📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

Raccomandazioni e saluti 1Vi raccomando Febe, nostra sorella, che è al servizio della Chiesa di Cencre: 2accoglietela nel Signore, come si addice ai santi, e assistetela in qualunque cosa possa avere bisogno di voi; anch’essa infatti ha protetto molti, e anche me stesso.

3Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù. 4Essi per salvarmi la vita hanno rischiato la loro testa, e a loro non io soltanto sono grato, ma tutte le Chiese del mondo pagano. 5Salutate anche la comunità che si riunisce nella loro casa. Salutate il mio amatissimo Epèneto, che è stato il primo a credere in Cristo nella provincia dell’Asia. 6Salutate Maria, che ha faticato molto per voi. 7Salutate Andrònico e Giunia, miei parenti e compagni di prigionia: sono insigni tra gli apostoli ed erano in Cristo già prima di me. 8Salutate Ampliato, che mi è molto caro nel Signore. 9Salutate Urbano, nostro collaboratore in Cristo, e il mio carissimo Stachi. 10Salutate Apelle, che ha dato buona prova in Cristo. Salutate quelli della casa di Aristòbulo. 11Salutate Erodione, mio parente. Salutate quelli della casa di Narciso che credono nel Signore. 12Salutate Trifena e Trifosa, che hanno faticato per il Signore. Salutate la carissima Pèrside, che ha tanto faticato per il Signore. 13Salutate Rufo, prescelto nel Signore, e sua madre, che è una madre anche per me. 14Salutate Asìncrito, Flegonte, Erme, Pàtroba, Erma e i fratelli che sono con loro. 15Salutate Filòlogo e Giulia, Nereo e sua sorella e Olimpas e tutti i santi che sono con loro. 16Salutatevi gli uni gli altri con il bacio santo. Vi salutano tutte le Chiese di Cristo.

17Vi raccomando poi, fratelli, di guardarvi da coloro che provocano divisioni e ostacoli contro l’insegnamento che avete appreso: tenetevi lontani da loro. 18Costoro, infatti, non servono Cristo nostro Signore, ma il proprio ventre e, con belle parole e discorsi affascinanti, ingannano il cuore dei semplici. 19La fama della vostra obbedienza è giunta a tutti: mentre dunque mi rallegro di voi, voglio che siate saggi nel bene e immuni dal male. 20Il Dio della pace schiaccerà ben presto Satana sotto i vostri piedi. La grazia del Signore nostro Gesù sia con voi.

21Vi saluta Timòteo mio collaboratore, e con lui Lucio, Giasone, Sosípatro, miei parenti. 22Anch’io, Terzo, che ho scritto la lettera, vi saluto nel Signore. 23Vi saluta Gaio, che ospita me e tutta la comunità. Vi salutano Erasto, tesoriere della città, e il fratello Quarto. [24]

25A colui che ha il potere di confermarvi nel mio Vangelo, che annuncia Gesù Cristo, secondo la rivelazione del mistero, avvolto nel silenzio per secoli eterni, 26ma ora manifestato mediante le scritture dei Profeti, per ordine dell’eterno Dio, annunciato a tutte le genti perché giungano all’obbedienza della fede, 27a Dio, che solo è sapiente, per mezzo di Gesù Cristo, la gloria nei secoli. Amen.

Approfondimenti

(cf LETTERA AI ROMANI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Giuseppe Pulcinelli © EDIZIONI SAN PAOLO, 2014)

Raccomandazioni e saluti Paolo inizia la sezione finale della lettera ai Romani raccomandando Febe a quella comunità; di fatto i vv. 1-2 del capitolo 16 appartengono a un genere epistolare ben conosciuto nell'antichità, in cui il mittente introduce una terza persona al destinatario sostenendone la causa; nel nostro caso si tratta di una donna di Cencre (uno dei due porti nelle vicinanze di Corinto) e il fatto che venga nominata per prima nella lunga lista di nomi che sta per fare, fa ritenere che fosse lei l'incaricata di recapitare la lettera stessa. Le credenziali presentate da Paolo contengono tre titoli: «sorella nostra», «ministro» e «protettrice». Riguardo al primo, vi si sottolinea la comune appartenenza alla fede cristiana (al v. 2 si ricorda che fa parte anche lei dei «santi»; cfr. anche Gal 6,10), la quale implicitamente comporta comunione e apertura universalistiche. Il termine greco diàkonos, se genericamente significa «servitore», abbinato però alla specificazione «della Chiesa» (è la prima volta del termine ekklesia in Romani), richiama senza dubbio l'esercizio del ministero apostolico (cfr. 1Cor 3,5; 2Cor 3,1-11; Fil 1,1; in Rm 15,8 Cristo stesso ha questo titolo) e rispecchia un ruolo di responsabilità e autorità nella comunità. Infine, il fatto che Paolo affermi che Febe è stata «protettrice» di molti, e anche di lui stesso, lascia supporre che ella fosse benestante e che avesse dato ospitalità e protezione ai missionari itineranti; ed è questo che Paolo chiede facciano i fratelli di Roma ora nei confronti di lei, una donna di grande prestigio umano e cristiano.

Il brano compreso nei vv. 3-16 rappresenta la più lunga lista di saluti che ci sia pervenuta dall' pistolografia antica: ben sedici volte ricorre l'imperativo «salutate», seguito ogni volta da nomi di persone: sette donne (più due innominate, la madre di Rufo e la sorella di Nereo: cfr. vv. 13.15), e diciassette uomini, rivolto anche a cinque gruppi di persone che si riuniscono in case private.

Il primo saluto, il più esteso (cfr. vv. 3-5a), è dedicato ai coniugi di origine giudaica Prisca e Aquila. Sono amici e collaboratori di Paolo, impegnati con e come l'apostolo nel servizio del Vangelo, da lui incontrati a Corinto verso l'anno 50, dopo che erano stati cacciati da Roma in seguito all'editto di Claudio. Essi facevano lo stesso mestiere di fabbricatori di tende; a Efeso avevano istruito Apollo nella fede cristiana; dopo la morte di Claudio, nel 54, dovevano essere tornati a Roma. Non si sa esattamente come e dove abbiano rischiato la vita per Paolo (si allude alla pena della decapitazione); in più, con la loro attività hanno aiutato molti cristiani: Paolo dice enfaticamente che a loro sono riconoscenti «tutte le Chiese dei gentili» (v. 46). Assieme a loro Paolo saluta la Chiesa domestica che si riunisce nella loro casa (cfr. v. 5a).

Al v. 5b Paolo saluta Epeneto, come «la primizia dell'Asia per Cristo», nel senso cioè che fu il primo a divenire cristiano (e ad essere metaforicamente offerto a Cristo) nella provincia romana dell'Asia che faceva capo a Efeso (frutto o della predicazione di Paolo, cfr. At 18,19-21, oppure del lavoro apostolico della coppia appena menzionata, cfr. At 18,24-26).

Al v. 6 saluta Maria «che ha faticato molto per voi»; il verbo «faticare», «darsi da fare», oltre a riferirsi a un lavoro manuale, è impiegato da Paolo soprattutto per il lavoro apostolico utilizzato altre due volte al v. 12, sempre per delle donne; e poi ancora in 1Cor 15,10; 16,16; Gal 4,11; Fil 2,16; 1Ts 5,17.

Al v. 7 chiede di salutare Andronico e Giunia, quasi sicuramente un'altra coppia di coniugi, di origine giudaica come Paolo (cfr. «congiunti»), compagni di prigionia, «i quali sono insigni tra gli apostoli»: da notare che viene loro riconosciuto – anche alla donna – il titolo di apostolo, e in più si dice che sono eminenti tra essi. Infine, Paolo afferma che Andronico e Giunia sono diventati discepoli di Cristo prima di lui, è ben possibile perciò che siano tra coloro che hanno portato l'annuncio evangelico ai giudei di Roma (e dunque potrebbero essere i cofondatori di quella comunità cristiana).

Ci sono poi i saluti ad Ampliato (v. 8), «diletto nel Signore»; quelli a Urbano, «nostro collaboratore in Cristo», e Stachi, «mio diletto» (v. 9); quelli ad Apelle, di cui viene detto che ha dato prova delle sue qualità cristiane (v. 10a), non sappiamo però in quali circostanze. Poi c'è il saluto a un gruppo identificato come «quelli della casa di Aristobulo» (v. 10b), probabilmente degli schiavi cristiani che per il culto si radunavano nella casa del padrone di alcuni di loro. Dopo il saluto a Erodione, anche lui di etnia giudaica (v. 11: «mio congiunto»), c'è nuovamente un saluto cumulativo, a quelli che si radunano nella casa di Narciso, anche questi doveva essere un padrone che concedeva un ambiente a un gruppo di cristiani (v. 11b: «che sono nel Signore»). Al v. 12 dice di salutare Trifena e Trifosa, due donne, forse sorelle, «che hanno faticato nel Signore», e anche la diletta Perside, «che ha tanto faticato nel Signore» (di nuovo il verbo «faticare», in senso apostolico, come al v. 6). Dicendo di salutare Rufo (cfr. v. 13; non è escluso che possa trattarsi del figlio di Simone di Cirene, citato in Mc 15,21), egli viene definito «eletto nel Signore» (qualifica già usata nella lettera, cfr. 8,23), in più si aggiunge di salutare sua madre, che evidentemente deve aver ospitato o aiutato Paolo in qualche circostanza del passato, dal momento che egli afferma che è stata per lui come una madre. Al v. 14 c'è un nutrito elenco di nomi ai quali l'apostolo rivolge i propri saluti, estendendoli anche ai fratelli che sono con loro. Al v. 15 c'è un'altra lista di nomi di persone da salutare: i primi due (Filologo e Giulia) sono quasi sicuramente un'altra coppia, mentre i «santi» sono semplicemente i fratelli di fede, resi santi dalla chiamata e dal battesimo (come già era emerso dall'uso di tale appellativo nella lettera, cfr., p. es., 1,7; 8,27; 12,13; 15,27).

A parte qualche singolo caso, come quello di Prisca e Aquila, non sappiamo in quale circostanza Paolo abbia conosciuto tutte queste persone; probabilmente anche altri Romani di origine giudaica – come quella coppia – dovettero lasciare Roma per l'editto di Claudio, e Paolo può aver fatto la loro conoscenza in Oriente durante i suoi viaggi missionari. Anche se poco o nulla veniamo a sapere della storia che c'è dietro ciascun nome menzionato, il fatto che donne e uomini siano salutati e onorati personalmente ci ricorda che la Chiesa e la sua storia salvifica è fatta soprattutto di volti concreti, di persone che umilmente e quotidianamente hanno aderito al Vangelo. Nella lunga lista va notata l'abbondanza di riferimenti a donne collaboratrici nell'apostolato, a cui Paolo rivolge lodi e apprezzamenti: sono circa un terzo degli uomini, e tuttavia le cose che si dicono di loro sono talmente rilevanti da far intravedere un loro ruolo di primo piano nelle comunità cristiane. Da questo punto di vista Rm 16,1-16, come è stato affermato, può davvero essere intesa come «la più gloriosa attestazione di onore per l'apostolato della donna nella Chiesa primitiva» (P. Ketter).

A conclusione della richiesta di saluti, Paolo invita a scambiarsi reciprocamente il «bacio santo» (v. 16a): il gesto del bacio è ben conosciuto nell'antichità come espressione di affezione nelle relazioni interpersonali tra parenti, amici, amanti; nel Nuovo Testamento lo si menziona in varie circostanze (cfr. Mc 14,44; Lc 7,38.45; 15,20; At 20,37-38), ma è Paolo a promuoverlo esplicitamente quale forma di saluto e di accoglienza fraterna nelle assemblee liturgiche (cfr. ancora in 1Cor 16,20; 2Cor 13,12; 1Ts 5,26; vedere anche 1Pt 5,14), una prassi che risulta attestata poi nel II e III secolo (come testimoniano gli scritti di Giustino e Origene). Il v. 16b si chiude con un saluto complessivo ai Romani da parte di «tutte le Chiese di Cristo» (espressione che ricorre solo qui in tutto il NT), cioè le comunità che in tutto l'Oriente hanno Paolo come riferimento (cfr. 15,26; 16,4), attestando così la sussistenza di un vincolo di comunione veramente ecumenico.

Nei vv. 17-20a s'interrompono i saluti (che poi riprendono ai vv. 21-24) con un'esortazione piuttosto energica (soprattutto i vv. 17-18; un motivo che spinge alcuni studiosi a ritenerli un'interpolazione), come se gli venisse in mente un inciso che non bisogna trascurare; si tratta di mettere in guardia i Romani da alcuni che provocano divisioni nella comunità. In particolare, l'argomento toccato nel v. 17 può essere stato ispirato, per contrasto, da quanto appena affermato al v. 16 sul piano della comunione ecclesiale, infatti il rischio è che si lasci spazio a chi opera contro di essa. È difficile stabilire con esattezza a chi si riferisce Paolo, forse sono gli stessi che mettono in bocca all'apostolo delle cose che lui non ha detto (cfr. Rm 3,8), e comunque deve trattarsi di qualcuno che propaga dottrine che sono contro «l'insegnamento che avete appreso» (v. 176; cfr. 2Cor 11,4): può trattarsi di punti essenziali della fede cristiana suggellata con il battesimo, oppure riguardare quanto i destinatari hanno appreso dalla lettera stessa. Ebbene, l'indicazione di Paolo è senza mezze misure: occorre stare alla larga da costoro (quasi una scomunica, cfr. 1Cor 16,22). Qualche altro particolare utile alla loro identificazione, anche se ancora generico, può essere ricavato dal v. 18, dove si legge che essi hanno come obiettivo non quello di servire Cristo, ma i propri interessi («il proprio ventre»; cfr. Fil 3,19), e per farlo ingannano i semplici con parole di adulazione.

Con il v. 19 Paolo torna al versante positivo per ciò che riguarda i destinatari, quasi a volerli rassicurare che essi hanno tutte le risorse per opporsi al male e per operare il bene; così torna a fare dei complimenti («la [fama della] vostra obbedienza difatti è giunta a tutti»; cfr. 1,8: «la vostra fede è rinomata nel mondo intero»; dal confronto tra le due affermazioni si deduce quindi che obbedienza e fede non sono cose diverse; cfr. anche 1,5), e a manifestare il proprio rallegramento.

Paolo aggiunge poi una richiesta-augurio: che essi siano saggi, scegliendo il bene e non mescolandosi con il male (cfr. 12,21; Fil 2,15). Che effettivamente l'obiettivo sia quello di volerli rassicurare di fronte alla gravità della sfida è dimostrato dal v. 20a, in cui l'apostolo afferma che Dio sta dalla loro parte nello sconfiggere l'avversario: «il Dio della pace» (una definizione già incontrata in 15,33) «schiaccerà presto il satana sotto i vostri piedi». Con un'immagine utilizzata già in alcuni salmi (cfr. Sal 91,13: «su leoni e aspidi camminerai, calpesterai leoncelli e draghi»; Sal 8,7; 110,1; si veda anche Gen 3,15), si illustra la lotta del credente contro il male e la tentazione (cfr. anche Ef6,11-17) – in questo caso si tratta delle false dottrine insegnate dai perturbatori di cui ha parlato poco prima – una lotta per la quale tuttavia gli viene assicurata una rapida vittoria (cfr. Rm 8,31).

Il v. 20b appare come un saluto-augurio conclusivo – «la grazia del Signore nostro Gesù sia con voi» –, che si ritrova più o meno simile in tutte le finali epistolari paoline (cfr. 1Cor 16,23; 2Cor 13,13; Gal 6, 18; Fil 4,23; 1Ts 5,28; Fm 25). La «grazia», che era stata nominata all'inizio (cfr. 1,5.7) e che poi ha rappresentato uno dei termini chiave di tutta l'argomentazione paolina (ventuno occorrenze da 3,24 in poi), ora viene esplicitamente collegata al «Signore Gesù».

In una specie di post-scriptum trovano spazio i saluti di persone che si trovano a Corinto con Paolo nel momento in cui sta completando di comporre la lettera; anche questo è un bel segno ecclesiale, quasi per dire che la lettera non è espressione di un singolo, seppure di riconosciuta autorità, ma in qualche modo è frutto della comunione vissuta tra i mittenti. Il v. 21 riporta quattro nomi: Timoteo, Lucio, Giasone e Sosipatro. Soltanto il primo è sicuramente identificabile con il personaggio conosciuto anche da altre fonti, in base alle quali si possono tratteggiare alcuni aspetti di questa figura di primo piano nel cristianesimo delle origini (è nominato ben ventitré volte tra Atti ed epistolario paolino).

Timoteo si era aggregato all'équipe apostolica di Paolo nel suo secondo viaggio missionario (cfr. At 16,1-3;20,4), ed era rimasto suo collaboratore stretto (cfr. Fil 2,19-23; 2Tm 3,10); viene nominato come coautore o comunque co-mittente all'inizio di varie lettere, quali la seconda ai Corinzi, quelle ai Filippesi e ai Colossesi, le due ai Tessalonicesi, il biglietto a Filemone, mentre nelle due lettere a Timoteo risulta esser, appunto, il destinatario.

Gli altri tre sono definiti «miei congiunti», cioè probabilmente della stessa stirpe giudaica dell'apostolo. Al v. 22 troviamo l'unica esplicita menzione di un amanuense tra tutte le lettere paoline (mentre altrove si deduce che comunque ce n'era uno dal fatto che Paolo stesso segnala il proprio intervento autografo, cfr. 1Cor 16,21; Gal 6,11; e anche 2Ts 3,17), Terzo è infatti lo scrivano di professione, credente anche lui (cfr. «vi saluto... nel Signore»), che ha steso sotto dettatura dell'apostolo la presente lettera, e che ora interviene in prima persona, segno di grande familiarità e intesa con Paolo.

Al v. 23a Paolo trasmette il saluto di Gaio, che sta ospitando Paolo a Corinto e che mette a disposizione la sua casa alla comunità cristiana («ospita me e tutta la Chiesa», cioè tutti i cristiani dei vari gruppi della città, in occasioni particolari, cfr. 1Cor 14,23). Di Erasto (cfr. v. 23b) si dice che ha una carica pubblica come amministratore della città; per ultimo viene menzionato «il fratello Quarto», un credente probabilmente fratello di Erasto.

Gli ultimi versetti della lettera ai Romani (25-27) appartengono al genere letterario della dossologia, cioè un rendere gloria a Dio per le sue grandezze, presente anche altrove nell'epistolario paolino. Nelle altre lettere di sicura attribuzione paolina le dossologie hanno un'estensione più ridotta (cfr. 2Cor 1,20; Gal 1,5; Fil 4,20; nella stessa Rm 11,36), mentre più simili a questa sono quelle che si trovano nelle lettere deuteropaoline (cfr. Ef3,20-21; 1Tm 6,15-16). Questo argomento, assieme a quelli riguardanti lo stile e il contenuto, va ad aggiungersi alla problematicità testuale di questo brano, fino a farlo ritenere un'appendice redazionale da attribuire a un autore posteriore (il che non tocca naturalmente la sua canonicità e tanto meno la sua rilevanza teologica).

Il discorso che viene indirizzato a Dio nell'incipit del brano (cfr. v. 25a) troverà la sua conclusione nell'ultima frase (cfr. v. 27b); Dio viene definito come colui che ha il potere di rafforzare i Romani secondo il Vangelo di Paolo, cioè l'«annuncio» (kérygma) che ha come oggetto Gesù Cristo, corrispondente al piano salvifico inteso come il «mistero» (mystérion) che si rivela. Proprio questo schema di rivelazione, per il quale ciò che un tempo era taciuto (o nascosto) è ora manifestato in Cristo ai credenti in lui, lo si trova sviluppato come tema teologico in Colossesi ed Efesini (cfr. Col 1,26: «il mistero che, nascosto ai secoli eterni e alle generazioni passate, ora è svelato ai suoi santi»; si veda anche Ef 3,9-10), il disegno divino riguardante essenzialmente la conversione dei gentili (così anche in Rm 16,26b); mentre non corrisponde pienamente al concetto di «mistero» quale è impiegato da Paolo in Rm 11,25 riguardante invece il rapporto tra Israele e le genti. Il v. 26 precisa che esso è stato rivelato «mediante le Scritture profetiche» (potrebbe riallacciarsi a 1,2: «per mezzo dei suoi profeti nelle sante Scritture»), per un'insindacabile iniziativa divina («secondo l'ordine dell'eterno Dio»), reso modo a tutte le genti affinché giungano all'«obbedienza della fede» (espressione già incontrata in 1,S; off: 15.18), cosicché tale piano salvifico divino includa tutti i popoli. Il v: 27 presenta la sintesi della dossologia, con la quale in modo solenne, mediante Gesù Cristo, si rende gloria a Dio, definito il «solo sapiente», di fronte al quale cioè si possono e si debbono sciogliere tutte le riflessioni, anche quelle più altamente teologiche toccate in una lettera come questa, per rendere a Dio ciò che gli è dovuto, aprendo l'animo alla contemplazione e all'adorazione: «a lui la gloria nei secoli, amen».


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Servire il fratello 1Noi, che siamo i forti, abbiamo il dovere di portare le infermità dei deboli, senza compiacere noi stessi. 2Ciascuno di noi cerchi di piacere al prossimo nel bene, per edificarlo. 3Anche Cristo infatti non cercò di piacere a se stesso, ma, come sta scritto: Gli insulti di chi ti insulta ricadano su di me. 4Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché, in virtù della perseveranza e della consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza. 5E il Dio della perseveranza e della consolazione vi conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti, sull’esempio di Cristo Gesù, 6perché con un solo animo e una voce sola rendiate gloria a Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo. 7Accoglietevi perciò gli uni gli altri come anche Cristo accolse voi, per la gloria di Dio. 8Dico infatti che Cristo è diventato servitore dei circoncisi per mostrare la fedeltà di Dio nel compiere le promesse dei padri; 9le genti invece glorificano Dio per la sua misericordia, come sta scritto: Per questo ti loderò fra le genti e canterò inni al tuo nome. 10E ancora: Esultate, o nazioni, insieme al suo popolo. 11E di nuovo: Genti tutte, lodate il Signore; i popoli tutti lo esaltino. 12E a sua volta Isaia dice: Spunterà il rampollo di Iesse, colui che sorgerà a governare le nazioni: in lui le nazioni spereranno. 13Il Dio della speranza vi riempia, nel credere, di ogni gioia e pace, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo.

EPILOGO

L'impegno apostolico di Paolo 14Fratelli miei, sono anch’io convinto, per quel che vi riguarda, che voi pure siete pieni di bontà, colmi di ogni conoscenza e capaci di correggervi l’un l’altro. 15Tuttavia, su alcuni punti, vi ho scritto con un po’ di audacia, come per ricordarvi quello che già sapete, a motivo della grazia che mi è stata data da Dio 16per essere ministro di Cristo Gesù tra le genti, adempiendo il sacro ministero di annunciare il vangelo di Dio perché le genti divengano un’offerta gradita, santificata dallo Spirito Santo. 17Questo dunque è il mio vanto in Gesù Cristo nelle cose che riguardano Dio. 18Non oserei infatti dire nulla se non di quello che Cristo ha operato per mezzo mio per condurre le genti all’obbedienza, con parole e opere, 19con la potenza di segni e di prodigi, con la forza dello Spirito. Così da Gerusalemme e in tutte le direzioni fino all’Illiria, ho portato a termine la predicazione del vangelo di Cristo. 20Ma mi sono fatto un punto di onore di non annunciare il Vangelo dove era già conosciuto il nome di Cristo, per non costruire su un fondamento altrui, 21ma, come sta scritto: Coloro ai quali non era stato annunciato, lo vedranno, e coloro che non ne avevano udito parlare, comprenderanno.

Progetti di viaggio 22Appunto per questo fui impedito più volte di venire da voi. 23Ora però, non trovando più un campo d’azione in queste regioni e avendo già da parecchi anni un vivo desiderio di venire da voi, 24spero di vedervi, di passaggio, quando andrò in Spagna, e di essere da voi aiutato a recarmi in quella regione, dopo avere goduto un poco della vostra presenza. 25Per il momento vado a Gerusalemme, a rendere un servizio ai santi di quella comunità; 26la Macedonia e l’Acaia infatti hanno voluto realizzare una forma di comunione con i poveri tra i santi che sono a Gerusalemme. 27L’hanno voluto perché sono ad essi debitori: infatti le genti, avendo partecipato ai loro beni spirituali, sono in debito di rendere loro un servizio sacro anche nelle loro necessità materiali. 28Quando avrò fatto questo e avrò consegnato sotto garanzia quello che è stato raccolto, partirò per la Spagna passando da voi. 29So che, giungendo presso di voi, ci verrò con la pienezza della benedizione di Cristo. 30Perciò, fratelli, per il Signore nostro Gesù Cristo e l’amore dello Spirito, vi raccomando: lottate con me nelle preghiere che rivolgete a Dio, 31perché io sia liberato dagli infedeli della Giudea e il mio servizio a Gerusalemme sia bene accetto ai santi. 32Così, se Dio lo vuole, verrò da voi pieno di gioia per riposarmi in mezzo a voi. 33Il Dio della pace sia con tutti voi. Amen.

Approfondimenti

Lectio sulla Lettera ai Romani – di don Sergio Carrarini (sacerdote della Diocesi di Verona, parroco a Bosco di Zevio)

Servire il fratello Anche in questa terza parte della sua esortazione circa il problema delle lotte tra forti e deboli nella fede Paolo riprende i punti già enunciati, arricchendoli con degli approfondimenti biblici.

L’invito “non giudicare ma accogliere”, “non scandalizzare ma andare incontro” si arricchisce di un altro passo: prendersi a cuore chi è debole, cioè mettersi a servizio della sua crescita nella fede. Il passaggio è sempre da quella libertà che guarda solo a se stessa, a una libertà che si mette a servizio dell’altro, che si impegna a mettersi al suo passo, a camminare insieme. Da notare che Paolo non invita alla sopportazione (o alla rassegnazione di chi ritiene che le persone non possano cambiare), al conformismo, all’adeguamento al livello più basso; invita a progredire nella fede e nella libertà, ma camminando insieme, senza fughe in avanti o posizioni di resistenza preconcetta e nostalgica. Il cristiano si concentra non su ciò che piace a lui, ma su ciò che è utile per tutti; non sulle idee e i gusti personali, ma su ciò che fa crescere la comunità.

Il secondo aspetto, quello del primato della coscienza, è ripreso con una riflessione sul valore della parola di Dio come guida del credente: la Bibbia è un dono di Dio per formare gli uomini al bene. Questo brano, inserito qui quasi per caso e legato alla necessità di riferirsi alla parola di Dio nelle decisioni da prendere, ha assunto un valore grandissimo nel Concilio Vaticano II per chiarire il senso ed i limiti dell’ispirazione delle Sacre Scritture. La Bibbia non fornisce istruzioni sulla scienza, sulla storia, sulla politica, sulla morale spicciola, sugli usi e i costumi umani e religiosi. La Bibbia è la guida per la formazione della coscienza delle persone e delle comunità, per discernere i valori che fanno crescere nella fede, nella speranza e nell’amore. La Bibbia è sostegno e forza nel cammino della fede e va letta sotto la guida dello Spirito. La Parola ci è stata data per illuminare la coscienza e guidarci verso il bene, non per insegnarci la storia, la geografia, la scienza, l’economia, la politica, gli usi e i costumi che gli uomini devono tenere.

Il terzo aspetto, quello dell’imitazione di Cristo, è qui riaffermato con chiarezza: accoglietevi quindi l’un l’altro, come Cristo ha accolto voi. A più riprese Paolo si riferisce all’esempio di Cristo come fatto normativo per il cristiano. Bisogna farsi servitori dei fratelli come Cristo, cercare, come lui, ciò che è bene per tutti, sia per chi condivide le nostre scelte, sia per chi fa scelte diverse. L’imitazione di Gesù Cristo è il criterio normativo per le scelte del cristiano, prima e oltre le direttive della Chiesa, prima e oltre le leggi e le tradizioni, prima e oltre l’essere tradizionalisti o progressisti, praticanti o “lontani”. Seguire Gesù Cristo camminando insieme nella Chiesa come fratelli, con l’umiltà, la libertà e il coraggio dei figli di Dio.

(cf LETTERA AI ROMANI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Giuseppe Pulcinelli © EDIZIONI SAN PAOLO, 2014)

EPILOGO Dopo aver chiuso la lunga esposizione dottrinale-esortativa, ora nella parte conclusiva della cornice epistolare Paolo passa a toni molto più personali, dove i contenuti sono soprattutto di carattere autobiografico, con confidenze, desideri, progetti, timori, richieste di preghiere, raccomandazioni e saluti (da confrontare specialmente con 1,8-15); lo scopo principale è creare e consolidare dei legami che costituiscano la base per un prossimo incontro; da questo punto di vista tale sezione potrebbe rappresentare quasi una lettera a parte, molto preziosa sia per le notizie biografiche di Paolo (cfr. 15,14-33), sia per i particolari riguardanti la composizione della comunità cristiana di Roma (cfr. il cap. 16).

L'impegno apostolico di Paolo Dopo aver ampiamente esposto ai destinatari la sua personale ermeneutica del Vangelo, Paolo cerca di instaurare con loro un contatto più personale e confidenziale; il v. 14 ha di fatto le caratteristiche di una captatio benevolentiae. Paolo è consapevole che quanto ha scritto finora, specialmente in qualche punto delicato nella parte dottrinale o magari per il tono adottato nella parte esortativa, può entrare in tensione con la modalità di concepire e praticare il Vangelo nella comunità romana, per questo presenta quasi delle scuse («vi ho scritto in parte con un po' di audacia», v. 15) e cerca di giustificarsi, dal momento che si sta rivolgendo a chi finora non lo ha mai visto. Così afferma di voler ravvivare il loro ricordo e rammentare loro l'origine del suo ministero, da considerare come una specifica missione ricevuta da Dio stesso («grazia che mi è stata data da Dio»).

Nel v: 16 Paolo illustra tale missione innanzitutto definendosi «ministro di Cristo», cioè un servitore alle sue dipendenze (cfr. 1,1: «schiavo di Cristo»), lasciando intendere che proprio in questo consiste la grazia donatagli da Dio. Poi utilizza in senso metaforico una terminologia prettamente cultuale per dire che la predicazione del Vangelo equivale a una forma di sacerdozio (in questo senso Paolo si sente sacerdote, nell'annunciare il Vangelo) e quindi di culto a Dio, e che l'offerta sacra gradita a Dio, mediante tale sacerdozio, è costituita dall'avergli guadagnato-presentato i gentili. Tale offerta risulta infine «santificata nello Spirito Santo», i gentili cioè, in base all'inserimento in Cristo (come precisa al v. 17) e all'azione unificante dello Spirito, partecipano della stessa santità di Israele, il popolo eletto (cfr. 11,16; 2Cor 13,13). Del fatto che il proprio ministero è a favore dei gentili, Paolo si vanta, si sente fiero (cfr. v. 17): il vanto non poggia su se stesso, ma su ciò che Cristo ha operato in lui e attraverso di lui davanti a Dio (cfr. Gal 6,14: «Quanto a me, invece, non sia mai che mi vanti se non nella croce del nostro Signore Gesù Cristo»). Ed è ciò che viene esplicitato nei vv. 18-19a, nell'escludere qualsiasi altro motivo di vanto personale che non riguardi l'operato di Cristo in lui (cfr. 2Cor 4,5), «per l'obbedienza dei gentili» (cfr. 1,5; 11,13; 15,16), cioè per la loro adesione e sottomissione al Vangelo. Tale scopo è stato raggiunto attraverso «parole e opere», cioè tutto ciò che costituisce l'attività apostolica (cfr. 2Cor 10,11; Col 3,17: «qualunque cosa possiate dire o fare, agite sempre nel nome del Signore Gesù»), e che è stato accompagnato da «segni e prodigi» (v. 19a), manifestazioni della potenza di Cristo risorto (cfr. 2Cor 12.12: «i segni dell'apostolo li avete veduti in opera in mezzo a voi, in una pazienza a tutta prova, con miracoli, prodigi e portenti») e dello Spirito Santo (cfr. 1Cor 2,4).

Subito dopo Paolo tratteggia il raggio d'azione del suo apostolato, davvero immenso, specialmente se rapportato a quei tempi: «da Gerusalemme e in giro fino all'Illiria» (v. 19b); se egli nomina Gerusalemme come punto d'inizio (e non Antiochia, da dove partiva per i suoi viaggi missionari), è perché è dalla Chiesa-madre che riceve l'impulso e l'approvazione per andare verso i gentili (cfr. rispettivamente At 22,17-21 e Gal 2,9); mentre l'Illiria (regione che si affaccia sulla sponda orientale dell'Adriatico), seppure non venga mai menzionata altrove come meta dell'apostolo tuttavia confina con la Macedonia, ricordata nel suo terzo viaggio missionario (cfr. At 20, 1-2: «parti per andare in Macedonia. Percorse quella regione...»). Egli dichiara di aver «portato a compimento il Vangelo di Cristo», cioè di aver realizzato il suo compito di far arrivare il buon annuncio di Cristo crocifisso-risorto in tutta l'area geografica indicata (perciò poco dopo – cfr. vv. 23-24 – parlerà del suo progetto di proseguire oltre in Occidente). Nel v. 20 Paolo rivela il criterio che ha seguito nella sua attività missionaria, quello cioè di dedicarsi soltanto alla prima evangelizzazione, evitando di proseguire il lavoro apostolico iniziato da qualcun altro (che egli comunque riconosce e rispetta, cfr. 2Cor 10,15-16) laddove il nome, cioè la persona di Cristo, sia già conosciuto, per «non costruire su un fondamento altrui» (v. 20b; si ritrova la stessa metafora architettonica in 1Cor 3,9-10, dove poco prima ammetteva, viceversa, che altri proseguissero la sua opera pioneristica; cfr. 1Cor 3,6: «io ho piantato, Apollo ha irrigato»). Una citazione biblica, dal quarto canto del servo del Signore (Is 52, 1b), viene portata a supporto di questo suo criterio missionario, per dire che, attraverso l'apostolo, «lo vedranno» (v. 21), cioè conosceranno Cristo coloro che finora non ne avevano sentito parlare.

Progetti di viaggio A motivo del grande lavoro apostolico svolto da Paolo in Oriente, egli finora a stato impedito dal poter visitare i cristiani di Roma (v. 22), malgrado molte volte ne avesse avuto il desiderio (un'analoga affermazione era già stata fatta io 1,13; cfr. anche 1Ts 2,18); ostacoli concreti possono essere stati di vario genere: questioni aperte nelle comunità da lui fondate, o prove personali, come le carcerazioni, o difficoltà legate al viaggio. Adesso però la situazione sembra propizia, dal momento che egli ritiene esaurito il suo compito nell'Oriente, perciò comunica loro che il grande desiderio di incontrarli, e che aveva spesso dovuto procrastinare, si può ora finalmente realizzare, in concomitanza con il suo progetto di recarsi missionario in Spagna (v. 24a; cfr. poi al v. 28). L'annunciata visita a Roma non è per restarvi (e tanto meno per predicare il Vangelo, visto che la Chiesa era già impiantata da tempo), ma per essere rinfrancato dall'incontro con quei fratelli nella fede ed essere da loro aiutato a proseguire – quasi inviato da loro verso la regione considerata estremità del mondo. Le fonti antiche non ci consentono di affermare che poi effettivamente Paolo abbia realizzato tale ambizioso progetto (tracce se ne trovano soltanto negli apocrifi Atti di Pietro della fine del II sec., oltre alla frase nella lettera di Clemente, secondo cui Paolo sostenne il martirio «dopo essere giunto fino all'estremità dell'Occidente», Ai Corinzi 5,7); in ogni caso esso rivela la grandezza d'animo dell'apostolo.

Egli informa però i suoi interlocutori che, prima di passare da Roma per proseguire oltre, il viaggio più urgente e improcrastinabile che deve compiere è quello a Gerusalemme, «per rendere un servizio ai santi» (v. 25; la stessa espressione in 2Cor 8,4 e 9,1 dove anche si parla della colletta); da notare che ancora una volta i credenti-battezzati sono chiamati «santi» (cfr. 1,7; 8,27; 12,13, poi ancora in 15,26.31; 16,2.15). Al v. 26 chiarisce in cosa consista tale servizio, e cioè una colletta (alla lettera: «fare comunione») a favore dei poveri della Chiesa di Gerusalemme. Già durante il cosiddetto concilio gerosolimitano (intorno al 49 d.C) Paolo aveva preso l'impegno di «ricordarci dei poveri» di quella comunità (Gal 2,10), e si era dato da fare nel sollecitare le altre Chiese a tale scopo; qui nomina soltanto la Macedonia e l'Acaia, che sono quelle più prossime al luogo dal quale probabilmente sta scrivendo, Corinto; tuttavia abbiamo notizia anche di raccolte fatte in Galazia (cfr. 1Cor 16,1-3). L'aiuto materiale che va incontro alle esigenze dei poveri presenti nella comunità di Gerusalemme è segno tangibile che sancisce la comunione tra le Chiese.

Nel v. 27 Paolo chiarisce lo spirito di questo gesto di comunione, che viene compiuto con grande slancio (cfr. 2Cor 8,4: «chiedendoci con insistenza la grazia di prendere parte a questo servizio a favore dei santi»). Sullo sfondo c'è la consapevolezza diffusa in tutte le Chiese che quella di Gerusalemme è la Chiesa madre, dove si sono svolti i fatti della nostra redenzione e da dove è partita la buona notizia (in Romani si parla in particolare della giudaicità di Cristo [cfr. 9,5], del resto fedele [cft. 9,6-291, della radice santa [cfr. 11,13-241): le Chiese dei gentili si sentono giustamente in debito nei suoi riguardi per questi inestimabili beni spirituali; al confronto sarà perciò sempre poca cosa – anche se ciò rappresenta «un sacro servizio» – se esse ricambiano con dei beni materiali (cfr. 1Cor 9,11).

Paolo conta sul fatto che la consegna della colletta sarà una cosa rapida (il v. 28 sintetizza in breve tutto il programma, lasciando trasparire quasi un'impazienza nel volerlo realizzare) e torna a parlare del viaggio in Spagna con la prevista tappa a Roma. E proprio a questa sosta si riferisce il v. 29, quando menziona «la pienezza della benedizione di Cristo» che lo accompagnerà in quell'incontro, cioè l'assistenza di Cristo che guida tutta la sua attività e la connessa autorità apostolica della quale è investito.

Il tono e le parole del v. 30 rivelano qualcosa di ciò che passa in quel momento nel cuore dell'apostolo mentre guarda a Gerusalemme: egli infatti chiede in modo solenne ai Romani di pregare Dio in suo favore (per la seconda volta in questa lettera si trova l'espressione «vi esorto, fratelli», cfr. 12,1), per di più coinvolgendo nella richiesta Gesù Cristo e lo Spirito perché si uniscano alla lotta di tipo spirituale che Paolo sta per combattere (cfr. espressioni analoghe in 2Cor 1, 11; Fil 1,27; Col 4,12).

Il pericolo che Paolo intravede (v. 31) può venire da due versanti, quello giudaico («gli infedeli»), e quello giudeo-cristiano, cioè i credenti facenti capo a Giacomo (fratello del Signore, giudaizzante fortemente conservatore [cfr. Gal 2,11-15], che era diffidente verso Paolo, cfr. At 21,20-24). La preghiera deve servire a far in modo che questi «santi» accolgano benevolmente il segno di comunione rappresentato dalla colletta: evidentemente Paolo aveva il presentimento che tale impresa – anche a causa di pregiudizi nei suoi confronti – poteva non essere coronata da successo (e probabilmente il suo presentimento si rivelerà giusto: a Gerusalemme verrà arrestato e a Roma arriverà, sì, ma da prigioniero in attesa di processo). Il risultato positivo dell'impresa, per cui esorta i Romani a pregare, sarebbe l'arrivare a Roma nella gioia di aver superato quella temibile strettoia, gioia moltiplicata dall'incontrare finalmente quei fratelli e rinfrancarsi con loro, «per volontà di Dio» (v. 32): Paolo esprime questo suo desiderio, però pone tutto nelle mani di Dio, affinché sia Lui a condurre gli eventi (cfr. Rm 1,10; 12,2; 1Cor 1,1; 2Cor 1,1; 8,5; Gal 1,4; 1Ts 4,3).

Il v. 33 contiene una formula conclusiva di augurio -«il Dio della pace sia con tutti voi. Amen»-, che presenta un appellativo analogo a quello di 15,13 (lì c'era il «Dio della speranza»; «Dio della pace» è un titolo preferito da Paolo, ricorre in 16,20, oltre che in 2Cor 13,11; Fil 4,9; 1Ts 5,23), anche qui indicante l'origine, la fonte della pace, che nella concezione biblico-giudaica rappresenta il bene comprensivo di tutti gli altri (shalôm) e che per l'apostolo è frutto della giustificazione per fede (cfr. 5,1). L'«Amen» finale è la tipica conclusione ebraica delle preghiere, entrato anche nell'uso liturgico delle assemblee cristiane.


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Non giudicare il fratello 1Accogliete chi è debole nella fede, senza discuterne le opinioni. 2Uno crede di poter mangiare di tutto; l’altro, che invece è debole, mangia solo legumi. 3Colui che mangia, non disprezzi chi non mangia; colui che non mangia, non giudichi chi mangia: infatti Dio ha accolto anche lui. 4Chi sei tu, che giudichi un servo che non è tuo? Stia in piedi o cada, ciò riguarda il suo padrone. Ma starà in piedi, perché il Signore ha il potere di tenerlo in piedi. 5C’è chi distingue giorno da giorno, chi invece li giudica tutti uguali; ciascuno però sia fermo nella propria convinzione. 6Chi si preoccupa dei giorni, lo fa per il Signore; chi mangia di tutto, mangia per il Signore, dal momento che rende grazie a Dio; chi non mangia di tutto, non mangia per il Signore e rende grazie a Dio. 7Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, 8perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore. 9Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi. 10Ma tu, perché giudichi il tuo fratello? E tu, perché disprezzi il tuo fratello? Tutti infatti ci presenteremo al tribunale di Dio, 11perché sta scritto: Io vivo, dice il Signore: ogni ginocchio si piegherà davanti a me e ogni lingua renderà gloria a Dio. 12Quindi ciascuno di noi renderà conto di se stesso a Dio.

Non essere d’inciampo al fratello 13D’ora in poi non giudichiamoci più gli uni gli altri; piuttosto fate in modo di non essere causa di inciampo o di scandalo per il fratello. 14Io so, e ne sono persuaso nel Signore Gesù, che nulla è impuro in se stesso; ma se uno ritiene qualcosa come impuro, per lui è impuro. 15Ora se per un cibo il tuo fratello resta turbato, tu non ti comporti più secondo carità. Non mandare in rovina con il tuo cibo colui per il quale Cristo è morto! 16Non divenga motivo di rimprovero il bene di cui godete! 17Il regno di Dio infatti non è cibo o bevanda, ma giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo: 18chi si fa servitore di Cristo in queste cose è bene accetto a Dio e stimato dagli uomini. 19Cerchiamo dunque ciò che porta alla pace e alla edificazione vicendevole. 20Non distruggere l’opera di Dio per una questione di cibo! Tutte le cose sono pure; ma è male per un uomo mangiare dando scandalo. 21Perciò è bene non mangiare carne né bere vino né altra cosa per la quale il tuo fratello possa scandalizzarsi. 22La convinzione che tu hai, conservala per te stesso davanti a Dio. Beato chi non condanna se stesso a causa di ciò che approva. 23Ma chi è nel dubbio, mangiando si condanna, perché non agisce secondo coscienza; tutto ciò, infatti, che non viene dalla coscienza è peccato.

Approfondimenti

Lectio sulla Lettera ai Romani – di don Sergio Carrarini (sacerdote della Diocesi di Verona, parroco a Bosco di Zevio)

LA COMUNIONE NELLE DIVERSITÀ Il capitolo 14 e la prima parte del 15 formano un’unità letteraria a se stante perché sono la risposta di Paolo ad un problema presente nella Chiesa di Roma come lo era (anche se con caratteristiche e motivazioni diverse) nelle Chiese di Corinto (1Cor 8), della Galazia (Gal 4,10), di Colosse (Col 2,16-23): la presenza nella comunità di due gruppi contrapposti (che Paolo identifica con i termini di forti e deboli nella fede), in contrasto tra loro per motivi di osservanze religiose sui cibi che si potevano mangiare e sui calendari delle feste. Questo problema sarà ancora presente in alcune Chiese citate nell’Apocalisse (Pergamo, Tiatira).

I termini “forti” e “deboli” nella fede non si riferiscono tanto alla fede esplicita in Gesù Cristo e all’accoglienza della salvezza come dono gratuito di Dio (comune a tutti), quanto piuttosto al modo concreto di vivere questa fede. Il conflitto riguardava le tradizioni religiose da mantenere o togliere. I deboli erano vegetariani rigidi e scrupolosi (per non contaminarsi o per motivi ascetici) e osservavano digiuni e preghiere in giorni particolari della settimana, del mese, dell’anno. I forti non seguivano queste regole di purità rituale o di ascetismo, perché ritenevano che la fede in Cristo aveva liberato i credenti da queste cose esteriori e li impegnava solo all’amore reciproco. Paolo stesso si colloca tra i forti nella fede (15,1; 1Cor 8,1 e 9,22), a differenza di Giovanni che invece li condanna con durezza.

Certamente l’esortazione all’amore vicendevole e verso tutti è il fondamento e lo stile di vita del cristiano (e impegna tutti a viverlo con coerenza e creatività) ma poi come collocarsi rispetto alla religione tradizionale e alle forme che essa ha assunto nei vari popoli e culture? La fede annulla la religione (con i suoi riti, pratiche, credenze, regole di vita) o si incarna in essa, esprimendosi in modi diversi secondo le varie culture e secondo le inclinazioni e i bisogni delle persone?

È sempre lo stesso problema affrontato riguardo alla legge mosaica e alla circoncisione: è il problema del pluralismo nei modi di vivere l’unica fede, senza assolutizzarne nessuno e senza farlo diventare motivo di giudizio verso gli altri credenti. Ci si può accogliere come fratelli pur vivendo con tradizioni religiose e regole di vita differenti? Quali sono le cose irrinunciabili e quelle invece legate alla cultura e alle tradizioni degli uomini? Gesù stesso ha vissuto questo problema nei confronti della sua religione e del modo libero con cui ne interpretava le regole (Mt 9,14-17; 12,1-8; 15,1-20).

Paolo è sempre stato uno strenuo difensore e propugnatore del pluralismo nel vivere la fede in Cristo, rifacendosi spesso all’immagine della Chiesa come corpo o come casa di Dio. Anche in questa Lettera riprende queste immagini invitando a vivere una salda e totalizzante appartenenza a Cristo, nel rispetto delle diversità e nell’accoglienza di tutti come fratelli. Riprende perciò le due linee guida già date (vivere per Cristo e fare ciò che è bene per gli altri) e le applica alla situazione particolare della Chiesa di Roma. Ecco i punti principali che sviluppa.

Non giudicare il fratello Il primo atteggiamento concreto nel quale si traduce il comandamento dell’amore del prossimo è quello di non giudicare. In questi 12 versetti Paolo lo ripete in vari modi molte volte, affermando che l’unico giudice delle persone è Dio. Solo lui può giudicare, mentre noi dobbiamo accoglierci come fratelli. Questo invito è rivolto sia ai forti che ai deboli, perché i giudizi e le durezze sono da entrambe le parti. Non giudicare ma accogliere!

Un secondo aspetto, che Paolo sottolinea come un valore morale generale per orientare le scelte e rispettare le diversità delle persone, è espresso dalla frase: quello che importa è che ognuno agisca con piena convinzione, cioè che ognuno segua la sua coscienza e agisca non per adeguarsi alle mode o per desiderio di anticonformismo, per sete di libertà ad ogni costo o per paura dei castighi, ma per convinzione interiore e per scelta personale. L’ultima istanza morale nell’agire delle persone è la coscienza, costantemente illuminata dalla fede e verificata dal confronto con la comunità. Seguire la propria coscienza!

Pur affermando la necessità di formare la coscienza nell’ascolto della parola di Dio, nel confronto con la comunità e con il magistero della Chiesa, il Concilio Vaticano II ha riconosciuto che l’ultima istanza resta alla coscienza. Va perciò salvaguardata la libertà religiosa e il rispetto di ogni persona e di ogni scelta. Questo rispetto va vissuto anche all’interno della Chiesa, sia nei confronti delle opinioni espresse (libertà di ricerca), sia riguardo ai comportamenti (libertà di sperimentazione). È ancora lungo però il cammino per far maturare a livello di tutta la comunità cristiana questi orientamenti e tradurli in prassi concreta delle Chiese!

L’atteggiamento fondamentale del cristiano è espresso dalla frase: nessuno di noi vive per se stesso o muore per se stesso, perché se viviamo, viviamo per il Signore... Il cristiano agisce con retta coscienza se non vive per se stesso, per essere felice lui, per soddisfare i suoi desideri, per mettersi in mostra, per avere sempre ragione, per trionfare e imporsi sugli altri... Il cristiano è chiamato a vivere come Cristo è vissuto, a seguire il suo esempio. Imitare Gesù Cristo!

Non essere d’inciampo al fratello In questa seconda parte del capitolo Paolo riprende e approfondisce i tre punti già sviluppati prima.

Il primo invito invito a “non giudicare ma accogliere” ora diventa: non fate nulla che possa essere occasione di caduta o di scandalo per il vostro fratello. La sicurezza personale che porta a fare delle scelte di libertà senza tener conto delle persone e del loro cammino, può diventare motivo di scandalo, di perdita della fede per chi è debole o scrupoloso; così come il moralismo gretto, le tante regole e le condanne possono scandalizzare e allontanare dalla fede chi è tentennante o “sulla soglia”. Paolo invita a non guardare solo a se stessi, ma ad essere attenti anche agli altri; a non vivere una libertà interiore come egoismo, ma a viverla nell’amore e per la crescita delle persone; a non assolutizzare la propria scelta individuale, ma a rispettare le scelte degli altri. È la solidarietà la prima norma nell’agire del cristiano, non la libertà personale!

Il secondo invito a “seguire la propria coscienza” diventa ora: beato colui che non si sente colpevole nelle sue scelte. Paolo ritorna di nuovo sul primato della coscienza nelle decisioni sulle scelte da compiere ed aggiunge un principio morale di grande libertà, riprendendo l’insegnamento di Gesù sul codice di purità: niente è impuro in sé! Le cose, i fatti, i gesti non sono puri o impuri, buoni o cattivi in se stessi, ma sono le persone e le loro intenzioni a renderli tali. Il bene e il male sono nel cuore delle persone, non nelle cose; negatività o positività dipendono non dai fatti in se stessi, ma dal valore che viene dato ad essi da chi li compie. La morale sta nel cuore delle persone e nelle intenzioni con cui fanno le scelte, non negli atti in se stessi. Ognuno deve seguire la propria coscienza e verificare le motivazioni delle sue scelte. La coscienza però va formata e illuminata dalla fede e dall’amore verso gli altri e non deve essere guidata solo dalla convinzione personale. La libertà va sempre coniugata con l’amore e con il cammino della comunità!

Il terzo invito a “imitare Gesù Cristo” ora viene ritradotto nella frase: il regno di Dio non è fatto di questioni che riguardano il mangiare e il bere, ma è giustizia, pace e gioia che vengono dallo Spirito Santo. Ancora una volta Paolo invita i cristiani ad andare all’essenziale, a cogliere ciò che ha veramente importanza. Non ha senso dividersi e lottare su cose esteriori, su usi e costumi particolari, su tradizioni umane e sicurezze passeggere. Ciò che conta, ciò che realizza il regno di Dio tra gli uomini non sono i riti religiosi, le teologie o i precetti morali..., ma la giustizia, la pace, la gioia di vivere, la forza di superare il male, la riconciliazione, il dono della vita per gli altri. Questo è l’impegno fondamentale per tutti i cristiani, lasciando poi e accettando che ognuno viva e si regoli secondo le sue tradizioni e le sue inclinazioni personali.

Questa impostazione di fondo diventa importante oggi sia all’interno della Chiesa (nei rapporti tra istituzioni, movimenti, associazioni, gruppi, parrocchie, singoli credenti); sia nei rapporti tra Chiese cristiane; sia nel dialogo interreligioso e con i noncredenti: tutti impegnati a costruire la giustizia, la pace, il rispetto della vita e dell’ambiente, la salvaguardia dei valori morali. Questo impegno deve unire tutti, nel rispetto delle diversità e nel pluralismo delle scelte e dei modi di vivere.

Paolo alla fine fa un’osservazione: chi serve Cristo in questo modo piace a Dio ed è stimato dagli uomini. Questo è vero oggi, come lo è sempre stato nella storia: le persone rette e che cercano il bene dell’umanità sono gradite a Dio e stimate dagli uomini, a qualsiasi razza, cultura, religione, condizione sociale appartengano. Invece gli integralismi e le durezze ideologiche, il proselitismo e l’imporre le proprie idee con la forza, le scomuniche e i boicottaggi non hanno mai creato il bene e non fanno progredire l’umanità.

Il capitolo si conclude con una massima riassuntiva di tutto il discorso: tutto quello che non viene dalla fede è peccato, che non vuol dire che senza la fede esplicita non si faccia il bene, ma che è male tutto ciò che viene dall’egoismo, dal pensare solo a se stessi, alla propria libertà individuale.


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I doveri civili del cristiano 1Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite. Infatti non c’è autorità se non da Dio: quelle che esistono sono stabilite da Dio. 2Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono attireranno su di sé la condanna. 3I governanti infatti non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa il male. Vuoi non aver paura dell’autorità? Fa’ il bene e ne avrai lode, 4poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora devi temere, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi fa il male. 5Perciò è necessario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza. 6Per questo infatti voi pagate anche le tasse: quelli che svolgono questo compito sono a servizio di Dio. 7Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi si devono le tasse, date le tasse; a chi l’imposta, l’imposta; a chi il timore, il timore; a chi il rispetto, il rispetto.

L’amore fattivo e vigilante 8Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge. 9Infatti: Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai, e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: Amerai il tuo prossimo come te stesso. 10La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità. 11E questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti. 12La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. 13Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a orge e ubriachezze, non fra lussurie e impurità, non in litigi e gelosie. 14Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non lasciatevi prendere dai desideri della carne.

Approfondimenti

Lectio sulla Lettera ai Romani – di don Sergio Carrarini (sacerdote della Diocesi di Verona, parroco a Bosco di Zevio)

I doveri civili del cristiano Continuando la riflessione sui rapporti con i noncredenti, Paolo affronta un problema che doveva essere vivo e dibattuto nelle comunità cristiane delle origini: quale rapporto bisogna tenere con l’autorità civile? È giusto collaborare con essa (anche se perseguita la Chiesa e fa scelte contrarie al vangelo) o bisogna opporsi (facendo obiezione di coscienza al suo culto, alle tasse, al servizio militare; dimettendosi dalle cariche pubbliche...)?

Era un problema molto sentito nel mondo ebraico (cfr. l’interrogativo posto a Gesù sulla liceità del pagamento delle tasse all’imperatore romano in Mt 22,15-22), ma anche nelle comunità cristiane. Nel Nuovo Testamento ci sono riportati atteggiamenti e scelte diverse: Pietro e Giovanni fanno obiezione di coscienza all’ordine dell’autorità legittima (At 4,19 e 5,29); Pietro nella sua Prima Lettera invita alla sottomissione (1Pt 2,13-17); Paolo esorta a pregare e a sottomettersi alle autorità costituite (1Tm 2,2; Tt 3,1); Giovanni nell’Apocalisse giudica invece l’impero romano come il regno di satana e invita i cristiani a prendere le distanze da esso: uscite da Babilonia, popolo mio, per non diventare complici dei suoi peccati (Ap 18,4).

In questi versetti Paolo paga un forte tributo alla cultura del suo tempo e alla sua scelta di non dire male del mondo romano, per non frapporre ostacoli alla missione di evangelizzazione. Forse lui stesso, come cittadino romano, condivideva una scelta di tolleranza verso l’impero e di giustificazione delle sue scelte. Anche su questo aspetto la sua posizione è netta e senza riserve: bisogna essere sottomessi, osservare le leggi in vigore, pagare tutte le tasse e compiere i doveri civili richiesti dal proprio stato. Forse l’idea della fine del mondo imminente e l’urgenza della missione gli facevano ritenere queste problematiche poco rilevanti, se non fuorvianti.

Quello che oggi ci fa più problema è la giustificazione di ogni autorità come proveniente da Dio, senza interrogarsi su come ha raggiunto il potere e su come lo esercita. È una concezione sacrale del potere che è rimasta in auge fino al secolo scorso, ma che noi oggi rifiutiamo. In questi versetti comunque possiamo cogliere un invito di Paolo alla lealtà nell’impegno civile, alla responsabilità nel contribuire al bene comune, alla partecipazione attiva nel miglioramento della società, nei modi e con gli strumenti che essa si è data.

L’amore fattivo e vigilante A conclusione di questa parte esortativa sui rapporti fraterni, Paolo ritorna al fondamento di tutto: il comandamento dell’amore come compendio di tutta la Legge e di tutte le leggi. Nell’amore fattivo verso tutti è racchiusa ogni legge e ogni morale: da esso tutte derivano e ad esso tutte tendono.

Paolo rafforza questo invito richiamando la dimensione finale, il ritorno del Signore: per il cristiano questa prospettiva è fonte di atteggiamenti di coerenza:

state svegli, secondo il monito evangelico delle parabole dei servi;

buttate via le opere delle tenebre, cioè tutti quegli atteggiamenti e quelle scelte secondo la mentalità di questo mondo, secondo lo stile di chi pensa solo a se stesso;

prendete le armi della luce, cioè tutte le scelte di vita che sono ispirate alla fede e all’amore, che sono suggerite dallo Spirito Santo e dalla retta coscienza.

Nell’ultimo versetto riassume e conclude l’esortazione riproponendo ancora una volta la scelta di fondo che deve guidare la vita del cristiano: non soddisfare i desideri dell’egoismo, ma vivere uniti a Gesù Cristo. È il motivo di fondo che fa da filo conduttore non solo a questa parte parenetica o alle Lettere di Paolo, ma a tutto il Nuovo Testamento.


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Il culto spirituale 1Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. 2Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.

Il discernimento in ambito comunitario sui carismi e ministeri 3Per la grazia che mi è stata data, io dico a ciascuno di voi: non valutatevi più di quanto conviene, ma valutatevi in modo saggio e giusto, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato. 4Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, 5così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e, ciascuno per la sua parte, siamo membra gli uni degli altri. 6Abbiamo doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi: chi ha il dono della profezia la eserciti secondo ciò che detta la fede; 7chi ha un ministero attenda al ministero; chi insegna si dedichi all’insegnamento; 8chi esorta si dedichi all’esortazione. Chi dona, lo faccia con semplicità; chi presiede, presieda con diligenza; chi fa opere di misericordia, le compia con gioia.

L'amore di carità nelle relazioni interpersonali interne alla comunità cristiana 9La carità non sia ipocrita: detestate il male, attaccatevi al bene; 10amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda. 11Non siate pigri nel fare il bene, siate invece ferventi nello spirito; servite il Signore. 12Siate lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera. 13Condividete le necessità dei santi; siate premurosi nell’ospitalità. 14Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite. 15Rallegratevi con quelli che sono nella gioia; piangete con quelli che sono nel pianto. 16Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non nutrite desideri di grandezza; volgetevi piuttosto a ciò che è umile. Non stimatevi sapienti da voi stessi.

I rapporti con il mondo 17Non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini. 18Se possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti. 19Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all’ira divina. Sta scritto infatti: Spetta a me fare giustizia, io darò a ciascuno il suo, dice il Signore. 20Al contrario, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere: facendo questo, infatti, accumulerai carboni ardenti sopra il suo capo. 21Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene.

Approfondimenti

Lectio sulla Lettera ai Romani – di don Sergio Carrarini (sacerdote della Diocesi di Verona, parroco a Bosco di Zevio)

Il culto spirituale In questi due primi versetti Paolo inizia la parte parenetica (vi esorto, dunque, fratelli) come conseguenza delle riflessioni precedenti. Il primo aspetto che sottolinea è il rapporto con Dio: qual è la risposta del cristiano al dono di Dio, quale rapporto stabilire con lui?

Paolo parla di un culto spirituale, di una nuova forma di liturgia da offrire come lode a Dio. Questo culto in spirito e verità non è fatto di riti sacri, di offerte di animali, di preghiere e penitenze, di lunghe meditazioni e di esercizi ascetici, di elemosine e opere pie. Il culto nuovo del credente in Cristo è quello che viene dalla vita quotidiana, da tutte le azioni compiute dal cristiano. Culto gradito a Dio è l’offerta della sua vita, del suo corpo, del suo lavoro, dei suoi rapporti con gli altri, delle sue lotte per il bene, della sua vita di famiglia, delle sue sofferenze e malattie, delle sue gioie e del suo tempo libero, della cultura e dell’arte. Tutta la vita del cristiano, animata dallo Spirito e vissuta nell’amore, è culto a Dio, lode alla sua grandezza, celebrazione della sua misericordia.

Ma come si celebra questa “liturgia della vita”, questo culto quotidiano? Paolo chiede una scelta di fondo: non adattatevi alla mentalità di questo mondo. Il cristiano è per sua natura un “anticonformista”, uno che non segue la mentalità del mondo, della maggioranza; è uno che non fa quello che fanno tutti. Chi vuol vivere secondo lo Spirito deve prendere le distanze da questa mentalità, essere critico verso di essa.

Sorge però spontanea una domanda: si può cambiare questo mondo? Sperarlo è un’utopia? E se non si può cambiarlo, bisogna isolarsi in piccoli gruppi elitari di puri o ritirarsi in qualche convento? Paolo non parla di “cambiare questo mondo”: esso resterà sempre segnato dal peccato e dalle sue schiavitù. Non propone neppure di “fuggire” da questo mondo, come facevano i monaci Esseni o i seguaci di vari movimenti filosofici greci. Invita a cambiare se stessi: lasciatevi trasformare da Dio con un completo mutamento della vostra mente; invita a un radicale cambiamento di mentalità, di modo di pensare e di ragionare, sostituendo alla logica del mondo la logica di Cristo, all’interesse la gratuità, al potere il servizio, al piacere la gioia (cfr. 2Cor 3,18; Col 3,3; Gal 2,20 e 6,14; Fil 1,21).

Questo cambiamento di mentalità ha come conseguenza la capacità di “discernimento”, cioè essere svegli, essere vigilanti, secondo l’invito di Gesù ai discepoli. È la capacità di capire la volontà di Dio nei fatti della vita e avere la forza di fare delle scelte coerenti. Allora il cristiano darà lode a Dio con tutta la sua vita e diventerà, in “questo mondo”, un segno del regno dei cieli offerto a tutti gli uomini e già presente in chi vive secondo lo Spirito.

Oltre a Gv 4,24 (adoreranno Dio in spirito e verità), anche 1Pt 2,5-11 parla di questo culto spirituale offerto a Dio da tutti i credenti, considerati dei sacerdoti che consacrano a Dio la loro vita in forza del loro battesimo. Come Paolo, anche Pietro lega questo culto spirituale alla scelta di prendere le distanze dai desideri (cioè le aspettative, le brame) di questo mondo (visto come tenebre) per vivere in esso come stranieri ed esuli, perché cittadini di un altro regno, il regno della verità, come dirà Gesù a Pilato, legale rappresentante del più potente regno di questo mondo. Questo impegno a “non conformarsi”, ma a “trasformarsi” non è realizzato una volta per sempre con il battesimo: è il cammino di tutta la vita del cristiano e della stessa Chiesa.

Il discernimento in ambito comunitario sui carismi e ministeri Il secondo aspetto che Paolo prende in considerazione sono i rapporti dei cristiani all’interno della comunità. In particolare affronta un aspetto che creava difficoltà in molte Chiese: i carismi, cioè quei doni particolari che lo Spirito Santo elargiva ai credenti per aiutare la diffusione del vangelo. Alcuni cristiani ne facevano motivo di vanto, di autoesaltazione e di giudizio sugli altri (cfr. 1Cor 12-14). Noi oggi viviamo un problema simile in rapporto ai gruppi, ai movimenti ecclesiali, alle associazioni di rinnovamento della fede...). La riflessione di Paolo si articola attorno a questi punti.

v.3: Dico a ciascuno di non sopravvalutarsi, ma di valutarsi secondo la misura della fede che Dio gli ha dato. La prima raccomandazione è quella di restare con i piedi per terra, senza esaltazioni. La cosa fondamentale del cristiano è la fede in Cristo, il rapporto con lui, non i doni particolari. Il primo impegno è quello di crescere fino alla statura adulta di Cristo in noi (Ef 4,11-16).

vv.4-5: Siamo tutti uniti a Cristo e siamo uniti agli altri come parti di un solo corpo. Riprendendo l’immagine del corpo umano, Paolo richiama al valore fondamentale della comunità cristiana: l’unità nella fede in Cristo e nella comunione tra tutti i suoi membri. L’unità profonda della Chiesa è l’amore a Cristo e tra le persone. Questo è l’essenziale della comunione.

vv.6-8: Secondo la capacità che Dio ci ha dato noi abbiamo compiti diversi. L’unità profonda nella fede e nell’amore non vuol dire, però, uniformità delle scelte o sottomissione ad un unico capo. L’unità e la comunione nella Chiesa è vissuta nella pluralità dei doni, delle scelte, dei modi di incarnare la fede e di vivere la missione. Unica fede e missione; pluralità di doni, di ruoli, di ministeri, di modi di viverla e annunciarla. Dando per scontato questo “pluralismo” (oggi non ancora ben digerito nella Chiesa) Paolo fa un’ulteriore osservazione: ognuno resti nel suo ambito, secondo il suo carisma, senza voler prevaricare sugli altri o giudicarli. Ognuno cerchi di fare bene il suo servizio per la crescita di tutta la comunità. Allora i carismi saranno una ricchezza e non un motivo di divisione nella Chiesa.

Dopo aver sottolineato il rapporto con Dio e i rapporti all’interno della comunità, Paolo propone quella che è la scelta di fondo (oggi noi la chiamiamo: l’opzione fondamentale) del cristiano: l’amore fraterno e verso tutti. Ripropone così un aspetto centrale dell’annuncio di Cristo sull’unico comandamento e sul modo concreto di viverlo (cfr. Mt 12,28-34; Lc 10,25-37; Gv 13,31-35).

L'amore di carità nelle relazioni interpersonali interne alla comunità cristiana

v.9: Il vostro amore sia sincero. Il termine usato da Paolo indica “senza ipocrisia”, senza doppi fini o interessi personali. Anche l’amore fra le persone va sempre verificato nelle sue motivazioni, nelle scelte concrete che ispira, negli atteggiamenti che assume. L’invito è ad amare in modo semplice, schietto, disinteressato. Questo non è (e non sarà mai) né facile né scontato.

v.10: Amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno. La reciprocità e la fraternità sono i segni dell’amore cristiano. Questo vuol dire prima di tutto l’eguaglianza fra tutti, senza “padri” o “madri”, capi o padroni, maestri o dottori, perché voi siete tutti fratelli (Mt 23,8-10). Vuol dire, poi, la stima degli uni verso gli altri, nella varietà dei doni ricevuti e del proprio ruolo nella comunità, senza false umiltà o sottili ricatti, senza passività o ruoli privilegiati, senza svalutazioni o titoli onorifici. L’amore porta gioia, responsabilità, libertà.

vv.11-12: Siate impegnati, non pigri. L’amore non tollera la pigrizia, il dilazionare, lo scaricabarile, la musoneria. L’amore è servizio sollecito e attento, fatto con costanza, con tenacia, con gioia. La vita del cristiano è vissuta nella serenità, non nell’esaltazione; nella fortezza, non nell’autoritarismo; nella pazienza, non nella rassegnazione; nella fiducia gioiosa in Dio, non nel calcolo interessato.

v.13: Siate pronti ad aiutare chi è nel bisogno. È il tema della solidarietà tra credenti e tra Chiese, vista e vissuta come segno di comunione (cfr. la colletta per i poveri di Gerusalemme). L’aiuto nel bisogno (e non solo materiale!) è un’espressione concreta dell’amore fraterno. Un’altra espressione di esso è l’ospitalità verso i credenti o i missionari itineranti che facevano visita alle comunità o, più in generale, l’apertura del proprio cuore e delle proprie case ai bisognosi, a chi chiede un aiuto.

v.14: Chiedete a Dio di benedire quelli che vi perseguitano. Ora Paolo allarga il suo sguardo a tutti gli uomini, ad ogni persona che il cristiano incontra nella sua vita quotidiana. Per i rapporti con i persecutori si rifà ad un detto e alla prassi di Gesù riportata nei Vangeli (vedi Mt 5,44; Lc 23,34), anticipando un messaggio che riprenderà varie volte: rispondere al male con il bene, all’offesa con il perdono, all’ingiustizia con un atteggiamento e delle scelte positive, costruttive. Da notare che Paolo non dice: benedite quelli che..., ma dice di chiedere a Dio la forza di farlo, ben sapendo la difficoltà dell’uomo ad assumere questi atteggiamenti. Solo la forza della preghiera e la contemplazione dell’esempio di Cristo possono aprire il cristiano alla gratuità del perdono e della nonviolenza insegnata e vissuta da Gesù di Nazaret.

vv.15-16: Siate felici con chi è nella gioia, piangete con chi piange. È il tema della condivisione della vita delle persone: l’amore fraterno si spinge fino alla condivisione di tutti i momenti di vita dei fratelli. Ma perché ci sia vera solidarietà bisogna togliere ogni arrivismo: l’arroganza e l’orgoglio sono la morte della fraternità e portano allo sfruttamento, non alla condivisione. Lo stesso vale anche nell’impegno verso i poveri e nelle scelte a servizio del bene comune della società.

I rapporti con il mondo vv.17-21: Vivete in pace con tutti. Ritorna il tema della nonviolenza attiva. Lo stile del cristiano supera la vendetta, l’istinto di ricambiare il male ricevuto; persegue invece la pace, anche nelle situazioni più difficili, anche di fronte alla violenza fanatica e gratuita. Pur volendo difendere il bene comune e le persone innocenti; pur dovendo a volte constatare l’impossibilità del dialogo e della riconciliazione per l’ostinato rifiuto dell’altro, il cristiano cercherà sempre di non lasciarsi vincere dal male, ma di vincere il male con il bene. A volte il perdono gratuito sarà l’unica scelta possibile, sarà la testimonianza da lasciare impressa nella mente e nel cuore delle persone, affidando a Dio l’efficacia di essa.


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Dio rimane fedele a Israele malgrado le sue infedeltà 1Io domando dunque: Dio ha forse ripudiato il suo popolo? Impossibile! Anch’io infatti sono Israelita, della discendenza di Abramo, della tribù di Beniamino. 2Dio non ha ripudiato il suo popolo, che egli ha scelto fin da principio. Non sapete ciò che dice la Scrittura, nel passo in cui Elia ricorre a Dio contro Israele? 3Signore, hanno ucciso i tuoi profeti, hanno rovesciato i tuoi altari, sono rimasto solo e ora vogliono la mia vita. 4Che cosa gli risponde però la voce divina? Mi sono riservato settemila uomini, che non hanno piegato il ginocchio davanti a Baal. 5Così anche nel tempo presente vi è un resto, secondo una scelta fatta per grazia. 6E se lo è per grazia, non lo è per le opere; altrimenti la grazia non sarebbe più grazia. 7Che dire dunque? Israele non ha ottenuto quello che cercava; lo hanno ottenuto invece gli eletti. Gli altri invece sono stati resi ostinati, 8come sta scritto: Dio ha dato loro uno spirito di torpore, occhi per non vedere e orecchi per non sentire, fino al giorno d’oggi. 9E Davide dice: Diventi la loro mensa un laccio, un tranello, un inciampo e un giusto castigo! 10Siano accecati i loro occhi in modo che non vedano e fa’ loro curvare la schiena per sempre!

I gentili sono entrati accanto a Israele nel piano salvifico 11Ora io dico: forse inciamparono per cadere per sempre? Certamente no. Ma a causa della loro caduta la salvezza è giunta alle genti, per suscitare la loro gelosia. 12Se la loro caduta è stata ricchezza per il mondo e il loro fallimento ricchezza per le genti, quanto più la loro totalità! 13A voi, genti, ecco che cosa dico: come apostolo delle genti, io faccio onore al mio ministero, 14nella speranza di suscitare la gelosia di quelli del mio sangue e di salvarne alcuni. 15Se infatti il loro essere rifiutati è stata una riconciliazione del mondo, che cosa sarà la loro riammissione se non una vita dai morti? 16Se le primizie sono sante, lo sarà anche l’impasto; se è santa la radice, lo saranno anche i rami. 17Se però alcuni rami sono stati tagliati e tu, che sei un olivo selvatico, sei stato innestato fra loro, diventando così partecipe della radice e della linfa dell’olivo, 18non vantarti contro i rami! Se ti vanti, ricordati che non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te. 19Dirai certamente: i rami sono stati tagliati perché io vi fossi innestato! 20Bene; essi però sono stati tagliati per mancanza di fede, mentre tu rimani innestato grazie alla fede. Tu non insuperbirti, ma abbi timore! 21Se infatti Dio non ha risparmiato quelli che erano rami naturali, tanto meno risparmierà te! 22Considera dunque la bontà e la severità di Dio: la severità verso quelli che sono caduti; verso di te invece la bontà di Dio, a condizione però che tu sia fedele a questa bontà. Altrimenti anche tu verrai tagliato via. 23Anch’essi, se non persevereranno nell’incredulità, saranno innestati; Dio infatti ha il potere di innestarli di nuovo! 24Se tu infatti, dall’olivo selvatico, che eri secondo la tua natura, sei stato tagliato via e, contro natura, sei stato innestato su un olivo buono, quanto più essi, che sono della medesima natura, potranno venire di nuovo innestati sul proprio olivo!

La predilezione di Dio conduce Israele verso un esito positivo 25Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi: l’ostinazione di una parte d’Israele è in atto fino a quando non saranno entrate tutte quante le genti. 26Allora tutto Israele sarà salvato, come sta scritto: Da Sion uscirà il liberatore, egli toglierà l’empietà da Giacobbe. 27Sarà questa la mia alleanza con loro quando distruggerò i loro peccati. 28Quanto al Vangelo, essi sono nemici, per vostro vantaggio; ma quanto alla scelta di Dio, essi sono amati, a causa dei padri, 29infatti i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! 30Come voi un tempo siete stati disobbedienti a Dio e ora avete ottenuto misericordia a motivo della loro disobbedienza, 31così anch’essi ora sono diventati disobbedienti a motivo della misericordia da voi ricevuta, perché anch’essi ottengano misericordia. 32Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per essere misericordioso verso tutti!

Dossologia 33O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie! 34Infatti, chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore? O chi mai è stato suo consigliere? 35O chi gli ha dato qualcosa per primo tanto da riceverne il contraccambio? 36Poiché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Amen.

Approfondimenti

cf LETTERA AI ROMANI

Israele ha udito e compreso e una parte di esso ha creduto. Questa parte costituisce “un resto” come al tempo di Elia. L'altra parte è caduta nell'ostinazione perché ha rifiutato ciò che ha udito e visto. L'azione di Cristo ha svelato molti cuori in Israele, che sono finiti, per il loro rifiuto, nell'ostinazione (Lc 2,34).

Ma se sono caduti nell'ostinazione questo è per sempre? Paolo perentoriamente dice di no.

L'apostolo passa ad affermare che la caduta di Israele ha favorito l'ingresso dei pagani alla fede, poiché il Cristo non è apparso ai pagani legato ad una nazione, che poteva creare ostacolo, ma è apparso a loro nella sua entità universale. L'accoglienza di Cristo da parte dei pagani ha a sua volta suscitato la gelosia dei Giudei. Israele dunque è stato involontariamente ricchezza per le genti, e lo sarà ancora di più quando entrerà nella salvezza nella sua totalità.

“Se le primizie sono sante, lo sarà anche l'impasto; se è santa la radice, lo saranno anche i rami”. Infatti le primizie sono i patriarchi. Ora la primizia santa (Cf. Nm 15,19-21) è ancora capace di portare Israele ad accogliere Cristo. La radice santa, sono ancora i patriarchi, non potrà che avere rami santi. Una parte di quei rami ha accolto Cristo, un'altra parte è stata tagliata perché ha rifiutato Cristo. Al posto dei rami tagliati sono stati innestati i rami dell'olivo selvatico, cioè i pagani, che sono diventati per la fede in Cristo partecipi della radice santa. Ma i rami innestati nell'olivo buono non devono inorgoglirsi di fronte ai rami tagliati perché Dio ha il potere di reinnestarli “sul proprio olivo”.

Il rifiuto di Cristo di una parte di Israele ha facilitato l'ingresso dei pagani alla fede (“Ora avete ottenuto misericordia a motivo della loro disobbedienza”), ma nello stesso tempo Israele si è chiuso nella disobbedienza rifiutando di ascoltare la gelosia che nasceva spontanea nel suo cuore. Così Israele chiuso nella disobbedienza conoscerà la misericordia di Dio, quando tutte le nazioni saranno entrate a far parte della Chiesa, allora la gelosia opererà il suo positivo effetto sbloccando Israele.

“O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie”. Paolo ha spinto la sua speculazione agli estremi delle sue possibilità sulla base dell'esperienza della gelosia provata dai Giudei, ma deve fermarsi riconoscendo che i giudizi di Dio e le sue vie sono inaccessibili alla mente umana.


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Amore di Paolo per Israele 1Fratelli, il desiderio del mio cuore e la mia preghiera salgono a Dio per la loro salvezza. 2Infatti rendo loro testimonianza che hanno zelo per Dio, ma non secondo una retta conoscenza. 3Perché, ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio. 4Ora, il termine della Legge è Cristo, perché la giustizia sia data a chiunque crede.

La salvezza è per tutti 5Mosè descrive così la giustizia che viene dalla Legge: L’uomo che la mette in pratica, per mezzo di essa vivrà. 6Invece, la giustizia che viene dalla fede parla così: Non dire nel tuo cuore: Chi salirà al cielo? – per farne cioè discendere Cristo –; 7oppure: Chi scenderà nell’abisso? – per fare cioè risalire Cristo dai morti. 8Che cosa dice dunque? _Vicino a te è la Parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore, cioè la parola della fede che noi predichiamo. 9Perché se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. 10Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza. 11Dice infatti la Scrittura: Chiunque crede in lui non sarà deluso. 12Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. 13Infatti: Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato.

La fede viene dall'annuncio del Vangelo 14Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? 15E come lo annunceranno, se non sono stati inviati? Come sta scritto: Quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene! 16Ma non tutti hanno obbedito al Vangelo. Lo dice Isaia: Signore, chi ha creduto dopo averci ascoltato? 17Dunque, la fede viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo. 18Ora io dico: forse non hanno udito? Tutt’altro: Per tutta la terra è corsa la loro voce, e fino agli estremi confini del mondo le loro parole. 19E dico ancora: forse Israele non ha compreso? Per primo Mosè dice: Io vi renderò gelosi di una nazione che nazione non è; susciterò il vostro sdegno contro una nazione senza intelligenza. 20Isaia poi arriva fino a dire: Sono stato trovato da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato a quelli che non chiedevano di me, 21mentre d’Israele dice: Tutto il giorno ho steso le mani verso un popolo disobbediente e ribelle!

Approfondimenti

cf LETTERA AI ROMANI

Amore di Paolo per Israele L'amore di Paolo per gli israeliti è grande: egli prega continuamente per la loro salvezza, cioè per la loro apertura a Cristo. Paolo riconosce che essi hanno zelo per Dio, ma questo non è compiuto con retta coscienza. Tuttavia, rimane il caso di ignoranza invincibile per i condizionamenti avuti dal Sinedrio e dai padri che formularono la pretesa di giungere alla giustizia davanti a Dio con le opere della Legge e non con la fede in Dio che salva a partire dalla gratuità del suo amore.

La salvezza è per tutti La fede esclude il dubbio: essa crede all'annuncio della Chiesa (testimone di Cristo e inviata da Cristo) che Cristo è venuto nella carne, è morto ed è disceso agli inferi e il terzo giorno è risuscitato dai morti. La non fede vuole scartare l'annuncio della Chiesa, e si esprime nell'oscuro pensiero che ci dovrebbe essere qualcuno che andasse a verificare se Gesù è risorto ed è in cielo quindi lo faccia discendere perché se ne ascolti da lui stesso la parola. Oppure se Cristo non è risorto ed è negli inferi ci debba essere qualcuno che ci vada e lo accerti e faccia salire Cristo per avere da lui direttamente la parola. Ma Cristo ha già donato la sua parola ed essa è continuamente annunciata. Già nel Primo Testamento qualcuno aveva cercato di mettere in dubbio la parola di Dio avuta nella teofania del Sinai, dove Dio aveva dato su tavole di pietra le sue dieci parole e le disposizioni per il culto, pensando che fosse necessario che qualcuno salisse in cielo o nel profondo del mare per averla e per crederla divina, ma la parola era già scesa dal cielo sul Sinai ed era “sulla tua bocca e nel tuo cuore”.

La fede viene dall'annuncio del Vangelo La predicazione del Vangelo è di necessità assoluta poiché “la fede viene dall'ascolto e l'ascolto riguarda la parola di Cristo“. Israele ha udito l'annuncio poiché “Per tutta la terra è corsa la loro voce” e, riguardo a Israele, “Tutto il giorno ho steso le mani verso un popolo disobbediente e ribelle!”. Paolo ha compreso perché Israele è diventato geloso: si diventa gelosi di un valore! Ma Israele nello stesso tempo si è sdegnato illudendosi di credersi nel giusto rifiutando il Vangelo: “Io vi renderò gelosi di una nazione che nazione non è; susciterò il vostro sdegno contro una nazione senza intelligenza”.


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Il destino d'Israele e la pena di Paolo 1Dico la verità in Cristo, non mento, e la mia coscienza me ne dà testimonianza nello Spirito Santo: 2ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. 3Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. 4Essi sono Israeliti e hanno l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse; 5a loro appartengono i patriarchi e da loro proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen.

Dio e la sua parola non sono venuti meno 6Tuttavia la parola di Dio non è venuta meno. Infatti non tutti i discendenti d’Israele sono Israele, 7né per il fatto di essere discendenza di Abramo sono tutti suoi figli, ma: In Isacco ti sarà data una discendenza; 8cioè: non i figli della carne sono figli di Dio, ma i figli della promessa sono considerati come discendenza. 9Questa infatti è la parola della promessa: Io verrò in questo tempo e Sara avrà un figlio. 10E non è tutto: anche Rebecca ebbe figli da un solo uomo, Isacco nostro padre; 11quando essi non erano ancora nati e nulla avevano fatto di bene o di male – perché rimanesse fermo il disegno divino fondato sull’elezione, non in base alle opere, ma alla volontà di colui che chiama –, 12le fu dichiarato: Il maggiore sarà sottomesso al minore, 13come sta scritto: Ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù. 14Che diremo dunque? C’è forse ingiustizia da parte di Dio? No, certamente! 15Egli infatti dice a Mosè: Avrò misericordia per chi vorrò averla, e farò grazia a chi vorrò farla. 16Quindi non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che ha misericordia. 17Dice infatti la Scrittura al faraone: Ti ho fatto sorgere per manifestare in te la mia potenza e perché il mio nome sia proclamato in tutta la terra. 18Dio quindi ha misericordia verso chi vuole e rende ostinato chi vuole. 19Mi potrai però dire: «Ma allora perché ancora rimprovera? Chi infatti può resistere al suo volere?». 20O uomo, chi sei tu, per contestare Dio? Oserà forse dire il vaso plasmato a colui che lo plasmò: «Perché mi hai fatto così?». 21Forse il vasaio non è padrone dell’argilla, per fare con la medesima pasta un vaso per uso nobile e uno per uso volgare? 22Anche Dio, volendo manifestare la sua ira e far conoscere la sua potenza, ha sopportato con grande magnanimità gente meritevole di collera, pronta per la perdizione. 23E questo, per far conoscere la ricchezza della sua gloria verso gente meritevole di misericordia, da lui predisposta alla gloria, 24cioè verso di noi, che egli ha chiamato non solo tra i Giudei ma anche tra i pagani. 25Esattamente come dice Osea: Chiamerò mio popolo quello che non era mio popolo e mia amata quella che non era l’amata. 26E avverrà che, nel luogo stesso dove fu detto loro: «Voi non siete mio popolo», là saranno chiamati figli del Dio vivente. 27E quanto a Israele, Isaia esclama: Se anche il numero dei figli d’Israele fosse come la sabbia del mare, solo il resto sarà salvato; 28perché con pienezza e rapidità il Signore compirà la sua parola sulla terra. 29E come predisse Isaia: Se il Signore degli eserciti non ci avesse lasciato una discendenza, saremmo divenuti come Sòdoma e resi simili a Gomorra.

La giustizia di Dio è basata sulla fede 30Che diremo dunque? Che i pagani, i quali non cercavano la giustizia, hanno raggiunto la giustizia, la giustizia però che deriva dalla fede; 31mentre Israele, il quale cercava una Legge che gli desse la giustizia, non raggiunse lo scopo della Legge. 32E perché mai? Perché agiva non mediante la fede, ma mediante le opere. Hanno urtato contro la pietra d’inciampo, 33come sta scritto: Ecco, io pongo in Sion una pietra d’inciampo e un sasso che fa cadere; ma chi crede in lui non sarà deluso.

Approfondimenti

(cf LETTERA AI ROMANI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Giuseppe Pulcinelli © EDIZIONI SAN PAOLO, 2014)

Il brusco passaggio di registro da ciò che precede, in particolare dal tono esaltante del canto di lode con cui si conclude il capitolo 8, alle espressioni di dolore e lacerazioni interiori dei primi versetti del capitolo 9, ha fatto pensare che i capitoli 9-11 siano una specie di excursus o addirittura un'inserzione posteriore (d'altronde il passaggio diretto da 8,39 a 12,1 risulterebbe più armonico); in realtà in Rm 9-11 Paolo riprende una questione che aveva lasciato emergere in 3,1-4: quali sono le prerogative d'Israele in quanto popolo eletto? E soprattutto: come si spiega nel piano di Dio il fatto che Israele non ha accolto Gesù come messia? Bisogna dire che la trattazione di tali temi, specialmente del secondo, fanno di questi capitoli un unicum nel panorama del cristianesimo delle origini, e continuano a stimolare la riflessione fino ai nostri giorni.

Il destino d'Israele e la pena di Paolo I primi versetti hanno la funzione di introdurre la questione del destino di Israele, facendo emergere la sua componente drammatica attraverso l'esternazione personale-emotiva di Paolo. Con Il v. 1 egli intende conferire, a quanto sta per dire un alto livello di veridicità e solennità («dico la verità... non mento »), coinvolgendo tuttto se stesso («la mia coscienza me ne da testimonianza») e indicando il suggello divino («in Cristo... nello Spirito Santo»), in una formulazione che è molto vicina a quella di un giuramento. Subito dopo Paolo rivela i suoi sentimenti di profonda afflizione (cfr. v. 2) di fronte a qualcosa di opprimente che sta davanti a lui e lo assilla nel suo intimo; prima di lasciar emergere la motivazione di tanta amarezza, Paolo esprime con termini molto forti, volutamente esagerati, ciò che è disposto a mettere in gioco pur di ottenere quanto gli sta a cuore: «vorrei... essere io stesso anatema (separato) da Cristo»! (v. 3a). Qui sembra di fatto contraddire totalmente quanto ha appena proclamato riguardo all'impossibilità di separare il cristiano dall'amore di Cristo (cfr. 8,35.39), e quanto ha affermato anche altrove sull'unione intima con lui (cfr. Gal 2,20; Fil 1,21); in realtà si tratta di un paradosso – non raro negli scritti paolini –, ossia di un modo estremo per dare risalto a qualche aspetto tipico del Vangelo. Finalmente fa capire il motivo della sua amarezza e insieme la finalità che vorrebbe raggiungere attraverso tale autocondanna: «in favore dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne» (v. 3b; cfr. 10,1: «Fratelli, il desiderio del mio cuore e la [mia] preghiera a Dio [sono] per loro in vista della salvezza»); ciò che lo affligge è dunque che essi non hanno aderito a Cristo. Velatamente lascia intendere una specie di scambio dei ruoli: poiché si sente strettamente legato ad essi (cfr. i termini: «fratelli.... consanguinei»), Paolo, che è unito a Cristo, se potesse, vorrebbe essere separato da lui affinché essi, che invece ne sono separati, ne risultino uniti (si può intravedere qualche analogia con Mosè, che chiede di essere cancellato dal libro della vita, a favore del popolo che ha peccato; cfr. Es 32,32). Il dispiacere di Paolo è reso acuto dal fatto che egli si sente tuttora un giudeo (cfr. 2Cor 11,22; Gal 2,15; Fil 3,4-6), appartenente sia in senso etico sia ideale al popolo che era il primo destinatario del Vangelo. Nei v. 4-5 si elencano le prerogative concesse con tale elezione divina: si tratta di ben nove titoli di vanto! La conclusione di questo elenco presenta Gesù, che è stato pienamente uomo proprio nascendo ebreo da ebrei, e per i cristiani di tutti i tempi ciò comporta il perenne debito nei confronti d'Israele, che ha tramandato la speranza messianica e ha donato al mondo il messia nella persona di Gesù Nazareno (cfr. Mt 1-2; Lc 1-2; Gv 4,22b). Conclude il versetto una dossologia che, in forma di benedizione, loda Dio che è «sopra ogni cosa» (v. 5b), cioè sovrano universale: di tutto e di tutti (giudei e gentili).

Dio e la sua parola non sono venuti meno Dopo questa introduzione, Paolo enuncia la tesi principale che intende sviluppare fino al v. 29: la parola di Dio non è venuta meno (cfr. v. 6a). L'argomentazione può essere poi suddivisa in due parti, una prima in cui si sottolinea l'elezione di Israele (9,6b-13), e una seconda in cui, in base alla sua insondabile libertà, Dio elegge sia un resto in Israele sia i gentili (9,14-29).

La parola di Dio non è venuta meno (9,6a) Il salto concettuale da ciò che precede è piuttosto ampio per risultare immediatamente comprensibile; egli infatti omette, dandolo per scontato, il passaggio finale del ragionamento: pur con tutte quelle prerogative (cfr. vv. 4-5), la maggior parte di Israele non ha creduto in Cristo, e quindi sembrerebbe essere escluso dall'antica elezione divina (da notare che l'elezione non viene menzionata tra quelle prerogative); è proprio così? E non andrebbe ciò contro la disposizione di Dio e quindi contro la sua onnipotenza? Ecco allora la tesi del v. 6a, che replica brevemente a tali domande sottintese (la situazione di Israele non è dovuta all'insufficienza della parola divina) e innesca l'argomentazione seguente, che è prettamente teologica. In particolare, il sintagma «parola di Dio» (solo qui in Romani, cinque volte in tutto nelle lettere di sicura attribuzione paolina) preannuncia le abbondanti citazioni bibliche contenute in questa sezione, proprio a dimostrazione che essa non è venuta meno, ma anzi resta perennemente valida (cfr. Gs 21,45; Is 40,8).

Dio ha eletto Israele (9,6b-13) La prima parte dell'argomentazione è annunciata dalla frase «non tutti quelli che sono (discendenti) da Israele sono (davvero) Israele» (v. 6b), con la quale Paolo compie una distinzione tra il livello etnico e quello spirituale (già implicita in 2,28-29), secondo il concetto biblico di «resto» (2Re 19,30; Is 11,11; Ger 23,3), che egli impiegherà poi in 9,27 per i giudei divenuti credenti in Gesù (come Paolo). A riprova di ciò riporta i caso dei patriarchi, ricordando che non è sufficiente la discendenza fisica da Abramo per essere figli suoi (cfr. v. 7; citazione di Gen 21,12) ed essere inclusi nella promessa (cfr. 4,13): l'elezione a «figlio di Dio» vale solo per Isacco, figlio della promessa, e non per il figlio della carne, cioè Ismaele (cfr. v. 8; ma anche Gal 4,31), come era stato predetto a Sara (cfr. v. 9, che cita Gen 18,10.14). La stessa cosa vale per Esaù e Giacobbe, figli gemelli nati da Rebecca e Isacco «nostro Padre» (cfr. v. 10; si riferisce a Gen 25,21-26). Qui Paolo, prendendo spunto da Gen 25,23 (che citerà subito dopo al v. 12b), inserisce un commento che costituisce un principio basilare del suo pensiero teologico: il disegno di Dio è basato sulla sua insindacabile chiamata, per cui egli sceglie liberamente e gratuitamente, senza badare alle opere (né quelle buone, né quelle cattive), o eventuali diritti naturali acquisiti (cfr. vv. 11-12a); infatti Dio sceglie tra i due fratelli quando non erano ancora nati, perciò indipendentemente dai loro meriti o demeriti. A conferma di quanto appena detto, i vv. 12b-13 riportano due citazioni bibliche; oltre al già menzionato Gen 25,23, anche Ml 1,2-3: «lo ho amato Giacobbe e odiato Esaù», dove non va rinvenuta una concezione da doppia predestinazione (alla salvezza o alla perdizione), ma si intende sottolineare unicamente la preferenza elettiva da parte di Dio per Israale (i verbi «amare» e «odiare» qui non vanno presi alla lettera, dal momento che in linguaggio semitico esprimono piuttosto il preferire una cosa all'altra; cfr. Mt 5,43; 6,24; Gv 12,25).

Nella sua libertà Dio elegge sia un resto in Israele sia i gentili (9,14-29) “Nella seconda parte dell'argomentazione, Paolo vuole dimostrare che le scelte di Dio, compiute nella sua insondabile libertà, non sono ingiuste (cfr. vv. 14-23), né nel chiamare i gentili che vengono associati al popolo di Dio (cfr. vv. 24-26), né verso Israele, da cui trae un resto (cfr. vv. 27-29).

In particolare, il v. 14, esplicita la domanda che poteva provenire da quanto appena detto, e insieme introduce la risposta che lo occuperà fino al v. 29: «C'è forse ingiustizia presso Dio?». In altri termini: non fa egli forse parzialità o favoritismi agendo in questo modo? (in 3,5 era stata presentata un'obiezione simile, però li era in gioco l'ingiustizia dell'uomo). Paolo subito rigetta tale possibilità; essa va esclusa poiché l'agire di Dio e la sua scelta non si basano sul principio della retribuzione (come aveva già accennato al v. 11 e chiarità meglio poi al v. 16). Intanto al v. 15 cita Es 33,19, che mette in luce come le disposizioni di Dio hanno la loro ragione in Dio stesso, nella sua volontà, e che comunque esse sono orientate alla misericordia e alla compassione verso l'uomo (non all'esclusione o alla punizione), come è poi spiegato al v. 16: l'elezione e la salvezza dipendono da Dio che usa misericordia, non dalla volontà o dagli sforzi dell'uomo (cfr. l'immagine della corsa, usata anche altrove da Paolo: 1Cor 9,24-27; Gal 2,2; 5,7; Fil 2,16; 3,12-14).

Nei vv. 17-18, per rafforzare la sua argomentazione, Paolo ricorre al libro dell'Esodo, e in particolare al caso del Faraone e del suo indurimento: malgrado la sua opposizione ostinata al piano di Dio per liberare Israele, il Faraone diviene comunque uno strumento per la manifestazione della potenza divina. In definitiva è sempre Dio a guidare gli avvenimenti della storia, anche quando l'uomo vi si oppone.

Nei vv. 19-23 Paolo insiste decisamente sulla assoluta libertà e sovranità di Dio, partendo dall'obiezione ragionevole e intrigante insieme: «perché, dunque, ancora rimprovera?»; in effetti, se tutto dipende da Dio, così che nessuno può resistergli (cfr. v. 19b), perché rimprovera l'uomo come se nella sua libertà potesse fare qualcosa contro di lui? La risposta inizia al v. 20a (solo abbozzata, attraverso l'interrogativo) con una specie di ammonizione a non arrogarsi la parità con Dio (cfr. Sap 12,12; Qo 5,1; Gb 16,8), e prosegue con la forma interrogativa fino al v. 23 (si contano altri tre interrogativi), riprendendo un'immagine biblica ben conosciuta, quella del vasaio che plasma i suoi artefatti, per applicarla alla nuova situazione di Israele confrontato con il Vangelo; come il vasaio con la creta, così Dio può disporre pienamente dell'uomo e dei popoli, sempre in vista del suo progetto salvifico (e non in vista della perdizione). L'immagine del vasaio viene applicata a Dio nei v. 22-23, per cui egli risalta come soggetto – unico – sommamente sovrano dell'azione; il senso complessivo risulta abbastanza chiaro (anche alla luce del successivo v. 24): nella sua sovranità Dio ha davanti a sé due gruppi di persone, i vasi d'ira sono coloro che non ha scelto o ha indurito (nel passato erano Ismaele, Esaù, il Faraone), attualmente rappresentano quei giudei che non hanno accolto il Vangelo (anche se Paolo significativamente non li identifica), mentre i vasi di misericordia sono il gruppo formato sia da giudei sia da gentili che lo hanno accolto. Va notato che verso i primi non viene espressa condanna, dal momento che, pur essendo stati oggetto d'ira, «pronti per la perdizione», Dio li ha sopportati «con grande magnanimità» (v. 22), lasciando anzi intravedere che egli si è servito di loro come strumenti per «far conoscere la ricchezza della sua gloria verso vasi di misericordia che lui aveva predisposto per la gloria» (v. 23), per cui anche l'ira, in definitiva, è funzionale alla misericordia (che rivela la sua vera potenza, cfr. v. 22a).

I vv. 27-29 parlano dei chiamati tra i giudei (cfr. v. 24) che, attraverso altre citazioni bibliche (Is 10,22-23, combinato con Os 2,1), vengono identificati come il «resto», cioè quella (piccola) parte di giudei che ha accolto il Vangelo; e ciò sta a testimoniare che la parola di Dio non è venuta meno (cfr, v. 28: «la (sua) parola infatti il Signore la compita pienamente»; cfr. v. 6a), e che c'è una parte di Israele che non è (vero) Israele (Cfr v. 6b). L'elezione non fa parte dei privilegi permanenti dei giudei (cfr. 9,4-5; come detto per i casi sopra menzionati di Ismaele, Esaù, il Faraone), ma dipende in modo incondizionato da Dio soltanto. In ogni caso bisogna notare che non c'è alcun accenno a punizione o altra azione negativa da parte di Dio verso chi è escluso dal resto; anzi, come sarà spiegato successivamente (cfr. 11,11-32), nel piano di Dio questa situazione è temporanea e funzionale all'ingresso dei gentili. Chiude la sezione, al v. 29, un'altra citazione biblica, da Is 1,9, che richiama la sorte di distruzione (il richiamo è alla fine di Sodoma e Gomorra), che sarebbe stata riservata a Israele infedele se Dio non avesse mantenuto la sua misericordia verso Sion lasciando sussistere un resto (ora applicato a quei giudei che hanno aderito al Vangelo), qui espresso attraverso la categoria sinonimica di discendenza (alla lettera: «seme», che esprime l'idea di qualcosa di piccolo ma ricco di potenzialità in vista del futuro).

La giustizia di Dio è basata sulla fede Dopo aver affermato che Dio chiama (molti tra) i gentili e soltanto un resto tra i giudei, Paolo chiarisce come ciò possa essere avvenuto. Paolo spiega come mai i gentili hanno avuto accesso alla giustizia mentre i giudei ne sono rimasti fuori. Il v. 30 presenta l'ormai tipico interrogativo «Che diremo, dunque?», poi, con un linguaggio tipico dell'ambito agonistico della corsa evoca la condizione in cui si trovavano i gentili in rapporto alla giustizia (si intende quella salutifera proveniente da Dio), la quale si ottiene mediante la fede (sola, cfr. 3,28): essi non la perseguivano, anzi, prima di aver ricevuto il Vangelo nemmeno sapevano che esistesse; credendo (in Cristo) essi l'hanno ottenuta. A differenza di Israele (ora considerato qui come giudaismo nel suo complesso, senza la distinzione fatta al v. 6b), che cercava la giustizia attraverso la Legge (cfr. v. 31a), cioè la giustificazione da conseguire mediante l'osservanza delle opere richieste dalla Torà (cfr. 2, 13), ma non raggiunse ciò che la Legge positivamente intendeva favorire (cfr. v. 31b). Le ragioni di questo fallimento sono già state esposte da Paolo in 7,7-25; qui, invece, l'apostolo indica un altro elemento: la giustizia ricercata «non (si basava) sulla fede, ma come (se venisse) dalle opere» (v. 32a; cfr. 3,28; la contrapposizione tra fede e opere è rimarcata specialmente in Gal 2,16; 3,2.5); la fede di cui parla, come si chiarisce meglio dopo, è quella caratterizzata cristologicamente (cfr. 10,4 e i versetti seguenti; anche perché i giudei non vengono accusati di mancare di fede in Dio, cfr: 10,2), mentre le opere sono essenzialmente quelle della Legge (ma non solo; cfr. 2,7; 12,8). In questo modo «inciamparono nella pietra d'inciampo» (v. 32b); il passo biblico proposto da Paolo, che è una combinazione di Is 8,14 e 28,16, intende indicare l'oggetto mancato della fede d'Israele: l'immagine della pietra evoca soprattutto l'idea di fondamento solido e rassicurante (implicitamente si vuole dire che così sarebbe stato per Israele se avesse aderito a Cristo), dal momento che però (purtroppo) i giudei non hanno aderito ad essa, la stessa pietra è diventata inciampo per la caduta (rileggendo al negativo la citazione del v. 33b: chi non crede in essa sarà svergognato). Che con «pietra» si voglia intendere Cristo lo si deduce dal contesto, specialmente da 10,4-17; inoltre il termine skándalon (qui tradotto con «inciampo», nell'espressione pétran skandálou, «una pietra d'inciampo») altrove in Paolo è riferito esplicitamente al Cristo crocifisso (cfr. 1Cor 1,23: «scandalo per i giudei»; Gal 5,11: «scandalo della croce»).


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La vita secondo la Spirito: la libertà dei figli di Dio 1Ora, dunque, non c’è nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. 2Perché la legge dello Spirito, che dà vita in Cristo Gesù, ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte. 3Infatti ciò che era impossibile alla Legge, resa impotente a causa della carne, Dio lo ha reso possibile: mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e a motivo del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne, 4perché la giustizia della Legge fosse compiuta in noi, che camminiamo non secondo la carne ma secondo lo Spirito. 5Quelli infatti che vivono secondo la carne, tendono verso ciò che è carnale; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, tendono verso ciò che è spirituale. 6Ora, la carne tende alla morte, mentre lo Spirito tende alla vita e alla pace. 7Ciò a cui tende la carne è contrario a Dio, perché non si sottomette alla legge di Dio, e neanche lo potrebbe. 8Quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio. 9Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. 10Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia. 11E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi. 12Così dunque, fratelli, noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, 13perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete. 14Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. 15E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». 16Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. 17E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria. 18Ritengo infatti che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. 19L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. 20La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza 21che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. 22Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. 23Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. 24Nella speranza infatti siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo? 25Ma, se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza. 26Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; 27e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio. 28Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno. 29Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; 30quelli poi che ha predestinato, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati. 31Che diremo dunque di queste cose? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? 32Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? 33Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! 34Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi! 35Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? 36Come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo considerati come pecore da macello. 37Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. 38Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, 39né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore.

Approfondimenti

Lectio sulla Lettera ai Romani – di don Sergio Carrarini (sacerdote della Diocesi di Verona parroco a Bosco di Zevio)

LA VITA SECONDO LO SPIRITO Il capitolo 8 è il vertice, il punto di arrivo di tutto il discorso di Paolo sulla giustificazione per grazia, perché sottolinea e approfondisce l’aspetto positivo della salvezza portata da Cristo: la vita nuova secondo lo Spirito e la promessa della vita eterna che attende l’umanità e l’intero universo. La luce e la speranza che riempiono questo capitolo risaltano ancor di più sullo sfondo buio dei capitoli precedenti e sottolineano con forza che il vangelo è proprio un “buona notizia” per l’uomo.

Centro focale del capitolo è lo Spirito Santo (citato 34 volte nella Lettera, 20 in questo capitolo), lo Spirito di Dio o Spirito di Cristo. Lo Spirito (alito, soffio, vento) indica la presenza vivificante di Dio nel credente, la forza che lo libera dalla schiavitù del male, la guida sulla via del bene, la primizia della nuova vita e la caparra della piena liberazione. Lo Spirito Santo è la forza di rinnovamento della storia umana e il fondamento della speranza.

L’azione dello Spirito ha una dimensione legata al presente, alla vita concreta del credente e della Chiesa (senza fughe dal mondo o derive spiritualistiche) e una dimensione futura, di speranza nella piena liberazione che Dio realizzerà alla fine dei tempi. Le due dimensioni sono sempre legate tra loro in un rapporto dinamico.

La persona guidata dallo Spirito (8,1-13) Questa prima parte del capitolo è centrata sul confronto fra carne e spirito, tra l’uomo carnale e l’uomo spirituale, tra una vita secondo la carne e una vita secondo lo spirito, tra l’essere schiavi della carne e l’essere servi dello spirito. Paolo usa tante espressioni diverse per indicare che i termini “carne” e “spirito” non vogliono indicare (come nella filosofia greca) “corpo” e “anima”, ma due modi di vivere, di pensare e di agire dell’uomo. Sono due concezioni contrapposte di vita.

Vivere secondo la carne vuol dire essere persone che guardano solo a se stesse, che cercano solo il proprio comodo, il proprio interesse, il proprio piacere personale, il successo, le cose materiali… Paolo e Giovanni (ed anche noi oggi) per indicare questa mentalità usano il termine egoismo. Vivere secondo lo spirito vuol dire vivere nell’obbedienza a Dio e nell’amore verso il prossimo, nell’attenzione alle persone e nel rispetto della vita, nella gioia di fare il bene e di costruire la pace. Sono due modi contrapposti di pensare e di vivere che coinvolgono tutti gli ambiti dell’esistenza umana, tutte le dimensioni della persona e della vita sociale. Qui Paolo ne cita alcune.

vv.1-4: Non viviamo più nella nostra debolezza, ma siamo fortificati dallo Spirito. Ricollegandosi con la conclusione del capitolo 7, Paolo usa il termine carne come sinonimo di debolezza, fragilità, incapacità di fare delle scelte positive (suggerite dalla coscienza e dall’educazione ricevuta). È il desiderio di trasgredire le regole per affermare se stessi, l’istinto di violenza per sopraffare gli altri, l’incapacità di resistere alle seduzioni delle mode, alle lusinghe della società del benessere.

L’uomo carnale è la persona senza forza di reagire, di essere critica, di fare scelte controcorrente; è la persona che fa quello che fanno tutti, che si crede libera ma in realtà è schiavizzata dalle mode e dalla propaganda, che ragiona ed agisce secondo i luoghi comuni dettati dal piacere e dall’interesse. L’uomo spirituale è quello che chiede a Dio la forza di reagire, perché ha coscienza della propria debolezza; quello che si apre allo Spirito per resistere e vincere le tentazioni della vita; quello che guarda e segue l’esempio di Gesù Cristo.

vv.5-8: Seguire l’egoismo conduce alla morte, seguire lo Spirito conduce alla vita e alla pace. Ora Paolo guarda alle persone che fanno scelte di egoismo non per debolezza, ma per convinzione, secondo una logica umana centrata sulla soddisfazione dei propri desideri e sull’assecondare le passioni che covano nel cuore dell’uomo. È un modello di vita propagandato dalla cultura del potere (oggi dai mezzi di comunicazione di massa) e tenacemente perseguito da molte persone.

Vivere secondo la carne diventa allora rifiuto cosciente della legge di Dio per seguire quella del proprio tornaconto personale, della sete di potere o di piacere, del desiderio di primeggiare e di comandare. I segni (o le conseguenze) di questa scelta di fondo sono vizi, immoralità, disonestà, cattiverie, violenze… di cui Paolo parla in 1,29-32 e nella Lettera ai Galati 5,19-24. Questa scelta di vita dettata dall’egoismo conduce alla morte, alla lontananza da Dio, al fallimento dell’esistenza. Vivere secondo lo Spirito invece vuol dire seguire il comandamento dell’amore e i dettami della coscienza, l’esempio di Cristo e delle persone che fanno il bene. Questo porta vita, gioia, pace, serenità, mitezza, armonia interiore e con tutti, rispetto della natura e speranza nel futuro.

vv.9-13: Se qualcuno non ha lo spirito di Cristo, non gli appartiene. Il terzo aspetto che viene ripreso da Paolo è quello legato alla religiosità umana, al modo di vivere il rapporto con il Signore. Vivere secondo la carne vuol dire vivere una religiosità esteriore, fatta di pratiche, di riti, di opere per sentirsi buoni, di osservanze per paura del castigo, di elemosine per farsi vedere dalla gente… Vivere secondo lo spirito vuol dire vivere un rapporto di amore verso Dio, di comunione con lui e con Gesù Cristo; vuol dire dare valore all’interiore più che all’esteriore, alla fede più che alle opere. È un rapporto da figli e non da servi, ispirato dalla fiducia e non dalla paura. Si può essere battezzati e cresimati, pregare quando si ha bisogno e fare delle elemosine, lavorare tutto il giorno e curare la propria famiglia… ma se non si è guidati dallo spirito di Cristo non si è veri cristiani.

Siamo figli ed eredi di Dio (8,14-30) La seconda parte del capitolo è imperniata sull’essere figli di Dio come dono portato da Cristo e realizzato dallo Spirito. Anche qui c’è una dimensione presente (già ora) di questo dono e c’è una dimensione futura (non ancora): la piena realizzazione sarà finale, nel momento dell’incontro definitivo con Dio, quando la salvezza raggiungerà tutti gli uomini e tutte le cose.

Questa grande visione di fede non è però statica, quasi un dono che scende dal cielo già bello e confezionato, da ammirare e custodire gelosamente (visione spiritualista), ma è dinamica, in continua evoluzione: siamo figli di Dio per dono, ma dobbiamo diventarlo per scelta; siamo figli di Dio per fede, ma un giorno lo vedremo faccia a faccia; siamo figli di Dio fragili e crocifissi, ma un giorno saremo gloriosi; amiamo il Padre in modo confuso e tentennante, ma un giorno saremo trasformati dal suo amore. Paolo esprime questa visione dinamica della figliolanza divina attraverso alcuni passaggi.

vv.14-16: Quelli che si lasciano guidare dallo spirito di Dio sono figli di Dio. Paolo sottolinea le due dimensioni dell’essere figli di Dio: avete ricevuto = il dono gratuito portato da Cristo attraverso lo Spirito; lasciarsi guidare = l’accettazione della persona che rende attivo il dono. Essere figli di Dio è dono e insieme impegno; è rivelazione e insieme ricerca; è grazia e insieme responsabilità. Paolo aggiunge poi un altro aspetto: essere figli è un passaggio, una conversione, un cambiamento di mentalità: è passare dalla paura di Dio alla confidenza, dall’atteggiamento dei servi alla tenerezza umile e fiduciosa dei figli. La paura di Dio è frutto del peccato; frutto dello Spirito è la fiducia.

v.17: Saremo eredi insieme con Cristo. Vivere come figli di Dio comporta però passare per la via della croce, come Gesù di Nazaret. Paolo non prospetta per i figli di Dio una vita tutta rose e fiori, tutta dolcezze e sentimentalismi, tutta miracoli e successi. Essere figli nel Figlio vuol dire seguire la sua strada, continuare nella nostra carne ciò che manca alla sua passione (Gal 2,19 e 6,17; Col 1,24) per la salvezza del mondo. Ma condividere la passione di Cristo vuol dire condividere un giorno anche la sua risurrezione, vuol dire diventare eredi con lui della gloria, della piena liberazione. Il dono dello Spirito e la fedeltà dell’uomo diventano garanzia, caparra, pegno, rinnovo delle promesse fatte da Dio agli antichi profeti e confermate in Cristo a tutti i credenti.

vv.18-27: Le sofferenze del tempo presente non sono assolutamente paragonabili alla gloria che Dio ci manifesterà. Alla luce di questa promessa Paolo allarga il suo sguardo verso il futuro, verso la grandezza della potenza di Dio e sottolinea la sproporzione esistente tra l’oggi dell’uomo e il futuro di Dio. L’uomo rischia di restare prigioniero dei suoi limiti, di guardare solo all’oggi, non cogliendo il progetto di Dio sulla storia. Bisogna allargare lo sguardo al futuro promesso, per avere la forza di essere fedeli nel presente, per resistere nelle prove, per superare le tentazioni disseminate lungo il cammino di ogni credente e di ogni Chiesa.

Paolo sottolinea questa dimensione di speranza incarnata nelle contraddizioni e nell’opacità della storia umana con dei termini che ritornano parecchie volte: gemiti, sospiri, attesa impaziente:

  • dell’universo, prigioniero di un non senso, di una situazione di violenza e di degrado che non trova una spiegazione logica;
  • del cristiano, che è ancora in un cammino di fede tortuoso e incerto, segnato da rischi e paure, dubbi e insicurezze, sbagli e tradimenti;
  • dello Spirito, impegnato a guidare con fatica i credenti sulla via della fede, a trasformare in figli di Dio delle persone deboli, fragili, incostanti, inesperte, riottose.

Ma il contrasto tra i limiti della realtà umana e la grandezza della promessa di Dio dà un senso nuovo alle cose, le illumina con la luce della fede. Allora il male e la violenza presenti nella storia dell’umanità si trasformano nelle doglie del parto di un mondo nuovo; le persecuzioni del cristiano diventano il prezzo della liberazione; le debolezze umane diventano occasione per fare spazio alla forza dello Spirito; i dubbi diventano invito a fidarsi di Dio e ad affidarsi nelle sue mani.

vv.28-30: Dio fa tendere ogni cosa al bene di quelli che lo amano. La conclusione di Paolo è un invito alla fiducia; è una visione assolutamente ottimistica della realtà fondata non sulle capacità dell’uomo, ma sulla potenza di Dio che sa trarre il bene anche dal male e che sta conducendo la storia verso la salvezza. Dio ha un progetto sull’umanità, con le sue tappe e i suoi passaggi: nessuna forza umana, nessun peccato, nessuna violenza possono impedire a Dio di realizzarlo. Il dono dello Spirito, la sua instancabile e sofferta azione nel cuore delle persone sono la garanzia che, nonostante le fragilità delle persone e le resistenze della natura umana segnata dal male, il progetto di Dio si realizzerà e la storia raggiungerà il traguardo fissato. Questa fede e questa speranza incrollabili fanno sgorgare dal cuore di Paolo un inno di lode all’amore fedele e inesauribile di Dio.

Canto all’amore fedele di Dio (8,31-39) Il capitolo si conclude con un inno di vittoria, quasi un canto di trionfo dei credenti vittoriosi sulle forze del male e della morte. Ma bisogna subito notare che questo canto di vittoria è messo in bocca a persone che stanno subendo la persecuzione, a gente che si avvia incatenata verso il Calvario. Anche se crocifissi e perseguitati, i cristiani sono nella gioia e si sentono vincitori, perché Dio è con loro e un giorno cambierà la loro situazione, la rovescerà. Questo inno di fede e di speranza non è un canto di trionfalismo umano o di esaltazione della croce, ma è un inno all’amore fedele di Dio che rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili (Lc 1,52). Il canto ruota attorno a due serie di domande che hanno già trovato risposta nei capitoli precedenti.

vv.31-34: Se Dio è per noi chi sarà contro di noi? La prima serie di domande è legata all’immagine del processo, con accusa e difesa dell’imputato (come avveniva ai cristiani chiamati a difendersi nei tribunali romani). Qui il riferimento, però, è al giudizio ultimo di Dio sulle persone e sulla storia. In questa accusa e difesa si sente ancora presente la paura di Dio, il richiamo alla legge e alla sua osservanza, alle opere buone e ai meriti da presentare come credenziali per ottenere l’assoluzione.

Paolo introduce allora l’immagine di Cristo come intercessore presso il Padre e quella dello Spirito come avvocato difensore (immagini riprese poi ampiamente dal Vangelo di Giovanni). Se il Padre ci ha mandato il Figlio come go’el e lo Spirito come avvocato difensore chi potrà opporsi a loro e fare da accusatore? Potrà mai lo Spirito del male essere più forte dello Spirito di Dio? Dio vuole salvare gli uomini, non condannarli (Gv 3,17)! Questa è la sua volontà e il suo progetto di salvezza rivelati da Gesù Cristo.

vv.35-39: Chi ci separerà dall’amore di Cristo? La seconda serie di domande si rifà all’immagine della persona sottoposta a prove per saggiare la sua fedeltà. Paolo elenca sette situazioni (come le sette fatiche di Ercole, ma senza nulla di eroico e di glorioso): quali fatti della vita potranno giustificare la rottura del rapporto di amore con Dio? Quali violenze degli uomini o sofferenze interiori potranno indurre al tradimento della fede? La vittoria di Cristo sulle forze del male, la sua fedeltà nella passione sono garanzia di vittoria per il cristiano, per chi vive e muore unito a lui.

Ma non ci sono solo le sofferenze a livello personale; ci sono anche delle forze più grandi: le ideologie e gli imperi, gli angeli e i demoni, le religioni e le superstizioni, i pesi del passato e gli incubi per il futuro, i disastri naturali e le catastrofi cosmiche…; c’è tutto un mondo in evoluzione che sembra andare verso la catastrofe finale (nucleare, ecologica, demografica, astrale?). Chi potrà superare queste prove? Chi potrà resistere fino alla fine?

La conclusione di Paolo è piena di fiducia e di speranza: niente e nessuno potrà impedire a Dio di amarci e a noi di restare uniti a lui, perché Dio è più forte dell’uomo e della sua cattiveria, Dio è più forte del male e degli imperi che esso crea, Dio è più grande del drago che regna nell’inferno, del mostro che sguazza nel mare della violenza, della bestia che domina il libero mercato, del falso profeta che ha il controllo dell’informazione. L’ultima parola sarà di Dio e non dell’uomo e sarà una parola di amore e di perdono. La garanzia è lo Spirito donato ai credenti!


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La liberazione dalla Legge 1O forse ignorate, fratelli – parlo a gente che conosce la legge – che la legge ha potere sull’uomo solo per il tempo in cui egli vive? 2La donna sposata, infatti, per legge è legata al marito finché egli vive; ma se il marito muore, è liberata dalla legge che la lega al marito. 3Ella sarà dunque considerata adultera se passa a un altro uomo mentre il marito vive; ma se il marito muore ella è libera dalla legge, tanto che non è più adultera se passa a un altro uomo. 4Alla stessa maniera, fratelli miei, anche voi, mediante il corpo di Cristo, siete stati messi a morte quanto alla Legge per appartenere a un altro, cioè a colui che fu risuscitato dai morti, affinché noi portiamo frutti per Dio. 5Quando infatti eravamo nella debolezza della carne, le passioni peccaminose, stimolate dalla Legge, si scatenavano nelle nostre membra al fine di portare frutti per la morte. 6Ora invece, morti a ciò che ci teneva prigionieri, siamo stati liberati dalla Legge per servire secondo lo Spirito, che è nuovo, e non secondo la lettera, che è antiquata.

Il rapporto drammatico tra il peccato e la Legge 7Che diremo dunque? Che la Legge è peccato? No, certamente! Però io non ho conosciuto il peccato se non mediante la Legge. Infatti non avrei conosciuto la concupiscenza, se la Legge non avesse detto: Non desiderare. 8Ma, presa l’occasione, il peccato scatenò in me, mediante il comandamento, ogni sorta di desideri. Senza la Legge infatti il peccato è morto. 9E un tempo io vivevo senza la Legge ma, sopraggiunto il precetto, il peccato ha ripreso vita 10e io sono morto. Il comandamento, che doveva servire per la vita, è divenuto per me motivo di morte. 11Il peccato infatti, presa l’occasione, mediante il comandamento mi ha sedotto e per mezzo di esso mi ha dato la morte. 12Così la Legge è santa, e santo, giusto e buono è il comandamento. 13Ciò che è bene allora è diventato morte per me? No davvero! Ma il peccato, per rivelarsi peccato, mi ha dato la morte servendosi di ciò che è bene, perché il peccato risultasse oltre misura peccaminoso per mezzo del comandamento.

L'inefficacia della Legge nell'esperienza del peccato personale 14Sappiamo infatti che la Legge è spirituale, mentre io sono carnale, venduto come schiavo del peccato. 15Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto. 16Ora, se faccio quello che non voglio, riconosco che la Legge è buona; 17quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. 18Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; 19infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. 20Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. 21Dunque io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. 22Infatti nel mio intimo acconsento alla legge di Dio, 23ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che combatte contro la legge della mia ragione e mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra.

Dio libera l'uomo mediante Gesù Cristo 24Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? 25Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore! Io dunque, con la mia ragione, servo la legge di Dio, con la mia carne invece la legge del peccato.

Approfondimenti

(cf LETTERA AI ROMANI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Giuseppe Pulcinelli © EDIZIONI SAN PAOLO, 2014)

La liberazione dalla Legge All'inizio del capitolo 7 viene ripreso il tema della Legge per spiegare che il cristiano è stato liberato anche da essa. La Legge è in vigore solo fin tanto che l'uomo è vivo, ad esempio, la donna maritata diventa libera dal vincolo coniugale nel momento in cui muore il marito e l'accusa di adulterio viene a cadere automaticamente se la donna diventa di un altro uomo dopo la morte del marito; in quel caso infatti è libera di appartenere a un altro. Così la Legge non è più vincolante per chi diventa cristiano, perché questi – partecipando alla morte di Cristo (questo è il senso dell'espressione «mediante il corpo di Cristo») – ormai appartiene esclusivamente a lui, come fosse un nuovo partner coniugale (cfr. 1Cor 7,4; 2Cor 5,15; 11,2), a colui che è sempre vivo in quanto «è stato risuscitato dai morti».

I vv. 5-6 continuano l'applicazione ai cristiani, esplicitando questo ultimo concetto del portare frutto, riferito rispettivamente ai due momenti della vita, quello del passato contrassegnato dalle passioni peccaminose (cfr. v. 5), e quello della condizione presente di cristiani liberati (cfr. v. 6). In particolare al v. 5 fa la sua comparsa per la prima volta il concetto tipicamente paolino di «carne» nella sua valenza negativa (nelle occorrenze precedenti indicava piuttosto la fisicità o la genericità dell'essere umano).

Il «ma ora» (v. 6) indica la svolta decisiva che ha inaugurato l'attuale condizione del cristiano (il riferimento è all'adesione a Cristo avvenuta con la fede e il Battesimo), sciolto dai legami della Legge, morto a ciò che lo tratteneva, come detenuto, per «servire nella novità dello Spirito». Cosi Paolo definisce qui la vita cristiana, che comporta il paradosso di essere liberati per essere servitori, però secondo l'ordine nuovo e ringiovanente dello Spirito, e non più secondo l'ordine vecchio e opprimente della lettera, cioè della prescrizione esteriore della Legge. I cristiani dunque, partecipando alla morte di Cristo, hanno sperimentato la liberazione dal peccato e dalla Legge, e le esigenze della vita nuova derivano proprio dalla piena appartenenza a lui (sulla concretezza di tali esigenze sul piano etico Paolo si soffermerà poi a partire dal c. 12).

Il rapporto drammatico tra il peccato e la Legge Avendo affermato che il cristiano è morto non solo al peccato ma anche alla Legge, in qualche modo si dava per scontata una stretta affinità tra peccato e Legge, fino a far pensare a una loro identificazione: «la Legge è peccato?» (7,7a). La negazione dell'equivalenza è altrettanto netta (con l'ormai consueta formula «Non sia mai!»), ma evidentemente sarebbe insufficiente senza l'ampio sviluppo che appunto segue subito dopo, una delle pagine più celebri dell'epistolario paolino.

Paolo riprende quanto già affermato in 3,20 (la conoscenza del peccato attraverso la Legge), in più aggiunge ora l'elemento del desiderio connesso con la Legge: quel tipo di desiderio che ha come oggetto ciò che è proibito dalla Legge, proprio per questo viene da essa fomentato nel momento in cui lo fa conoscere all'uomo. Il peccato – qui nel senso paolino di potenza personificata, preesistente alla Legge – sfrutta il comandamento come un pretesto per entrare in azione e provocare così ogni sorta di desideri negativi.

Il v. 12, per il suo tono altamente positivo sulla Legge, a prima vista risulta una conclusione inaspettata dopo quanto è stato appena detto (cioè che la Legge favorisce il peccato); a ben vedere però si intuisce l'intento di Paolo, che così vuole far cadere l'accusa che sia la Legge all'origine del peccato o addirittura a causare la morte (sarebbe agli antipodi della concezione giudaica!), e fornire una prima risposta alla domanda iniziale (cfr. 7,7a). Paolo cerca di andare incontro al suo interlocutore giudeo-cristiano, concedendogli il suo punto di vista, e cioè che sì la Legge in sé è buona e santa, e tuttavia si rivela del tutto impotente riguardo alla giustificazione e alla salvezza, anzi, finisce per favorire il peccato con le sue conseguenze mortifere.

Il v. 13, attraverso la domanda iniziale (che sostanzialmente è una riformulazione di quella in 7,7a), riprende quanto appena detto (cfr. vv. 7b-12) e fa compiere il passaggio verso ciò che segue (cfr. vv. 14-23); ancora una volta all'interrogativo segue subito la negazione e poi il ridimensionamento di quest'ultima attraverso un avversativa («non sia mai! invece»), per dire che è il peccato (e non ciò che di per sé è buono, cioè la Legge e il comandamento) a causare la morte, e tuttavia la Legge (e il comandamento, che in qualche modo la rappresenta) detiene un ruolo strumentale perché il peccato si manifesti in tutta la sua portata negativa.

L'inefficacia della Legge nell'esperienza del peccato personale Qui emerge in tutta la sua drammaticità la lacerazione dell'uomo che vorrebbe seguire la Legge, ma è dominato dal peccato, contro il quale essa si dimostra del tutto inefficace (cfr. 7,14-25).

Il v. 14 ribadisce la bontà della Legge – «è spirituale» (cioè di origine divina) – la quale però si scontra con la situazione «carnale» dell'uomo (cfr. 7,5), posto sotto la sfera del peccato che spadroneggia su di lui.

Il v. 15 descrive il modo in cui il peccato esercita il suo dominio sull'uomo: questi, pur sapendo come si dovrebbe agire (cfr. «ciò che voglio») non riesce a capire come mai agisce in un altro modo (cfr. «ciò che detesto»); qui Paolo dà spazio a un'esperienza comune e universale. La bontà della Legge divina è confermata dal fatto che nella sua coscienza l'uomo riconosce la giustezza di ciò che essa richiede, e che egli vorrebbe eseguire (cfr. v. 16); ma qui entra in gioco una potenza estranea che abita in lui e prende il sopravvento, cosicché non è l'uomo ad agire, ma è il peccato in lui (cfr. v. 17 e anche il v. 8). Proprio quest'ultima affermazione porta a escludere che questo «io» possa essere un cristiano, dal momento che, essendo tale, in lui abita lo Spirito Santo (cfr. 8,9.11).

I vv. 18-20 ripetono sostanzialmente quanto già detto nei vv. 14-17, con l'effetto di sottolineare al massimo la lacerazione interiore sofferta dall'uomo. In particolare il v. 18 riprende il tema dell'inabitazione, per confermare il versetto precedente attraverso la negazione del contrario: «in me, cioè nella mia carne, non abita il bene» (la carne ancora una volta indica la creaturalità corrotta dal peccato); così il v. 19 riformula con poche variazioni il v. 15, e il v. 20 riprende il v. 17.

I vv. 21-23 rimettono la «Legge» al centro della trattazione; ma non si tratta in modo univoco della Legge mosaica, bensì di varie «leggi»: la «legge» come un principio impositivo di funzionamento, quasi un meccanismo (v. 21); la «legge di Dio» (v. 22); «un'altra legge nelle mie membra» (v. 23a), contro «la legge della mia mente» (23b); «la legge del peccato» (v. 23c). La stessa parola, con un senso diverso, viene usata più volte a brevissima distanza l'una dall'altra; il senso di disagio che deriva da tale molteplicità e complessità è finalizzato a sconfessare chi – come il giudeo – ritiene vi sia un'unica legge la cui osservanza risolve ogni problema. L'io si rende conto che in lui infuria una battaglia tra titani: «un'altra legge nelle mie membra, che combatte contro la legge della mia mente e mi imprigiona nella legge del peccato».

Tutto il brano di 7,7-23 ovviamente sembra prestarsi bene a una lettura a livello psicologico, perfino chiamando in causa il subconscio, tuttavia, a causa dei soggetti in gioco (l'io, il peccato e la Legge) il livello da preferire è quello teologico: la radicale incapacità dell'uomo di affrancarsi dal male con le proprie forze, senza la grazia di Dio. D'altra parte, se sembra prevalere un cupo pessimismo morale da parte dell'autore, in realtà tutto il quadro tenebroso ha soprattutto la funzione di preparare il versante in luce che splenderà in tutta la sua forza nel capitolo 8 analogamente a come 1, 18-3,20 era stato funzionale a 3,21-5,21), e che è preparato dalla conclusione dell'intera sezione 7,7-25.

Dio libera l'uomo mediante Gesù Cristo Al termine di tale drammatica descrizione della condizione dell'uomo sotto il peccato e sotto la Legge, compare una sconsolata constatazione personale, che esprimerebbe soltanto disperazione (cfr. v. 24a: «Uomo infelice che sono!»), se l'interrogativo subito annesso non lasciasse emergere l'anelito verso un evento liberatorio (cfr. v. 24b; «Chi mi libererà da questo corpo di morte?», cioè dalla condizione di chi è sottoposto al peccato e ai suoi effetti mortiferi). La risposta, difatti, arriva puntuale e pienamente risolutiva, e viene da chi ha già sperimentato di essere stato liberato da quel «corpo di morte»; infatti si rende grazie a Dio che libera l'uomo mediante Gesù Cristo (cfr. v. 25a), cioè mediante la redenzione, la giustificazione e la riconciliazione avvenute attraverso la morte e risurrezione di Cristo. Tale ringraziamento concluderebbe molto bene tutto il brano e si collegherebbe perfettamente a 8,1; la seconda parte del v. 25, invece, fa problema perché inaspettatamente costringe a tornare indietro con lo sguardo, interrompendo la svolta positiva; diversi motivi inducono a considerarla una glossa, come fanno numerosi commentatori.


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