Le persone vere spaventano. Sì. Perché? Perché dicono. Perché parlano. Perché le parole escono nude, senza scudo, senza maschera, e la gente indietreggia. La sincerità brucia. L’onestà è un coltello che taglia l’aria, che squarcia il silenzio comodo, le mezze verità, i sorrisi di circostanza.
E allora? Allora restano sole. Sole con le loro parole crude, sole con i loro occhi che non abbassano, sole perché il mondo preferisce le bugie morbide, le frasi smussate, i discorsi che non feriscono, che non svegliano, che non costringono a pensare.
Ma loro parlano. Sempre. Anche quando tacciono, parlano. Perché il silenzio di chi è vero è più forte di mille parole vuote. E allora la gente ha paura. Paura di quella libertà, di quel movimento interiore che non si ferma, che non si piega, che non si vende—libertà di muoversi, di essere, di esistere senza catene, senza finzioni.
Eppure, anche nella solitudine, c’è una forza. Una forza che non chiede permesso, che non cerca approvazione. Una forza che dice: Io sono qui, così, e se ti spaventa, è perché forse hai paura di essere vero anche tu.
Oh, il tramonto... quel sospiro dorato che sfiora il cielo, come un addio malinconico ma pieno di promesse. I colori si sciolgono, si confondono, rosa che diventa viola, arancio che si fa ombra, e tutto è così effimero, così dolcemente struggente. È come un abbraccio della sera, un bisbiglio che dice: “Non temere, domani ci sarà un'altra luce.”
E io resto lì, con il cuore sospeso tra il finire e il ricominciare, perché la fine non è mai davvero la fine, no? È solo un momento di passaggio, un respiro tra un capitolo e l’altro. Il sole si nasconde, ma non sparisce, no, mai. Si prepara, si veste di notte, per poi tornare più splendente che mai, con l’alba che è come un sorriso fresco sul viso del mondo.
Che meraviglia, pensare che ogni giorno è un ciclo di bellezza, di attesa, di rinascita. E io, piccola damigella in questo grande palcoscenico, mi perdo in questi pensieri, tra nuvole che sembrano seta e vento che canta storie d’amore e di eternità.
Perché sì, il tramonto è una fine... ma che dolce, dolce fine, se subito dopo arriva il sipario di un nuovo inizio. 🌸
—siamo polvere che trema— frammenti di luce stanca— le stelle ci sputano addosso e ridono— muoiono— si sbriciolano— e noi? noi aggrappati a questo sasso umido— piccoli— piccolissimi— a sussurrarci bugie di grandezza—
(ma il vento cosmico ci trascina via come briciole—)
i nostri drammi?— un battito d’ali— un sospiro— e poi?— nulla— eppure ci straziamo— ci mordiamo— come se fossimo eterni— come se contassimo—
(le stelle non sanno— non gli importa—)
forse— se guardassimo dall’alto— se sentissimo il vuoto tra un atomo e l’altro— ci perdoneremmo— ci prenderemmo per mano— due ombre tremolanti— due granelli— che cadono insieme—
(prima che il buio ci inghiotta—)
—ma no— preferiamo l’odio— preferiamo scavare abissi tra di noi— come se fossimo più del fango— più della cenere—
La città fischia toni storti, metallo che respira, e tu cammini—no, scivoli—tra le fessure del marciapiede che si allargano come labbra pronte a sussurrare segreti. Non si ama qualcuno per il suo fisico, dice la pubblicità sul bus, ma il bus è fatto di pelle umana e le ruote girano al contrario.
I vestiti? Ah, i vestiti sono solo illusioni di polvere. Li vedi appesi ai corpi come fantasmi di un altro secolo, ma poi c’è la sua voce—una canzone che solo tu puoi sentire—e improvvisamente il mondo perde i bulloni. Le macchine si sciolgono in pozzanghere di mercurio, riflettono facce che non hai mai visto, eppure riconosci.
Forse l’amore è un errore di sincronizzazione. Un glitch nel sistema operativo dell’universo. Lui/lei/loro canta e tu—tu sei un ricevitore sintonizzato su una frequenza proibita. Gli altri passano, ma non sentono. Non sanno che il cemento sotto i piedi è solo uno spartito scritto in linguaggio delle stelle.
Poi la canzone finisce. O forse no. Forse continua in loop da qualche parte nel tuo midollo, dove il tempo non esiste e le auto sono solo gusci vuoti che parlano con voci d’acqua.
Non cercare l’amico per uccidere il tempo… già. Come se il tempo fosse lì, appeso come un cappotto vecchio nell’ingresso, pronto da prendere a calci. Ma che ne sanno, loro. Che ne sanno del tempo che non si uccide ma ti scuoia piano, giorno dopo giorno. E l’amico? L’amico è sempre troppo tardi o troppo preso o troppo ubriaco di sé stesso per accorgersi che tu non volevi parole, volevi solo che qualcuno restasse zitto con te. Un tempo da vivere, dice. Ma vivere come? Come quei pomeriggi di pioggia grigia che scendono come una condanna, con le luci al neon che sfrigolano e tu che pensi: “È tutto qui?”
Ho avuto amici, certo. Ne ho avuti troppi, e tutti sono passati come stazioni secondarie in un treno che va da nessuna parte. Parlavano di progetti, di sogni, di vacanze a settembre, ma alla fine si cercavano solo per dimenticare di essere soli. Per anestetizzare la noia. L’amico come cerotto, come bicchiere mezzo pieno solo quando fa comodo. E io? Io ho smesso di cercare. Non per disprezzo. Per stanchezza.
Il tempo da vivere. Magari c’era, una volta. Quando bastava una chitarra scordata e due birre calde per credere che saremmo cambiati, che avremmo fatto la rivoluzione, che saremmo diventati qualcosa di più di quello che ci avevano detto di essere. Ma poi è arrivata la routine, la sveglia, le bollette, la pelle che si arrende e le frasi fatte. Il tempo si è fatto stretto, e vivere è diventato un lavoro a tempo pieno.
Ora lo so. Lo vedi negli occhi di chi ha capito che ha avuto le sue patatine — had his chips, come dicono gli inglesi — e ora aspetta solo che il piatto venga portato via. Non amaro, no. Ma lucido. Stanco e lucido. Eppure, forse, anche questo è un modo per vivere il tempo: sapere che non lo stai uccidendo. Solo lasciandolo andare, come si lascia andare un amico che non arriva mai.
Le pagine sono accarezzate dal vento, impronte di dita su una mappa antica — eccolo, l’azzurro infinito che chiama, come un libro mai aperto. Le onde sono righe, scritte con sale e sabbia, e sotto la superficie — storie che nessuno ha mai finito di leggere.
Qui il tempo si dissolve, come zucchero nel caffè. Il luccichio della luce sull’acqua è una scrittura punteggiata che svanisce, lasciando solo la sensazione: ero, sono, sarò.
Il mare è una biblioteca senza scaffali, dove ogni riflesso del sole è una citazione da un testo antico, ogni marea è una pagina girata. E tu sei tra queste pagine: perso, ma ritrovato; silenzioso, ma vivo.
Eccolo lì, il bene che non parla, che non ha sillabe da sprecare in “ma” o “se” o “perché”—no, niente scappatoie, niente retromarce, solo presenza, un respiro caldo che ti sfiora la nuca anche quando giri la testa dall’altra parte.
Chi è? Non lo so, forse è un fantasma con le mani sporche di realtà, forse sei tu che mi leggi adesso, forse sono io che scrivo e nel frattempo crollo, ma poco importa perché qui non ci sono contratti, non ci sono clausole, solo questo spazio bianco che diventa letto, diventa campo di battaglia, diventa casa.
A prescindere da tutto—ecco la magia, il trucco, il colpo di scena—senza condizioni, senza biglietto di ritorno. Vuole solo esserci, punto. Come l’aria che non chiede permesso per entrarti nei polmoni, come la notte che non bussa prima di spegnerti le stelle.
E allora perché resistiamo? Perché scaviamo buche nel cuore e ci nascondiamo dentro? Forse perché il vero amore è un ladro: entra senza fare rumore e ruba tutto, soprattutto la paura. Ti lascia nudo, senza scuse, senza muri. Solo. Eppure, mai così accompagnato.
“C’è chi cerca posti da favola, e chi invece la favola la crea.
Poi ci sei tu, che trasformi ogni attimo, ogni respiro, ogni piccolo passo in qualcosa di magico.
E anche se non serve dirlo (perché lo sento, lo vivo, lo porto scolpito nell’anima),
anche se potrei darlo per scontato (ma nulla con te lo è mai),
voglio dirtelo comunque, a voce alta, con tutto il cuore: GRAZIE.
Grazie perché persino i momenti più grigi, sotto la pioggia,
con te diventano luce, serenità e un arcobaleno di emozioni.
Sei la persona che rende speciale l’ordinario,
e io… beh, io sono qui a dirtelo mentre ti bacio il culo con stile.
Perché meriti ogni parola, ogni complimento, ogni smancería.
E anche di più.”