Alviro

“Alviro Insights: Riflessioni e Creatività” Mastodon

– Qual è la tua parola preferita? – chiese con curiosità.

– Accettare – rispose. – Perché mi ricorda che non tutto dipende da me. Non sempre ho la possibilità di scegliere se restare nell’inverno o far accadere la primavera. A volte l’inverno resta, anche se lo combatto. E in quei momenti, l’unica forza vera è accettare ciò che è, senza illudermi che basti voler rifiorire per farlo. C’è dignità anche nel non sbocciare.

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Etimologicamente è vero che cor in latino significa “cuore” e che è parte della parola coraggio, ma ridurre il concetto di coraggio al solo “vivere con il cuore” è un'interpretazione poetica, non una definizione accurata.

Il coraggio, nella sua accezione più ampia, implica molto più della sola emotività o dell’agire secondo sentimento. Richiede razionalità, consapevolezza del rischio, capacità di prendere decisioni difficili anche contro le proprie emozioni. Un pompiere che entra in un edificio in fiamme, o un medico che compie una scelta clinica difficile, agiscono sì con determinazione e senso del dovere, ma non necessariamente “con il cuore”: lo fanno spesso grazie all’addestramento, alla disciplina e alla valutazione lucida della situazione.

Confondere il coraggio con la sola dimensione emotiva può quindi essere fuorviante. Il coraggio è una virtù complessa, che nasce dall’equilibrio tra cuore e ragione. Vivere solo “con il cuore” può essere impulsivo, non necessariamente coraggioso. Ah, che meraviglia queste etimologie da Bacio Perugina. “Coraggio viene da cor, cioè cuore, quindi vivere con il cuore.” Ecco svelato il segreto dell’eroismo: basta farsi guidare da un ventricolo e il mondo è tuo.

Peccato che nella vita reale il coraggio non assomigli tanto a un abbraccio col cuore in mano, ma più a qualcuno che stringe i denti e fa cose scomode anche quando non ne ha alcuna voglia. Tipo alzarsi alle 5 del mattino per andare a lavorare, affrontare una fila alle poste o dire “no” alla suocera. E lì, mi dispiace, non c’è romanticismo cardiaco che tenga.

Se davvero bastasse il cuore, saremmo tutti eroi mentre piangiamo guardando un film di animali. Ma no, il coraggio richiede anche cervello, autocontrollo, e a volte una buona dose di incoscienza calcolata. Quindi sì, viva il cuore… ma magari teniamoci pure il cervello a portata di mano, non si sa mai.

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Non basta la predisposizione o l’ispirazione per farlo bene: serve tecnica, disciplina, esercizio costante. L’idea romantica della scrittura come un viaggio solitario alla scoperta di sé rischia di trascurare il fatto che la scrittura, per essere davvero efficace, deve prima di tutto comunicare. Non è solo introspezione, ma anche costruzione consapevole di un messaggio. Le parole non bastano se non sono usate con precisione, misura, e senso critico. Scrivere non è solo condividere emozioni: è saperle tradurre, ordinare, e rendere comprensibili agli altri. Altrimenti è solo un diario, non comunicazione.

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Col tempo, anche i ricordi più intensi si affievoliscono, i sentimenti più profondi si attenuano, e le emozioni più vere possono svanire. Non esiste qualcosa che il tempo non possa cambiare, trasformare o, in certi casi, cancellare del tutto. Pensare che il cuore possa conservare intatto ciò che è stato, indipendentemente dal passare degli anni, è un'illusione romantica, ma pur sempre un'illusione.

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Non tutto ciò che vediamo dipende da ciò che abbiamo nel cuore. Possiamo essere pieni d'amore e imbatterci nella crudeltà. Possiamo essere sereni e assistere al caos. Il mondo non si piega al nostro stato d’animo, né riflette sempre i nostri desideri o paure.

Chi vede solo bellezza non sempre ha il cuore puro, a volte semplicemente chiude gli occhi su ciò che fa male. Chi scorge solo oscurità non è necessariamente perso, forse sta solo guardando con lucidità.

La realtà ci precede, ci sfida, ci contraddice. Non siamo specchi del mondo, ma osservatori parziali di una complessità che non può essere ridotta a ciò che sentiamo.

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Essere troppo sensibili può diventare un limite, più che una ricchezza. Non è vero che la gioia compensa il dolore: quando anche un gesto banale ti ferisce, quando ogni parola viene scomposta e analizzata fino a diventare lama, la vita diventa un campo minato. La sensibilità eccessiva amplifica tutto, anche quello che non dovrebbe avere peso. E no, non sempre si trasforma un piccolo gesto in qualcosa di grande: a volte si finisce per aspettarsi troppo, per idealizzare l'ordinario e poi soffrire quando la realtà non è all'altezza. Il rischio è che ogni emozione si trasformi in un'onda che travolge, invece che in un moto che arricchisce. Forse la vera forza sta nel saper sentire, sì, ma anche nel saper filtrare. Perché sentire tutto, sempre, non è vivere meglio: è vivere stanchi.

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(Lui cammina da solo nel giardino. Le mani in tasca, il cielo sopra... e sotto?… i cocci sparsi dei suoi pensieri. Parla tra sé e sé. O forse con Lei. O forse con quella parte di sé che l’ha lasciata andare.)

LUI (voce interiore, nitida e stanca):

C’era ancora tanto da dire. C’era. Tempo passato. Come le occasioni. Come te.

Ma io... io ho fatto la cosa più codarda del mondo: ti ho amato in silenzio. E poi ti ho lasciato andare con ancora più silenzio. Non uno scatto, non una scena. Nemmeno un litigio epico con pioggia e orchestra.

Solo la porta che si richiude. E io, che non ho nemmeno avuto il coraggio di guardare indietro.

Hai presente quei sogni che sembrano veri, che ti svegli col cuore che batte come un tamburo, e ti serve un caffè doppio e due bugie per ricominciare la giornata? Ecco. Tu sei quel sogno lì. Solo che io non mi sono mai davvero svegliato.

Sento ancora il suono della tua risata. Fastidiosamente viva. Come una notifica che non si può silenziare. Mi hai lasciato dentro un’eco. Una specie di “ti amo” che rimbalza, ma senza più nessuno che lo raccolga.

E le parole? Ah, le parole. Sono arrivate tutte dopo. Quando non servivano più. Quando ormai parlavo con il tuo ricordo, non con te.

Ti penso nel cielo stellato. Sì. Ma anche nel supermercato, quando vedo i biscotti che ti piacevano. Nella macchina accesa mentre aspetto qualcuno che non arriva. Nella piega del cuscino che a volte somiglia al tuo profilo.

E tu? Sei sparita bene. Come fanno le donne forti: senza fare rumore, ma lasciando dietro un’esplosione silenziosa.

E io... Io ti conservo. Nel cognome che porto. Nelle parole che non dico. In quella parte del cuore che ormai ho affittato alla memoria. _____________________________________________ Ci sono amori che non finiscono. Si mimetizzano nel tempo. E diventano il metro con cui misuri tutto ciò che verrà dopo. _____________________________________________

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( Lei è seduta su una panchina nel giardino di Mirabell. È sera. Le statue la guardano — o forse è solo una suggestione poetica. Lei parla da sola, ma in realtà parla a Lui. A sé. A tutti gli amori non richiesti.)

LEI (voce interiore, ma a volume pieno):

Solo un giorno. Uno. Neanche abbastanza per litigare — pensa che lusso. Un giorno bastò per farmi sentire viva. E un bacio… Quel bacio era un’onda, sì. Furtiva, liquida. Notturna. Blu. Insomma, praticamente una poesia d’acqua. Ma anche uno tsunami emotivo con tanto di postumi.

E ora? Ora sono qui. In mezzo a statue ingessate da secoli, che almeno hanno la decenza di restare dove le metti. Tu no. Tu eri una promessa che ha fatto retromarcia col freno a mano tirato. E nemmeno uno specchietto per salutare.

Mi dici che mi pensi. Che mi vedi nelle nuvole, nei campi, nelle farfalle. Ma ti pare? Io voglio essere nei tuoi progetti, mica in metafore da cioccolatino. Voglio essere sabato sera, non domenica pomeriggio.

Eppure… A bacio estinto, mi si scolpì un sorriso. È vero. E non è nemmeno male, sai? Mi sta bene. Fa pendant con la dignità che ho cucito a mano dopo che te ne sei andato.

Forse ero io che cercavo eternità in un momento. Tu cercavi il momento e basta.

E adesso sto qui. Statua tra statue. Regina di un giardino che non fiorisce mai allo stesso modo. Ma che almeno non mente. Non scompare.

E mentre penso a tutto questo, mi viene da ridere. E poi da piangere. E poi da ridere di nuovo. Che è il modo più elegante di accettare il fatto che ti ho amato. _________________________________________________________________ A volte le storie che ci spezzano il cuore sono le stesse che ci insegnano a tenerlo in mano senza tremare. A volte l’amore non finisce, semplicemente cambia forma. Diventa eco, sguardo, o una battuta che fa ancora male — anche se ci ridiamo sopra. _________________________________________________________________

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Agosto. Il caldo mi abbraccia come un' amante appiccicosa che non sa cogliere un indizio. Le labbra scarlatte di qualcuno – chiunque – si confondono tra il sudore e la poesia che evapora prima ancora di essere scritta. Tu, distesa, sembri bella come l’oro… che, tra l’altro, è un metallo che non si ossida con il tempo e di certo non si trova per strada.

Nella stanza, suoni primordiali, movimenti incalzanti. No, non è passione: è il ventilatore che arranca, oscillando come un oracolo stanco. La tempesta scuote i rami degli alberi, o forse è solo il vicino che sbatte il tappeto. Attendo il fragore del tuono, e invece arriva la notifica di un altro bollettino di guerra (bolletta della luce). L’estasi è fugace, soprattutto quando costa così tanto mantenerla climatizzata.

Cambio scena: notte perugina, cielo grigio. Un grillo fuori stagione decide che proprio stanotte è il momento di dimostrare il suo talento canoro. Sotto la torre degli Sciri, i miei passi risuonano solenni, come quelli di chi sta cercando disperatamente un bar ancora aperto. La pioggia mi accompagna verso casa, leggera, poetica, e perfettamente inutile contro il caldo infernale del mese prima.

La bellezza della vita sta nei dettagli, anche nei momenti che sembrano insignificanti o soffocanti. E se proprio non trovi poesia in tutto ciò, almeno trova un ventilatore decente.

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Ho lasciato orme nella sabbia con la stessa convinzione con cui lascio i miei occhiali sul tavolo, sicuro che li ritroverò. Ma poi arriva l’onda del mare, o forse il mio gatto, e addio certezze. Pazienza, i miei figli ne faranno di nuove, magari anche senza inciampare nelle mie stesse buche.

E poi c’è la maschera di cera, che si scioglie più velocemente della mia pazienza quando mi chiedono la password del Wi-Fi per la decima volta. Cucire sorrisi sopra una crisi è ormai un'arte, una sartoria emotiva dove i fili sono le mie illusioni e la stoffa è la mia voglia di scappare in un eremo. Spogliarmi è un’ardua impresa, non tanto fisicamente (anche se i jeans stretti non aiutano), ma mentalmente: provate voi a togliervi di dosso anni di convenzioni sociali senza restare in mutande di insicurezze.

Alla fine, tutto è così meccanico, organico, funzionale… un po’ come le mail di lavoro che iniziano con “Spero tu stia bene” mentre sotto sotto vogliono solo chiederti qualcosa. Ma voi, voi che leggete, provateci davvero: spogliatevi l’anima, senza paura, con la fermezza di una lacrima… o almeno con la determinazione con cui io cerco di non addormentarmi sul divano ogni sera.

E quindi, qual è la morale di tutto questo? Forse che le orme si cancellano, le maschere si sciolgono e i jeans stretti sono una punizione divina, ma alla fine ciò che conta è la capacità di ricominciare. Perché sì, il mare porterà via le tracce, la gente si dimenticherà di noi più velocemente di quanto dimentichi il PIN della carta, e spogliarsi l’anima sarà sempre più difficile che togliersi un cappotto in inverno… ma è proprio lì il bello.

Si tratta di lasciare segni, non impronte eterne. Di ridere delle crisi, anche quando ci cuciamo addosso sorrisi storti. Di spogliarsi, sì, ma con la consapevolezza che non sempre resteremo nudi: a volte ci coprirà una nuova pelle, a volte il coraggio, a volte solo un buon maglione di lana (che almeno quello non giudica).

Quindi, avanti. Indossate, togliete, inciampate, rialzatevi. E soprattutto, non dimenticate mai la cosa più importante: la password del Wi-Fi.

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