Alviro

“Alviro Insights: Riflessioni e Creatività” Mastodon

Chiudi bene l’abbaino, ché con tutte queste farfalle in giro potresti ritrovarti in un documentario di entomologia di quelli noiosi. E poi cancelli, porte, pensieri, braccia, cuori e pure frontiere... Ma davvero servono, o sono solo decorazioni urbanistiche per farci sentire importanti?

E loro, le farfalle, se ne infischiano. Stanno lì, a raccontarci di migrazioni impossibili, di spazi aperti che non trovano parcheggio e di pianure che si credono montagne. Che sia vero che “vola solo chi vuole farlo”? Mah, forse serve un corso motivazionale.

Intanto le nostre parole, piene di anidride carbonica e sogni preconfezionati, fluttuano come palloncini a una fiera di paese, pronti a scoppiare in un tripudio di romanticismo d’antan.

E l’Europa, poverina, lì davanti allo specchio, intenta a domandarsi se ha pettinato bene le sue lunghe trecce o se ha solo annodato problemi geopolitici. Le guarda, le sfiora, e pensa: “Forse dovrei tagliarle.”

Intanto le striature di colore si espandono come macchie di caffè sulla tovaglia buona, conquistando spazio senza permesso di soggiorno.

E lei, Europa, tutta intenta a scartare i regali di Natale. Che ci sarà dentro stavolta? Speranze, illusioni, qualche vecchio trattato dimenticato in fondo alla scatola? Oppure solo l’ennesima sciarpa di lana, perché si sa, l’inverno è lungo e le correnti d’aria non perdonano.

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Erano le sei del mattino, o forse no. Magari era un'altra ora, chi lo sa? Il cielo, quello sì, pareva stonato, una pennellata mal riuscita d’artista dilettante. Gennaio? Ma chi ha deciso che Gennaio deve essere così, con l’aria fresca? Una congiura meteorologica.

“Si fece buio.” Certo, perché il buio ha sempre questa tendenza a infilarsi dove non è invitato.

E poi sei andato via, verso il cielo, o magari verso un’altra dimensione. Chi lo dice che non sia finito in un bar galattico a chiacchierare con marziani appassionati di gelsomini? Padre mio, tutto era finito, o forse cominciato. Dipende dai punti di vista, no?

Ti alzavi sempre all’alba, come se il mattino fosse un appuntamento da non perdere. Ti ci vedevo, seduto sui gradini davanti alla porta, in compagnia di un gelsomino che, francamente, era troppo invadente. “Che bello al mattino,” dicevi, come se il pomeriggio non valesse un soldo bucato.

Ma cos’è questa serenità di cui parlavi? Io non l’ho mai vista, né al mattino né al tramonto. Però a te bastava, con quella gioia minimalista.

E poi quel giorno di Gennaio – sì, torniamoci – il grano non era maturo, come se avesse deciso di fare sciopero. Le nocciole? Nemmeno l’ombra. E le olive argentate, quelle stavano ancora discutendo su come brillare al sole. Un silenzio così, però, mica lo trovi dappertutto.

Nella strada tutto taceva, persino il lampione, che aveva mollato la presa. Le scale scricchiolavano come vecchi signori col mal di schiena, e il gelsomino, lui, sempre lì, a fare il protagonista.

Si fece buio. Ancora. Una ripetizione cosmica, quasi noiosa, come il cielo che, commosso, piangeva. Ma cosa piangi, cielo? Forse era solo un altro sbalzo d’umore atmosferico.

Si fece buio. E io, francamente, accesi la luce.

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Tra le ombre nasce un pensiero, Ho intravisto la luce d’un mistero. Echi lontani risuonano nel cuore, Il tempo si ferma, sussurra parole. Ho trovato me stesso nel silenzio interiore.

Tra le scartoffie cerco un'idea, Ho finito il caffè, tragedia che crea. Eppure resisto, non mollo la scena, Il genio latita, che pena, che pena. Hai voluto una poesia? Ecco, una chimera!

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Nel silenzio d’un sogno nascosto, Gocce di stelle danzano nel buio, Onde leggere s’infrangono al cuore, 4 passi verso l’infinito ignoto.

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Colpa. La parola rimbalzava nella mia mente come un’eco, un termine che sembrava sfuggente, scivolare tra le dita senza mai lasciarsi afferrare davvero. Un verbo che sussurrava scuse ancor prima che si potesse comprendere il peso della colpa. Mi immaginavo in una sala vuota, con i piedi che battevano sul pavimento di legno scuro: ogni passo un’espiazione, ogni rintocco un’ammissione di qualcosa di non detto.

E poi, Assenza. Ah, Assenza. Un nome che emergeva come una sagoma in lontananza, un fantasma che si rifiutava di dissolversi. Non era un uomo, forse non lo era mai stato. Era una metafora, un simbolo di tutto ciò che si muove ai margini del nostro campo visivo. Mi chiedevo cosa stesse facendo ora, Assenza, se ancora fissasse l’orizzonte con quegli occhi che sembravano chiedere perdono per il mondo intero.

E io, tra Colpa e Assenza, mi sentivo sospeso. Una linea tesa tra il bisogno di giustificarmi e il desiderio di sparire, di dissolvermi in quel silenzio che Assenza sembrava incarnare. Forse lui sapeva, forse aveva sempre saputo. Ma non avrebbe mai detto nulla. Non è forse questo che fanno i fantasmi del mondo? Restano silenziosi, lasciando agli altri il compito di parlare, di spiegare, di scusarsi.

Ed eccolo lì, ancora una volta. Assenza.

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Ruggito. Una parola che emerge come un tuono sommesso, un’eco che scivola nelle pieghe del tempo. Siamo davvero così lontani, noi, dalla loro semplicità? Un pensiero ribelle s’insinua: forse no. Forse siamo solo una sovrastruttura complicata, impegnata a giustificarsi, a distinguersi, a gridare al mondo: “Guardateci, siamo superiori!” Eppure, nel buio, quando tutto si riduce all’essenziale, il cuore batte allo stesso modo: un tamburo universale, sordo a ogni linguaggio, cieco a ogni gerarchia.

Respiro. La foresta entra dentro di noi come un respiro profondo, un luogo dove il linguaggio umano si spezza, incapace di contenere l’immensità di ciò che cresce, muore e rinasce. Le parole, lunghe e strutturate, somigliano ad alberi dai tronchi intricati, piegati sotto il peso di un significato antico, radicato nel tempo. Ordine e caos: due estremi di una danza perpetua. Natura grezza contro la sua gestione industriale, istinto contro controllo. Chi siamo noi, in fondo? Semplici osservatori? Burattini di un sistema che ci obbliga a misurare, catalogare, dominare? Forse entrambe le cose. O forse nessuna.

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Precisione. Una parola che scivola sulla lingua, portando con sé un’eco di ordine e preparazione. Comunicazione pronta, reattiva, eppure così distante. Sembra il nome di un meccanismo ben oliato, ma dietro quella facciata di efficienza mi chiedo: cosa significa davvero essere pronti a comunicare? Forse non è solo una questione di parole giuste, ma di saper ascoltare il silenzio tra le parole, di cogliere quel ritmo sottile che nessun manuale potrà mai insegnare.

Sintesi. Non è forse anche questo un atto di comunicazione? Spremere l’essenza delle cose, estrarre il succo di un pensiero e offrirlo agli altri. Mi piace immaginare una continuità tra precisione e sintesi, un ponte invisibile fatto di atti di creazione e trasmissione. Come un alchimista che trasforma il caos grezzo in una forma pura, limpida, comprensibile. Ma quanto possiamo distillare da noi stessi prima di rischiare di svuotarci del tutto? Il confine tra esprimere e consumarsi è sottile, un filo teso sopra il vuoto.

Equilibrio. Forse è proprio questo: la preparazione al salto. Un allenamento costante, un esercizio sul trapezio per chi si avventura nella creazione, senza timore di cadere.

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Nostalgia. La parola si riversava nei miei pensieri come un torrente antico, un suono che non mi apparteneva eppure mi avvolgeva, come un’eco mai generata. Nostalgia. Sentivo nelle sue sillabe il crepitio delle foglie secche, il sussurro del vento tra i rami di un albero mai piantato. Ogni lettera sembrava tirare un filo invisibile, una corda sottile che legava il remoto al presente, ed io ero il punto d’ancoraggio, il nodo dove tutto convergeva.

Respiro. Come un sospiro interrotto a metà, un rilascio incompleto. Non sapevo se fosse un saluto o un ringraziamento, ma suonava come il cadere di una goccia in un oceano sconfinato, un piccolo punto che si dissolve nella propria eco. Respiro. Era come piegarsi con leggerezza, un inchino silenzioso che si disperdeva nel vento, lasciando solo la traccia di un movimento appena percepito.

Tra queste due parole c’era il silenzio. Non un silenzio vuoto, ma carico, denso. Lo spazio che le separava era un ponte invisibile, fragile eppure sufficiente a portarmi oltre.

Forse, pensai, non erano altro che due estremità dello stesso filo. Ma quale filo? Un filo di seta, forse. Delicato al punto da spezzarsi al tatto, eppure abbastanza tenace da restare, impalpabile, come un ricordo che si aggrappa alla pelle.

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La parola vibra nella mente, ritmica e insistente, come il ticchettio del cruscotto di un’auto in sosta. È l’attesa di un soffio che potrebbe svelare tutto o nulla. Un alito di vento o forse di colpa? Non è chiaro. E il pensiero balza via, nervoso, come un coniglio spaventato, tornando a quella sera in cui il mondo sembrava girare più veloce delle ruote dell’auto. Un test, un esame, un giudizio: tutto condensato in numeri lampeggianti, spietati, che non concedono appello.

Ma perché sempre numeri? Un tachimetro non può misurare il dolore, non pesa le scelte sbagliate, né il senso di vuoto che si cerca di colmare con un bicchiere in mano. Vuoto. Come quel vecchio barile dimenticato nella cantina di un casolare abbandonato. E che parola strana, crepitio. Suona come qualcosa che si spezza, che cede sotto il peso. Il legno che scricchiola, il rumore secco di un ramo spezzato.

Forse è proprio questo: il cedimento. È ciò che rimane quando il fusto non regge più, quando tutto crolla sotto la pressione. Eppure, c’è una bellezza in questo spezzarsi, nel legno curvato e segnato dal tempo. C’è bellezza nella possibilità di rialzarsi, di rimettersi insieme dopo una notte troppo lunga, dopo che il giudice ha pronunciato il suo verdetto.

E allora si ricomincia. Si prende quel legno incrinato, lo si lavora, lo si plasma in qualcosa di nuovo. Forse una trave portante, o un piccolo dettaglio d’arredo che porta con sé il racconto delle sue cicatrici, delle sue rinascite.

Fragilità e forza: due estremi dello stesso filo. Misurare il limite e scoprire cosa rimane dopo il cedimento.

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