2,20 esprimono il senso ben più negativo dell’immondezza dei maestri eretici. Il nostro autore oscura intenzionalmente il ruolo domestico pur necessario dei vasi umili; del resto, in buona retorica, la metafora esprime solo una somiglianza o un confronto e non una corrispondenza esatta. Il suo interesse è dunque diverso da quello di 1 Corinzi. Infatti, egli riferisce la grande estensione che ha ormai raggiunto la Chiesa (si tratta di una casa «grande», 2Tm 2,20), indizio che può far pensare alla redazione tardiva del testo. Si tratta, inoltre, di una struttura prospera, dal momento che tale casa può annoverare vasi pregiati. Risulta evidente che, in tal modo, egli intende chiarire il motivo per cui entro i confini ecclesiali possano convivere, secondo un spiegazione evangelica, la zizzania sparpagliata dal nemico e il buon grano seminato dal padrone di casa (Mt 13,24-30). Il nostro autore esprime questa realtà con l’immagine dei due diversi usi dei vasi, che egli ha trovato in Sap 15,7: «Un vasaio impasta con fatica la molle argilla e modella ogni cosa per la nostra utilità. Ma dalla stessa argilla sono plasmati vasi destinati a usi nobili come a uso contrario, tutti allo stesso modo; quale debba essere l’uso di ciascuno di essi, è il vasaio a stabilirlo». Questa immagine è peraltro usata dall’Apostolo in Rm 9,21: «O non ha forse il vasaio piena disponibilità sull’argilla, così da fare della stessa massa argillosa un vaso destinato a un uso onorifico e un vaso destinato a un uso banale?». Tuttavia, il nostro autore non pone l’accento sul progetto del vasaio ma sulla possibilità di riconversione nell’utilizzo del vaso. In altre parole, si dà a intendere che la purificazione può arrivare persino a cambiare il materiale di cui è fatto un vaso. Ci si rivolge implicitamente ai ministri eretici, con un vocabolario affine a quello rituale anticotestamenta­ rio: chi si purificherà dalle sozzure delle eresie e della conseguente condotta immorale sarà come un vaso nobile, cioè santificato e perciò in grado di avvicinarsi a Dio (v. 15), proprio perché si sarà allontanato dall’iniquità. Questa sfumatura rituale può confermare il fatto che si tratti di persone con un particolare ruolo nel culto. Poco dopo, l’invito alla condotta virtuosa indirizzato a Timoteo sarà esteso «a quelli che invocano il Signore con cuore puro» (v. 22; cfr. 1Tm 1,5), allusione al contesto liturgico della preghiera comunitaria e al requisito della fede e dell’in­tegrità necessario per la partecipazione di ciascun battezzato al culto divino. Dichiarando che il vaso, una volta purificato, è finalmente «utile al padrone» di casa, cioè Dio, l’autore dà fondamento alla possibilità di conversione per i falsi maestri. Mondato dai precedenti errori, il ministro sarà infatti «preparato per ogni opera buona», proprio come deve essere «l’uomo di Dio» (2Tm 3,17). Gli insegnamenti deviati, invece, sono paragonabili soltanto ai rifiuti, e persino agli escrementi, qualificando così l’uso dei vasi spregevoli.

Il servo del Signore Questo brano viene introdotto come una logica conseguenza dei vv. 20-21: siccome il ministro deve essere puro da dottrine e condotte deviate, Timoteo deve fuggire le passioni giovanili (v. 22), cioè i desideri sensuali ma anche gli altri vizi tipicamente connessi con l’immaturità giovanile, come l’arroganza che facilmente provoca il morboso coinvolgimento nelle dispute. Lo schema dell’invito rispecchia da vicino quello di 1Tm 6,11 : da un lato bisogna «fuggire» il male, dall’altro occorre «cercare» il bene. Riba­dendo il riferimento ai ministri di Cristo, nei vv. 24-26 il testo offre un profilo del «servo del Signore» che riproduce alcuni dei principali tratti dell’episcopo descritti in 1Tm 3,1-7: egli deve essere capace di insegnare, non litigioso, mite con tutti; analogamente, coloro che hanno defezionato vengono presentati come prigionieri del «laccio del diavolo», proprio come l’episcopo caduto in discredito (1Tm 3,7). L'espressione «servo del Signore» richiama i tratti biblici della figura umile e mansueta del «servo di YHWH» (Is 42,2; 50,6; 53,7) ed esprime le due dimensioni del ministro: egli dovrà rimanere al servizio di Dio, ma come uno a cui il Signore ha conferito particolare autorità. Al «servo del Signore» si contrappongono coloro che si sono sottomessi a un’altra obbedienza, quella che schiavizza e imprigiona. Ognuno ha il padrone che si sceglie. E tuttavia, deve essere rimarcata l’attenzione dell’autore al recupero degli erranti, abbozzata in 1Tm 1,5, emergente nella metafora di 2Tm 2,21 e ora espressa chiaramente in termini di auspicabile realtà.


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Indirizzo e saluto 1Paolo, apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio e secondo la promessa della vita che è in Cristo Gesù, 2a Timòteo, figlio carissimo: grazia, misericordia e pace da parte di Dio Padre e di Cristo Gesù Signore nostro.

Ringraziamento per la fede di Timoteo 3Rendo grazie a Dio che io servo, come i miei antenati, con coscienza pura, ricordandomi di te nelle mie preghiere sempre, notte e giorno. 4Mi tornano alla mente le tue lacrime e sento la nostalgia di rivederti per essere pieno di gioia. 5Mi ricordo infatti della tua schietta fede, che ebbero anche tua nonna Lòide e tua madre Eunìce, e che ora, ne sono certo, è anche in te.

Paolo modello di Timoteo 6Per questo motivo ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mie mani. 7Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza. 8Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo. 9Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo progetto e la sua grazia. Questa ci è stata data in Cristo Gesù fin dall’eternità, 10ma è stata rivelata ora, con la manifestazione del salvatore nostro Cristo Gesù. Egli ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del Vangelo, 11per il quale io sono stato costituito messaggero, apostolo e maestro. 12È questa la causa dei mali che soffro, ma non me ne vergogno: so infatti in chi ho posto la mia fede e sono convinto che egli è capace di custodire fino a quel giorno ciò che mi è stato affidato. 13Prendi come modello i sani insegnamenti che hai udito da me con la fede e l’amore, che sono in Cristo Gesù. 14Custodisci, mediante lo Spirito Santo che abita in noi, il bene prezioso che ti è stato affidato.

Defezioni e collaborazioni 15Tu sai che tutti quelli dell’Asia, tra i quali Fìgelo ed Ermògene, mi hanno abbandonato. 16Il Signore conceda misericordia alla famiglia di Onesìforo, perché egli mi ha più volte confortato e non si è vergognato delle mie catene; 17anzi, venuto a Roma, mi ha cercato con premura, finché non mi ha trovato. 18Gli conceda il Signore di trovare misericordia presso Dio in quel giorno. E quanti servizi egli abbia reso a Èfeso, tu lo sai meglio di me.

Approfondimenti

(cf LETTERE A TIMOTEO – Introduzione, traduzione e commento a cura di CARMELO PELLEGRINO © EDIZIONI SAN PAOLO, 2011)

2 Timoteo presenta alcune peculiarità che la differenziano dalle altre due lettere Pastorali. In generale, risulta preminente la figura di Paolo, quale modello di mar­tire e uomo di preghiera, laddove 1 Timoteo e Tito pongono piuttosto il Vangelo al centro dell'argomentazione. Il c. 1 della lettera offre frequenti riferimenti al c. 4, soprattutto per quanto concerne il tono accorato, segnato dal desiderio paolino di riabbracciare il discepolo e dall’incedere testamentario del discorso.

Indirizzo e saluto La sfumatura più personale di 2 Timoteo si osserva anche nella differenza di aggettivi che qualificano Timoteo: egli è un figlio «vero» per 1Tm 1,1, mentre è un figlio «carissimo» per 2Tm 1,1. Se 1 Timoteo rimarca la «veracità» di Timoteo come importante valore comunitario e istituzionale, 2 Timoteo fa affiorare sin da subito l’affettuoso rapporto tra l’anziano maestro e il giovane discepolo, che emerge anche in Fil 2,22.

Ringraziamento per la fede di Timoteo Questo ringraziamento ha molti punti di contatto con Rm 1,8-11. Paolo rin­grazia Dio (2Tm 1,3) per la fede di Timoteo (2Tm 1,5) che torna alla sua mente durante la preghiera, accompagnata dal grande desiderio di rivederlo. Si traccia sin da subito un primo parallelismo tra Paolo e il suo destinatario: come l’Apostolo serve Dio con coscienza pura sulla scia dei suoi pii antenati, così a Timoteo è rico­nosciuta una fede sincera ereditata da sua nonna Loide e da sua madre Eunice. Lo scopo principale dell’autore è quello di dare un forte incoraggiamento al discepolo, comunicandogli il suo ricordo costante e affettuoso nella preghiera. Per quanto concerne la menzione di nonna Loide e mamma Eunice (v. 5) è da rilevare che il parallelismo con gli antenati ebrei di Paolo autorizza a non dare per scontato che la loro «fede sincera» sia già compiutamente quella cristiana per entrambe. Ciò che la lettera asserisce con chiarezza è che Timoteo è stato formato alla lettura della Sacra Scrittura sin dall’infanzia (2Tm 3,15; doveva trattarsi evidentemente della Bibbia ebraica) per cui quella fede è frutto di educazione familiare che risale almeno alla nonna e ha esplicitamente a che fare con il retroterra giudaico. La lettura di At 16,1-3 per­mette forse di aggiungere alcuni tasselli: Eunice, donna ebrea, era una «credente» cristiana e non un’osservante del giudaismo, poiché era sposata con un pagano – cosa possibile per una battezzata (1Cor 7,13-14) – e non aveva fatto circoncidere il figlio Timoteo, ormai giovanotto quando l’Apostolo lo incontra per la prima volta. Ciò che il nostro brano vuole affermare, quindi, è che sia la fede di Paolo sia quella di Timoteo sono collocate nel solco della tradizione giudaica e nell’alveo dell’educazione familiare. D’altro canto, il fatto che il discepolo venga chiamato dal maestro con l’appellativo di «figlio» (1,2; 2,1) va letto come riferimento alla generazione al ministero, a cui si allude con il ricordo dell’imposizione delle mani di Paolo (v. 6), e non alla fede, che Timoteo ha già ricevuto in casa. Paolo si dice «persuaso» della persistenza di questa fede del discepolo (v. 5): la sua è una certezza morale e non assoluta, a motivo della distanza che ormai separa i due sin dal giorno del loro commiato. Le «lacrime» di Timoteo (v. 4) verosimilmente fanno riferimento proprio a quella struggente circostanza.

Paolo modello di Timoteo Si tratta di un contrappunto praticamente costan­te: Timoteo non dovrà vergognarsi della propria fede (v. 8), come anche Paolo non ne arrossisce (v. 12); il giovane è invitato a prender parte alle sofferenze per il Vangelo (v. 8) insieme all’anziano e sulla sua scia (v. 12); la raccomandazione conclusiva al destinatario riguarda la necessità di custodire il deposito (v. 14) come anche il mittente è convinto di poter fare, in forza di colui a cui ha dato credito (v. 12); sia nel discepolo sia nel maestro, infatti, dimora lo Spirito Santo (vv. 7.14). Sullo sfondo di questo raffronto si staglia l’evento dell’ordinazione di Timoteo (v. 6), durante il quale, per imposizione delle mani di Paolo, è stato conferito a Timoteo uno specifico carisma. In esso opera lo Spirito di Dio che abilita entrambi al ministero. Benché le qualità spirituali notificate nel brano (fede, amore, forza, saggezza) siano applicabili a tutti i cristiani, questo rife­rimento esplicito al rito di ordinazione posto all’inizio e il confronto costante tra i due personaggi ne impone la lettura ministeriale. Si evoca così la buona battaglia del ministero ripetutamente affermata in 1 Timoteo e ripresa in 2Tm 2,3-4; 4,6-8. Questa militanza espone il ministro alla sofferenza, ma lo colloca anche al primo posto (2Tm 2,6) tra coloro che hanno diritto alla remunerazione; analoghe considerazioni affiorano altrove nell’epistolario paolino (1Cor 3,5-9; 9,7-10.25; 1Tm 5,17-18). In Timoteo, quindi, oltre a essere presente la fede trasmessa in famiglia, è attivo anche il dono spirituale elargitogli nell’ordinazione (cfr. 1Tm 4,14). La presupposta vitalità di fede del discepolo (v. 5) costituisce il motivo per cui Paolo lo esorta a ravvivare anche il carisma del ministero (v. 6). Fede e grazia ministeriale appaiono distinte e contigue. Timoteo deve rendere testimonianza a Cristo e a Paolo (v. 8) con profetica franchezza, senza lasciarsi inibire dalla propria giovane età (cfr. 1Tm 4,12) ma fidando nello Spirito Santo. Alla «timidezza» – che presumibilmente connotava Timoteo – l’autore oppone un duplice riferimento alla «forza» divina che dà coraggio (vv. 7-8). Sarà lo Spi­rito a concedergli questa forza e l’amore necessario, temperando al contempo queste qualità con il prudente autocontrollo che aiuta a non eccedere in uno zelo immoderato (v. 7c). Certamente, l’attività del ministero esporrà il discepolo alla sofferenza, come è già avvenuto per Paolo, incarcerato a Roma, ma proprio la potenza divina aiuterà il giovane ministro a patire in comunione con il suo maestro, a vantaggio del Vangelo. La sofferenza ministeriale torna a beneficio del Vangelo, proprio come l’Apostolo in catene dichiara esplicitamente in Fil 1,12-13: «Ora, fratelli, voglio che sappiate che le mie vicende hanno contri­buito piuttosto al progresso del Vangelo, cosicché in tutto il pretorio e ovunque è manifesto che io sono in catene per Cristo». Gli avversa­ri a cui si allude nel brano sono sia esterni alla Chiesa (come quelli che hanno determinato l’arresto dell’Apostolo) sia interni (gli eretici). Pertanto, l’autore suggerisce a Timoteo una sorta di breve compendio dottrinale per il suo annuncio. Circa la condotta personale, Timoteo è invitato a prendere a modello l’insegnamento paolino e le virtù di fede e carità (v. 13) che designano l’esistenza cristiana (1Tm 2,15) e qualificano la conversione dell’Apostolo (1Tm 1,14). Circa la missione, invece, è esortato a custodire il «buon deposito» del Vangelo, con il già menzionato aiuto dello Spirito (v. 7) che dimora nei ministri di Cristo (v. 14). L’autore lo definisce «il mio deposito» (v. 12): si tratta del Vangelo di Paolo, ossia il suo bagaglio di insegnamenti. Dio, che ha preservato il Vangelo mediante l’apostolato paolino, continuerà a custodirlo attraverso Timoteo.

Defezioni e collaborazioni L’autore sembra aprire una parentesi, illustrando i precedenti inviti alla testimonianza coraggiosa e alla difesa del Vangelo con esempi concreti di fedeltà e infedeltà. Si comincia in tono negativo, quasi ad ammonire il destinatario sulla serietà del compito che lo attende, mettendogli davanti il cedimento di altri che, come lui, hanno posto mano all’aratro. Ricorrendo ancora una volta al confronto, l’autore oppone alla condotta negativa degli asiatici l’esempio ammirevole di Onesiforo e della sua famiglia. Onesiforo è stato di grande aiuto a Paolo, sia per le numerose volte in cui ha «ristorato» l’Apostolo, sia per i benefìci materiali con cui lo ha sostenuto. Il fatto che egli non si sia «vergognato» delle catene di Paolo rappresenta implicitamente un invito all’emulazione rivolto a Timoteo, alla cui timidezza l’autore ha precedentemente alluso (vv. 6-8). Mentre Onesiforo era a Roma, ha cercato insistentemente l’Apostolo, ritenendo a ragione che egli fosse rintracciabile da qualche parte nella capitale dell’impero. Evocando invece il servizio di Onesiforo a Efeso, l’autore fa intendere che costui fosse nativo proprio di quell’importante centro asiatico, dove offrì numerosi servigi alla Chiesa. Operando anch’egli a Efeso (1Tm 1,3), Timoteo conosce perfettamente la reputazione guadagnatasi da questo generoso cristiano del luogo.


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Esortazioni agli schiavi 1Quelli che si trovano sotto il giogo della schiavitù, stimino i loro padroni degni di ogni rispetto, perché non vengano bestemmiati il nome di Dio e la dottrina. 2Quelli invece che hanno padroni credenti, non manchino loro di riguardo, perché sono fratelli, ma li servano ancora meglio, proprio perché quelli che ricevono i loro servizi sono credenti e amati da Dio. Questo devi insegnare e raccomandare.

I falsi maestri 3Se qualcuno insegna diversamente e non segue le sane parole del Signore nostro Gesù Cristo e la dottrina conforme alla vera religiosità, 4è accecato dall’orgoglio, non comprende nulla ed è un maniaco di questioni oziose e discussioni inutili. Da ciò nascono le invidie, i litigi, le maldicenze, i sospetti cattivi, 5i conflitti di uomini corrotti nella mente e privi della verità, che considerano la religione come fonte di guadagno. 6Certo, la religione è un grande guadagno, purché sappiamo accontentarci! 7Infatti non abbiamo portato nulla nel mondo e nulla possiamo portare via. 8Quando dunque abbiamo di che mangiare e di che coprirci, accontentiamoci. 9Quelli invece che vogliono arricchirsi, cadono nella tentazione, nell’inganno di molti desideri insensati e dannosi, che fanno affogare gli uomini nella rovina e nella perdizione. 10L’avidità del denaro infatti è la radice di tutti i mali; presi da questo desiderio, alcuni hanno deviato dalla fede e si sono procurati molti tormenti.

L’uomo di Dio 11Ma tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. 12Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni. 13Davanti a Dio, che dà vita a tutte le cose, e a Gesù Cristo, che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato, 14ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo, 15che al tempo stabilito sarà a noi mostrata da Dio, il beato e unico Sovrano, il Re dei re e Signore dei signori, 16il solo che possiede l’immortalità e abita una luce inaccessibile: nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo. A lui onore e potenza per sempre. Amen.

Il ministro e i ricchi appartenenti alla casa di Dio 17A quelli che sono ricchi in questo mondo ordina di non essere orgogliosi, di non porre la speranza nell’instabilità delle ricchezze, ma in Dio, che tutto ci dà con abbondanza perché possiamo goderne. 18Facciano del bene, si arricchiscano di opere buone, siano pronti a dare e a condividere: 19così si metteranno da parte un buon capitale per il futuro, per acquistarsi la vita vera.

Esortazione conclusiva 20O Timòteo, custodisci ciò che ti è stato affidato; evita le chiacchiere vuote e perverse e le obiezioni della falsa scienza. 21Taluni, per averla seguita, hanno deviato dalla fede. La grazia sia con voi!

Approfondimenti

(cf LETTERE A TIMOTEO – Introduzione, traduzione e commento a cura di CARMELO PELLEGRINO © EDIZIONI SAN PAOLO, 2011)

Esortazioni agli schiavi L’autore presenta due ingiunzioni parallele: agli schiavi in generale (6,1) e poi, in particolare, a quelli che hanno padroni cristiani (6,2), ma in entrambe l’indicazione è proprio quella di rendere ai padroni l’onore appro­priato.

I falsi maestri Sono tre le principali accuse che vengono mosse a chi propu­gna il falso insegnamento: orgoglio, ignoranza e faziosità. L’eretico è presentato anzitutto come un pallone gonfiato (6,4; cfr. 1Cor 4,6-18.19), la cui accecante superbia ricorda quella dei maestri saccenti che avevano causato divisioni nella comunità di Corinto. La seconda accusa (6,4) evidenzia una contraddizione nel comportamento: il falso maestro non sa proprio nulla, eppure si avventura in questioni oziose e in vere e proprie battaglie verbali con altri; ricorda, perciò, i sedicenti dottori della Legge di 1,6-7 che non capiscono quello che dicono né ciò di cui sono tanto sicuri. Per indicare l’ultima delle tre distorsioni, l’autore recupera la metafora della salute (6,4; cfr. 1,10): rifiutando le «sane» parole del Signore Gesù l’eretico «è malato» di vaniloquio e cade in sterili contese.

L’uomo di Dio Dopo aver proferito la censura ai falsi maestri, l’autore passa a esortare Timoteo. Con il primo imperativo si ingiunge a Timoteo di evitare «le cose» cattive appena menzionate. Con altri tre comandi gli si prescrive una linea di condotta. Il primo di questi tre ulteriori imperativi riguarda il perseguimento di sei qualità morali (6,11). Sono diversi i modi in cui si potrebbero leggere, ma è preferibile vederli come binomi: la «giustizia» rimanda al concetto di «pietà», la fede va in coppia con l'amore (cfr. 1,5), di cui la pazienza e la mitezza rappresentano degli aspetti particolari (cfr. 2Tm 2,25; 3,10; Tt 3,2). Con il secondo imperativo si esorta al buon combattimento della fede (6,12a), mentre con il terzo al perseguimento della vita eterna (6,12b). C’è una connotazione ministeriale: l’autore applica a Timoteo il sintagma «uomo di Dio» (6,11) che nell’AT qualificava diversi perso­naggi, per lo più leader del popolo e profeti; frequentemente veniva applicato a Mosè. Questa espressione tornerà in 2Tm 3,17. In 6,15-16 il discorso confluisce in una dossologia contenente sette frasi che designano Dio. Alcuni titoli e qualifiche che affiorano qui gli sono stati già riferititi nel c. 1, soprattutto nella dossologia di 1,17 («Re», «unico», «eterno», «invisibile»; cfr. anche «beato» in 1,11). Si rafforza così l’in­clusione tra inizio e fine della lettera. Invece, il titolo «Signore» è attribuito a Dio solo in 6,15, mentre in 1,2 era applicato a Cristo; analogamente i titoli «Re dei re» e «Signore dei signori» sono riferiti qui a Dio, ma altrove (Ap 17,14 e 19,16) descrivono Cristo. Alcuni di questi titoli venivano attribuiti agli imperatori e a figure eroiche; menzionando l’immortalità, però, l’autore chiarisce la differenza assoluta che sussiste tra i dominatori terreni e l’unico Sovrano eterno, definito già in 1,17 «incorruttibile». Nell’AT la «luce inaccessibile» indica la sfera del divino (Es 33,17-23); le teofanie e le epifanie bibliche sono sovente accompagnate da fulgore splendido e fenomeni simili. Pure nel NT Dio è definito «luce» senza tenebre (1Gv 1,7). L’impossibilità umana di vedere Dio, fortemente enfatizzata in 1Tm 6,16 con ben due espressioni, è concetto tipicamente biblico (Es 33,20; Gv 1,18), peraltro già enunciato in 1,17. La dossologia del c. 1 è evocata anche dall’attribuzione a Dio dell’«onore», per la sua estensione eterna e per la chiosa di sapore liturgico (cfr. 2Tm 4,18); in 6,16, però, il secondo termine non è «gloria» (come in 1,17) bensì «potenza».

Il ministro e i ricchi appartenenti alla casa di Dio Il riferimento all’attaccamento al denaro dei ministri eretici (6,5b-10) induce l’autore a fornire alcune istruzioni ai ricchi che fanno parte della «casa di Dio». L’autore si è accorto che, nel descrivere il peccato dei falsi maestri, ha enfatizzato l’aspetto negativo della ricchezza. Ritiene quindi di doverne precisare l’uso buono, a cui aveva alluso evocando il valore del sapersi accontentare con semplicità di spirito (6,6). Il discorso si allarga, pertanto, a tutti i membri delle comunità. È evidente che tra i cristiani dei primordi non dovevano mancare indi­vidui facoltosi. La brevità dell’istruzione suggerisce che queste indicazioni siano già note, per cui all’autore basta richiamarle in termini generali. La ricchezza come tale non viene messa in discussione, né si pone la questione del motivo per cui, nel mondo, alcune persone siano ricche e altre povere. Piuttosto, dopo aver bollato l’attaccamento al denaro come la «radice di tutti i mali» (6,10), si esorta il ministro a rammentare ai cristiani benestanti di essere pronti a dare (6,18). Nello sviluppo del pensiero cristiano, questa verrà identificata come la funzione sociale della proprietà. Anche in tal caso, non si tratta di sovvertire realtà in sé legittime e anzi naturali, ma di umanizzarle ed emendarle da elementi corruttivi. Per chi si affida a Lui, il Signore non dà solo il necessario, ma elargisce in sovrappiù, sia per la terra sia per il cielo. Chi spera in Lui, oltre a beneficiare della sopravvivenza, sperimenta la gioia di usufruire «con abbondanza» dei beni terreni (6,17) e ottiene l’acquisto della vita eterna (6,19). All’orizzonte si stagliano due distorsioni già incontrate nella lettera: da un lato, l’ascetismo che vorrebbe vietare il godimento dei doni di Dio (4,3-5); dall’altro, l’uso immorale dei beni, radicato nell’autosufficienza cattiva che esclude Dio e nella smania da accumulo (6,3-10). A tali deviazioni l’autore oppone il modello positivo: il cristiano facol­toso si impegnerà a condividere generosamente i propri beni, abbondando a sua volta in opere buone.

Esortazione conclusiva Questa esortazione completa l’inclusione con il c. 1 e sintetizza le ingiunzioni, positive e negative, formulate dall’autore nell’intero corpo della lettera. Della sezione 1,18-20 si evoca anche il problema generale del combattimento della fede a favore della verità e a impedimento delle eresie, il «deposito» che Ti­moteo deve custodire è, infatti, ciò che gli è stato affidato, ossia il Vangelo, l’intera predicazione apostolica nella sua autenticità. Rispetto a 1,18, qui viene aggiunta la sfumatura dell’invito alla perseveranza, come è da attendersi nelle fasi conclusive di uno scritto. La conclusione dello scritto è breve e priva di saluti o messaggi da o per de­ terminate persone, come avviene invece negli altri testi paolini, a eccezione della lettera ai Galati dove però tale assenza è motivata dal contesto polemico.


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1Non rimproverare duramente un anziano, ma esortalo come fosse tuo padre, i più giovani come fratelli, 2le donne anziane come madri e le più giovani come sorelle, in tutta purezza. 3Onora le vedove, quelle che sono veramente vedove; 4ma se una vedova ha figli o nipoti, essi imparino prima ad adempiere i loro doveri verso quelli della propria famiglia e a contraccambiare i loro genitori: questa infatti è cosa gradita a Dio. 5Colei che è veramente vedova ed è rimasta sola, ha messo la speranza in Dio e si consacra all’orazione e alla preghiera giorno e notte; 6al contrario, quella che si abbandona ai piaceri, anche se vive, è già morta. 7Raccomanda queste cose, perché siano irreprensibili. 8Se poi qualcuno non si prende cura dei suoi cari, soprattutto di quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele. 9Una vedova sia iscritta nel catalogo delle vedove quando abbia non meno di sessant’anni, sia moglie di un solo uomo, 10sia conosciuta per le sue opere buone: abbia cioè allevato figli, praticato l’ospitalità, lavato i piedi ai santi, sia venuta in soccorso agli afflitti, abbia esercitato ogni opera di bene. 11Le vedove più giovani non accettarle, perché, quando vogliono sposarsi di nuovo, abbandonano Cristo 12e si attirano così un giudizio di condanna, perché infedeli al loro primo impegno. 13Inoltre, non avendo nulla da fare, si abituano a girare qua e là per le case e sono non soltanto oziose, ma pettegole e curiose, parlando di ciò che non conviene. 14Desidero quindi che le più giovani si risposino, abbiano figli, governino la loro casa, per non dare ai vostri avversari alcun motivo di biasimo. 15Alcune infatti si sono già perse dietro a Satana. 16Se qualche donna credente ha con sé delle vedove, provveda lei a loro, e il peso non ricada sulla Chiesa, perché questa possa venire incontro a quelle che sono veramente vedove. 17I presbìteri che esercitano bene la presidenza siano considerati meritevoli di un duplice riconoscimento, soprattutto quelli che si affaticano nella predicazione e nell’insegnamento. 18Dice infatti la Scrittura: Non metterai la museruola al bue che trebbia, e: Chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. 19Non accettare accuse contro un presbìtero se non vi sono due o tre testimoni. 20Quelli poi che risultano colpevoli, rimproverali alla presenza di tutti, perché anche gli altri abbiano timore. 21Ti scongiuro davanti a Dio, a Cristo Gesù e agli angeli eletti, di osservare queste norme con imparzialità e di non fare mai nulla per favorire qualcuno. 22Non aver fretta di imporre le mani ad alcuno, per non farti complice dei peccati altrui. Consèrvati puro! 23Non bere soltanto acqua, ma bevi un po’ di vino, a causa dello stomaco e dei tuoi frequenti disturbi. 24I peccati di alcuni si manifestano prima del giudizio, e di altri dopo; 25così anche le opere buone vengono alla luce, e quelle che non lo sono non possono rimanere nascoste.


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Gli inganni degli eretici e indicazioni per il buon ministro 1Lo Spirito dice apertamente che negli ultimi tempi alcuni si allontaneranno dalla fede, dando retta a spiriti ingannatori e a dottrine diaboliche, 2a causa dell’ipocrisia di impostori, già bollati a fuoco nella loro coscienza: 3gente che vieta il matrimonio e impone di astenersi da alcuni cibi, che Dio ha creato perché i fedeli, e quanti conoscono la verità, li mangino rendendo grazie. 4Infatti ogni creazione di Dio è buona e nulla va rifiutato, se lo si prende con animo grato, 5perché esso viene reso santo dalla parola di Dio e dalla preghiera. 6Proponendo queste cose ai fratelli, sarai un buon ministro di Cristo Gesù, nutrito dalle parole della fede e della buona dottrina che hai seguito. 7Evita invece le favole profane, roba da vecchie donnicciole.

L'allenamento nella vera fede Allénati nella vera fede, 8perché l’esercizio fisico è utile a poco, mentre la vera fede è utile a tutto, portando con sé la promessa della vita presente e di quella futura. 9Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti. 10Per questo infatti noi ci affatichiamo e combattiamo, perché abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente, che è il salvatore di tutti gli uomini, ma soprattutto di quelli che credono. 11E tu prescrivi queste cose e inségnale.

Diventare esempio ai fedeli 12Nessuno disprezzi la tua giovane età, ma sii di esempio ai fedeli nel parlare, nel comportamento, nella carità, nella fede, nella purezza. 13In attesa del mio arrivo, dèdicati alla lettura, all’esortazione e all’insegnamento. 14Non trascurare il dono che è in te e che ti è stato conferito, mediante una parola profetica, con l’imposizione delle mani da parte dei presbìteri. 15Abbi cura di queste cose, dèdicati ad esse interamente, perché tutti vedano il tuo progresso. 16Vigila su te stesso e sul tuo insegnamento e sii perseverante: così facendo, salverai te stesso e quelli che ti ascoltano.

Approfondimenti

(cf LETTERE A TIMOTEO – Introduzione, traduzione e commento a cura di CARMELO PELLEGRINO © EDIZIONI SAN PAOLO, 2011)

Gli inganni degli eretici e indicazioni per il buon ministro Si presenta subito una duplice contrapposizione interna:

a) tra lo Spirito Santo, da cui promana la profezia, e gli «spiriti» ingannatori (4,1); b) tra le azioni suggerite da questi spiriti che sono «menzogneri» e quelle di coloro che conoscono la «verità» (4,3).

La profezia sembra evocare le parole di Gesù (Mt 24,10; Mc 4,17; 13,21-23), ma non fa direttamente riferimento al suo insegnamento. L’annunciatore di essa forse è proprio Paolo, sulla scia di quanto narrato in At 20,29-31, o qualcun altro dei profeti cristiani, il cui ruolo era assai rilevante nelle comunità dei primordi. In Ef 3,1-5 si asserisce che il «mistero» di Cristo è stato ora rivelato «per mezzo dello Spirito» proprio agli apostoli e ai profeti, considerati il fondamento della Chiesa (Ef 2,20). Ciò che soprattutto conta in 1Tm 4,1 è che la profezia, pur guardando al futuro, sembra già pienamente attiva nell’oggi di chi scrive. Già in 1,3b-4a, l’autore aveva presentato gli artefici e le vittime dell’in­segnamento falso; inoltre, in 1,5 aveva rimarcato che l’obiettivo della carità può essere raggiunto attraverso una fede «sincera», «non ipocrita». Proprio la menzo­gna e l’ipocrisia caratterizzano nuovamente gli eretici in 4,1-3: il loro eloquio ha una parvenza di verità ma, in realtà, è in profonda contraddizione con essa (4,3); la loro condotta è quella di chi ha ormai anestetizzato la coscienza. Come in 2,14 (cfr. 3,6), anche qui l'origine dell’inganno è diabolica. Già in 2Cor 11,14 Paolo mette in guardia dal diavolo, cioè da colui che è capace di mascherarsi da «angelo di luce», qualificato in Gv 8,44 come il «padre della menzogna». Nel v. 3 si precisa il contenuto degli insegnamenti deviati: l’astensione dal matrimonio e, quindi, da ogni attività sessuale, oltre che da alcuni cibi. Per sostenere il suo pensiero, in 4,3 l’autore evoca il libro della Genesi, laddove si afferma che il cibo è stato creato per il nutrimento dell’uomo (Gen 1,29; 2,9.16; 3,2; 9,3; cfr. anche Dt 26,11). Le ricorrenti allusioni alla Genesi si spiegano anche per l’uso strumentale che gli eretici ne facevano (cfr. 1,4; 2,15). Diversamente da quanto essi insegnano, a Dio piace la partecipazione dei credenti al cibo che Egli stesso ha procu­rato, venendo così incontro alle loro esigenze. Il soddisfacimento di tali esigenze deve poi generare il loro rendimento di grazie, che attinge certamente alla pratica giudaica di ringraziare Dio al momento dei pasti (cfr. anche Rm 14,6; 1Cor 10,16.30). I cibi possono essere quindi consumati perché sono stati creati da Dio. Ma un’ulteriore motivazione affiora in 4,5: nessun cibo è impuro, e quindi nessun cibo è da rigettarsi, perché esso è santificato e reso commestibile dalla parola di Dio e dalla preghiera. II brano si conclude con una duplice esortazione: in senso positivo, si invita Timoteo a proporre i corretti insegnamenti sul matrimonio e sui cibi ai «fratelli» (4,6), cioè ai membri della Chiesa minacciati dall’eresia; in prospettiva negativa, invece, gli si ingiunge di rigettare le dottrine degli oppositori (4,7a; cfr. già 4,1). Ciò renderà manifesto che Timoteo è un «buon» servo di Cristo Gesù, cioè nutrito del «buon» insegnamento, qui qualificato con due espressioni sinonimiche che fanno riferimento alla sua permanente formazione spirituale (4,6b). La bontà del ministro di Cristo, pertanto, è misurata dalla bontà di ciò che egli continuamente impara e insegna. La sua «buona dottrina» richiama il «buon deposito» (2Tm 1,14) e si contrappone all’insegnamento cattivo. La conclusione del brano è un invito a Timoteo perché non perda il suo tempo in sciocchezze, per dedicarsi invece a ciò che merita applicazione.

L'allenamento nella vera fede Ciò a cui Timoteo deve piuttosto applicarsi è la “pietà”. Si entra così in un secon­do brano, incentrato sulla metafora dell’esercizio fisico, che succede alla metafora del nutrimento (4,6). Il fatto che la salvezza sia un dono non esclude, anzi implica, lo sforzo spirituale: al dono segue il compi­to di dedicarsi alla fede e alla morale. L’autore spiega l’esortazione all’allenamento spirituale con un’espressione proverbiale: siccome «l’esercizio fisico è utile a poco», occorre piuttosto dedicarsi a ciò che è utile a tutto, cioè alla condotta virtuosa. Non si tratta di mettere in pratica particolari misure ascetiche – il cui uso eterodosso è stato seccamente rigettato in 4,3 – ma di impegnarsi nella conoscenza del Vangelo e nel comportamento conseguente, controllando le proprie tendenze cattive. Questa disciplina porta con sé la salvezza, per cui essa è utile «a tutto», cioè all’intero snodarsi della «vita» cristiana, sia presente che futura: Dio è il «vivente» (4,10), per cui è in grado di offrire garanzie sulla vera «vita», già su questa terra e per l’eternità. Tale convinzione motiva l’impegno generoso dei ministri. In 4,10, il binomio di verbi «combattere» e «affaticarsi», presente anche in Col 1,29, reitera la metafora atletica inaugurata in 4,7b ed evidenzia la sfumatura missionaria e universale del brano: l’autore intende incoraggiare Timoteo e i leader delle comunità a lavorare con zelo perché il Dio della loro speranza è colui che vuole tutti salvi. Tuttavia, solo quelli che crederanno saranno effettivamente salvati; pertanto, è necessaria l’assidua fatica dei ministri, strumento attraverso cui essi svolgono la funzione di santificazione dei fedeli, conducendoli alla salvezza.

Diventare esempio ai fedeli Timoteo deve governare, santificare e istruire i membri della Chiesa benché la sua gio­ vaneetà, certamente inferiore ai quarant’anni, potrebbe screditarlo dinanzi agli altri fedeli. È una situazione inconsueta e divergente rispetto alle buone norme dei tempi, in cui non era contemplato che persone giovani potessero esercitare autorità su anziani. Tale istantanea sembra cogliere il momento in cui, nella Chiesa dei primordi, il sistema degli «anziani» stava per essere rimpiazzato dal sistema episcopale e il riconoscimento di autorità basato sull’età veniva progressivamente sostituito da quello radicato nella scelta di matrice apostolica. Nel giovane Timoteo, l’adempimento di questo imbarazzante compito avreb­be potuto provocare riluttanza; d’altro canto, tra i fedeli si sarebbero potute avere reazioni di disprezzo e derisione. Per questo, il nostro autore incoraggia l’uno e, implicitamente, ammonisce gli altri. Qualcosa di analogo si riscontra in 1 Corinzi, laddove Paolo invita i cristiani di Corinto a non mancare di riguardo a Timoteo (16,10-11). Qui però l’incoraggiamento a non lasciarsi intimidire è ac­compagnato dall’invito a guadagnarsi la stima dei fedeli attraverso l’esempio.

Le principali virtù che l’autore ha finora caldeggiato tornano in questa esor­tazione: anzitutto, Timoteo dovrà esercitare la «carità», che sovente compare quale primario riferimento di condotta, in connessione con la «fede» (cfr. 1,5). La vera novità di questo brano è l’invito alla «purezza», qui elemento di raccordo e di sintesi tra la «carità» e la «fede», che rende Timoteo causa di «santificazione», specialmente per l’esemplarità della condotta casta. Un’ana­loga indicazione tornerà in 5,2, in riferimento al comportamento da adottare con le donne «più giovani», e in 5,22, sempre sotto forma di invito rivolto a Timoteo. Il requisito della «purezza» lascia intravedere un collegamento tra il ministro di Cristo e le figure sacerdotali dell’AT. La purezza rituale era una via maestra attraverso cui il levita custodiva se stesso nell’appartenenza a Dio. I ministri di Cristo non riproducono la separazione giudaica, che allontanava i sacerdoti dal popolo, per farli essere esclusivamente proprietà di Dio, poiché essi sono vicini alle membra del corpo di Cristo. Tuttavia, i frequenti riferi­menti alla purezza ribadiscono l’importanza di custodirsi da contaminazioni morali, cristianizzando il concetto anticotestamentario di sacerdozio. Ciò che nell’AT era soprattutto purezza rituale esteriore, in 1 Timoteo diventa pulizia interiore, morale, distanza dalle macchie peccaminose di impurità che sovente Paolo elenca e denuncia.

Timoteo viene invitato dall’au­tore alla lettura, all’esortazione e all’insegnamento «fino al mio arrivo» (4,13). Dall’espressione si deduce che proprio queste sarebbero state le attività a cui si sarebbe dedicato Paolo se fosse stato presente; inoltre, si sottintende la persistenza dell’autorità paolina anche in mancanza dell’Apostolo. Il riferimento è, anzitutto, alla «lettura» pubblica della Legge e dei Profeti (At 13,15; 2Cor 3,14), mutuata dalla sinagoga; ma pure le lettere di Paolo e gli scritti apostolici dovevano già rientrare tra i testi letti in assemblea (1Ts 5,27; Col 4,16; cfr. Ap 1,3). Con questo invito l’autore caldeggia la fruizione regolare dei testi, più che l’abilità nel maneggiarli. Proprio tale fruizione, da parte di Timoteo, costituisce la base per le altre due attività (cfr. Rm 12,7), riguardanti rispettiva­ mente la condotta morale e la retta fede. Infatti, l’autore raccomanda la pubblica «esortazione», che ha di mira lo stile di vita degli ascoltatori: con l’esposizione dei testi, i destinatari del ministero di Timoteo potranno richiamare alla memoria i comandamenti divini e saranno da lui incoraggiati alla loro osservanza. Inoltre, l’autore raccomanda al discepolo l’«insegnamento», cioè la diffusione della sana dottrina, con cui egli si opporrà alle falsità degli eretici.

Il dono che Timoteo non dovrà trascurare (4,14) ha a che fare con l’azione dello Spirito Santo, concesso a tutti i credenti (Tt 3,5), ma particolar­mente attivo nel ministro proprio tramite uno specifico carisma (2Tm 1,6-7.14), funzionale alla sua missione. Il conferimento di tale dono è associato con una particolare circostanza pub­blica, quella che verrà codificata nel rito di ordinazione, qui caratterizzata da due attività: anzitutto, una parola profetica che ha indicato in Timoteo il destinatario di tale dono (cfr. 1,18); quindi, l’imposizione delle mani, con cui nell’AT si accompagnava la trasmissione dell’autorità o l’elargizione di benedizioni e guarigioni (Nm 27,18-23; Dt 34,9). Anche nel NT questo gesto indica una be­nedizione (Mc 10,16), accompagna l’atto di guarire qualcuno (Mc 5,23; 6,5) o il conferimento di autorità in vista di una missione (At 6,6; 13,3); viene usato, inoltre, per comunicare il dono dello Spirito (At 8,17-19; 19,6). In 1Tm 4,13 l’azione fisica va intesa come semplice occasione esteriore esprimente l’azione interiore compiuta da Dio; più stringente ed essenziale sembra essere il senso strumentale dell’azione di Paolo, indicata nel brano di 2 Timoteo.

Al termine, l’autore rimarca la necessità di ren­dere visibile a tutti il proprio «progresso» spirituale e aumentare l’effetto positivo della propria influenza pastorale. Per ottenere questo obiettivo, però, sarà anche necessario vigilare su se stessi e sul proprio insegnamento, sforzandosi di perse­verare nell’osservanza delle cose caldeggiate dall’Apostolo. Solo così Timoteo raggiungerà lo scopo ultimo del suo ministero: la salvezza per sé (2,15; cfr. Fil 2,12) e per gli altri: la negligenza pasto­rale di Timoteo potrà infatti causare la perdizione sua e di coloro ai quali egli è stato mandato!


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Il vescovo 1Questa parola è degna di fede: se uno aspira all’episcopato, desidera un nobile lavoro. 2Bisogna dunque che il vescovo sia irreprensibile, marito di una sola donna, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, 3non dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro. 4Sappia guidare bene la propria famiglia e abbia figli sottomessi e rispettosi, 5perché, se uno non sa guidare la propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio? 6Inoltre non sia un convertito da poco tempo, perché, accecato dall’orgoglio, non cada nella stessa condanna del diavolo. 7È necessario che egli goda buona stima presso quelli che sono fuori della comunità, per non cadere in discredito e nelle insidie del demonio.

I diaconi 8Allo stesso modo i diaconi siano persone degne e sincere nel parlare, moderati nell’uso del vino e non avidi di guadagni disonesti, 9e conservino il mistero della fede in una coscienza pura. 10Perciò siano prima sottoposti a una prova e poi, se trovati irreprensibili, siano ammessi al loro servizio. 11Allo stesso modo le donne siano persone degne, non maldicenti, sobrie, fedeli in tutto. 12I diaconi siano mariti di una sola donna e capaci di guidare bene i figli e le proprie famiglie. 13Coloro infatti che avranno esercitato bene il loro ministero, si acquisteranno un grado degno di onore e un grande coraggio nella fede in Cristo Gesù.

Come comportarsi nella casa di Dio 14Ti scrivo tutto questo nella speranza di venire presto da te; 15ma se dovessi tardare, voglio che tu sappia come comportarti nella casa di Dio, che è la Chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della verità. 16Non vi è alcun dubbio che grande è il mistero della vera religiosità: egli fu manifestato in carne umana e riconosciuto giusto nello Spirito, fu visto dagli angeli e annunciato fra le genti, fu creduto nel mondo ed elevato nella gloria.

Approfondimenti

(cf LETTERE A TIMOTEO – Introduzione, traduzione e commento a cura di CARMELO PELLEGRINO © EDIZIONI SAN PAOLO, 2011)

Benché sembri che questa sezione non abbia connessione con ciò che precede, una lettura globale dei cc. 2-3 consente di notare che l’autore sta parlando dell’ordinamento nella Chiesa. Per questo, dopo il riferimento alle norme di con­dotta delle donne (2,9-15), con le quali ha evocato l’insegnamento eretico, passa a elencare i requisiti di un buon vescovo (3,1-7), cioè proprio di colui che deve vigilare sulla sana dottrina, e poi dei diaconi (3,8-13).

Il vescovo La fase che viene illustrata nelle Pastorali è di transizione verso un consolidamento istituzionale. L’organizzazione nei primordi era piuttosto informale; l’insorgere delle eresie impose successivamente un processo di istituzionalizzazione in cui furono stabiliti pastori con l’incarico di insegnare e preservare fedelmente la sana dottrina. Le tre lettere Pastorali illustrano le fasi cruciali di tale processo: in esse al vescovo viene riconosciuta una funzione di vigilanza, di governo spirituale o di presidenza nella Chiesa locale. Il suo ruolo è ancora in evoluzione rispetto a quello attestato successivamente negli scritti di Ignazio di Antiochia (ca. 110 d.C.), ma presenta già i tratti che poi contribuiranno a definire l’identità del vescovo pastore di una diocesi.

Perché la testimonianza cristiana sia efficace è necessario che il pastore cristiano goda di buona fama all’esterno della comunità: perciò, il primo aggettivo che qualifica il vescovo è «irreprensibile». Una condotta visibil­mente ineccepibile vale come argomento indiretto di persuasione nei confronti dei non battezzati. Segue poi una lunga serie di virtù sociali, con cui l’autore intende insistere su due aspetti: l’importanza della maturità umana per lo svolgimento del ministero; il fatto che il governo delle comunità deve essere ben condotto: per questo, esige persone di alta moralità. Nei vv. 4-5 l’autore offre un criterio: può guidare la comu­nità chi, essendo sposato, ha dimostrato di saper dirigere la propria famiglia, cioè il nucleo domestico che, nel mondo antico, comprendeva sia i figli sia gli schiavi. Si sta introducendo l’idea della Chiesa come «casa di Dio» che sarà esposta in 3,15. I vv. 6-7 contengono gli ultimi due requisiti; sono tenuti insieme dal duplice riferimento al «diavolo» e dalla stessa struttura della frase: entrambi i versetti, infatti, presentano un requisito che viene poi spiegato con una finalità, in cui compare il verbo «cadere». Anzitutto, il vescovo non deve essere un neo-convertito: chi non ha ancora dato buona prova di sé nella fede (cfr. 3,10) corre il rischio di infatuarsi del potere, inorgogliendosi; proprio questo vizio viene attribuito agli eretici in 6,4, dove ha a che fare con il loro falso insegnamento. Tale difetto fa cadere nello stesso giudizio di condanna che il diavolo riceve da Dio (Mt 25,41) e nel conseguente castigo. L’elenco di requisiti del buon vescovo, infine, culmina nell’ultima qualità, già anticipata indirettamente nel v. 2 («irreprensibile»): è necessario che egli riceva buona testimonianza da «quelli di fuori», cioè dai non cristiani. La stima goduta all’esterno è misurata sulla base dei pregi elencati in 3,2b-5. La caduta su una o più di queste qualità crea l’occasione perché il vescovo perda credibilità, elemento indispensabile al suo ministero, a motivo della portata universale della missione della Chiesa (2,1-6; 4,9-11). Tale discredito lo espone infatti all’influsso del diavolo, che per antonomasia è l’«accusatore» (Ap 12,10), il principale deva­statore della buona fama e promotore della pubblica condanna. Le qualità dei vv. 6-7, quindi, fanno da sintesi: all’interno della comunità, il vescovo dovrà essere di provata virtù; all’esterno, dovrà godere della stima suscitata da una condotta notoriamente ineccepibile. Il test per esaminare l’irreprensibilità del candidato a ogni livello sarà costituito dal vaglio dell’intera gamma di questi requisiti.

I diaconi Conformemente alla sequenza attestata in Fil 1,1, dopo il vescovo, l’autore cita i diaconi. L’ordine della menzione e la maggiore brevità rispetto alla trattazione del vescovo, inducono ad attribuire ai diaconi un ruolo subordinato. Già nel giudaismo il capo della sinagoga era coadiuvato da un uomo che svolgeva mansioni di servizio. Questa suddivisione di incarichi fu mutuata dalla Chiesa, in cui probabilmente il vescovo sovrintendeva alle varie comunità che si riunivano nelle case private, mentre il diacono svolgeva la mansione di suo assistente in una particolare comunità. Come per il vescovo, l’autore non si attarda a spiegare la funzione svolta dai diaconi, ma descrive le doti che essi devono possedere. I diaconi devono essere fondamentalmente «dignitosi» (v. 8; cfr. 3,4), cioè godere di quella rispettabilità che l’autore auspicava per tutti i cristiani (2,2) e che ha un’origine divina. Ciò significa che non devono essere insinceri – dicendo una cosa e pensandone un’al­tra, oppure riferendo una cosa a qualcuno e un’altra cosa a un’altra persona – ma moderati nel bere vino e nemici del guadagno disonesto (cfr. 3,3). Quest’ultimo monito rimarca la responsabilità di trasparente amministrazione dei ministri che, come rilevato, doveva essere un’urgenza diffusa nella Chiesa dei primordi (cfr. 1Pt 5,2), a giudicare dagli abusi dei falsi maestri (1Tm 6,5-10; Tt 1,11). Pure i diaconi possono convolare a nozze una sola volta (cfr. 3,2). Se sposati, anch’essi devono anzitutto guidare bene la propria famiglia (cfr. 3,4-5). L’autore sottintende la medesima analogia riferita al vescovo: avendo governato in modo adeguato la propria casa, i diaconi sapranno dirigere con saggezza anche la comunità ec­clesiale. Pertanto, doveva essere loro riconosciuta una certa autorità, per lo più in riferimento all’annuncio del Vangelo e all’assistenza dei poveri. Per questo era necessario che anche i diaconi fossero persone di provata virtù. E quanto viene espresso nel v. 10, facendo eco alla proibizione di scegliere come vescovo un «neofita» (v. 6). Lo stile dell’autore qui si fa più impersonale e solenne rispetto alla trattazione sul vescovo; così sarà anche nel v. 12, dopo la parentesi sulle “diaconesse”. La prova a cui l’eventuale diacono sarà sottoposto ne deve verificare l’«irreprensibilità», cioè la sua idoneità a entrambi i livelli di fede e di morale. La griglia valoriale di riferimento per esaminarlo è costituita dai requisiti dei vv. 8-12, come già rilevato per il vescovo. I diaconi devono inoltre custodire il «mistero della fede» (v. 9) – cioè il sano insegnamento, il cui contenuto verrà spiegato in 3,14-16 – dalle perversioni ere­tiche, in una «coscienza pura». L’accento della frase cade proprio su quest’ultima espressione, peraltro evocata già in 1,5, sempre in connessione con la «fede». La coscienza del diacono è «pura» se egli esercita una condotta coerente al credo che professa, nella coniugazione di ortodossia e ortoprassi.

Dopo l’avvio (3,8-10) la trattazione sui diaconi viene interrotta dai requisiti delle «donne» (3,11), su cui l’autore si era già soffer­mato a lungo in 2,9-15, per poi proseguire subito dopo (3,12-14). Questo singolare filo logico, in ragione anche della lista seguente dei requisiti, induce a riconoscere in queste figure femminili il ruolo delle “diaconesse”, attestato esplicitamente in Rm 16,1. Nella Chiesa primitiva esse svolgevano, presso le donne credenti, mansioni di servizio precluse agli uomini, quali l’assistenza delle catecumene che dovevano immergersi nell’acqua battesimale. La breve menzione loro riservata fa notare la limitatezza del ruolo rispetto ai colleghi uomini. Tuttavia, le qualità delle “diaconesse” richiamano quanto emerso nei precedenti elenchi. Anche loro dovranno essere anzitutto «dignitose» (cfr. 3,8; anche 3,2): tale fondamentale attributo viene spiegato dai requisiti specifici della veridicità e della sobrietà (cfr. 3,8). Infine, mentre ai diaconi viene notificata la custodia del «mistero della fede», che si attua soprattutto con l’insegnamento, le loro colleghe donne sono piuttosto esortate all’esercizio della virtù corrispettiva: dovranno essere «fedeli in tutto», fedeli e affidabili in ogni aspetto della vita concreta.

Come comportarsi nella casa di Dio L’autore spiega il motivo per cui sta scrivendo «queste cose»: comunicare al discepolo l'ordinamento della Chiesa. Per definire la Chiesa, qui e in 2Tm 2,19-21, si impiega la metafora della «casa», istituzione all’epoca fortemente segnata dalla concezione patriarcale. Lo scopo di questa metafora è quello di affermare che la Chiesa è la dimora divina e che i suoi componenti sono in un rapporto familiare tra loro e con Dio. La permanenza del Dio vivo impone ai frequentatori della «casa» una condotta conseguente. I suoi membri hanno una duplice responsabilità: essi sono chiamati a un comportamento adeguato e allo sforzo missionario volto a difendere tale verità dagli attacchi degli eretici. Proprio il contenuto di tale verità evangelica viene suc­cintamente ripercorso nel v. 16. La verità evangelica, già definita «mistero della fede» (v. 9), viene ora descritta come «mistero della pietà». In ultima analisi, tale «mistero» – cioè, questa realtà nascosta, ora rivelata da Dio – si identifica con Cristo. Ma l’espressione è qui specificata dal concetto di «pietà», che indica l’intera esistenza cristiana, specchio fedele, nella pratica, della conoscenza di Dio. Possiamo individuare un generico ordine cronologico di questa confes­sione di fede: incarnazione (il cui riferimento è inclusivo di un rimando implicito alla pre-esistenza e alla morte di Cristo), risurrezione di Cristo, manifestazione della signoria di Cristo sulle creature angeliche, Cristo annunciato e creduto uni­versalmente, Cristo esaltato nella gloria.


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