📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

I battezzati in Cristo sono sottratti alla potenza del peccato 1Che diremo dunque? Rimaniamo nel peccato perché abbondi la grazia? 2È assurdo! Noi, che già siamo morti al peccato, come potremo ancora vivere in esso? 3O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? 4Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. 5Se infatti siamo stati intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte, lo saremo anche a somiglianza della sua risurrezione. 6Lo sappiamo: l’uomo vecchio che è in noi è stato crocifisso con lui, affinché fosse reso inefficace questo corpo di peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. 7Infatti chi è morto, è liberato dal peccato. 8Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, 9sapendo che Cristo, risorto dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui. 10Infatti egli morì, e morì per il peccato una volta per tutte; ora invece vive, e vive per Dio. 11Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù. 12Il peccato dunque non regni più nel vostro corpo mortale, così da sottomettervi ai suoi desideri. 13Non offrite al peccato le vostre membra come strumenti di ingiustizia, ma offrite voi stessi a Dio come viventi, ritornati dai morti, e le vostre membra a Dio come strumenti di giustizia. 14Il peccato infatti non dominerà su di voi, perché non siete sotto la Legge, ma sotto la grazia.

I cristiani sono a servizio di Dio che salva 15Che dunque? Ci metteremo a peccare perché non siamo sotto la Legge, ma sotto la grazia? È assurdo! 16Non sapete che, se vi mettete a servizio di qualcuno come schiavi per obbedirgli, siete schiavi di colui al quale obbedite: sia del peccato che porta alla morte, sia dell’obbedienza che conduce alla giustizia? 17Rendiamo grazie a Dio, perché eravate schiavi del peccato, ma avete obbedito di cuore a quella forma di insegnamento alla quale siete stati affidati. 18Così, liberati dal peccato, siete stati resi schiavi della giustizia. 19Parlo un linguaggio umano a causa della vostra debolezza. Come infatti avete messo le vostre membra a servizio dell’impurità e dell’iniquità, per l’iniquità, così ora mettete le vostre membra a servizio della giustizia, per la santificazione. 20Quando infatti eravate schiavi del peccato, eravate liberi nei riguardi della giustizia. 21Ma quale frutto raccoglievate allora da cose di cui ora vi vergognate? Il loro traguardo infatti è la morte. 22Ora invece, liberati dal peccato e fatti servi di Dio, raccogliete il frutto per la vostra santificazione e come traguardo avete la vita eterna. 23Perché il salario del peccato è la morte; ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore.

Approfondimenti

(cf LETTERA AI ROMANI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Giuseppe Pulcinelli © EDIZIONI SAN PAOLO, 2014)

I battezzati in Cristo sono sottratti alla potenza del peccato La questione era rimasta in sospeso (cfr. 3,8) e la conclusione del capitolo precedente l'ha fatta riemergere (cfr. 5,20-21); ora Paolo pone apertamente la questione: «Ci metteremo a peccare perché non siamo sotto la Legge, ma sotto la grazia?». Da una parte viene presentata la grazia come il favore divino dischiuso dalla morte di Cristo che rappresenta il nuovo ambito vitale del cristiano (cfr. 5,2.15-21); dall'altra c'è il peccato, quasi potenza personificata in cui l'uomo è invischiato a partire da Adamo, che favorisce il moltiplicarsi di azioni malvagie (cfr. 5,12-21). Si parla del peccato per rimarcare la sua incompatibilità con il nuovo status del cristiano, escludendo categoricamente (cfr. 6,2a: «non sia mai!») che per favorire la grazia – visto che essa ha sovrabbondato verso i peccatori – si debba in qualche modo rimanere in esso (cfr. v. 1). Attraverso una domanda retorica (che implica cioè una risposta ovvia) Paolo oppone un rifiuto netto: chi come noi (cioè mittente e destinatari) è morto al peccato non può più vivere in esso (cfr. v. 2b). L'affermazione «siamo morti al peccato» è perentoria, non è un' esortazione a non peccare, bensì una constatazione di qualcosa che è già avvenuto nel passato, e tuttavia la densità dell'assunto implica una serie di cose che certamente necessitano di ulteriore precisazione: che cosa vuol dire «morire al peccato»? Come e quando è avvenuta tale morte?

Il chiarimento viene offerto nei versetti che seguono (cfr. 6,3-11), a cominciare da una nuova domanda retorica (cfr. v. 3a: «non sapete che...»), che lascia subito intendere il «quando» ciò è avvenuto. Certamente i destinatari della lettera avevano sperimentato il battesimo e conoscevano il senso di un'espressione come «essere battezzati nel nome di Cristo» (cfr. At 2,38; 19,5; Mt 28,19), Paolo tuttavia sottolinea ciò che per lui è l'aspetto fondamentale del battesimo cristiano: non tanto quello della remissione dei peccati (cfr. At 2,38), ma quello dell'essere battezzati (alla lettera, «immersi») in Cristo che significa essere inseriti in questo nuovo ambito vitale, che sostituisce quello vecchio, ad esso opposto, del peccato (cfr. vv. 1-2).

Se il cristiano, partecipando alla morte di Cristo, è sottratto già ora alla potenza del peccato, tuttavia non partecipa ancora alla sua risurrezione corporea. Di una cosa, però, dovrebbe essere consapevole: «l'uomo vecchio», l'uomo cioè ancora fuori e prima di Cristo, dominato dal potere del peccato che lo schiavizza, «è stato con-crocifisso» (v. 6; cfr. Gal 2,19; 5,24); tale con-crocifissione esprime soprattutto la partecipazione del cristiano ai benefici salvifici connessi con la morte di Cristo (e ciò avviene – come ha spiegato in 3,21-26 – mediante la fede, che precede lo stesso battesimo). La finalità è quella di rendere impotente il «corpo del peccato» (che non è la parte carnale-peccaminosa dell'uomo, ma semplicemente un sinonimo di “uomo vecchio”) e di mettere fine allo stato di schiavitù; tale è l'inizio del nuovo status di vita del credente, che si apre ora alla prospettiva della liberazione dal potere del peccato (e al passaggio a un'altra signoria, di cui Paolo parla poi più avanti, cfr. vv. 15-23).

Tale ultima finalità – e insieme effetto positivo – della nostra partecipazione alla morte di Cristo è confermata dalla frase-sentenza successiva: «chi è morto, è giustificato dal peccato» (v. 7). Probabilmente Paolo lascia riecheggiare un principio generale conosciuto nel mondo giudaico-rabbinico, per cui chi è morto è considerato ormai libero dall'osservanza dei comandamenti, e quindi dai peccati; là esso però era applicato alla morte fisica, qui invece si tratta in definitiva di un uso metaforico del verbo «morire», dal momento che si riferisce alla morte di chi partecipa misticamente alla morte di Cristo. In altre parole: unendosi alla morte di Cristo, i credenti condividono il suo stato di separazione dal peccato, per cui vengono giustificati-liberati dal peccato e sottratti alla sua tirannia.

Con i vv. 8-11 Paolo passa dal tema del «morire al peccato» (inteso complessivamente come separazione da esso) a ciò che ne rappresenta la finalità, cioè il «vivere per Dio» (cfr. vv. 8.11). Con altre parole il v. 8 ripete sostanzialmente quanto già affermato al v. 5, e che riecheggia di fatto il kerygma pasquale contenuto nelle prime confessioni di fede (cfr. 1Cor 15,3-5), qui ripreso però in termini che lasciano emergere maggiormente la prospettiva partecipativa-comunitaria.

Nei vv. 12-14 il discorso, da affermativo, diviene chiaramente esortativo: con una serie di imperativi, Paolo invita i cristiani a far si che il loro essere «morti al peccato» in base all'inserimento nella morte di Cristo, si traduca sul piano dell'etica in un impegno esigente nel non lasciar più margini di manovra al peccato detronizzato. Così già dal v. 12 si deduce che malgrado esso sia ormai stato vinto da Cristo, evidentemente è ancora in grado di esprimere il suo influsso malefico nei peccati dei cristiani, per questo Paolo li mette in guardia perché non si lascino insidiare nel loro «corpo mortale», sottostando alle passioni da esso fomentate. Il v. 13 propone una specificazione dell'ammonizione precedente (le membra ora sono al posto del corpo) per dire essenzialmente di non favorire il peccato, lasciando che qualcosa di noi si metta a suo servizio (come «strumento di ingiustizia»), bensì tutta la persona sia a servizio di Dio, come si addice a chi ha sperimentato il passaggio dalla morte alla vita (cfr. vv. 9.11), ponendo così tutto se stessi a servizio della giustizia (cioè di un vissuto etico corrispondente; cfr. 12,1 con lo stesso verbo «offrire»).

Il v. 14 chiude questo primo momento con un'affermazione di serena certezza che, malgrado il perdurare dell'insidia e della peccabilità, la vittoria è già ottenuta, l'uomo vecchio ormai è stato crocifisso con Cristo: «il peccato... non dominerà su di voi», perché i credenti ormai si trovano «sotto la grazia»; il passaggio di signoria avvenuto con l'inserimento in Cristo (battesimo) impedisce che il cristiano sia soggetto a qualsiasi altra potenza, sia essa il peccato (e questo risponde alla domanda del v. 1: la grazia non può coabitare con il peccato) oppure la Legge. Quest'ultimo riferimento potrebbe sorprendere, dal momento che non si parlava più della Legge da 5,20; effettivamente però la questione del rapporto tra la Legge e il peccato, lì menzionati come fossero alleati contrapposti alla grazia, era rimasta aperta; ora tale conclusione funge da gancio per collegare l'esposizione successiva dedicata a precisare che il cristiano non è più sotto il peccato né sotto la Legge.

I cristiani sono a servizio di Dio che salva Il v. 15 indica che ora il tema sta per spostarsi da quello del peccato a quello della Legge. In particolare l'ultima conclusione poteva suscitare ancora l'accusa di favorire il libertinismo: se non si è sotto la Legge, allora si può peccare liberamente (cfr. v. 15: «dovremmo peccare»), visto che i (singoli) peccati non possono essere imputati senza di essa (cfr. 5,13). Paolo è consapevole che un interlocutore cavilloso avrebbe potuto sollevare l'obiezione, perciò formula lui stesso la domanda; la prima risposta, immediata, ancora una volta è nettamente negativa; poi nei versetti successivi essa viene ampiamente sviluppata. La Legge non verrà nominata di nuovo, se non all'inizio del capitolo 7, ma tale assenza è intenzionale, proprio rispetto a chi si aspettava che venisse invocata come principale baluardo contro l'agire peccaminoso, e ciò doveva risultare sorprendente: Paolo non fonda la sua parenesi in opposizione al peccato richiamandosi alla Legge e ai suoi comandamenti (come avrebbe fatto il giudaismo ufficiale); anzi, egli da parte sua ha già lasciato intendere (cfr. 3,20; 5,13.20) – e tra poco lo spiegherà – che proprio il precetto diventa stimolo per peccare (cfr. 7,8).

Di fatti Paolo, invece di appellarsi alla normatività della Legge, parte (cfr. v. 16) dai dati dell'esperienza comune riguardo all'essere servo-schiavo di qualcuno o qualcosa (e anche nella storia politico-religiosa israelitica non mancavano esempi). Chi è schiavo è obbligato all' obbedienza, è a totale disposizione di chi si è scelto come padrone: o del peccato per la morte, o dell'obbedienza (potrebbe intendersi la fede) per la giustizia (cfr. l'ammonimento evangelico di Mt 6,24: «nessuno può servire a due padroni»). In realtà il cristiano ha già scelto, la schiavitù del peccato è alle sue spalle, il passaggio di signoria è già avvenuto, egli ha già intrapreso la via dell'obbedienza all'insegnamento tipico (cfr. v. 17) cristiano che è stato trasmesso; di questo Paolo rende grazie a Dio, perché tale passaggio, già avvenuto nei suoi destinatari, è opera della sua grazia.

Che si tratta di un cambiamento di signoria, con corrispettivo asservimento, lo si dice chiaramente al v. 18: «resi liberi dal(la schiavitù del) peccato, siete stati resi schiavi della giustizia»; fa qui la prima comparsa la terminologia della libertà (cfr. poi 6,22; 8,2.21), ma in nessun modo per favorire il libertinismo (la liberazione è infatti dal peccato e dalla sua oppressione, non libertà di peccare), bensì per porsi a servizio esclusivo della giustizia (cioè del giusto comportamento, cfr. 6,13). Paolo si rende conto che questo modo di esprimersi è paradossale (la libertà come schiavitù, anche se della giustizia), per questo con la frase iniziale del v. 19 («Parlo alla maniera umana») vuole palesare la sua difficoltà nello spiegare adeguatamente la realtà del nuovo status del cristiano, e giustificare così il ricorso a esempi tratti dall'esperienza (cfr. Gal 3,15: «parlo secondo un punto di vista umano»; in Romani l'esempio viene poi in 7,2-3; l'esperienza che sta dietro queste righe però è soprattutto quella vissuta da Paolo stesso con l'evento di Damasco!) che possano rendere meno ardua la comprensione da parte dei destinatari («a causa della debolezza della vostra carne»). Così egli riprende negli stessi termini le situazioni esistenziali opposte già presentate al v. 13, aggiungendovi ulteriori elementi sia da un lato che dall'altro: il passato status di asservimento al peccato è declinato nei termini di «impurità» e «iniquità»; mentre dall'altro lato, alla giustizia si aggiunge la «santificazione» (v. 22), termine altrettanto complessivo per esprimere una vita pienamente orientata a Dio e irreprensibile sul piano morale.

I vv. 20-21 riprendono il tema della vita passata contrassegnata dal peccato e dalla morte conseguente, e si contrappongono alla situazione presente del cristiano descritta al v. 22; in particolare il v. 20 riformula in modo opposto le frasi del v. 18, presentando così una libertà di segno negativo, come affrancamento dagli obblighi di giustizia (in fondo si tratta della falsa libertà del libertinismo); ma l'esito di quella passata condizione di schiavitù al peccato, nella quale si commettevano cose vergognose (disonorevoli e peccaminose), era la morte (cfr. v. 21); ora, invece, il cristiano è libero dal peccato, ma è schiavo di Dio (al v. 18 aveva detto «schiavi della giustizia»): ancora una volta compare il concetto paradossale della nuova schiavitù (cfr. 1,1: «schiavo di Cristo»), ora però ha come esito la santificazione e come fine la vita eterna (cfr. v. 22).

La sezione si conclude con l'ultima contrapposizione tra il peccato e la grazia di Dio: il compenso, obbligato, di chi si pone a servizio del primo è la morte; ciò che si riceve da Dio, come dono gratuito, per chi passa sotto la sua signoria, è la vita eterna. Una dossologia simile a quella di 5,21, ma con la preposizione «in», esprime infine sia la mediazione che la partecipazione cristologica. La sezione 6,15-23, apertasi con la domanda connessa con la Legge, finora non ha toccato quel tema; Paolo non ha chiamato in causa la Legge come riferimento morale contro il peccato, perché secondo lui non lo è: nella vita nuova il cristiano è chiamato a confrontarsi essenzialmente con la grazia, con il dono di Dio che genera frutti di giustizia e santificazione.


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I frutti della giustificazione

La pace con Dio 1Giustificati dunque per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. 2Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio. 3E non solo: ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, 4la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. 5La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. 6Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. 7Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. 8Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. 9A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. 10Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. 11Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione.

Il confronto Adamo-Cristo e la liberazione dal peccato 12Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, e così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato... 13Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, 14la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire. 15Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo si sono riversati in abbondanza su tutti. 16E nel caso del dono non è come nel caso di quel solo che ha peccato: il giudizio infatti viene da uno solo, ed è per la condanna, il dono di grazia invece da molte cadute, ed è per la giustificazione. 17Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo. 18Come dunque per la caduta di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera giusta di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione, che dà vita. 19Infatti, come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti. 20La Legge poi sopravvenne perché abbondasse la caduta; ma dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia. 21Di modo che, come regnò il peccato nella morte, così regni anche la grazia mediante la giustizia per la vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore.

Approfondimenti

(cf LETTERA AI ROMANI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Giuseppe Pulcinelli © EDIZIONI SAN PAOLO, 2014)

I frutti della giustificazione

La pace con Dio I primi due versetti presentano in modo essenziale (e con un certo tono di gioiosa fierezza) le conseguenze per il credente della confessione di fede espressa a conclusione del capitolo precedente, consistenti nel valore ed effetto positivo per il credente della mediazione di Cristo (5,1c), realizzata con la sua morte e risurrezione: a partire dal passato della giustificazione, esse si estendono al presente della pace con Dio e riguardano anche il futuro, avvolto nella speranza della sua gloria.

Punto di partenza è l'essere stati resi giusti in base all'atto di fede (cfr. ancora la tesi-propositio di 1,17); il risultato della ottenuta giustificazione è la pace (cfr. Is 32,17: «effetto della giustizia sarà la pace»), un concetto molto ricco dal punto di vista biblico (cfr. lo salôm, già in 1,7; «il Dio della pace» in 15,33 e 16,20; «egli [Cristo] infatti è la nostra pace» in Ef2,14) e che in ambito ellenistico richiama i rapporti interpersonali vissuti in armonia e amicizia. In questo senso, per la componente di reciprocità e comunione anche interumana, il dono della pace supera quello espresso attraverso le categorie forensi della giustificazione, che erano più a senso unico, di una giustizia cioè proveniente dall'alto, da Dio verso l'uomo.

Il tema della mediazione di Cristo prosegue anche nel v. 2: essa rende possibile l'accesso, mediante la fede, alla grazia, cioè al favore, alla benevolenza divina: da notare che tale immissione nella comunione e nella benevolenza divine non avviene in base alla Legge e alle opere, ma – ancora una volta – in base alla fede, all'adesione personale a Cristo. Di questo il cristiano può vantarsi, di poter partecipare cioè alla grazia di Dio e di essere orientato alla «speranza della gloria di Dio» (v. 2), cioè all'acquisizione dei beni escatologici. La speranza – di cui Paolo aveva già parlato nel midrash su Abramo (cfr. 4,18) – ora inizia ad assumere la connotazione tipicamente cristiana: la fiduciosa attesa della partecipazione alla gloria divina in Gesù Cristo. La certezza di tali eccelse prerogative, non solo non viene contraddetta dalle tribolazioni, ma al contrario in Cristo paradossalmente esse diventano occasione di vanto (cfr. Rm 5,3; e perfino di gioia, cfr. 2Cor 7,4: «sono ricolmo di consolazione, pervaso di gioia, nonostante ogni nostra tribolazione»).

Con l'artificio della progressione tra gli elementi elencati, Paolo mette la speranza al culmine di una serie di situazioni-atteggiamenti in cui il precedente “produce” il successivo (cfr. vv. 3b-4): in un'ottica di fede, tutto ciò che potrebbe scoraggiare il cristiano, al contrario lo rafforza nel suo orientamento al Signore. Il motivo più profondo del vanto cristiano è svelato nel v. 5, quando Paolo spiega che la speranza cristiana non può deludere, in quanto ha un fondamento incrollabile su cui poggiarsi, che è l'amore stesso con cui Dio ci ama; questo amore di Dio è stato «riversato nei nostri cuori» con la mediazione dello Spirito Santo, dono anch'esso fatto da Dio al cristiano (e perciò è più di un semplice strumento di mediazione), cosicché emerge una strettissima connessione, quasi un'identificazione, tra l'amore di Dio e lo Spirito Santo, realtà eminentemente relazionale. L'espressione «nei nostri cuori», tipica di Paolo (in connessione con lo Spirito, cfr. 2Cor 1,22; Gal 4,6), esprime un'acquisizione stabile nella realtà intima dell'uomo, nella profondità del suo essere (cfr. Rm 8,9; 1Cor 3,16).

La speranza non delude – continua a spiegare Paolo – fornendo ora il radicamento storico-oggettivo di questo amore di Dio, perché «Cristo morì per gli empi» (v. 6): ora si chiarisce maggiormente ciò che intendeva Paolo con «espiazione nel suo sangue», fondamento della giustificazione del peccatore (cfr. 3,24-26; 4,5: Dio «giustifica l'empio»); e ciò avvenne «quando ancora eravamo deboli», in una situazione cioè di incapacità spirituale e morale; «al tempo stabilito» la valenza salvifica della morte di Cristo incontra l'uomo nella sua impotenza ed empietà per ribaltarne la sorte, altrimenti già segnata.

I v. 7-8 vanno letti insieme, dal momento che rappresentano le due parti di un ragionamento a fortiori basato sulle relazioni umane: anche se è difficile, tuttavia può verificarsi che qualcuno sia disposto a morire per una persona retta e buona (e l'antichità classica conosceva questi casi del dare la vita per un amico o per una buona causa); ebbene, la prova suprema dell'incomparabile eccesso dell'amore di Dio per noi è che esso ha come oggetto non i giusti, i buoni o gli amici, ma i peccatori, gli empi, i nemici (cfr. vv. 6.8.10; cfr. 1Gv 4,10), perciò il caso di Cristo che muore per essi («mentre eravamo ancora peccatori», empi, quindi nemici nei confronti di Dio: inclusi sono sia Paolo che i suoi destinatari) è davvero unico (se c'è chi dà la vita per un amico, certamente nessuno la darebbe per dei nemici). Al «per noi» dell'amore di Dio è associato inscindibilmente il «per noi» della morte di Cristo (cfr. Gv 3,16): nell'amore di Dio è implicato l'atto del supremo dono di sé fatto dal Cristo, un amore che a sua volta viene dimostrato soprattutto con quella morte (in Gal 2,20 si parla esplicitamente dell'amore di Cristo per l'uomo-Paolo peccatore).

I vv. 9-10, con altre due argomentazioni a fortiori proseguono sul piano prettamente cristologico, evidenziando le feconde ricadute della redenzione sul piano antropologico; esse infatti riguardano ora due momenti distinti della vita del cristiano: quello presente, che beneficia già dei determinanti effetti positivi che derivano dalla morte di Cristo avvenuta nel passato (giustificazione-riconciliazione), e quello futuro che – basato sulla stessa realtà della manifestazione nel presente dell'amore-giustizia di Dio – tanto più si apre alla prospettiva della salvezza escatologica. Il v. 9 evidentemente si riallaccia a 5,1 («giustificati»), mentre le formule dei vv. 9 e 10 (rispettivamente: «con il suo sangue» [si allude alla morte violenta sulla croce, cfr. 3,25] e «per mezzo della morte del Figlio suo»), parallele e praticamente sinonimiche, non sono che un'espansione ed esplicitazione di quella più tipica del v. 8 («mori per noi»). Il momento del resoconto finale è esposto all'ira (cfr. 1,18-32; 2,5), ma la mediazione di Cristo assicura al giustificato che in quel momento sarà salvato-preservato da essa: il futuro del verbo «saremo salvati» colloca la salvezza al momento escatologico, comprendendo la totalità, anche corporea, dell'uomo redento; mentre la forma passiva del verbo rimanda a Dio come agente, sgombrando così il campo da ogni possibilità di autoredenzione. Al v. 10 (e poi ribadito al v. 11) si incontra il tema, esclusivamente paolino nel Nuovo Testamento, della riconciliazione, connesso e complementare a quello della giustificazione; la menzione della «sua vita» (di Cristo) alla fine del versetto è un allusione alla risurrezione di Gesù, il secondo momento dell'evento pasquale (cfr. Rm 4,25; 6,10; 14,9; 2Cor 13,4).

Nel greco classico si parla di riconciliazione per esprimere il passaggio da uno stato di ostilità, di guerra tra due persone, a uno di amicizia, di pace. La riconciliazione implica sempre l'idea che sia l'offensore/debitore a riconciliarsi, oppure l'offeso/creditore ad essere riconciliato («risarcito», «placato»). Paolo riprende questo concetto, però in senso religioso, introducendovi una correzione decisiva e in certo senso rivoluzionaria: non è Dio che ha bisogno di essere riconciliato («placato») con gli uomini attraverso una qualche loro azione riparatoria. È Dio soggetto dell'azione: è lui che con la sua grazia prende l'iniziativa e riconcilia gli uomini a sé.

Il v. 11 chiude questa prima parte del capitolo 5 riprendendo i principali temi in esso sviluppati, quello del vanto, quello della mediazione di Cristo e, infine, quello della riconciliazione.

2. Il confronto Adamo-Cristo e la liberazione dal peccato Questa seconda parte del capitolo 5 conclude la prima grande sezione della lettera (1,18-5,21) e insieme prepara la seguente (cc. 6-8), dedicata alla status positivo del battezzato, dove a prevalere saranno i termini che indicano la partecipazione del credente al dono ottenuto da Cristo. Con il passaggio dalla prima persona plurale alla terza singolare o plurale, lo sguardo si fa più ampio, il discorso diventa più simile a quello di una trattazione teologica, in cui Paolo intende rispondere soprattutto alla domanda che emergeva dopo i vv. 1-11: in che rapporto stanno la grazia (e con essa la giustificazione, la vita) con il peccato (e con esso la condanna e la morte) e, in genere, con la situazione negativa di cui aveva parlato in 1,18-3,20 (specialmente in 3,9-20)?

Per farlo egli adotta l'espediente retorico del «confronto» tre due persone o due realtà per far risaltare la superiorità di una delle due; in più egli ricorre alla figura della prosopopea (personificazione di realtà astratte, come il peccato, la morte ecc.) e all'argomento a fortiori (già incontrato in 5,7-10). Attraverso il confronto fondamentale tra due uomini, Adamo e Cristo, a cui rispettivamente si rapporta l'umanità peccatrice e redenta, è come se Paolo riassumesse tutta la storia umana dalla creazione fino al compimento; in realtà, se Adamo è il punto di partenza letterario, il punto di partenza logico sottinteso è la sovreminente figura di Cristo.

Il v. 12 termina con un anacoluto (segnalato dai punti di sospensione); proprio su ciò che ora viene lasciato in sospeso cadrà l'accento principale dell'argomentazione, a partire dal v. 15. La prima frase, senza citarlo, allude al testo di Gen 2-3 (si punta il dito su un solo uomo», ma il nome di Adamo sarà citato al v. 14; l'uso di questa espressione, ripetuta ben nove volte nel brano, ha la funzione di mettere a confronto l'uomo Adamo con l'uomo Gesù, primogenito di una nuova umanità) e inizia a presentare il pensiero paolino sul peccato come origine del male e della morte: a differenza di concezioni giudaiche precedenti, Paolo attribuisce le universali conseguenze negative alla trasgressione del primo uomo (mentre altre tradizioni le attribuivano al peccato degli angeli). Per Paolo il peccato è tuttavia considerato più di una trasgressione, esso viene personificato (cfr. v. 12: «entrò nel mondo» e, in qualche modo, già in 3,9) e considerato come una realtà universale (cfr. 3,23: «tutti hanno peccato»), una potenza ostile a Dio, che di fatto causa la morte (da intendersi sia come morte fisica che spirituale) a partire dal primo uomo (quindi l'uomo è sia autore di peccati, ma anche sottoposto all'effetto negativo di un peccato originario che lo opprime).

I v. 13-14 rappresentano una specie di parentesi, esternano un collegamento di idee sorto nel pensiero di Paolo tra peccato e Legge (già avvenuto in 3,20 e 4,15), a cui sente di dover dare spazio prima di riprendere il punto lasciato in sospeso: che dire della presenza del peccato e della conseguente morte prima che ci fosse la Legge («fino a Mosè») e quindi prima della possibilità di trasgredirla? Paolo conferma il suo concetto di peccato, non legato alla trasgressione di un comandamento, ma come uno status universale in cui l'uomo viene a trovarsi indipendentemente dal periodo storico, in base al suo vincolo o affinità con Adamo. Come aveva già mostrato in 1,18-32 e in 2,12-16, l'assenza della Legge mosaica non elimina la presenza di una legge morale nell'uomo; allo stesso tempo, implicitamente, egli lascia desumere che la Legge non solo non ha eliminato il peccato e tanto meno la morte, ma – come dirà dopo – addirittura è stato fattore del loro accrescimento (cfr. v. 20). In tutto questo Adamo è «figura di colui che doveva venire» (v. 14): Adamo rimanda a Cristo, non nel senso che il peccato del primo sia paragonato alla grazia del secondo, ma che ad accomunare entrambi è il fatto di essere capostipiti dell'umanità.

I vv. 15-17 arrivano finalmente a stabilire il confronto – che si era cominciato ad approntare al v. 12 –, anzi a sostenere la paradossale incomparabilità tra Adamo, con le universali conseguenze nefaste della sua caduta, e il nuovo capostipite, Cristo, la cui grazia (congiunta significativamente a quella di Dio) risana i danni precedenti, riversandosi in abbondanza su tutti. Il vocabolario del v. 15 insiste notevolmente sui concetti di grazia, dono, abbondanza, per esprimere la grande benignità – che supera incomparabilmente in intensità la caduta – nei riguardi di coloro che erano segnati dal peccato e dalla morte. Il v. 16 continua con il confronto, invertendo però i termini del versetto precedente, e facendo emergere ancor di più la sproporzione tra le due realtà: mentre a una caduta singola corrisponde la condanna, a una molteplicità di cadute, invece di corrispondere altrettante condanne, corrisponde un sorprendente giudizio di grazia, un intervento opposto di assoluzione e giustificazione. Così Paolo lascia emergere il significato del dono di grazia, come esso sia sostanzialmente iniziativa e atto gratuito esteso a tutti indistintamente. Il v. 17 prosegue il confronto precedente, però con altri termini contrapposti, il primo, quello della morte, come tema era già comparso prima (cfr. vv. 12.14.15), mentre è nuovo il secondo, quello della vita.

Nei v. 18-19 sembra che l'intento sia quello di riassumere e chiarificare con altre implicazioni quanto detto finora. Il v. 19 presenta dei termini nuovi (disobbedienza/obbedienza), ma i concetti sono analoghi a quelli già presentati; «la disobbedienza di un solo uomo» si riferisce senz'altro al peccato di Adamo, quello di non aver dato ascolto al comando di Dio (cfr. Gen 2,16-17; 3,17); «l'obbedienza di uno solo» non si riferisce alla virtù praticata da Gesù durante la sua vita terrena, ma essenzialmente all'accettazione del destino di morte violenta (cfr. Fil 2,8: «si umiliò facendosi obbediente fino alla morte e alla morte in croce»): l'atto di giustizia e di obbedienza di Cristo consiste di fatto nella donazione di sé avvenuta con la morte di croce, ed è questo che cancella le disobbedienze degli uomini. I rispettivi effetti della disobbedienza/obbedienza «di uno solo» sono il diventare peccatore e il diventare giusto; ciò lascia intendere che la giustificazione elimina il peccato, e anche che sono proprio quei molti peccatori a essere resi giusti (anche qui, come al v. 15, «i molti» equivale a «tutti gli uomini», cfr. 11,32); non che questo avvenga indipendentemente dall'opzione personale dell'uomo, soltanto che qui non si ribadisce – in quanto si reputa scontato, dopo tutto il ragionamento precedente sulla fede – che all'uomo sta di accogliere tale dono, e tale accoglienza è costituita dal credere.

I vv. 20-21 costituiscono la conclusione e insieme il culmine della trattazione teologica che ha avuto sempre al centro la mediazione di Cristo. Il fatto che inizi richiamando un'altra volta in causa la Legge significa che Paolo ritiene di dover aggiungere qualcosa a quanto detto riguardo ad essa ai vv. 13-14, sul suo sopraggiungere e sul suo ruolo in rapporto al peccato: la Legge (si intende quella mosaica) è intervenuta «perché abbondasse la caduta» (5,20a; cfr. 4,15). L'affermazione va oltre quanto ha lasciato intendere prima, sul fatto che essa non ha cambiato la situazione di peccato in cui tutti si trovano (e quindi non elimina il peccato); ora infatti afferma che il suo scopo è quello di far proliferare il peccato, come se Legge e peccato lavorino insieme per lo stesso scopo. Certamente nessun giudeo sottoscriverebbe! La convinzione del giudeo era invece che la Legge fosse stata data da Dio perché Israele conoscesse il suo volere e lo mettesse in pratica; Paolo, consapevole del rischio di essere frainteso, riprenderà più ampiamente il delicato argomento Legge-peccato in 7,7-25.

La seconda parte del v. 20, comunque, offre già gli indizi per comprendere anche lo scopo della Legge: «ma dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia»; l'indicazione è a guardare oltre, a un superiore disegno divino che non solo non si ferma dove incontra il proliferare del peccato (e della Legge che lo trasforma in trasgressione e conseguentemente in situazione di condanna), ma proprio lì, nella situazione più compromessa e disperata (cfr. 5,6.8.10: quando gli uomini erano ancora «deboli», «peccatori», «nemici») dispiega la sua grazia salvifica sovrabbondante (cfr. Gal 3,22).

Il v. 21 si lega all'ultima solenne affermazione con una proposizione finale, costruita su un'ultima comparazione, con i principali vocaboli già utilizzati; sono messe insieme le due componenti più negative, il peccato e la morte, relegate però nel passato («come regnò il peccato nella morte»), ma al centro del versetto c'è il presente contrassegnato dal primato della grazia («così regni anche la grazia»), a cui si abbina esplicitamente quello della giustizia, come se fosse un suo sinonimo (erano abbinate già nei vv. 16.17), per l'unico scopo che è la vita eterna.

In definitiva tutto il brano non è che una esaltazione del primato della grazia, ottenuta con l'opera di mediazione di Gesù Cristo (cfr. l'ultima frase del capitolo, «per mezzo di Gesù Cristo il Signore nostro» che riprende il v. 1).


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Abramo, giustificato in base alla fede 1Che diremo dunque di Abramo, nostro progenitore secondo la carne? Che cosa ha ottenuto? 2Se infatti Abramo è stato giustificato per le opere, ha di che gloriarsi, ma non davanti a Dio. 3Ora, che cosa dice la Scrittura? Abramo credette a Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia. 4A chi lavora, il salario non viene calcolato come dono, ma come debito; 5a chi invece non lavora, ma crede in Colui che giustifica l’empio, la sua fede gli viene accreditata come giustizia. 6Così anche Davide proclama beato l’uomo a cui Dio accredita la giustizia indipendentemente dalle opere: 7Beati quelli le cui iniquità sono state perdonate e i peccati sono stati ricoperti; 8beato l’uomo al quale il Signore non mette in conto il peccato! 9Ora, questa beatitudine riguarda chi è circonciso o anche chi non è circonciso? Noi diciamo infatti che la fede fu accreditata ad Abramo come giustizia. 10Come dunque gli fu accreditata? Quando era circonciso o quando non lo era? Non dopo la circoncisione, ma prima. 11Infatti egli ricevette il segno della circoncisione come sigillo della giustizia, derivante dalla fede, già ottenuta quando non era ancora circonciso. In tal modo egli divenne padre di tutti i non circoncisi che credono, cosicché anche a loro venisse accreditata la giustizia 12ed egli fosse padre anche dei circoncisi, di quelli che non solo provengono dalla circoncisione ma camminano anche sulle orme della fede del nostro padre Abramo prima della sua circoncisione.

La promessa e l'eredità, ora destinate anche ai gentili 13Infatti non in virtù della Legge fu data ad Abramo, o alla sua discendenza, la promessa di diventare erede del mondo, ma in virtù della giustizia che viene dalla fede. 14Se dunque diventassero eredi coloro che provengono dalla Legge, sarebbe resa vana la fede e inefficace la promessa. 15La Legge infatti provoca l’ira; al contrario, dove non c’è Legge, non c’è nemmeno trasgressione. 16Eredi dunque si diventa in virtù della fede, perché sia secondo la grazia, e in tal modo la promessa sia sicura per tutta la discendenza: non soltanto per quella che deriva dalla Legge, ma anche per quella che deriva dalla fede di Abramo, il quale è padre di tutti noi – 17come sta scritto: Ti ho costituito padre di molti popoli – davanti al Dio nel quale credette, che dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che non esistono. 18Egli credette, saldo nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza. 19Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo – aveva circa cento anni – e morto il seno di Sara. 20Di fronte alla promessa di Dio non esitò per incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, 21pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento. 22Ecco perché gli fu accreditato come giustizia.

Ciò che è valso per Abramo nel passato, vale per i cristiani nel presente 23E non soltanto per lui è stato scritto che gli fu accreditato, 24ma anche per noi, ai quali deve essere accreditato: a noi che crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù nostro Signore, 25il quale è stato consegnato alla morte a causa delle nostre colpe ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione.

Approfondimenti

(cf LETTERA AI ROMANI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Giuseppe Pulcinelli © EDIZIONI SAN PAOLO, 2014)

Abramo, giustificato in base alla fede Paolo ricorre adesso alla figura di Abramo perché finora ha sostenuto la tesi sulla giustificazione per fede senza le opere (cfr. 3,21-22) facendo riferimento all'evento redentivo cristiano ma non ancora alla prova suprema, quella costituita dalla Scrittura. Ecco dunque in 4,3 (che riprende chiaramente 3,21b) la sua domanda esplicita: «che dice, infatti, la Scrittura?»; il testo che si presta molto bene allo scopo è Gen 15,6 (già usato in Gal 3,6), dove si afferma che ad Abramo la giustizia viene computata da Dio in base alla fede; sappiamo che il giudaismo tradizionale riguardo al grande patriarca tendeva a mettere in evidenza proprio le sue opere meritorie (ed è quanto Paolo menziona in 4,2a per poi smentirlo subito in 4,2b), in cima a tutte la prontezza a sacrificare Isacco.

Paolo per dimostrare che con la giustificazione per fede (senza le opere) egli non si è inventato nulla, anzi, che era già stata vissuta dal grande patriarca, ricorre sapientemente all'esegesi rabbinica delle Scritture: in questo senso Rm 4 si configura come una sorta di midrash . Così a Gen 15,6 abbina la citazione del Salmo 32,1-2 attribuito a Davide. A fare da collegamento tra le due citazioni, e insieme a fornire la prospettiva dalla quale ognuna chiarisce l'altra, è il v. 6. Ciò che accomuna i due passi biblici è il non avere meriti da far valere o diritti da accampare davanti a Dio: non li aveva Abramo per ottenere la giustizia, non li aveva Davide per ottenere il perdono, entrambi dipendono dall'agire gratuito di Dio nei loro confronti. In questo modo Paolo mostra la corrispondenza tra la giustificazione e la remissione dei peccati (già presente in 3,23-24.25-26), come atti di grazia da parte di Dio, e implicitamente indica la fede che cancella i peccati.

Tra le due citazioni scritturistiche in questione (4,3.7-8), i vv. 4-5 presentano l'esempio del compenso dovuto a chi lavora, cioè a chi compie le opere, contrapposto a chi non compie le opere. Paolo illustra così ciò che comporta l'atto di fede: mentre al compiere le opere corrisponde la ricompensa, al credere – cioè al non compiere le opere – corrisponde il dono gratuito della giustizia; in pratica mostra qui la differenza tra la comune concezione della giustizia retributiva e quella giustizia assolutamente sorprendente, perché computata per grazia, in base alla fede. Il v. 5 afferma anticipatamente quanto Paolo sta per dimostrare nel resto del capitolo, e fa vedere che sullo sfondo di tutto questo ragionamento c'è la questione prettamente teologica della definizione di Dio, della sua intima essenza, deducibile in base al suo agire nei confronti dell'uomo, il suo procedere, da sempre connotato dalla grazia: Dio è «colui che giustifica l'empio»! Per cui, colui che crede e l'empio vengono a coincidere.

Nei v. 9-12 Paolo applica quanto detto finora al rapporto tra giudei e gentili, iniziando a far emergere la seconda finalità di questa lettura midrashica delle Scritture, connessa alla prima: non soltanto che si diventa giusti davanti a Dio per la sola fede, ma che proprio per questo anche i gentili (non circoncisi) sono ammessi nella figliolanza di Abramo, cioè alla stessa comunione con Dio che hanno i giudei. Qui (cfr. v. 10b) Paolo ha buon gioco nel ricordare che Dio ha giustificato Abramo (cfr. Gen 15,6) prima che egli fosse circonciso (cfr. Gen 17,9-27) e che perciò in tale processo giustificante la circoncisione – che poteva essere considerata l'opera della Legge per eccellenza, dal momento che segnava l'ingresso nell'alleanza – non gioca alcun ruolo. Se, infatti, Abramo è stato giustificato quando era ancora incirconciso, in uno status equiparabile a quello dei pagani peccatori senza la Legge e le sue opere, allora la circoncisione non è condizione alla giustificazione, ma soltanto un sigillo, dunque un segno successivo (cfr. 4,11a), che attesta una giustizia già ricevuta gratuitamente senza circoncisione (della cui insufficienza aveva già parlato in 2,25-29). Perciò tale giustizia si applica sia a tutti gli incirconcisi che credono e che diventano al contempo figli di Abramo (cfr. 4,11b), sia ai circoncisi «che camminano sulle orme della fede del nostro padre Abramo» (4,12); quindi giustizia e figliolanza abramitica, per tutti, in base alla fede.

La promessa e l'eredità, ora destinate anche ai gentili Nei vv. 13-22 Paolo prosegue su questo tema originale dell'ammissione dei gentili nella famiglia di Abramo, ora però sul binario di due concetti nuovi e correlati tra loro: quello della promessa e quello dell'eredità. Essi sono significativamente introdotti dalla frase negativa con la quale intende subito sgombrare il campo da ogni deduzione diversa, segnando così il tenore di questo brano: «non in virtù della Legge» (v. 13a); la promessa ad Abramo e alla sua discendenza (riguardante l'eredità del «mondo», e non soltanto la «terra» d'Israele) non ha niente a che fare con la Legge, ma – di nuovo – con la giustizia derivante dalla fede. Inoltre, per Paolo la promessa non riguarda tanto la nascita di Isacco o il dono della terra (che invece prevalgono nel racconto della Genesi), ma la grande discendenza, e in essa specialmente l'inclusione dei gentili (e questa si è già realizzata nelle comunità cristiane).

Subito dopo, il caso di Abramo viene generalizzato e applicato ad altri, eredi come lui (cfr. v. 14), non soltanto giudei (sempre v. 14: «coloro che si basano sulla Legge»), altrimenti la fede e la relativa promessa, se dovesse subentrare la Legge, risulterebbero annullate. Il motivo per cui non può essere la Legge a garantire l'eredità viene fornito dal v. 15, dove troviamo il giudizio più negativo sulla Legge tra tutte le lettere paoline: «la Legge, infatti, produce ira». La frase risulta davvero perentoria e per certi versi paradossale; essa va intesa nel senso che, essendoci la Legge, inevitabilmente c'è anche la trasgressione che a sua volta attira l'ira di Dio; tale convinzione paolina – che va oltre quanto aveva detto in 3,20 (dalla Legge viene solo la conoscenza del peccato) – doveva risultare particolarmente scandalosa, dal momento che andava a cozzare con quella opposta biblica-giudaica per cui la Legge è stata data per la vita (cfr. Lv 18,5; Sir 17,11), ma Paolo riprenderà l'argomento più ampiamente al capitolo 7.

Il v. 16 prosegue il pensiero iniziato al v. 14, per dire che eredi si diventa per fede, e ciò affinché sia chiaro che si tratta di un dono gratuito da parte di Dio, e proprio per questo la promessa è assicurata (contrariamente a quanto avverrebbe se essa fossa fondata sull'osservanza della Legge, cfr. v. 14), non soltanto per i giudei o i giudeo-cristiani, ma per tutti: l'accento cade sull'inclusione dei pagano-cristiani, che nel senso indicato prima da Paolo sono paradossalmente i più vicini al caso di Abramo, giustificato senza la Legge e le sue opere. A conferma dell'ultima affermazione del v. 16 («è padre di tutti noi»), nel v. 17a Paolo ricorre di nuovo alla Genesi, citando la promessa della grande discendenza, che ormai vede la sua realizzazione: «lo ti renderò padre di una moltitudine di nazioni» (Gen 17,5); la paternità di Abramo è legata alla sua fede, alla sua incrollabile fiducia in Colui che doppiamente è autore della vita, sia al momento della creazione che nel riportare alla vita i morti (v. 17b).

Chiunque crede diventa dunque figlio di Abramo, e come lui viene giustificato per grazia (l'identità di figlio, uno non se la può dare da solo, né può far nulla per ottenerla, la può soltanto ricevere, e questo coincide con il credere); allo stesso tempo Abramo riceve tale paternità dalla parola divina accolta nella fede e continua a riceverla anche attraverso tutti coloro che da ogni dove e in ogni epoca crederanno come lui (cfr. Gen 15,5: «Guarda in cielo e conta le stelle, se le puoi contare... tale sarà la tua discendenza»): ecco che cosa ha ottenuto Abramo (cfr. 4,1) una discendenza davvero straordinaria! Proprio questa immensa discendenza (correlata alla citazione di Gen 15,5) è vista al v. 18 come risultato della fede incrollabile del grande patriarca, il quale «credette, sperando contro ogni speranza», cioè si fidò pieno di speranza – malgrado tutti i presupposti negativi, e al di là di ogni migliore aspettativa umana – della promessa divina: il riferimento (come poi risulta chiaro dai vv. 19-21) è al racconto della promessa della nascita di Isacco (cfr. Gen 18), da lui centenario e dalla ormai vecchia e finora sterile Sara. Abramo non soltanto non esitò, ma sopratutto non venne meno, cioè rimase saldo contro ogni evidenza o ragionevolezza (cfr. v. 19; «morto il propio corpo e morto il seno di Sara»). Tale saldezza viene riconfermata dall'esclusione di ogni dubbio incredulo di fronte alla promessa di Dio, tanto che Abramo ne esce rafforzato nella fede; questo rende gloria a Dio (cfr. v. 20), perché Abramo riconosce e attesta che Lui è capace di portare a compimento ogni sua promessa, anche la più inaudita (cf. v. 21). La terza ripetizione di Gen 15,6 (già in 4,3 e poi in 4,9) conclude midrash costruito su di essa: ecco perché ad Abramo «fu computato a giustizia»; la sua fede-fiducia incrollabile, quale abbandono incondizionato alla sua parola, ha permesso a Dio di manifestare nel patriarca la sua gratuita giustizia giustificante (cfr. v. 22).

Ciò che è valso per Abramo nel passato, vale per i cristiani nel presente Questi ultimi versetti mostrano che era proprio questo ciò a cui si puntava con tutto l'argomentare precedente: ciò che è valso per Abramo nel passato, vale per i cristiani nel presente (in particolare quelli di Roma, provenienti sia dal giudaismo che dal gentilesimo): «non... soltanto per lui.. bensì anche per noi». Ci si potrebbe chiedere tuttavia come mai finora si sia dato così poco spazio all'argomento cristologico – che certamente è alla base del pensiero teologico dell'apostolo e anche di questi suoi sviluppi – e alla fede orientata cristologicamente (finora soltanto in 3,21-26): l'assenza in realtà è strategica, perché al centro ci doveva essere la prova in base alla massima autorità, la sacra Scrittura, da cui anche l'evento Cristo riceve conferma; d'altra parte ciò che si voleva mettere in evidenza qui era soprattutto la fede in sé come alternativa al regime delle opere in ordine all'ottenimento della giustizia.

Perfino negli ultimi versetti, dove finalmente si ha l'applicazione del caso di Abramo ai cristiani basata proprio sulla componente cristologica della fede, si evidenzia che, come quella di Abramo, la fede dei credenti dopo di lui è un credere «in Colui che risuscitò dai morti Gesù» (v. 24b), cosicché l'atto di fede-fiducia da parte degli uomini non subisce una deviazione, ma una conferma e un rafforzamento: in definitiva è a Dio che Cristo rimanda.

Nel v. 25 abbiamo una incisiva confessione di fede cristologica-pasquale, che presenta sia elementi arcaici-tradizionali, come la formulazione bipartita (cfr. 1Cor 15,3-5; 1Ts 4,14; Rm 8,34; 14,9; 1Pt 3,18), sia elementi tipici paolini, come il riferimento alla giustificazione. Il linguaggio usato in questo versetto, in particolare «fu consegnato per le nostre colpe», riecheggia molto da vicino quello di Is 53,5.6. 11-12 (il quarto canto del Servo di YHWH), implicando forti somiglianze con il pensiero lì espresso riguardo al valore espiatorio della morte (cfr. anche Rm 3,25). Da notare inoltre i due passivi («fu consegnato», «fu risuscitato»), che suppongono Dio come agente e introducono due frasi che vanno intese in senso finale: «per le nostre colpe», cioè per la loro eliminazione, quindi in senso espiatorio; e «per la nostra giustificazione», cioè per ottenere ai credenti il nuovo status di giustificati.


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Tanti interrogativi per due grandi questioni 1Che cosa dunque ha in più il Giudeo? E qual è l’utilità della circoncisione? 2Grande, sotto ogni aspetto. Anzitutto perché a loro sono state affidate le parole di Dio. 3Che dunque? Se alcuni furono infedeli, la loro infedeltà annullerà forse la fedeltà di Dio? 4Impossibile! Sia chiaro invece che Dio è veritiero, mentre ogni uomo è mentitore, come sta scritto: Affinché tu sia riconosciuto giusto nelle tue parole e vinca quando sei giudicato. 5Se però la nostra ingiustizia mette in risalto la giustizia di Dio, che diremo? Dio è forse ingiusto quando riversa su di noi la sua ira? Sto parlando alla maniera umana. 6Impossibile! Altrimenti, come potrà Dio giudicare il mondo? 7Ma se la verità di Dio abbondò nella mia menzogna, risplende di più per la sua gloria, perché anch’io sono giudicato ancora come peccatore? 8E non è come alcuni ci fanno dire: «Facciamo il male perché ne venga il bene»; essi ci calunniano ed è giusto che siano condannati.

Tutti sono colpevoli 9Che dunque? Siamo forse noi superiori? No! Infatti abbiamo già formulato l’accusa che, Giudei e Greci, tutti sono sotto il dominio del peccato, 10come sta scritto: Non c’è nessun giusto, nemmeno uno, 11non c’è chi comprenda, non c’è nessuno che cerchi Dio! 12Tutti hanno smarrito la via, insieme si sono corrotti; non c’è chi compia il bene, non ce n’è neppure uno. 13La loro gola è un sepolcro spalancato, tramavano inganni con la loro lingua, veleno di serpenti è sotto le loro labbra, 14la loro bocca è piena di maledizione e di amarezza. 15I loro piedi corrono a versare sangue; 16rovina e sciagura è sul loro cammino 17e la via della pace non l’hanno conosciuta. 18Non c’è timore di Dio davanti ai loro occhi. 19Ora, noi sappiamo che quanto la Legge dice, lo dice per quelli che sono sotto la Legge, di modo che ogni bocca sia chiusa e il mondo intero sia riconosciuto colpevole di fronte a Dio. 20Infatti in base alle opere della Legge nessun vivente sarà giustificato davanti a Dio, perché per mezzo della Legge si ha conoscenza del peccato.

Dio imparziale nel giustificare chi crede, in virtù del sangue di Cristo 21Ora invece, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla Legge e dai Profeti: 22giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. Infatti non c’è differenza, 23perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, 24ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù. 25È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della sua giustizia per la remissione dei peccati passati 26mediante la clemenza di Dio, al fine di manifestare la sua giustizia nel tempo presente, così da risultare lui giusto e rendere giusto colui che si basa sulla fede in Gesù. 27Dove dunque sta il vanto? È stato escluso! Da quale legge? Da quella delle opere? No, ma dalla legge della fede. 28Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge. 29Forse Dio è Dio soltanto dei Giudei? Non lo è anche delle genti? Certo, anche delle genti! 30Poiché unico è il Dio che giustificherà i circoncisi in virtù della fede e gli incirconcisi per mezzo della fede. 31Togliamo dunque ogni valore alla Legge mediante la fede? Nient’affatto, anzi confermiamo la Legge.

Approfondimenti

(cf LETTERA AI ROMANI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Giuseppe Pulcinelli © EDIZIONI SAN PAOLO, 2014)

Tanti interrogativi per due grandi questioni Avendo fin qui affermato che non c'è differenza tra giudeo e gentile di fronte alla giustizia retributiva di Dio e che non ci sono titoli o garanzie di superiorità del giudeo, sembrerebbe esclusa definitivamente qualsiasi particolarità ebraica. In 3,1-4 Paolo invece affermando che c'è un «di più» del giudeo che è «grande, sotto ogni aspetto»: se ci sono degli ebrei che, peccando, si ritrovano soggetti all'ira allo stesso modo dei gentili, questo non elimina la peculiarità storico-salvifica dei giudei nel loro complesso; essi sono infatti depositari e mediatori della rivelazione divina. La fedeltà salvifica di Dio nei riguardi d'Israele, suo popolo, non è messa in questione dall'infedeltà di alcuni (cfr. v. 3 e 2Tm 2,13), dal momento che Dio, a differenza dell'uomo menzognero, è veritiero (cfr. v. 4) e quindi rimane fedele alle sue promesse (cfr. 11,29). È proprio qui il nuovo snodo dell'argomentazione: ad essere prese di mira non sono più le azioni (cattive o buone) di alcuni (giudei o greci), ma ormai si punta a tutti gli uomini indistintamente, considerati nella loro inevitabile condizione di peccatori. Allo stesso tempo comincia a far capolino la base favorevole su cui l'uomo infedele/peccatore può poggiarsi, ossia la fedeltà incondizionata di Dio. Dunque l'imparzialità di Dio non annulla la posizione speciale di Israele.

La seconda questione, derivante dalla precedente, ma distinta da essa, è presentata ai v. 5-8: se, come ha appena finito di dire, l'infedeltà del giudeo non annulla la fedeltà di Dio (e ciò deve valere per tutti gli uomini), anzi tale ingiustizia dell'uomo fa venire alla luce la giustizia di Dio, cosicché la verità di Dio abbonda nella menzogna dell'uomo (cfr. 5,20b)... perché non si dovrebbe fare il male affinché ne venga un bene, peccare affinché si affermi la giustizia-verità-fedeltà di Dio? Paolo qui oppone una ferma negazione a tale errata conclusione, limitandosi però a rapide spiegazioni: da un lato ricorda quella che è considerata la componente punitiva della giustizia, cioè la sua ira nel giudizio finale (cfr. vv. 5-6), mentre dall'altro stigmatizza come calunnia e da condannare la tesi a lui attribuita (cfr v. 8). Dunque sebbene il peccato in qualche modo faccia risplendere la giustizia salvifica di Dio, non bisogna certo fare il male perché ne venga un bene. La trattazione della questione sarà affrontata ampiamente nei successivi capitoli 6-8.

Da notare che al v. 5 ricompare nell'epistola il sintagma «giustizia di Dio», già presente nella tesi-propositio (1,17); come là, e come poi emergerà soprattutto in 3,21-26 (connessa con la morte redentiva di Cristo), per Paolo ha sempre una portata positiva e, in specie, salvifica; qui d'altronde è posto in contrapposizione con ingiustizia-infedeltà-menzogna dell'uomo (cfr. vv. 3.5.7), e in chiaro parallelismo sinonimico con fedelta-verità di Dio (cfr. vv. 3.7). Tale apparentamento concettuale dei termini è riscontrabile in vari testi biblici, come per esempio nel Sal 40,11: «la tua giustizia non nascondo...; la tua fedeltà e la tua salvezza proclamo». Il v. 7 riprende la domanda del v. 5a, aggiungendo l'obiezione sulla qualifica di «peccatore»: perché dovrei essere giudicato come tale (cioè uno che si contrappone a Dio), se la mia menzogna permette a Dio di far abbondare la sua verità-fedeltà-giustizia (a sua gloria)? Il v. 8 riporta una sorta di slogan che doveva circolare nella comunità dei destinatari (o comunque da loro conosciuto) e che veniva attribuito a Paolo: «Facciamo il male perché ne venga il bene»; l'apostolo ripartirà esattamente da questo punto in 6,1 per offrire una risposta ben più articolata, mentre qui si limita a negare che tale sentenza faccia parte del suo insegnamento e dichiara giusta la condanna di chi gliela attribuisce.

Tutti sono colpevoli Ciò che risalta maggiormente e che caratterizza questo brano è la presenza sovrabbondante di varie citazioni scritturistiche, concatenate insieme come fossero una sola, sotto il comune denominatore del peccato e della malvagità umana:

  • vv. 10-12 = Sal 14,1-3 (universalità del male: nessun giusto, tutti hanno deviato);
  • v. 13a = Sal 5,10 (gola e lingua, organi della parola volta al male);
  • v. 13b = Sal 140,4 (labbra);
  • v. 14 = Sal 10,7 (bocca);
  • vv. 15-17 = Is 59,7-8 (i piedi, la via: dalle parole ai misfatti);
  • v. 18 (non c'è timore di Dio, ripresa dei vv. 10-12) = Sal 36, 1-2.

Tale massiccio ricorso alla Scrittura (il più esteso in tutto l'episolario paolino) è dovuto al fatto che ciò che Paolo vuole dimostrare non può basarsi solato sul ragionamento o sull'esperienza diretta, ma necessita appunto della prova suprema, inappellabile, costituita dall'autorità divina rivelata.

La prima tesi da dimostrare è quella dell'universalità del peccato: v. 9b «tutti... sono sotto il peccato» (e poi v. 19b «il mondo intero [è] colpevole di fronte a Dio»); l'altra, correlata alla prima e più ardita, è che le opere richieste dalla Legge non ottengono la giustificazione di nessuno, e che anzi la Legge favorisce solo la conoscenza del peccato (cfr. v. 20).

Se si confronta con quanto è stato detto in tutta la sezione da 1,18 fin qui, si nota che in questo brano conclusivo la situazione dell'umanità peccatrice appare più cupa e grave che mai: mentre infatti fino a 3,8 si ammetteva la possibilità per l'uomo, sia gentile che giudeo, di compiere il bene (cfr. 2,7.10.13-15.25), e si riconosceva la peculiarità del giudeo in quanto primo destinatario della rivelazione divina (cfr. 3,1-4), ora invece non si ammette nessuna eccezione o distinzione (non a caso al v. 9b non compare più il consueto «prima» del giudeo); ma lo scopo di Paolo non era tanto quello di presentare genericamente lo stato di abbrutimento morale di tutta l'umanità, magari per far risaltare maggiormente l'azione redentiva di Dio, quanto piuttosto di preparare – attraverso la presentazione del principio dell'imparzialità di Dio applicato all'ira che incombe su ogni empietà umana senza eccezioni (cfr. 1,18) – l'annuncio sorprendente della giustizia salvifica di Dio che, in base allo stesso principio, si applica gratuitamente a tutti gli uomini, senza distinzioni tra chi è giudeo e chi non lo è, per tutti unicamente mediante la fede, senza le opere della Legge (cfr. 3,21-26). Dunque la piena equiparazione tra giudei e greci avviene sotto il dominio del «peccato» (v. 9b), termine che si incontra qui per la prima volta in Romani («peccatore» in 3,7 e il verbo «peccare» già in 2,12); Paolo, da parte sua, preferisce parlare di «peccato» al singolare, piuttosto che al plurale, visto il più delle volte come una sorta di potenza negativa personificata che assoggetta l'uomo, e da cui egli viene liberato grazie alla redenzione realizzata da Cristo. L'apostolo qui afferma di aver già formulato l'accusa che «tutti... sono sotto il peccato»: andando a ritroso però ci si accorge che in termini così assoluti non l'aveva ancora espressa, e tuttavia aveva usato un'espressione potenzialmente analoga in 3,4 («ogni uomo è menzognero»).

Il v. 19b esprime la finalità della lunga citazione biblica, stabilire cioè che non c'è nessuno che possa obiettare la propria innocenza davanti a Dio, e così spazzare il campo da ogni possibile presunzione di sé. Ma è il v. 20, pur collegato al precedente, a rappresentare l'obiettivo più importante nell'argomentazione condotta fin qui: se non c'è nessuno che compie soltanto il bene, se tutti sono colpevoli e sotto il dominio del peccato, allora vuol dire che la Legge con i suoi precetti non è in grado di rendere giusto nessuno davanti a Dio (v. 20a; cosa che un giudeo – la cui posizione è espressa in 2,13 – difficilmente avrebbe sottoscritto). La Legge si rivela impotente in ordine alla giustificazione dell'uomo, non tanto perché essa viene immancabilmente trasgredita, ma perché non offre aiuto al trasgressore, anzi, non fa altro che accusarlo (v. 20b). In realtà nel pensiero di Paolo l'obiezione principale nei confronti della Legge che non può giustificare, e che già influenza questi ragionamenti, è costituita essenzialmente dall'annuncio che sta per fare a partire da 3,21. È importante segnalare qui l'utilizzo di una frase del Sal 143,2 («nessun vivente sarà trovato giusto al tuo cospetto»), che Paolo riprende premettendole la frase «in base alle opere della Legge»; tale salmo infatti contiene uno dei parallelismi più pregnanti tra «giustizia» e «misericordia» (143,11), che costituiscono proprio lo sfondo più adatto per la comprensione del sintagma «giustizia di Dio» in 3,21 e in tutta la lettera.

Dio imparziale nel giustificare chi crede, in virtù del sangue di Cristo A questo punto, quando ormai il quadro fosco sembra completo, nel momento in cui il lettore-destinatario della lettera ai Romani si attenderebbe l'annuncio dell'inevitabile intervento punitivo della giustizia irata di Dio, in 3,21 Paolo provoca un indovinato effetto-sorpresa: è la giustizia salvifica di Dio che viene manifestata e non quella retributiva, a cui è connessa la collera. E questo indipendentemente dalla Legge. In realtà la sorpresa non è totale, dal momento che il concetto positivo di giustizia di Dio, come abbiamo visto, era stato già presentato – senza però essere spiegato – nella tesi-propositio di 1,16-17, dove si trovava in connessione con il Vangelo (la «giustizia di Dio» si rivela in esso, ciò nel Vangelo-lieto annunzio). Ora i vv. 21-22 riprendono e iniziano a sviluppare in tutte le sue potenzialità quanto là era stato annunciato, e a loro volta indicano che l'argomentazione seguente riguarderà il rapporto fede (in Cristo)-Legge; l'esclusione della Legge dall'evento della giustificazione viene affermata a più riprese fino al v. 31, mentre la menzione del fatto che essa è attestata delle Scritture («testimoniata dalla Legge e dai Profeti») troverà ampio sviluppo nel capitolo 4.

La giustizia di Dio viene menzionata ben quattro volte in 3,21-26 (già in 1,17; 3,5; e più sotto altre due volte in 10,3; fuori di Romani soltanto ancora in 2Cor 5,21 e Fil 3,9), quindi questo è il brano che vede la sua più alta concentrazione: senza dubbio, anche per il tono di proclama solenne, è il testo chiave per comprendere il messaggio paolino della giustificazione. La scelta del termine «giustizia» per esprimere la modalità benefica dell'essere e dell'agire di Dio, consente a Paolo di inserirsi nella viva tradizione biblico-giudaica che aspettava la manifestazione potente della giustizia imparziale e salvifica di Dio, per affermare che ora essa «è stata manifestata» (v. 21) da Dio stesso in Cristo, nell'evento salvifico-escatologico della sua morte (e risurrezione, cfr. Rm 4,25). Dunque, non soltanto Dio non punisce (come ci si poteva aspettare), ma offre gratuitamente (cfr. v. 24) e a tutti indistintamente (cfr. v. 22) la giustificazione (cioè l'essere resi giusti), in virtù della redenzione realizzata attraverso la morte espiatrice di Cristo (cfr. v. 25: «con il suo sangue»); essendo un dono, la giustificazione non va meritata, ma chiede solamente di essere accolta, e questa accoglienza è costituita dalla fede (in Cristo). Dopo aver escluso perentoriamente l'altra, cioè la Legge con le sue pratiche, viene indicata l'unica modalità per ricevere il dono: «per mezzo della fede» (vv. 22a.25; cfr. 22b e 26c).

I vv. 24-26 trasmettono un pensiero portante di stampo giudeo-cristiano: Dio dimostra la sua giustizia nella morte di Gesù, che assume una funzione espiatrice per la remissione dei peccati passati. Il v. 25 fa ricorso al linguaggio cultuale, familiare ai suoi destinatari («espiazione [cioè la cancellazione dei peccati, ossia il perdono]... con il suo sangue») per illustrare la redenzione che si realizza in Cristo Gesù e ottiene per tutti (che hanno peccato, cfr. v. 23a) la giustificazione per grazia. Paolo riprende questo pensiero tradizionale, conferendogli però un chiaro tenore di universalità sia riguardo al tempo, sia riguardo ai destinatari (cfr. v. 26: «nel momento presente.../ [chiunque] si basa sulla fede in Gesù»), e soprattutto inserendo l'elemento chiave della fede.

Nei restanti vv. 27-31, dove troviamo una serie di domande incalzanti, l'elemento della fede viene ancora più enfatizzato (la si nomina ben cinque volte), e soprattutto posto al centro di quello che si può definire uno dei principi primi del pensiero paolino: «l'uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Logge» (v. 28), e se nella frase non compare l'avverbio «soltanto» («per la fede», cfr. il sola fide luterano), tuttavia il senso più genuino: proprio quello (così si deduce, p. es, dal parallelo di Gal 2,16, e così interpretata anche Tommaso d'Aquino); l'esclusione delle opere ha come effetto implicito quello di esaltare al massimo la gratuità della giustificazione (cfr. 3,24): al sola fide corrisponde il sola gratia.

L'altro elemento che si ritrova, connesso al precedente, è quello della portata universale della giustificazione (cfr. vv. 29-30: Dio è per tutti, giudei e non, e tutti sono giustificati mediante la fede, per questo non c'è possibilità di vanto da parte del giudeo né per le sue opere né per altri particolarismi connessi alla Legge; cfr. v. 27).

A questo punto Paolo lascia emergere l'obiezione prevedibile del suo interlocutore, reazione spontanea a quanto ha appena affermato: se è (soltanto) mediante la fede che si viene giustificati, la Legge è dunque abrogata, perdendo ogni funzione? (cfr. v. 31). Rigettando categoricamente tale possibile deduzione, Paolo introduce la dimostrazione scritturistica: «confermiamo la Legge» (v. 31); se la Legge non va ritenuta come mediazione salvifica, mantiene però tutto il suo valore in quanto disposizione divina contenuta nelle Scritture, anche riguardo alla giustificazione per fede (cfr. 3,21b: «testimoniata dalla Legge e dai Profeti»), ed è quanto sta per dimostrare con l'esempio di Abramo (cfr. c. 4).


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La giustizia imparziale 1Perciò chiunque tu sia, o uomo che giudichi, non hai alcun motivo di scusa perché, mentre giudichi l’altro, condanni te stesso; tu che giudichi, infatti, fai le medesime cose. 2Eppure noi sappiamo che il giudizio di Dio contro quelli che commettono tali cose è secondo verità. 3Tu che giudichi quelli che commettono tali azioni e intanto le fai tu stesso, pensi forse di sfuggire al giudizio di Dio? 4O disprezzi la ricchezza della sua bontà, della sua clemenza e della sua magnanimità, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione? 5Tu, però, con il tuo cuore duro e ostinato, accumuli collera su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio, 6che renderà a ciascuno secondo le sue opere: 7la vita eterna a coloro che, perseverando nelle opere di bene, cercano gloria, onore, incorruttibilità; 8ira e sdegno contro coloro che, per ribellione, disobbediscono alla verità e obbediscono all’ingiustizia. 9Tribolazione e angoscia su ogni uomo che opera il male, sul Giudeo, prima, come sul Greco; 10gloria invece, onore e pace per chi opera il bene, per il Giudeo, prima, come per il Greco: 11Dio infatti non fa preferenza di persone.

La legge che hanno i giudei non rappresenta un privilegio 12Tutti quelli che hanno peccato senza la Legge, senza la Legge periranno; quelli invece che hanno peccato sotto la Legge, con la Legge saranno giudicati. 13Infatti, non quelli che ascoltano la Legge sono giusti davanti a Dio, ma quelli che mettono in pratica la Legge saranno giustificati. 14Quando i pagani, che non hanno la Legge, per natura agiscono secondo la Legge, essi, pur non avendo Legge, sono legge a se stessi. 15Essi dimostrano che quanto la Legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono. 16Così avverrà nel giorno in cui Dio giudicherà i segreti degli uomini, secondo il mio Vangelo, per mezzo di Cristo Gesù. 17Ma se tu ti chiami Giudeo e ti riposi sicuro sulla Legge e metti il tuo vanto in Dio, 18ne conosci la volontà e, istruito dalla Legge, sai discernere ciò che è meglio, 19e sei convinto di essere guida dei ciechi, luce di coloro che sono nelle tenebre, 20educatore degli ignoranti, maestro dei semplici, perché nella Legge possiedi l’espressione della conoscenza e della verità... 21Ebbene, come mai tu, che insegni agli altri, non insegni a te stesso? Tu che predichi di non rubare, rubi? 22Tu che dici di non commettere adulterio, commetti adulterio? Tu che detesti gli idoli, ne derubi i templi? 23Tu che ti vanti della Legge, offendi Dio trasgredendo la Legge! 24Infatti sta scritto: Il nome di Dio è bestemmiato per causa vostra tra le genti. 25Certo, la circoncisione è utile se osservi la Legge; ma, se trasgredisci la Legge, con la tua circoncisione sei un non circonciso. 26Se dunque chi non è circonciso osserva le prescrizioni della Legge, la sua incirconcisione non sarà forse considerata come circoncisione? 27E così, chi non è circonciso fisicamente, ma osserva la Legge, giudicherà te che, nonostante la lettera della Legge e la circoncisione, sei trasgressore della Legge. 28Giudeo, infatti, non è chi appare tale all’esterno, e la circoncisione non è quella visibile nella carne; 29ma Giudeo è colui che lo è interiormente e la circoncisione è quella del cuore, nello spirito, non nella lettera; la sua lode non viene dagli uomini, ma da Dio.

Approfondimenti

(cf LETTERA AI ROMANI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Giuseppe Pulcinelli © EDIZIONI SAN PAOLO, 2014)

La giustizia imparziale L'inizio del capitolo a sembra trarre qualche conseguenza da quanto appena affermato e insieme portare avanti il discorso sulla stessa linea. In realtà il cambiamento c'è e si nota soprattutto nel soggetto: ora ci si rivolge a un «tu» che, come si può facilmente intuire, non va identificato con qualcuno in particolare dei destinatari della lettera (e neppure semplicemente con il giudeo): ad essere interpellato infatti è un generico «chiunque tu sia, o uomo». L'azione principale di questo «tu», che viene riprovata, è quella di giudicare gli altri senza averne i diritto (cfr. Mt 7,1-5; Rm 12,19. Mentre finora si era trattato di tutti coloro che commettono l'ingiustizia (e approvano coloro che la praticano), ora invece si prende di mira chiunque critica e giudica costoro, ma si comporta – ipocritamente – allo stesso modo (rimprovero in sintonia con la tradizione evangelica: cfr. Le 6,42; 11,46 e paralleli; 16,15). Paolo qui dà spazio ad alcune convinzioni tradizionali del pensiero biblico-giudaico, sul modo in cui Dio applica la giustizia, basandosi cioè essenzialmente sulla retribuzione degli uomini in base al loro comportamento morale, retribuzione che prevede ovviamente la punizione dei colpevoli. Il giudizio di Dio, diversamente da quello degli uomini, è «secondo verità» (v. 2), è inevitabile (cfr. v. 3) ed è escatologico (cfr. i riferimenti al futuro: la dilazione del v. 4, il «giorno dell'ira» del v. 5, il tempo verbale del v. 6), mentre le conseguenze del male commesso non sono più confinate nel presente, come si era detto in 1,24-31. Della concezione tradizionale fa parte anche la ricompensa per le opere buone (implicitamente nel v. 6, esplicitamente nei vv. 7.10); non deve stupire di trovare qui tale valutazione positiva del ruolo delle opere e in genere della pratica della Legge (cfr. poi specialmente 2,13.15), dal momento che si è ancora al di fuori dell'ambito tipicamente evangelico della giustizia di Dio (da 3,20 in poi infatti tale ruolo sarà considerato soltanto negativo). Il risultato a cui punta Paolo in questa sezione, preparato già dal v. 6 (Dio «retribuirà ciascuno secondo le sue opere», citazione di Pr 24,12), diviene esplicito nei vv. 9-10, ed è infine affermato solennemente al v. 11: l'equiparazione nella retribuzione tra giudeo e greco davanti al giudizio di Dio, fondata sulla sua imparzialità (tale uguaglianza era stata già annunciata nella tesi generale di 1,16-17). Questa prima conclusione dell'argomentazione contiene l'unico elemento di difformità rispetto alla teologia giudaica corrente; il suo universalismo, infatti, risente implicitamente già dell'influsso di una prospettiva teologica prettamente evangelica, che emergerà esplicitamente più avanti (cfr. 3,22-24).

La legge che hanno i giudei non rappresenta un privilegio Intenzionalmente Paolo finora ha evitato qualsiasi elemento che permettesse l'identificazione univoca di una delle due categorie che sono in gioco, giudeo e gentile. Anche se il destinatario è rimasto ancora indeterminato, tuttavia Paolo ha preparato il terreno per rivolgersi ora soprattutto al giudeo che – in quanto conoscitore della Legge divina (cfr. 2,17-18) – è più tentato di porsi ipocritamente in atteggiamento di giudizio-condanna. In questo brano s'impone il tema della Legge dal punto di vista giudaico, per cui la Legge mosaica rappresenta anche un discrimine nella divisione religiosa del mondo: da una parte i gentili, quelli cioè che sono «senza la Legge», e dall'altra quelli che hanno la Legge (cfr. v. 12), e ne vanno fieri, il popolo dell'alleanza. La questione che Paolo affronta riguarda dunque il possesso della Legge, se ciò sia sufficiente o meno ad assicurare il giudeo nel giudizio basato sulle opere (dopo aver precisato che la retribuzione avveniva per tutti in base alle opere). La risposta negativa a quella domanda è fondata sul principio condiviso che la Legge richiede la pratica e non solo l'ascolto (quanto affermerà in 3,20 potrebbe sembrare in contraddizione con quanto scrive ora in 2,13; ma qui Paolo sta ancora ragionando secondo il pensiero giudaico; cfr. anche Gc 1,25).

A dimostrazione di ciò egli argomenta ricordando che anche i non giudei possono operare il bene «per natura»: quanto esige la Legge, infatti, e scritto nei loro cuori (cfr. Pr 3,3; Is 51,7), per cui anch'essi hanno una legge, quella basata sulla coscienza, che li abilita a riconoscere il bene e il male. Ciò che può apparire qui come un'esaltazione dell'etica pagana, ha tuttavia soprattutto l'intento di promuovere il greco al livello del giudeo, il quale perciò inevitabilmente finisce per risultare declassato (come si evince soprattutto dai vv. 17-24). Nel v. 16 sorprende, nella seconda parte, l'unica menzione di Cristo e del Vangelo, in una sezione (1,18-3,20) che si propone di ragionare con categorie prettamente giudaiche; è probabile che Paolo voglia lasciar intravedere qualcosa della novità rappresentata dalla mediazione di Cristo, di cui parlerà dopo (cfr. 5,9-10), in rapporto con il tema attuale del giudizio; l'imparzialità di Dio nel giudicare va di pari passo con la conoscenza che egli ha delle «cose nascoste», di ciò che è nel cuore degli uomini (v. 16; cft. anche 2,11 e poi 1Re 8,39; 1Sam 16,7).

La severa sezione che Paolo indirizza al giudeo nei vv. 17-24 (e che potrebbe intitolarsi: «predichi bene ma razzoli male») non ha l'intenzione di offendere o di condannare i giudei in generale (magari da un punto di vista cristiano, fomentando così l'antisemitismo!), ma di stigmatizzare, attraverso la tipizzazione di un interlocutore fittizio connotato da presunzione e incoerenza, soltanto chi tra loro è portato a esaltare le prerogative giudaiche incentrate sulla Legge (cfr. vv. 17-20) e vive al contempo in contraddizione con essa (cfr. vv. 21-23). Alla figura dell'esperto della Legge, fiero di conoscerla e possederla, tratteggiata in 2,17-23 si potrebbe ben accostare il detto di Mt 11,25 in cui Gesù parla dei saggi e degli intelligenti, ai quali restano nascoste le cose del Regno, rivelate invece ai piccoli, o in genere i rimproveri di Gesù nei confronti di scribi e farisei (cfr. Mt 23; Lc 18,9-14).

Paolo afferma in definitiva che la Legge non serve al giudeo, se essa viene trasgredita, anzi, invece di essere motivo di vanto e pretesto di superiorità sul gentile, rappresenta una responsabilità in più; il giudeo che pecca sarà considerato alla stregua del pagano peccatore, cosicché, di fronte alla retribuzione divina, è come se venisse dissolta la sua identità ebraica. Non c'è dunque nulla che possa distinguere il giudeo dal greco? Per avvalorare la sua risposta di segno negativo, Paolo porta l'esempio della circoncisione, il segno distintivo fisico e insieme socio-religioso peculiare del giudeo, che poteva costituire un motivo di sicurezza, in virtù dell'alleanza che esso significava (cfr. Gen 17,10-11); ebbene, neanche la circoncisione serve a qualcosa, se il circonciso non è osservante della Legge (cfr. v. 25), mentre il non circonciso che la osserva, non solo viene considerato circonciso, ma addirittura si ergerà a giudice dei circoncisi trasgressori (cfr. vv. 26-27); cosi Paolo arriva a dire paradossalmente che Dio nella sua imparzialità potrà considerare circonciso un greco e incirconciso un ebreo.

Il culmine del ragionamento viene raggiunto quando l'apostolo afferma che di fronte a Dio a valere non è la circoncisione esteriore ma quella del cuore (cfr. vv. 28-29); riprendendo con questa immagine una metafora classica dell'Antico Testamento, usata per esprimere il primato dell'interiorizzazione della Legge, tipica specialmente della predicazione profetica (cfr. Dt 10,16; 30,6; Ger 4,4; e, in negativo, Ger 9,24-25), si punta a delineare la figura del vero giudeo, quello cioè che lo è internamente, circonciso nel cuore e nello spirito, al di là della circoncisione fisica (altrove, non qui, Paolo parla dei cristiani come dei «veri circoncisi»: Fil 3,3). Questi sarà riconosciuto da Dio, che solo scruta i cuori (non dagli uomini, che giudicano dall'esterno) e perciò da Lui riceverà la lode (cfr. v. 29; si veda anche 1Cor 4,5).


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Il prescritto 1Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio – 2che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture 3e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, 4costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti, Gesù Cristo nostro Signore; 5per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia di essere apostoli, per suscitare l’obbedienza della fede in tutte le genti, a gloria del suo nome, 6e tra queste siete anche voi, chiamati da Gesù Cristo –, 7a tutti quelli che sono a Roma, amati da Dio e santi per chiamata, grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo!

Ringraziamento ed esordio 8Anzitutto rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo riguardo a tutti voi, perché della vostra fede si parla nel mondo intero. 9Mi è testimone Dio, al quale rendo culto nel mio spirito annunciando il vangelo del Figlio suo, come io continuamente faccia memoria di voi, 10chiedendo sempre nelle mie preghiere che, in qualche modo, un giorno, per volontà di Dio, io abbia l’opportunità di venire da voi. 11Desidero infatti ardentemente vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale, perché ne siate fortificati, 12o meglio, per essere in mezzo a voi confortato mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io. 13Non voglio che ignoriate, fratelli, che più volte mi sono proposto di venire fino a voi – ma finora ne sono stato impedito – per raccogliere qualche frutto anche tra voi, come tra le altre nazioni. 14Sono in debito verso i Greci come verso i barbari, verso i sapienti come verso gli ignoranti: 15sono quindi pronto, per quanto sta in me, ad annunciare il Vangelo anche a voi che siete a Roma.

Il tema fondamentale: la funzione salvifica del Vangelo 16Io infatti non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco. 17In esso infatti si rivela la giustizia di Dio, da fede a fede, come sta scritto: Il giusto per fede vivrà.

La giustizia punitiva 18Infatti l’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia, 19poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha manifestato a loro. 20Infatti le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute. Essi dunque non hanno alcun motivo di scusa 21perché, pur avendo conosciuto Dio, non lo hanno glorificato né ringraziato come Dio, ma si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata. 22Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti 23e hanno scambiato la gloria del Dio incorruttibile con un’immagine e una figura di uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili. 24Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, tanto da disonorare fra loro i propri corpi, 25perché hanno scambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno adorato e servito le creature anziché il Creatore, che è benedetto nei secoli. Amen. 26Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; infatti, le loro femmine hanno cambiato i rapporti naturali in quelli contro natura. 27Similmente anche i maschi, lasciando il rapporto naturale con la femmina, si sono accesi di desiderio gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi maschi con maschi, ricevendo così in se stessi la retribuzione dovuta al loro traviamento. 28E poiché non ritennero di dover conoscere Dio adeguatamente, Dio li ha abbandonati alla loro intelligenza depravata ed essi hanno commesso azioni indegne: 29sono colmi di ogni ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; pieni d’invidia, di omicidio, di lite, di frode, di malignità; diffamatori, 30maldicenti, nemici di Dio, arroganti, superbi, presuntuosi, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, 31insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia. 32E, pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose meritano la morte, non solo le commettono, ma anche approvano chi le fa.

Approfondimenti

(cf LETTERA AI ROMANI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Giuseppe Pulcinelli © EDIZIONI SAN PAOLO, 2014)

La lettera ai Romani è considerata uno degli scritti più importanti delle origini cristiane, punto di riferimento continuo della teologia fino ai nostri giorni; basti pensare al ruolo che questa lettera ebbe nella conversione e nella riflessione di Agostino d'Ippona, oppure nell'ispirazione della riforma protestante di Lutero, o ancora nel superamento della teologia liberale avvenuto con il commento che ne fece Karl Barth (1922). Di fatto è lo scritto paolino più lungo, quasi certamente l'ultimo composto dall'apostolo e, anche se presenta alcuni temi rintracciabili in altre lettere (specialmente Galati), il tono è in qualche modo diverso dalle altre. Tra tutte è la meno legata a circostanze concrete della comunità a cui si rivolge, e ciò, almeno in parte, è dovuto al fatto che Paolo non ne era stato il fondatore e che al momento in cui scrive non l'aveva ancora visitata; forse proprio per questo, mentre emergono meno le questioni contingenti, risulta essere la più “pensata” e quindi strutturata secondo un disegno ben preciso, per cui alla fine si rivela come una sintesi particolarmente riuscita, anche se non completa, della teologia dell'apostolo, o per lo meno della sua ermeneutica del Vangelo.

L'ermeneutica paolina del Vangelo Per cogliere adeguatamente la straordinarietà del valore teologico della lettera ai Romani e insieme comprendere le ragioni di un perdurante dibattito sulle intenzioni di questo scritto, è utile prima di tutto rendersi conto di una sproporzione: il mittente è un singolo che ha davanti a sé un piccolo movimento religioso allo stato nascente, un gruppo sparuto di persone sparse in varie cellule familiari-comunitarie (cfr. Rm 16,3-15; presumibilmente cento-centocinquanta persone in tutto), di diversa estrazione sociale, comunque piuttosto medio-bassa, praticamente irrilevanti dal punto di vista sociopolitico se raffrontate all'imponenza della capitale dell'impero con la sua ingente popolazione; eppure Paolo, senza avere una loro conoscenza diretta, si diffonde in una trattazione che, possiamo ben dire, è sconfinata, come se, mentre si sta rivolgendo a questa piccola cerchia di credenti, allo stesso tempo con il suo sguardo riflessivo abbracciasse l'universo intero e, insieme a esso, tutta la storia concernente il futuro delle nazioni, a partire da quello del popolo eletto. Questa immensa prospettiva è originata da un alto punto di osservazione: l'evento apocalittico-salvifico rappresentato da Cristo, un punto che fondamentalmente accomuna mittente e destinatari, il credere cioè in Gesù in quanto Messia (Cristo) e Signore (Kyrios) morto e risorto, centro del Vangelo. Allo stesso tempo però il suo modo di interpretare questo Vangelo non coincide totalmente con quello dei destinatari: lo scritto rende ragione proprio di questa differenza e naturalmente soprattutto della fondatezza della prospettiva paolina.

Luogo e data della composizione della lettera Vari indizi concorrono a far ritenere che quando Paolo scrive la lettera ai Romani si trova a Corinto: sta infatti per recarsi a Gerusalemme per portare la colletta raccolta tra le Chiese dei gentili che si trovano in Macedonia e in Acaia, quindi in Grecia (cfr. 15,25-26; il viaggio viene narrato in At 20,3-21,17; cfr. 24,17); poi parla di Febe (cfr. 16,1-2) che era diacono di Cencre, porto orientale di Corinto; quindi saluta Gaio ed Erasto (cfr. 16,23), il primo è quasi sicuramente lo stesso di cui parla in 1Cor 1,14, il secondo anche altrove è messo in relazione con la stessa città (cfr. At 19,22; 2Tm 4,20). Per quanto riguarda la datazione, tenendo conto che Paolo si trova alla fine del terzo viaggio missionario e prima della sua ultima visita a Gerusalemme, essa va collocata intorno al 57 d.C.

Il prescritto Come tutte le lettere antiche e le altre lettere dell'apostolo, il prescritto di Romani presenta gli elementi classici del nome del mittente (superscriptio), del nome dei destinatari (adscriptio) e dei saluti (salutatio); ma a fare la differenza è un'ampiezza che non ha paragoni, trattandosi di ben sette versetti (il parallelo più vicino è Gal 1,1-5).

Lo spazio maggiore è occupato dalla presentazione del mittente (cfr. vv. 1-5): tale ampiezza è motivata certamente dal fatto che Paolo si sta rivolgendo a una comunità che non ha fondato e che non lo conosce direttamente, ma se fin dall'inizio sente di dover enfatizzare le qualifiche relative alla sua chiamata all'apostolato e dire qualcosa del Vangelo che annuncia, probabilmente è anche perché sa che tra i destinatari, oltre a comprovate incomprensioni riguardo alla sua ermeneutica del Vangelo (cfr. 3,8), potevano esserci dei pregiudizi nei suoi confronti. La prima qualifica con la quale egli sceglie di presentarsi ai Romani (cfr. anche Fil 1,1) ha una connotazione molto forte: si definisce «schiavo» e con ciò vuol dire che egli non appartiene più a se stesso, ma è proprietà esclusiva, e perciò a totale servizio, di qualcuno che ne può disporre come vuole. Il secondo titolo è quello di «apostolo», cioè «inviato», «mandato» (così anche in 1Cor 1,1; 2Cor 1,1; Gal 1,1). Tale qualificazione implica l'esistenza di un mandante, il medesimo che è all'origine della chiamata, cioè Dio stesso. Per Paolo, quindi, i criteri che costituiscono l'«apostolo» non coincidono con il criterio di convivenza con il Gesù terreno, proprio dei «dodici» (cfr. l'elezione di Mattia in At 1,21-22).

Al v. 2, il Vangelo, di cui Paolo non ha ancora precisato il contenuto, è descritto come «preannunciato»: aveva già avuto delle anticipazioni ed era stato assicurato con promesse mediante la predicazione profetica nelle Scritture d'Israele (cfr. 1Cor 15,3.4); le numerose citazioni dell'Antico Testamento in Romani confermeranno questo forte collegamento con la storia della salvezza concepita come orientata a Cristo.

Nei successivi vv. 3b-4a Paolo comincia a esprimere il contenuto del Vangelo. Dopo aver precisato lo scopo del suo apostolato e il campo d'azione di portata ecumenica (v. 5: «tra tutte le genti», cioè i non-ebrei), finalmente arriva a menzionare i destinatari: «tra queste siete anche voi» (v. 6). Ciò non tanto per dire che anche i credenti di Roma vanno annoverati «tra» i gentili (quasi volesse far intendere che essi sono prevalentemente di derivazione gentile), ma per indicare che essi si trovano a vivere «tra» i gentili.

Alla fine del prescritto la salutatio («Grazia a voi e pace» v.7) è praticamente identica nella sua tipicità in tutte le lettere paoline: non soltanto unisce una riformulazione del classico saluto greco chaîre (il sostantivo analogo cháris è uno dei termini forti della teologia paolina, serve a esprimere l'azione gratuita e benefica di Dio in favore degli uomini, è ripetuto ventiquattro volte solo in Romani) alla traduzione del termine ebraico Salôm (pace come pienezza di vita e anche dono escatologico), ma la formula augurale implica in un certo senso che Paolo funge da mediatore di questi doni divini.

Ringraziamento ed esordio In tutte le lettere paoline, a eccezione di Galati, al prescritto segue il ringraziamento che Paolo rivolge a Dio riguardo ai credenti («rendo grazie», v. 8):il ringrariamento è la forma di preghiera che l'apostolo predilige (e raccomanda, cfr. 1Ts5,17-18), in questo caso essa costituisce anche un complimento ai Romani (per la testimonianza di fede). Il ringraziamento-esordio mostra l'intento di Paolo di stabilire un clima di affinità e sintonia comunicativa con i destinatari lontani e mai incontrati finora. Il segno di un certo imbarazzo (comprensibile in chi cerca di ottenere un atteggiamento di benevolenza in questo primo approccio) è rintracciabile nel momento in cui egli esprime e man mano “corregge” il motivo del suo desiderio: il comunicare loro qualche dono spirituale, o meglio il trarre conforto dalla condivisione della fede comune, il raccogliere qualche frutto apostolico anche tra loro (cfr. vv. 11-13).

Il tema fondamentale: la funzione salvifica del Vangelo Qui è formulata la tesi principale della lettera, ossia ciò che si intende dimostrare, nei termini della retorica antica la propositio: il Vangelo è «potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede [...]. È la giustizia di Dio, infatti, che in essa si rivela». Nella frase risultano strettamente connessi tra loro i termini «Vangelo» / «potenza di Dio» / «salvezza» / «giustizia di Dio», tutti connotati in senso positivo, tra cui spicca il primo che è anche il soggetto.

La giustizia punitiva Il modo con cui Paolo inizia lo svolgimento del tema principale suscita perplessità. In effetti il tono molto positivo dei vv. 16-17 è subito abbandonato al v. 18 («l'ira di Dio si rivela dal cielo su ogni empietà e ogni ingiustizia [... degli] uomini») e il quadro rimane negativo in tutta questa sezione.

Dopo il v. 18, che con il suo tono apocalittico rappresenta una specie di anti-tesi rispetto alla tesi propositio (cfr. 1,16-17), Paolo introduce il tema non originale della manifestazione di Dio attraverso il creato e la conseguente possibilità per l'intelligenza umana di pervenire alla conoscenza della sua «eterna potenza e divinità» (v. 20). Tale conoscenza si è rivelata insufficiente per un vero riconoscimento; essa ha anzi generato colpevolezza (cfr. v. 21: «avendo conosciuto Dio, non lo glorificarono come Dio né gli resero grazie»), orgogliosa ottusità, e ha portato all'idolatria (vv. 21-23). La presunta sapienza umana si infrange nel momento in cui confonde e scambia la creazione con il Creatore: in questo consiste la radice di ogni idolatria, che comincia con l'elevazione dei fenomeni umani (comprese le capacità intellettive dell'uomo) e animali a esperienza del divino. È praticamente l'unica volta che in Paolo si trova tematizzata la polemica anti-idolatrica (in altre sue lettere vi accenna solamente; cfr. 1Cor 8-10, dove ricorre la terminologia ma non si prende di petto la questione), mentre Luca negli Atti la mette alla base del famoso discorso di Atene (cfr. At 17,16-17); sullo sfondo del v. 23 risuonano testi come il Sal 106,20 («scambiarono la loro gloria con la figura di un toro che mangia fieno»), Ger 2,11 ed Es 32.

Nella parte restante del capitolo 1 (vv. 24-32 – forse il brano con i toni più pessimisti di tutto l'epistolario paolino) si descrivono le conseguenze nefaste di questo traviamento religioso sul piano del comportamento, che giungono fino a far perdere del tutto il senso morale (cfr. v. 32).

Il ritornello che scandisce la modalità della punizione divina (cfr. vv. 24.26.28: «Dio li consegnò»), il modo cioè in cui si attua l'ira di Dio nei confronti degli idolatri e immorali, non esprime in realtà l'azione diretta di Dio che castiga, ma il suo abbandonare chi commette tali cose alla pena costituita dal male intrinseco ad esse (non c'è quindi richiamo a un giudizio escatologico); ciò è in sintonia con passi biblici come Is 64,4.5,6 («tu ti sei adirato e noi abbiamo peccato [...] contro di te. [...] Le nostre iniquità ci portano via come vento. [...] Ci hai consegnato in balia delle nostre colpe») ed è un'eco di concetti presenti nella letteratura sapienziale (cfr. Sap 11,16: «ognuno è punito per mezzo di quelle cose per le quali pecca»), ben conosciuti anche nel pensiero stoico (cfr. Seneca, Lettere 87,24: «La massima punizione dei delitti sta in essi stessi»). Il generico «disonorare i loro corpi tra di loro» (v. 24) trova concreta esemplificazione con il solo caso dell'omosessualità (cfr. vv. 26-27; essa fa parte del campo semantico della porneia – traducibile con «fornicazione», «prostituzione» o, più generalmente, «immoralità sessuale» – che però in tutto il brano non viene menzionata); mentre ai vv. 29-31 si trova non a caso il più lungo elenco di vizi in Paolo, uno dei tanti esempi di questo genere letterario diffuso nella letteratura antica e nel Nuovo Testamento (cfr., p. es., Rm 13,12-14; 1Cor 5,9-11; 6,9-10; 2Cor 12,20-21; Gal 5,19-21; Mt 15,19; Mc 7,21-22), che tuttavia non può definirsi completo; mentre ricorrono infatti dei termini sinonimi, non sono menzionati altri peccati come l'adulterio e la fornicazione, che appartengono alla sfera sessuale.


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Paolo sull'isola di Melìte 1Una volta in salvo, venimmo a sapere che l’isola si chiamava Malta. 2Gli abitanti ci trattarono con rara umanità; ci accolsero tutti attorno a un fuoco, che avevano acceso perché era sopraggiunta la pioggia e faceva freddo. 3Mentre Paolo raccoglieva un fascio di rami secchi e lo gettava sul fuoco, una vipera saltò fuori a causa del calore e lo morse a una mano. 4Al vedere la serpe pendergli dalla mano, gli abitanti dicevano fra loro: «Certamente costui è un assassino perché, sebbene scampato dal mare, la dea della giustizia non lo ha lasciato vivere». 5Ma egli scosse la serpe nel fuoco e non patì alcun male. 6Quelli si aspettavano di vederlo gonfiare o cadere morto sul colpo ma, dopo avere molto atteso e vedendo che non gli succedeva nulla di straordinario, cambiarono parere e dicevano che egli era un dio. 7Là vicino vi erano i possedimenti appartenenti al governatore dell’isola, di nome Publio; questi ci accolse e ci ospitò con benevolenza per tre giorni. 8Avvenne che il padre di Publio giacesse a letto, colpito da febbri e da dissenteria; Paolo andò a visitarlo e, dopo aver pregato, gli impose le mani e lo guarì. 9Dopo questo fatto, anche gli altri abitanti dell’isola che avevano malattie accorrevano e venivano guariti. 10Ci colmarono di molti onori e, al momento della partenza, ci rifornirono del necessario.

Da Melìte a Roma 11Dopo tre mesi salpammo con una nave di Alessandria, recante l’insegna dei Diòscuri, che aveva svernato nell’isola. 12Approdammo a Siracusa, dove rimanemmo tre giorni. 13Salpati di qui, giungemmo a Reggio. Il giorno seguente si levò lo scirocco e così l’indomani arrivammo a Pozzuoli. 14Qui trovammo alcuni fratelli, i quali ci invitarono a restare con loro una settimana. Quindi arrivammo a Roma. 15I fratelli di là, avendo avuto notizie di noi, ci vennero incontro fino al Foro di Appio e alle Tre Taverne. Paolo, al vederli, rese grazie a Dio e prese coraggio.

Paolo a Roma 16Arrivati a Roma, fu concesso a Paolo di abitare per conto suo con un soldato di guardia.

Il primo incontro con i giudei 17Dopo tre giorni, egli fece chiamare i notabili dei Giudei e, quando giunsero, disse loro: «Fratelli, senza aver fatto nulla contro il mio popolo o contro le usanze dei padri, sono stato arrestato a Gerusalemme e consegnato nelle mani dei Romani. 18Questi, dopo avermi interrogato, volevano rimettermi in libertà, non avendo trovato in me alcuna colpa degna di morte. 19Ma poiché i Giudei si opponevano, sono stato costretto ad appellarmi a Cesare, senza intendere, con questo, muovere accuse contro la mia gente. 20Ecco perché vi ho chiamati: per vedervi e parlarvi, poiché è a causa della speranza d’Israele che io sono legato da questa catena». 21Essi gli risposero: «Noi non abbiamo ricevuto alcuna lettera sul tuo conto dalla Giudea né alcuno dei fratelli è venuto a riferire o a parlar male di te. 22Ci sembra bene tuttavia ascoltare da te quello che pensi: di questa setta infatti sappiamo che ovunque essa trova opposizione».

Il secondo incontro con i giudei 23E, avendo fissato con lui un giorno, molti vennero da lui, nel suo alloggio. Dal mattino alla sera egli esponeva loro il regno di Dio, dando testimonianza, e cercava di convincerli riguardo a Gesù, partendo dalla legge di Mosè e dai Profeti. 24Alcuni erano persuasi delle cose che venivano dette, altri invece non credevano. 25Essendo in disaccordo fra di loro, se ne andavano via, mentre Paolo diceva quest’unica parola: «Ha detto bene lo Spirito Santo, per mezzo del profeta Isaia, ai vostri padri: 26Va’ da questo popolo e di’: Udrete, sì, ma non comprenderete; guarderete, sì, ma non vedrete. 27Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano, e io li guarisca! 28Sia dunque noto a voi che questa salvezza di Dio fu inviata alle nazioni, ed esse ascolteranno!». [29]

Epilogo 30Paolo trascorse due anni interi nella casa che aveva preso in affitto e accoglieva tutti quelli che venivano da lui, 31annunciando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento.

Approfondimenti

(cf ATTI DEGLI APOSTOLI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Gérard Rossé © EDIZIONI SAN PAOLO, 2010)

Paolo sull'isola di Melìte Il narratore riempie i tre mesi di sosta a Melite (secondo la tradizione si tratta di Malta; non pochi studiosi mettono in dubbio ciò per vari motivi) con due episodi di miracoli: Paolo morso da una vipera rimane incolume (vv. 2b-6); il padre di Publio viene guarito (vv. 7-8.9). In questi racconti, narrati alla terza persona, non c'è accenno né alla condizione di prigioniero di Paolo, né al centurione e agli altri militari, né agli altri prigionieri. Forse Luca ha inserito nel contesto due racconti di varia provenienza. I vv. 1-2.7.1O, redatti alla prima persona plurale, fanno da cornice. Ma i due racconti non sono qui per caso: l'episodio della vipera conferma l'innocenza di Paolo e la particolare protezione divina di cui gode. Il secondo episodio presenta l'apostolo come portatore di salvezza, autentico continuatore di Gesù. Come prima cosa al lettore viene dato il nome dell'isola, Melite, abitata da barbari, cioè da persone che non parlano il greco. Il contesto del naufragio viene mantenuto (pioggia, freddo, fuoco, niente case), ma il narratore concentra la sua attenzione su Paolo, il quale agisce in piena libertà. Si accende un fuoco (per duecentosettantasei persone! Sotto la pioggia! Non c'era un tetto nei dintorni?): serve a introdurre l'episodio della vipera. Da buon discepolo di Cristo (cfr. Le 22,24-27), Paolo si mette a servire. Sta per alimentare il fuoco con dei rami secchi, quando una vipera stanata dal calore si attacca alla mano dell'uomo di Dio. Il serpente, simbolo ambivalente di guarigione e di morte, provoca la riflessione degli indigeni: Paolo è un omicida inseguito dalla vendetta divina. La riflessione corrisponde a un motivo noto nel mondo ellenistico: un malfattore non può scampare alla punizione. Invece viene di nuovo alla luce l'innocenza dell'apostolo: egli gode del favore di Dio. Paolo è preso per una divinità: ora a Luca interessa non reagire contro questa concezione, già criticata in 14,11-18, ma sottolineare la particolare protezione divina. Al v. 7 Luca introduce il racconto successivo con un vago cenno di ambientazione: Paolo è accolto amichevolmente dal «governatore dell'isola». Il tema dell'ospitalità è caro al redattore. L'apostolo, protetto da Dio, diventa a sua volta salvatore, dimostrando che Dio agisce attraverso di lui. Il padre di Publio soffre di accessi di febbre e di dissenteria. Soltanto in questo testo (v. 8) troviamo insieme la preghiera e l'imposizione delle mani per una guarigione. Ciò forse tradisce una prassi della Chiesa di Luca. L'imposizione delle mani suggerisce la trasmissione di una forza guaritrice, mentre la preghiera indica che essa viene da Dio. L'episodio si conclude con un sommario (v. 9), che ricorda l'attività taumaturgica di Gesù (Lc 4,40; 5,15; 7,21), di Pietro (At 5,16) e dello stesso Paolo (19,11-12). Il «noi» del v. 10 (Paolo e i cristiani con lui? Tutti i passeggeri della nave?) serve a legare l'ultimo episodio con il diario di viaggio.

Da Melìte a Roma Il soggiorno sull'isola dura il tempo della pausa invernale (mare clausum); la navigazione riprende normalmente in marzo. Le notizie sono brevi e precise. Ci si imbarca su di una nave alessandrina (trasportava grano?), che reca l'insegna dei Dioscuri, cioè Castore e Polluce, considerati protettori dei navigatori. La prima tappa è a Siracusa, circa 100 km da Malta (se Melite è Malta); una sosta di tre giorni sia per scaricare-caricare merce, sia per aspettare venti favorevoli. Poi si attracca a Reggio Calabria e finalmente a Pozzuoli, il grande porto tra Roma e l'Oriente (il porto di Ostia era in costruzione sotto Claudio). Da Pozzuoli i passeggeri prendono la via Campana fino a Capua, poi la via Appia. Ma c'è un'attesa di una settimana nel porto: il centurione aspettava istruzioni? Paolo approfitta per visitare la Chiesa locale. I sette giorni sono sufficienti perché la notizia dell'arrivo dell'apostolo giunga fino alla Chiesa della capitale. Di lì, come si usa per l'accoglienza di personalità importanti, i cristiani vanno incontro al grande visitatore. Scorta militare e altri prigionieri sono passati sotto silenzio. Paolo ringrazia Dio e riprende coraggio; lo conforta lo stare in una comunità dove il Risorto è presente e l'aver portato a termine il suo disegno (19,21; 23,11): giungere a Roma per portarvi la sua testimonianza.

Paolo a Roma La conclusione del libro comporta due incontri di Paolo con i giudei di Roma (28,17-22 e 23-28), racchiusi tra due elementi narrativi (vv. 16 e 30-31). Questa conclusione sorprende almeno per due motivi. Anzitutto, il suo apparente carattere di incompiutezza, perché non risponde alle giuste aspettative del lettore: come si svolse il processo dell'apostolo davanti al tribunale imperiale? Quale fu il suo esito? Come avvenne il martirio di Paolo? In secondo luogo, il contenuto stesso è inatteso: due incontri con i giudei; non si parla della Chiesa di Roma, né dell'attività dell'apostolo nella capitale dell'Impero. Eppure non siamo dinanzi a un lavoro incompiuto. Si tratta di una vera conclusione non soltanto degli Atti, ma dell'intera opera lucana. In essa confluiscono i grandi temi che attraversano l'opera e le danno il carattere di ricapitolazione. Il primo colloquio con i giudei utilizza la storia del processo di Paolo: egli è innocente. Il secondo incontro generalizza l'esperienza missionaria dell'apostolo: la predicazione del Vangelo provoca la divisione tra i giudei e dà origine alla Chiesa delle genti. Ora, proprio la tematica della divisione tra i giudei e quella della salvezza per i pagani costituiscono la grande inclusione con l'inizio dell'opera (Lc 2,30-34; 3,6-9; 4,25-29). D'altra parte, con l'arrivo di Paolo a Roma, si compie il programma di At 1,8: ciò che interessa l'autore non è scrivere la biografia del grande apostolo dei pagani, ma mostrare la diffusione della Parola secondo una linea ideale, che va da Gerusalemme a Roma, dal giudaismo alle nazioni, una rottura storica ma non storico-salvifica. Certamente, arrivato a Roma, al centro dell'Impero, il Vangelo non è ancora giunto «alle estremità della terra». Il narratore ha creato uno spazio bianco: lo spazio tra Roma e l'estremità della terra, cioè lo spazio per la missione della Chiesa lungo i secoli. Al v. 16 il narratore presenta la situazione che fa da sfondo a ciò che segue: Paolo, a Roma, si trova sotto custodia militaris; egli ha preso in affitto un alloggio (senz'altro con l'aiuto della comunità locale), può ricevere visite, ma è sempre sorvegliato da un soldato.

Il primo incontro con i giudei Tutta l'attenzione di Luca si concentra su Paolo; quella di quest'ultimo sui giudei di Roma che egli convoca senza indugio. L'insieme è redazionale, fornisce quindi il punto di vista dell'autore: i giudei non sono convocati in vista del processo, ma perché Luca intende legittimare l'apostolo ritenuto colpevole in un processo, che sembra dare ragione alle accuse dei giudei. Di conseguenza, sono sottolineate l'innocenza di Paolo e la sua fedeltà alla Legge d'Israele. Inoltre, per conformare il destino di Paolo a quello di Gesù, Luca scrive che l'apostolo è stato incatenato a Gerusalemme (dai giudei) e consegnato ai Romani. In realtà, Paolo stava per essere linciato dai giudei e fu salvato dai Romani. C'è un'altra situazione, che l'autore accomuna a quella di Gesù: i Romani volevano liberare Paolo, mentre i giudei ostacolano questa decisione. Al v. 20 l'apostolo esplicita il motivo per cui ha convocato i notabili giudei: convincerli che si trova in catene a causa della «speranza d'Israele», a causa della loro comune attesa del compimento delle promesse divine annunciate nella Scrittura. Abilmente il discorso passa dal caso processuale al centro dell'annuncio cristiano. La risposta dei notabili giudei avviene in due tempi (vv. 21 e 22). In un primo momento, dicono di non aver ricevuto né ufficialmente né a voce (per sentito dire) informazioni negative su Paolo; e ciò depone a favore della sua innocenza e predispone gli ebrei di Roma all'ascolto del Vangelo. Poi vogliono conoscere meglio questa «setta» che, nel contesto, non ha il senso negativo di setta o eresia, ma di movimento o scuola. Non è utile fare il confronto con la realtà storica; la dichiarazione serve a introdurre il sommario dall'annuncio cristiano e a mostrare paradigmaticamente l'effetto (la divisione) provocato dalla proclamazione del Vangelo sui giudei neutrali.

Il secondo incontro con i giudei Al secondo appuntamento i giudei si presentano più numerosi e Paolo espone l'annuncio cristiano «dal mattino alla sera». Viene così creata una scena rappresentativa, nella quale l'apostolo presenta al giudaismo l'intero messaggio cristiano. La scena prepara sia la reazione degli ascoltatori (v. 24), sia la citazione isaiana (vv. 26-27), sia l'annuncio del Vangelo al mondo pagano (v. 28), riassumendo la tesi principale del libro. Il v. 23b ricapitola il contenuto dei discorsi missionari rivolti ai giudei negli Atti. Anzitutto, l'annuncio del Regno di Dio come contenuto del lieto messaggio. La predicazione di Paolo viene in questo modo messa in continuità con quella di Gesù (Lc 4,43; At 1,3) e degli apostoli (Lc 10,9). In secondo luogo, lo sforzo di convincere su ciò che concerne Gesù, cioè la sua funzione messianica manifestata nella sua morte-risurrezione, e compresa come compimento della speranza d'Israele annunciata dai profeti. Infine, la testimonianza della Scrittura su Gesù. La reazione dei presenti (v. 24) corrisponde all'esperienza missionaria della Chiesa nel mondo giudaico: la proclamazione della Parola suscita accoglienza e rifiuto in Israele. Come già annunciato da Simeone (Lc 2,34), il messaggio cristiano è segno di contraddizione che provoca divisione. Ora, per l'evangelista, l'intera Scrittura conferma che Gesù è il Messia; di conseguenza, la risposta d'Israele come popolo eletto avrebbe dovuto essere positiva. E questa risposta non c'è stata; l'adesione di alcuni giudei non è una risposta sufficiente. Paolo lo esplicita con una sentenza di condanna mutuata da Is 6,9-1O, secondo il testo della Settanta. Sono le parole che YHWH rivolge a Isaia, nel contesto della vocazione del profeta: la sua predicazione si scontrerà con l'incomprensione del popolo. Paolo ha fatto la stessa esperienza e può quindi fare suo il testo di Isaia. Essendo però a conclusione del libro, acquista un carattere di definitività. Il rifiuto del Vangelo da parte di Israele in quanto popolo appare come effetto di una chiusura verificatasi durante la missione, e annunciata in Isaia. Luca non sembra prevedere una futura conversione d'Israele nel suo insieme, ma soltanto l'entrata nella Chiesa di singoli ebrei. Il discorso diretto si chiude con un'affermazione solenne (v. 28): la salvezza che proviene da Dio, annunciata dai profeti, resasi presente in Gesù, comunicata nella Parola proclamata dagli apostoli, è da Dio destinata ai pagani... ed essi ascolteranno, cioè accoglieranno nella fede. Il futuro che si delinea ha un carattere programmatico: la missione sarà ormai una missione illimitatamente rivolta al mondo pagano, pur lasciando aperta la porta agli ebrei. L'affermazione «essi, di certo, ascolteranno» non significa che tutti i pagani accoglieranno il Vangelo, ma che il volto della Chiesa postpaolina sarà quello di una Chiesa delle nazioni.

Epilogo Il libro si chiude con un breve epilogo che ha il valore di un sommario e rispecchia, nell'agire di Paolo, un orientamento permanente della missione della Chiesa: una missione svincolata dalla Sinagoga, dall'annuncio prioritario al popolo giudaico, e aperta ormai ai pagani, senza chiudere la porta ai singoli giudei che si avvicinano al Vangelo. Roma diventa il centro della missione universale, dove il messaggio cristiano viene annunciato senza ostacoli (un augurio?). In questi versetti conclusivi Luca offre le ultime informazioni su Paolo. Costui si trova sotto custodia militaris: poteva alloggiare in un'abitazione privata, ma era sempre in compagnia di un soldato incaricato di sorvegliarlo. Luca parla di un periodo di due anni. E poi? Inizia il processo? Viene liberato? L'interesse dell'autore sacro non è biografico, bensì missionario: l'annuncio del Vangelo è aperto a tutti. Il discorso di Mileto (20,18-38) lascia pensare che il narratore sapesse della fine di Paolo; è possibile dunque che, trascorsi i due anni, Paolo sia stato condannato alla pena capitale. Per definire la predicazione dell'apostolo (v. 31), Luca riprende due verbi importanti del vocabolario ecclesiale: «annunciare» e «insegnare». L'oggetto della predicazione riguarda il Regno di Dio e «quanto riguardava il Signore Gesù Cristo», evidenziando quindi la continuità tra il messaggio proclamato da Gesù (Lc 8,1; 9,2;At 20,25) e il messaggio pasquale dell'apostolo (Lc 24,19.27; At 18,25; 23,11; 28,23). Due espressioni avverbiali concludono l'intero libro. La prima, «in piena libertà», mette in evidenza la forza della Parola, che si diffonde, capace di conquistare il mondo. La seconda, «senza ostacoli», evidenzia che nessuna opposizione potrà frenare la parola di Dio. In questo modo Luca, terminando la sua opera, apre al futuro come spazio nel quale il lieto annuncio si diffonde nella storia degli uomini, secondo il programma dato dal Risorto ai Dodici (1,8).


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Partenza per Roma e prime tappe 1Quando fu deciso che ci imbarcassimo per l’Italia, consegnarono Paolo, insieme ad alcuni altri prigionieri, a un centurione di nome Giulio, della coorte Augusta. 2Salimmo su una nave della città di Adramitto, che stava per partire verso i porti della provincia d’Asia, e salpammo, avendo con noi Aristarco, un Macèdone di Tessalònica. 3Il giorno dopo facemmo scalo a Sidone, e Giulio, trattando Paolo con benevolenza, gli permise di recarsi dagli amici e di riceverne le cure. 4Salpati di là, navigammo al riparo di Cipro a motivo dei venti contrari 5e, attraversato il mare della Cilìcia e della Panfìlia, giungemmo a Mira di Licia. 6Qui il centurione trovò una nave di Alessandria diretta in Italia e ci fece salire a bordo. 7Navigammo lentamente parecchi giorni, giungendo a fatica all’altezza di Cnido. Poi, siccome il vento non ci permetteva di approdare, prendemmo a navigare al riparo di Creta, dalle parti di Salmone; 8la costeggiammo a fatica e giungemmo in una località chiamata Buoni Porti, vicino alla quale si trova la città di Lasèa. 9Era trascorso molto tempo e la navigazione era ormai pericolosa, perché era già passata anche la festa dell’Espiazione; Paolo perciò raccomandava 10loro: «Uomini, vedo che la navigazione sta per diventare pericolosa e molto dannosa, non solo per il carico e per la nave, ma anche per le nostre vite». 11Il centurione dava però ascolto al pilota e al capitano della nave più che alle parole di Paolo. 12Dato che quel porto non era adatto a trascorrervi l’inverno, i più presero la decisione di salpare di là, per giungere se possibile a svernare a Fenice, un porto di Creta esposto a libeccio e a maestrale.

La tempesta 13Appena cominciò a soffiare un leggero scirocco, ritenendo di poter realizzare il progetto, levarono le ancore e si misero a costeggiare Creta da vicino. 14Ma non molto tempo dopo si scatenò dall’isola un vento di uragano, detto Euroaquilone. 15La nave fu travolta e non riusciva a resistere al vento: abbandonati in sua balìa, andavamo alla deriva. 16Mentre passavamo sotto un isolotto chiamato Cauda, a fatica mantenemmo il controllo della scialuppa. 17La tirarono a bordo e adoperarono gli attrezzi per tenere insieme con funi lo scafo della nave. Quindi, nel timore di finire incagliati nella Sirte, calarono la zavorra e andavano così alla deriva. 18Eravamo sbattuti violentemente dalla tempesta e il giorno seguente cominciarono a gettare a mare il carico; 19il terzo giorno con le proprie mani buttarono via l’attrezzatura della nave. 20Da vari giorni non comparivano più né sole né stelle e continuava una tempesta violenta; ogni speranza di salvarci era ormai perduta. 21Da molto tempo non si mangiava; Paolo allora, alzatosi in mezzo a loro, disse: «Uomini, avreste dovuto dar retta a me e non salpare da Creta; avremmo evitato questo pericolo e questo danno. 22Ma ora vi invito a farvi coraggio, perché non ci sarà alcuna perdita di vite umane in mezzo a voi, ma solo della nave. 23Mi si è presentato infatti questa notte un angelo di quel Dio al quale io appartengo e che servo, 24e mi ha detto: “Non temere, Paolo; tu devi comparire davanti a Cesare, ed ecco, Dio ha voluto conservarti tutti i tuoi compagni di navigazione”. 25Perciò, uomini, non perdetevi di coraggio; ho fiducia in Dio che avverrà come mi è stato detto. 26Dovremo però andare a finire su qualche isola».

Il naufragio 27Come giunse la quattordicesima notte da quando andavamo alla deriva nell’Adriatico, verso mezzanotte i marinai ebbero l’impressione che una qualche terra si avvicinava. 28Calato lo scandaglio, misurarono venti braccia; dopo un breve intervallo, scandagliando di nuovo, misurarono quindici braccia. 29Nel timore di finire contro gli scogli, gettarono da poppa quattro ancore, aspettando con ansia che spuntasse il giorno. 30Ma, poiché i marinai cercavano di fuggire dalla nave e stavano calando la scialuppa in mare, col pretesto di gettare le ancore da prua, 31Paolo disse al centurione e ai soldati: «Se costoro non rimangono sulla nave, voi non potrete mettervi in salvo». 32Allora i soldati tagliarono le gómene della scialuppa e la lasciarono cadere in mare. 33Fino allo spuntare del giorno Paolo esortava tutti a prendere cibo dicendo: «Oggi è il quattordicesimo giorno che passate digiuni nell’attesa, senza mangiare nulla. 34Vi invito perciò a prendere cibo: è necessario per la vostra salvezza. Neanche un capello del vostro capo andrà perduto». 35Detto questo, prese un pane, rese grazie a Dio davanti a tutti, lo spezzò e cominciò a mangiare. 36Tutti si fecero coraggio e anch’essi presero cibo. 37Sulla nave eravamo complessivamente duecentosettantasei persone. 38Quando si furono rifocillati, alleggerirono la nave gettando il frumento in mare. 39Quando si fece giorno, non riuscivano a riconoscere la terra; notarono però un’insenatura con una spiaggia e decisero, se possibile, di spingervi la nave. 40Levarono le ancore e le lasciarono andare in mare. Al tempo stesso allentarono le corde dei timoni, spiegarono la vela maestra e, spinti dal vento, si mossero verso la spiaggia. 41Ma incapparono in una secca e la nave si incagliò: mentre la prua, arenata, rimaneva immobile, la poppa si sfasciava sotto la violenza delle onde. 42I soldati presero la decisione di uccidere i prigionieri, per evitare che qualcuno fuggisse a nuoto; 43ma il centurione, volendo salvare Paolo, impedì loro di attuare questo proposito. Diede ordine che si gettassero per primi quelli che sapevano nuotare e raggiungessero terra; 44poi gli altri, chi su tavole, chi su altri rottami della nave. E così tutti poterono mettersi in salvo a terra.

Approfondimenti

(cf ATTI DEGLI APOSTOLI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Gérard Rossé © EDIZIONI SAN PAOLO, 2010)

Si avvia l'ultima fase del programma del Risorto: portare il lieto annuncio fino alle estremità della terra; in concreto, nel cuore dell'Impero romano, nella capitale dell'ecumene. Certo, Paolo raggiunge Roma in circostanze impreviste: da prigio- niero e attraverso pericoli e prove. Con l'accettazione di queste prove, l'apostolo diventa sempre più simile al suo Maestro, e Dio porta avanti il suo disegno. Accanto al motivo della prova che mette in luce la fedeltà di Paolo al volere divino e la confor- mità al suo Signore, un altro motivo attraversa il testo: quello della salvezza. Paolo viene salvato da molti pericoli (tempesta, naufragio, soldati, serpente); ciò conferma che egli è protetto da Dio, quindi un uomo «giusto», innocente. Il tema principale rimane tuttavia l'arrivo dell'apostolo e del Vangelo nella capitale del mondo.

Partenza per Roma e prime tappe I componenti della nave in partenza appartengono a varie categorie: un gruppo di prigionieri, liberi accompagnatori di Paolo, soldati, altri passeggeri e la ciurma. Si tratta di una nave privata requisita dal centurione, nave che tornava al suo porto d'origine in Midia, non lontano da Troade. La prima tappa si fa a Sidone, 120 km da Cesarea. L'operazione di scarico e carico della nave richiede del tempo; Paolo ne approfitta per visitare la comunità cristiana del posto. Il prigioniero godeva dunque di una certa libertà di movimento, ma era accompagnato da un soldato (altri casi simili concernono Ignazio di Antiochia, Policarpo).

Dopo Sidone, le condizioni di navigazione si fanno sfavorevoli. La nave non può prendere la via più breve e deve costeggiare la parte meridionale dell'Asia minore, fino a Mira. Le notizie di Luca sono sobrie ed esatte; Mira era il porto giusto per trovare una nave in partenza per l'Italia. Il porto si trova infatti sulla rotta del trasporto del frumento dall'Egitto verso Roma (l'altra rotta costeggia l'Africa). Da Mira la navigazione prosegue con difficoltà. La nave è costretta a costeggiare il lato meridionale di Creta, cioè a seguire la rotta normale in tempo buono, ma ora pericolosa per i forti venti. Giunge in una località chiamata Buoni Porti. Luca precisa che questa insenatura si trovava vicino a una città di nome Lasaia; una città è sempre necessaria per il rifornimento. Al v. 9, il narratore fornisce un'indicazione cronologica: era passato il «giorno del Digiuno», cioè il digiuno del giorno dell'Espiazione (yôm kippur) tra la fine di settembre e l'inizio di ottobre (secondo il calendario giudaico). A partire da metà settembre la navigazione era giudicata pericolosa. Non è più questione di raggiungere l'Italia. Paolo interviene direttamente (vv. 10-11); di per sé non era impossibile: il concetto di capitano come unico capo a bordo dopo Dio, non esisteva ancora. Ma Luca costruisce una scena nella quale l'apostolo è messo in luce come unico interlocutore. L'insegnamento che l'evangelista vuole dare è chiaro: le persone che hanno autorità non prendono in considerazione gli avvertimenti dell'uomo di Dio. L'insenatura di Buoni Porti appare inadatta per svernare; si decide di proseguire verso ovest fino a Fenice... impossibile da localizzare; probabilmente si tratta di una località da collocare fuori di Creta (cfr. 27,21; non esiste alcun porto sicuro a ovest di Buoni Porti).

La tempesta Senza dimenticare la finalità teologica, il narratore costruisce un racconto drammatico che si può ricondurre al genere della letteratura di intrattenimento. Si decide di proseguire verso ovest. Un leggero vento da sud permette alla nave di tenersi vicina alla costa. Ma per poco tempo, poiché un vento da nord-est spinge l'imbarcazione verso il largo, in direzione sud-ovest. L'equipaggio perde il controllo della nave e la lascia andare alla deriva. L'imbarcazione costeggia la piccola isola di Caudas, 40 km a sud di Creta. Perché pensano soltanto ora a issare a bordo la scialuppa? E perché non cercano riparo sull'isola? Il v. 17 è di difficile comprensione. Si parla dell'uso di mezzi di soccorso: per issare la scialuppa a bordo o per assicurare la nave con funi? Come si può assicurare la nave (per aumentare la resistenza contro le onde) durante una tempesta simile? Si teme di finire sui pericolosi banchi di sabbia della Sirte, al largo della costa di Cirene (Libia). Il narratore menziona la temuta Sirte per aumentare l'effetto drammatico; in realtà la nave è ancora a 600 km di distanza! Si cala «l'attrezzo»: le vele? Un'ancora galleggiante per frenare la velocità? Continua il crescendo narrativo ai vv. 18-19: si butta in mare parte del carico (le merci?). Luca si ispira a Gio 1,5? Senza poter vedere il sole e le stelle, è impossibile orientarsi. Siamo giunti al punto in cui ogni umana possibilità di salvezza è tolta. È allora che interviene l'uomo di Dio. Paolo incomincia con un rimprovero, che rimanda al suo intervento (del v. 1O). Si sta avverando quanto aveva predetto: serve a dimostrare che egli è veramente inviato da Dio. Ma il suo scopo è di infondere coraggio (v. 22). Le parole dell'angelo (v. 24) vogliono ricordare al lettore il disegno divino: la testimonianza da rendere dinanzi a Cesare; il lettore non deve perdere di vista la finalità missionaria del viaggio. Perché questa volontà di Dio si compia, non solo Paolo ma tutti coloro che stanno accanto a lui avranno salva la vita. La grazia della salvezza dell'apostolo si irradia su chi è solidale con lui. Paolo dunque può ripetere: «non perdiamoci d'animo» (v. 25; cfr. v. 22). L'atteggiamento di fiducia dell'apostolo è il segno che le sue parole rassicuranti sono vere. Non possono non sentirsi rassicurati. Egli conclude: «Bisogna però andare a incagliarci su un'isola»; con «bisogna» il naufragio annunciato riceve il suo significato teologico di salvezza per opera di Dio.

Il naufragio Il narratore si ricollega al v. 20. Da due settimane la nave è alla deriva. Una terra è vicina. L'autore descrive bene le manovre (vv. 28-29) come se egli stesso vi avesse partecipato e poi avesse annotato tutto. Come capire il v. 20? La manovra che consiste nel gettare le ancore a una certa distanza dall'imbarcazione (perché le funi devono essere tese) è giusta; quindi, si utilizza la scialuppa per trasportare le ancore. Ora, secondo il testo questa era soltanto un pretesto dei marinai per fuggire. Ma anche marinai incompetenti non si azzarderebbero in una tale avventura: calarsi in una scialuppa (tutti?!), di notte, con una tempesta in corso, verso una terra sconosciuta con il rischio di scogliere! E il capitano non se ne accorge? È forse soltanto un motivo letterario introdotto dal narratore per mettere in risalto Paolo? L'apostolo, infatti, torna ad essere protagonista (vv. 31-36). Soltanto lui si accorge dell'intenzione dei marinai e avverte il centurione (non il capitano!). Nell'ottica di Luca, il gesto dei soldati appare come un atto di obbedienza all'apostolo e non come gesto di panico: questa obbedienza sarà motivo di salvezza per tutti, non soltanto per i passeggeri ma anche per i marinai. Il motivo della salvezza continua ad essere dominante ai vv. 33-44. È necessario mangiare per salvarsi. L'esortazione di Paolo (v. 34) si conclude con un incoraggiamento nella prova, che ricorda la frase di Gesù: «Non si perderà alcun capello del vostro capo» (Le 21,18). Paolo dà l'esempio e si mette a mangiare (v. 35). Luca descrive il pasto in modo che il lettore vi colga la simbologia eucaristica. L'intera scena acquista un significato più profondo: lo stretto legame tra il prendere cibo e l'essere salvati, l'invito a nutrirsi rivolto a tutti, e l'effetto immediato: la scomparsa della disperazione. Forse l'influenza del racconto della moltiplicazione dei pani/pesci suggerisce a Luca di dare il numero dei passeggeri e di menzionare il tema della sazietà (cfr. Le 9,14.17). Con il v. 38 continua la descrizione concreta del salvataggio: si getta il grano per alleggerire la nave e così potersi avvicinare il più possibile alla costa. All'alba, si vede una terra... sconosciuta: suspense per il lettore. Luca poi descrive la manovra di avvicinamento alla spiaggia (v. 40). La nave si incaglia in un banco di sabbia. Si aggiunge un nuovo pericolo: i soldati vogliono uccidere i prigionieri, per impedirne la fuga. Interviene il centurione. Grazie a lui che vuole salvare l'uomo di Dio, la vita di tutti sarà salva, e la profezia di Paolo si realizza: «In questo modo tutti arrivarono salvi» (v. 44). Tutta la scena è un'illustrazione dell'insegnamento di Luca sull'esistenza cristiana, formulata in 14,22: la salvezza avviene attraverso numerose prove.


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L'ultimo discorso di Paolo 1Agrippa disse a Paolo: «Ti è concesso di parlare a tua difesa». Allora Paolo, fatto cenno con la mano, si difese così: 2«Mi considero fortunato, o re Agrippa, di potermi difendere oggi da tutto ciò di cui vengo accusato dai Giudei, davanti a te, 3che conosci a perfezione tutte le usanze e le questioni riguardanti i Giudei. Perciò ti prego di ascoltarmi con pazienza. 4La mia vita, fin dalla giovinezza, vissuta sempre tra i miei connazionali e a Gerusalemme, la conoscono tutti i Giudei; 5essi sanno pure da tempo, se vogliono darne testimonianza, che, come fariseo, sono vissuto secondo la setta più rigida della nostra religione. 6E ora sto qui sotto processo a motivo della speranza nella promessa fatta da Dio ai nostri padri, 7e che le nostre dodici tribù sperano di vedere compiuta, servendo Dio notte e giorno con perseveranza. A motivo di questa speranza, o re, sono ora accusato dai Giudei! 8Perché fra voi è considerato incredibile che Dio risusciti i morti? 9Eppure anche io ritenni mio dovere compiere molte cose ostili contro il nome di Gesù il Nazareno. 10Così ho fatto a Gerusalemme: molti dei fedeli li rinchiusi in prigione con il potere avuto dai capi dei sacerdoti e, quando venivano messi a morte, anche io ho dato il mio voto. 11In tutte le sinagoghe cercavo spesso di costringerli con le torture a bestemmiare e, nel colmo del mio furore contro di loro, davo loro la caccia perfino nelle città straniere. 12In tali circostanze, mentre stavo andando a Damasco con il potere e l’autorizzazione dei capi dei sacerdoti, 13verso mezzogiorno vidi sulla strada, o re, una luce dal cielo, più splendente del sole, che avvolse me e i miei compagni di viaggio. 14Tutti cademmo a terra e io udii una voce che mi diceva in lingua ebraica: “Saulo, Saulo, perché mi perséguiti? È duro per te rivoltarti contro il pungolo”. 15E io dissi: “Chi sei, o Signore?”. E il Signore rispose: “Io sono Gesù, che tu perséguiti. 16Ma ora àlzati e sta’ in piedi; io ti sono apparso infatti per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto di me e di quelle per cui ti apparirò. 17Ti libererò dal popolo e dalle nazioni, a cui ti mando 18per aprire i loro occhi, perché si convertano dalle tenebre alla luce e dal potere di Satana a Dio, e ottengano il perdono dei peccati e l’eredità, in mezzo a coloro che sono stati santificati per la fede in me”. 19Perciò, o re Agrippa, io non ho disobbedito alla visione celeste, 20ma, prima a quelli di Damasco, poi a quelli di Gerusalemme e in tutta la regione della Giudea e infine ai pagani, predicavo di pentirsi e di convertirsi a Dio, comportandosi in maniera degna della conversione. 21Per queste cose i Giudei, mentre ero nel tempio, mi presero e tentavano di uccidermi. 22Ma, con l’aiuto di Dio, fino a questo giorno, sto qui a testimoniare agli umili e ai grandi, null’altro affermando se non quello che i Profeti e Mosè dichiararono che doveva accadere, 23che cioè il Cristo avrebbe dovuto soffrire e che, primo tra i risorti da morte, avrebbe annunciato la luce al popolo e alle genti».

Dichiarazione di innocenza 24Mentre egli parlava così in sua difesa, Festo a gran voce disse: «Sei pazzo, Paolo; la troppa scienza ti ha dato al cervello!». 25E Paolo: «Non sono pazzo – disse – eccellentissimo Festo, ma sto dicendo parole vere e sagge. 26Il re è al corrente di queste cose e davanti a lui parlo con franchezza. Penso infatti che niente di questo gli sia sconosciuto, perché non sono fatti accaduti in segreto. 27Credi, o re Agrippa, ai profeti? Io so che tu credi». 28E Agrippa rispose a Paolo: «Ancora un poco e mi convinci a farmi cristiano!». 29E Paolo replicò: «Per poco o per molto, io vorrei supplicare Dio che, non soltanto tu, ma tutti quelli che oggi mi ascoltano, diventino come sono anche io, eccetto queste catene!». 30Allora il re si alzò e con lui il governatore, Berenice e quelli che avevano preso parte alla seduta. 31Andandosene, conversavano tra loro e dicevano: «Quest’uomo non ha fatto nulla che meriti la morte o le catene». 32E Agrippa disse a Festo: «Quest’uomo poteva essere rimesso in libertà, se non si fosse appellato a Cesare».

Approfondimenti

(cf ATTI DEGLI APOSTOLI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Gérard Rossé © EDIZIONI SAN PAOLO, 2010)

L'ultimo discorso di Paolo Paolo pronuncia il suo ultimo grande discorso, che è anche l'ultimo discorso degli Atti, e il terzo nel quale è narrato l'evento di Damasco. E ora viene narrato nella forma di un racconto di vocazione. Luca definisce il discorso come un'apologia, un discorso di difesa. In realtà, per la sua importanza, il discorso supera il contesto giudiziario; è piuttosto una testimonianza di fede. Luca riprende la tradizione riferita in At 9, ma con notevoli differenze dovute al crescendo narrativo, al contesto, all'argomentazione. L'autore ha composto con particolare cura la veste narrativa, e centrato il vero contenuto: l'argomento teologico della risurrezione di Gesù, così come il posto di Paolo nella storia della salvezza. L'evento di Damasco, che ha cambiato la vita di Saulo, è una prova inequivocabile della risurrezione di Gesù: in Cristo si è realizzata la speranza d'Israele. La predicazione di Paolo è un atto di obbedienza al mandato ricevuto dal Risorto e, al tempo stesso, un atto di fedeltà verso la sua fede ebraica.

La difesa dell'apostolo si fa testimonianza: la stessa coerenza di vita di Paolo non può che suscitare stima e ammirazione; la sua fedeltà al passato rende il suo passaggio alla fede cristiana più credibile. Per questa sua coerenza di vita, Paolo appare anche come modello di comportamento per tutti i cristiani: tutti sono chiamati ad essere testimoni di Gesù Cristo. Emerge la grande figura di Paolo delineata da Luca: un uomo coraggioso, fedele, coerente, a suo agio tra i grandi del mondo, degno di ammirazione e di fiducia. Ma grande soprattutto per il ruolo che l'autore gli attribuisce nella storia della Chiesa e nella storia della salvezza in generale. Per la sua fedeltà, Paolo incarna la continuità tra Israele e la missione universale e il suo frutto che è la Chiesa pagano-cristiana. Paolo, cristiano, è rimasto legato all'ortodossia giudaica più autentica espressa dal fariseismo, della quale condivide la speranza fondamentale d'Israele, quella della risurrezione. Come ministro di Cristo ne proclama il compimento in Gesù. Nella Chiesa Paolo è colui che ha portato a esecuzione il programma missionario che il Risorto ha affidato ai Dodici (1,8). Egli è l'apostolo-tipo mediante il quale il Risorto porta a compimento la propria missione salvifica universale, il grande disegno divino su tutta l'umanità, già annunciato dai profeti (26,18.23; cfr. Ger 1,5-8; Is 42,7.18).

Nei primi tre versetti Paolo si rivolge direttamente al re, che assume l'iniziativa e inizia, come di dovere, con una captatio benevolentiae ben costruita. Egli si dichiara fortunato di potersi difendere dalle accuse mosse contro di lui dai giudei; Paolo non le esplicita: il lettore le conosce. Segue un complimento: egli riconosce che il re è versato nelle questioni giudaiche; in questo modo il redattore orienta il discorso verso il vero motivo del dibattito con i giudei, che è di ordine religioso.

Con il v. 4 inizia un accenno autobiografico che non viene sviluppato, perché il lettore lo conosce già. L'accento è posto sul radicamento di Paolo nel popolo d'Israele. Egli è stato da sempre fariseo; quindi, secondo Luca, membro del movimento religioso più conforme alla Torà, al quale egli non ha mai rinunciato anche da cristiano.

Nei vv. 6-8 l'apostolo si concentra sulla situazione presente: egli si vede accusato dai giudei a motivo di quella stessa speranza, che costituiva il centro della sua fede di fariseo, cioè di ebreo ortodosso! È una speranza fondata poiché poggia su di una promessa divina, in sintonia con la fede degli antenati e con la preghiera quotidiana d'Israele. Abilmente il narratore ha messo in luce il paradosso: Paolo è incriminato dai giudei per la sua ortodossia alla fede giudaica! Appare il ragionamento di Luca: egli identifica quello che considera il centro del fariseismo con il centro dell'annuncio cristiano (la speranza nella risurrezione), e vede il loro rapporto nella linea della promessa-compimento. Per la suspense narrativa, l'oggetto della speranza viene nominato soltanto nella domanda retorica del v. 8, una domanda ora rivolta non più al solo Agrippa, ma a tutto l'uditorio presente, giudei e pagani. L'oggetto della speranza, poi, non viene subito dato nella forma dell'annuncio cristiano, ma l'espressione è costruita in modo da favorire il passaggio da una credenza generale nella risurrezione dei morti, alla fede nella risurrezione di Gesù. Il ragionamento di Luca è coerente... per un cristiano! Per lo stesso Paolo la conversione era dovuta a un intervento del Risorto, non fu il frutto di una sua coerenza con le convinzioni farisee.

Segue la parte autobiografica (vv. 9-18). Il fariseo Saulo si opponeva accanitamente al «nome di Gesù il Nazoraim» (v. 9); in maniera appropriata il narratore introduce il nome di Gesù, vero nodo della questione. E dunque il fariseo Saulo si era opposto a colui che porta a compimento la speranza farisaica! Di conseguenza, la sua fede attuale in Gesù risorto non può essere frutto di fantasia... Paolo si pone in contraddizione con la logica espressa nei versetti precedenti: come fariseo, infatti, avrebbe dovuto coerentemente aderire alla fede cristiana! Evidentemente non si giunge alla fede cristiana soltanto con un ragionamento ben condotto! L'apostolo racconta la sua storia che il lettore ha già sentito due volte, ma con un'enfasi narrativa sull'odio del persecutore, sul numero dei perseguitati, sulla varietà e la gravità dei supplizi, sul potere ricevuto che fa di Saulo il plenipotenziario dell'autorità giudaica, incaricato di sradicare il cristianesimo ovunque. Viene accentuato il contrasto tra Saulo, che respinge il nome di Gesù, e Paolo, che ora lo proclama: soltanto l'incontro con il Risorto stesso può spiegare tale svolta.

Non mancano le varianti rispetto ai racconti di At 9 e 22: si insiste sul tema della luce (v. 13), mentre quello dell'accecamento di Saulo è passato sotto silenzio. Tutti (e non solo Saulo) cadono a terra, Saulo sente la voce (v. 14). Il narratore esplicita che il Risorto si esprime «in ebraico», cioè in aramaico (cfr. 21,40), ma poi cita un proverbio conosciuto nel mondo ellenistico, ma inesistente nella letteratura giudaica (v. 14c). Il Gesù degli Atti si rivolge a lettori di lingua greca e da loro deve farsi capire! Il proverbio utilizza l'immagine della bestia da soma costretta a tirare il carro, spinta dal pungolo (un bastone con un chiodo) del contadino. L'immagine significa che è inutile resistere a una forza più grande; applicata a Paolo equivale a dire che la potenza irresistibile di Cristo è all'origine della sua vocazione.

Ai vv. 15-18 il dialogo prosegue sul modello di 9,5 e 22,8: Gesù rivela la sua solidarietà con i credenti (v. 15). Il contenuto dei vv. 16-18 invece è nuovo: il Risorto stesso comunica la vocazione a Paolo. Anania, in questo contesto, non serve e quindi non viene menzionato. Si tratta di un mosaico di citazioni: sono testi di vocazione di profeti (Ez 2,1 al v. 16; Ger 1,5-8 al v. 17; Is 42,7.16 al v. 18), mediante i quali Luca descrive la funzione di Paolo. La seconda parte del v. 18 riflette il linguaggio parenetico della Chiesa dell'epoca di Luca (cfr. in particolare Col 1,12-14; Ef 1,18). Nella conversione che implica la fede in Cristo e il battesimo, gli uomini ottengono la remissione dei peccati e, quindi, l'eredità dei santi, cioè vivono nello spazio salvifico della comunità. Il passaggio dalla cecità alla luce vissuto da Paolo nel primo racconto (9, 17-18) viene adesso trasferito alla sua missione: fare passare gli uomini alla luce, cioè alla fede in Gesù Cristo. È una bella sintesi di catechesi applicata alla finalità della missione universale di Paolo.

Nei vv. 19-23 l'apostolo trae le conseguenze di quanto detto al re Agrippa: egli non poteva non obbedire al volere di Dio; affermazione che ricorda 1Cor 9,6: «Guai a me se non predico il Vangelo!». Nella sua obbedienza al Signore, l'apostolo ha percorso l'iter missionario che corrisponde alle tappe del programma, che il Risorto aveva dato ai Dodici (1,8). In poche parole Luca presenta i punti essenziali della catechesi battesimale (v. 20): la conversione, cioè il cambiare vita distogliendosi da un passato peccaminoso e accogliendo il Vangelo di Cristo (per i pagani la conversione implica un «rivolgersi a Dio» abbandonando gli idoli); la concretezza di una vita di fede e di comunione fraterna, poiché l'esistenza cristiana comporta anche una dimensione etica ed ecclesiale. Con «per queste cose» (v. 21) si concentra sul motivo profondo che sta all'origine dell'ostilità dei giudei: non tanto la profanazione del tempio, ma l'attività di Paolo come evangelizzatore rivolto al mondo pagano e proclamatore della fede in Gesù risorto. La conclusione del discorso, l'ultimo grande discorso degli Atti, è particolarmente curata (vv. 22-23). L'apologia acquista decisamente il carattere di testimonianza. Luca vi espone la sua concezione fondamentale: l'evento di Cristo (morte-risurrezione) porta a compimento il disegno salvifico universale di Dio già annunciato dai profeti e da Mosè, cioè da tutta la Scrittura. Ritroviamo il modello: annuncio della Scrittura – morte e risurrezione di Gesù – invio ai pagani (cfr. Lc 24,46-47), ma con una novità: la missione universale è compito del Risorto in persona. Nella testimonianza di Paolo, Gesù risorto stesso attua la sua funzione di essere «luce per le genti» (Lc 2,32; At 13,47; cfr. Is 42,6; 49,6).

Dichiarazione di innocenza Secondo una tecnica narrativa abituale all'autore, il discorso viene interrotto al momento opportuno, quando tutto quello che doveva essere detto è stato detto. Il brano si presenta come un duplice dialogo (Paolo con Festo; Paolo con Agrippa) che culmina con la dichiarazione di innocenza di Paolo da parte del re Agrippa. Festo e Agrippa esprimono due reazioni-tipo: Festo reagisce come gli intellettuali di Atene... o l'amministrazione romana («Stai delirando»: cfr. 1Cor 1,23); Agrippa, giudeo, conosce e accetta le Scritture, e quindi può capire il Vangelo, ma non si decide. La risposta di Paolo a Festo è chiara: l'apostolo proclama parole che corrispondono a fatti reali e sono quindi espressione di un pensare sano (v. 25). Poi Paolo stesso provoca la reazione di Agrippa dichiarato ben informato sulla Bibbia: conosce quindi le profezie messianiche, ed è informato sui fatti che sono a fondamento della fede cristiana: ora «non si tratta di fatti avvenuti in qualche angolo remoto» (v. 26). Questa affermazione corrisponde a un intento che percorre l'intera opera lucana: mostrare che il cristianesimo non è una setta e perciò non deve destare sospetti agli occhi dello Stato. Il re Agrippa dimostra di essere rimasto impressionato dal discorso di Paolo, ma non vuole fare il passo decisivo. Come risposta alla parola del re, Paolo formula un augurio: il desiderio che la luce che egli stesso ha ricevuto possa irradiare su tutti (v. 29; non manca una punta di ironia: «all'infuori di queste catene»). La dichiarazione di non colpevolezza da parte di Agrippa chiude l'insieme e aiuta il lettore a capire il viaggio a Roma: è compiuto da un prigioniero innocente, per un motivo ormai solo formale, ma che realizza il disegno divino sull'apostolo (23,11).


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Il processo sotto Festo e l'appello a Cesare 1Festo dunque, raggiunta la provincia, tre giorni dopo salì da Cesarèa a Gerusalemme. 2I capi dei sacerdoti e i notabili dei Giudei si presentarono a lui per accusare Paolo, e lo pregavano, 3chiedendolo come un favore, in odio a Paolo, che lo facesse venire a Gerusalemme; e intanto preparavano un agguato per ucciderlo lungo il percorso. 4Festo rispose che Paolo stava sotto custodia a Cesarèa e che egli stesso sarebbe partito di lì a poco. 5«Quelli dunque tra voi – disse – che hanno autorità, scendano con me e, se vi è qualche colpa in quell’uomo, lo accusino». 6Dopo essersi trattenuto fra loro non più di otto o dieci giorni, scese a Cesarèa e il giorno seguente, sedendo in tribunale, ordinò che gli si conducesse Paolo. 7Appena egli giunse, lo attorniarono i Giudei scesi da Gerusalemme, portando molte gravi accuse, senza però riuscire a provarle. 8Paolo disse a propria difesa: «Non ho commesso colpa alcuna, né contro la Legge dei Giudei né contro il tempio né contro Cesare». 9Ma Festo, volendo fare un favore ai Giudei, si rivolse a Paolo e disse: «Vuoi salire a Gerusalemme per essere giudicato là di queste cose, davanti a me?». 10Paolo rispose: «Mi trovo davanti al tribunale di Cesare: qui mi si deve giudicare. Ai Giudei non ho fatto alcun torto, come anche tu sai perfettamente. 11Se dunque sono in colpa e ho commesso qualche cosa che meriti la morte, non rifiuto di morire; ma se nelle accuse di costoro non c’è nulla di vero, nessuno ha il potere di consegnarmi a loro. Io mi appello a Cesare». 12Allora Festo, dopo aver discusso con il consiglio, rispose: «Ti sei appellato a Cesare, a Cesare andrai».

Il re Agrippa e Berenice a Cesarèa 13Erano trascorsi alcuni giorni, quando arrivarono a Cesarèa il re Agrippa e Berenice e vennero a salutare Festo. 14E poiché si trattennero parecchi giorni, Festo espose al re le accuse contro Paolo, dicendo: «C’è un uomo, lasciato qui prigioniero da Felice, 15contro il quale, durante la mia visita a Gerusalemme, si presentarono i capi dei sacerdoti e gli anziani dei Giudei per chiederne la condanna. 16Risposi loro che i Romani non usano consegnare una persona, prima che l’accusato sia messo a confronto con i suoi accusatori e possa aver modo di difendersi dall’accusa. 17Allora essi vennero qui e io, senza indugi, il giorno seguente sedetti in tribunale e ordinai che vi fosse condotto quell’uomo. 18Quelli che lo incolpavano gli si misero attorno, ma non portarono alcuna accusa di quei crimini che io immaginavo; 19avevano con lui alcune questioni relative alla loro religione e a un certo Gesù, morto, che Paolo sosteneva essere vivo. 20Perplesso di fronte a simili controversie, chiesi se volesse andare a Gerusalemme e là essere giudicato di queste cose. 21Ma Paolo si appellò perché la sua causa fosse riservata al giudizio di Augusto, e così ordinai che fosse tenuto sotto custodia fino a quando potrò inviarlo a Cesare». 22E Agrippa disse a Festo: «Vorrei anche io ascoltare quell’uomo!». «Domani – rispose – lo potrai ascoltare». 23Il giorno dopo Agrippa e Berenice vennero con grande sfarzo ed entrarono nella sala dell’udienza, accompagnati dai comandanti e dai cittadini più in vista; per ordine di Festo fu fatto entrare Paolo. 24Allora Festo disse: «Re Agrippa e tutti voi qui presenti con noi, voi avete davanti agli occhi colui riguardo al quale tutta la folla dei Giudei si è rivolta a me, in Gerusalemme e qui, per chiedere a gran voce che non resti più in vita. 25Io però mi sono reso conto che egli non ha commesso alcuna cosa che meriti la morte. Ma poiché si è appellato ad Augusto, ho deciso di inviarlo a lui. 26Sul suo conto non ho nulla di preciso da scrivere al sovrano; per questo l’ho condotto davanti a voi e soprattutto davanti a te, o re Agrippa, per sapere, dopo questo interrogatorio, che cosa devo scrivere. 27Mi sembra assurdo infatti mandare un prigioniero, senza indicare le accuse che si muovono contro di lui».

Approfondimenti

(cf ATTI DEGLI APOSTOLI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Gérard Rossé © EDIZIONI SAN PAOLO, 2010)

Il processo sotto Festo e l'appello a Cesare Appena arrivato, Festo si mostra subito attivo: va a Gerusalemme, sede dell'autorità giudaica, per la quale il caso di Paolo sembra costituire l'unica preoccupazione. Adesso, non alcuni fanatici, ma l'autorità giudaica stessa vuole uccidere l'apostolo: il lettore viene a sapere ciò che il procuratore ignora! Ma il narratore si rende conto delle conseguenze politiche (e militari) di un tale incidente? La risposta di Festo (vv. 4-5) è quella di un uomo deciso e corretto. Tornato a Cesarea, riprende il processo. La descrizione è sommaria (vv. 7-8); viene sempre in luce il fatto che Paolo è innocente e i giudei non possono portare prove contrarie. La domanda di Festo (v. 9) è incomprensibile: se i giudei non hanno saputo dare delle prove, l'imputato dovrebbe essere liberato; se c'è il sospetto di crimine, il processo è di esclusiva competenza del procuratore. Per capire, bisogna andare all'intenzione del redattore: motivare l'appello a Cesare con il pericolo dovuto ai giudei, e non con la sentenza di condanna (storica) del procuratore romano (che, per Luca, riconosce sempre l'innocenza di Paolo). Secondo Luca è dunque la minaccia di essere consegnato all'autorità giudaica che motiva l'appello di Paolo a Cesare (v. 11). È il vertice della narrazione: la via verso Roma è aperta. Il ricorso di Paolo al tribunale imperiale di Roma è senz'altro storico: spiega infatti come mai l'apostolo sarà trasferito nella capitale. Accettando l'appello (v. 12), la stessa autorità romana si conforma, senza saperlo, al disegno di Dio.

Il re Agrippa e Berenice a Cesarèa Tra l'appello a Cesare e la partenza per Roma, il narratore inserisce un'unità letteraria che colma l'intervallo: la visita di Agrippa II e di Berenice a Festo, il quale presenta loro il caso di Paolo. L'unità letteraria è costituita: dai nuovi personaggi (Agrippa e Berenice); dal tema dell'innocenza di Paolo (25,18.25; 26,31); dal parallelismo con la passione di Gesù (la comparizione di Paolo davanti a Festo e al re Agrippa ricorda quella di Gesù davanti a Pilato e Erode Antipa; come Antipa, anche Agrippa proclama l'innocenza del condannato; ma benché innocente, Paolo, come Gesù, rimane nella situazione di condannato).

Riguardo al contenuto, il lettore ha l'impressione di un'inutile ripetizione. In realtà, nella tecnica narrativa, si tratta di una ricapitolazione: Luca riassume la situazione processuale di Paolo mediante una scena concreta, dove Festo presenta il punto di vista romano (nell'ottica di Luca) sul processo in corso. Luca si sforza di mettere un po' di ordine nella confusione del brano precedente; il procuratore viene riabilitato, si è dimostrato un magistrato corretto, ha messo in luce l'innocenza dell'apostolo e adesso fa capire che la questione è di natura religiosa; Festo ha manifestato l'atteggiamento tipicamente romano di perplessità di fronte a una religione che non capisce. L'incontro di Paolo con Agrippa II, l'ultimo re giudeo, ha un significato speciale per il redattore: si compie la parola del Risorto sulla via di Damasco: la testimonianza dell'apostolo dinanzi ai re (9,15). Coerentemente l'apologia del c. 26 sarà fondamentalmente una testimonianza cristiana.

L'arrivo di Agrippa e Berenice a Cesarea è da intendere come visita di presentazione, resa al nuovo governatore, storicamente probabile. Per Luca, è l'occasione di creare un grandioso scenario per l'ultimo discorso pubblico di Paolo. Al v. 16, Festo pone il suo agire in linea con una regola fondamentale del diritto romano: gli accusatori devono essere messi a confronto con l'accusato perché quest'ultimo abbia la possibilità di difendersi. Esplicitamente, Festo constata che il caso si riduce a questioni religiose interne al giudaismo e, al v. 19, viene a galla il nocciolo della discussione religiosa: la questione della risurrezione. Ma ora c'è una novità: non si parla più della risurrezione in generale, ma della risurrezione di Gesù. Emerge dunque il vero oggetto del dibattito tra cristiani e giudei: la fede cristiana in Gesù risorto. Il v. 20 riprende il v. 4, con la proposta di far giudicare Paolo a Gerusalemme. Con una differenza però: non è più per fare piacere ai giudei, ma perché Festo riconosce la propria incompetenza in materia religiosa. Paolo ha rifiutato e ha fatto appello a Cesare, preferendo rimanere sotto la custodia romana; e il procuratore rispetta la sua decisione (v. 21). La presentazione di Festo ha destato la curiosità di Agrippa; ricorda la curiosità di Erode Antipa nei confronti di Gesù (Lc 23,8).

Luca crea uno scenario particolarmente grandioso. L'apostolo parlerà dinanzi al re Agrippa e alla regina Berenice, al procuratore romano e all'alta società di Cesarea. L'autore sacro tiene a mettere in rilievo l'impatto universale dell'evento cristiano: «non si tratta di fatti avvenuti in qualche angolo remoto» (26,26). Per dare una certa verosimiglianza all'udienza, il narratore deve creare un motivo per giustificare la scena: la relazione ufficiale per il tribunale dell'imperatore (littera dimissoria), infatti, era necessaria, ma è del tutto dimenticata alla fine dell'udienza.

Per la terza volta, come per Gesù dinanzi a Pilato, Paolo è dichiarato innocente... e quindi Festo non sa cosa scrivere! Eppure le accuse mosse in 25,7 erano piuttosto pesanti! Ma Luca esprime il suo punto di vista al lettore. Festo apre dunque la solenne udienza (v. 24) e sintetizza quanto detto ad Agrippa il giorno prima. Adesso però viene particolarmente in rilievo il parallelismo con la situazione di Gesù: tra l'atteggiamento ostile della folla (non solo del sinedrio: v. 24) e la dichiarazione d'innocenza da parte del procuratore. E quindi trovare cosa scrivere all'imperatore è rimasto l'unico grattacapo per Festo! La giustificazione espressa al v. 27 è fuori luogo. La relazione ufficiale, che deve accompagnare il prigioniero, non era lasciata alla discrezionalità del procuratore, ma era un suo stretto dovere. Il tribunale dell'imperatore esigeva informazioni precise prima di dirimere il caso.


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