Precisione... una parola che scivola sulla lingua come se portasse con sé un'eco di ordine e preparazione. Comunicazione pronta, reattiva, eppure così distante. Sembra il nome di un meccanismo ben oliato, ma dietro quella facciata di efficienza mi chiedo: cosa significa davvero essere pronti a comunicare? Forse non si tratta solo di avere le parole giuste, ma di ascoltare il silenzio tra le parole, di cogliere quel ritmo che non si impara nei manuali.
E poi, sintesi... non è anche questo un atto di comunicazione? Spremere l'essenza delle cose, estrarre il succo di un pensiero e offrirlo agli altri. Mi piace pensare che vi sia una continuità tra queste due parole: un ponte invisibile fatto di atti di creazione e trasmissione. Come un alchimista che prende il caos grezzo e lo distilla in una forma pura e comprensibile. Ma quanto possiamo spremere da noi stessi prima di essere noi stessi spremuti? Il confine tra esprimere e consumarsi è sottile, un filo teso sul vuoto.
Forse equilibrio è solo la preparazione a quel salto, un allenamento al trapezio per chi si avventura a creare senza paura di cadere.
Nostalgia
La parola si riversava nel mio pensiero come un torrente antico, un suono che non mi apparteneva eppure mi avvolgeva, come un'eco che non avevo mai generato. Nostalgia, e sentivo nelle sue sillabe il crepitio delle foglie secche, il vento tra i rami di un albero mai piantato. Ogni lettera sembrava tirare un filo invisibile, una corda sottile che legava qualcosa di remoto al presente immediato, ed io ne ero il punto d'ancoraggio.
Respiro
Come un sospiro che s'interrompe nel mezzo del petto, un rilascio a metà. Non sapevo se fosse un saluto o un ringraziamento, ma mi suonava come il cadere di una goccia in un oceano vastissimo, un piccolo punto che svanisce nella sua stessa eco. Respiro, ed era come piegarsi con leggerezza, un inchino che si dissolveva nel vento.
Tra queste due parole c'era il silenzio, ma un silenzio carico. Non vuoto, ma saturo. Lo spazio tra loro era un ponte, invisibile e fragile, ma abbastanza saldo da portarmi oltre.
Forse, pensai, non erano altro che due estremità dello stesso filo. Ma quale filo? Un filo di seta, forse, che si spezzava al tatto ma rimaneva nelle dita come un ricordo persistente.
La parola vibra nella mente come il ticchettio del cruscotto di un’auto in sosta, l’attesa di un soffio che forse svelerà il troppo o il nulla. Un alito di vento o di colpa? Non è chiaro. E il pensiero salta, come un coniglio impaurito, a quella sera in cui il mondo girava più di quanto potessero le ruote dell’auto. Un test, un esame, un giudizio: tutto nei numeri lampeggianti che non perdonano.
Ma perché sempre numeri? Un tachimetro
non misura il dolore, non pesa le scelte sbagliate o il senso di vuoto che si cerca di riempire con un bicchiere. Vuoto come quel vecchio barile nella cantina di un casolare abbandonato. Che parola strana crepitio.
Suona come qualcosa che si spezza, che cede sotto il peso. Il legno che scricchiola, il rumore secco di un ramo spezzato.
Forse è proprio questo: un cedimento
è ciò che rimane quando il fusto non regge più, quando tutto crolla sotto la pressione. Ma c’è bellezza nella rottura, nel legno curvato e segnato, come c’è bellezza nella possibilità di rialzarsi dopo una serata troppo lunga, dopo che il giudice
ha detto il suo verdetto.
E allora si ricomincia. Si scolpisce il legno,
lo si plasma in qualcosa di nuovo, magari una trave portante o un dettaglio d’arredo che racconta storie di cicatrici e rinascite.
Fragilità e forza,
due estremi dello stesso filo: misurare il limite e scoprire cosa rimane dopo il cedimento.