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Recensioni musicali di Silvano Bottaro

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Nella seconda metà degli anni ottanta i fratelli Timmins si fecero conoscere grazie ad una manciata di buoni dischi, tra cui gli ottimi The Caution Horses, Black Eyed Man e il superlativo The Trinity Session dell’88. Negli anni successivi, per una serie di coincidenze, non ultima la mancanza di “creatività” sonora, non li ho più seguiti se non “per sentito dire”. Ora, come è successo per i R.E.M., ho ascoltato questo loro ultimo lavoro e la sorpresa è stata più che buona.

Il disco in origine doveva essere una collaborazione con l’amico Vic Chesnutt ma, la sua morte avvenuta prematuramente il giorno di Natale del 2009, ne ha cambiato le sorti, facendolo diventare un tributo allo stesso artista canadese.

La band non estranea alla rielaborazione di brani altrui, vedi “Dead Flowers” dei Rolling Stones o “Sweet Jane” di Lou Reed (la più bella versione in assoluto a detta dello stesso autore) ha trovato tanto e ottimo materiale da arrangiare nell’archivio musicale di Chesnutt.

Il rischio, sempre reale, della “rivisitazione” è di adulterare le canzoni con elementi poco personali e di rieditarle quindi con delle semplici farciture. I Cowboy Junkies invece, anche se non sempre con ottimi risultati, sanno evitare con maestria questo rischio.

E’ un ottimo album Demons, ben fatto. Il merito va soprattutto al giusto “dosaggio” di tre elementi essenziali: il buon materiale di base, cioè i brani di Vic Chesnutt, la bella voce di Margo che li addolcisce e l’esperienza strumentale di ottimi musicisti.

Non ci sono cadute di tono nelle undici canzoni del disco, tutte sono oltre la media. Flirted With You All My Life, Betty Lonely, Ladle, West Of Rome e Supernatural sono una più bella dell’altra, Wrong Piano e Strange Launguage sono tra le loro migliori di sempre, e le restanti See You Around, Square Room, We Hovered With Short Wings e When The Bottom Fell Out, fanno la loro bella figura.

La sensibilità musicale dei Cowboy Junkies ha reso giustizia alla musica di Chesnutt e reso felici tutti i suoi fan.

Un disco da ascoltare tutto, un’intensa raccolta, un’ottima uscita in questi tempi difficili, che conferma la bravura del gruppo canadese.

Con questo Demons, i Cowboy Junkies hanno prenotato un posto tra la top ten del 2011.

#duemilaundici

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Dire che con questo quindicesimo lavoro i R.E.M. ritornano alle origini, è assai azzardato.

Eguagliare ottimi dischi e capolavori come Document dell ’87, Green dell ’88, Out of Time dell ’91 e Automatic for the People dell ’92, non è cosa semplice.

Personalmente, dopo il buon New Adventures in Hi-Fi dell ’96, li avevo trascurati se non per qualche ascolto di Up dell ’98 e Reveal del 2001.

In realtà in questi “anni duemila” il loro suono è diventato “piatto” e privo di emozioni, un continuo girare e rigirare nella stessa pentola di note. D’altronde in trent’anni di carriera non è facile rimanere in auge e sfornare nuovi lavori originali. Proprio per questo qualche maligno aveva simpaticamente consigliato di sciogliersi [sic!]

Per pura curiosità ho voluto mettere il naso, o meglio le orecchie, su queste dodici tracce e, ascolto dopo ascolto, con meraviglia il disco mi ha preso come mai avrei pensato.

Immagino Michael Stipe, Peter Buck e Mike Mills attorno ad un tavolo che dicono: “E adesso che facciamo?” “Che strada prendiamo?”

Hanno scelto quella più comoda ma probabilmente anche più rischiosa. Continuare a produrre un nuovo “suono” sulla base di quello vecchio già conosciuto e sperimentato nei dischi sopra citati, correndo però il rischio reale di ripetersi.

Sono stati bravi.

L’album se pur non un capolavoro si fa ascoltare senza noia che di questi tempi è già tanto. Dodici canzoni in un alternarsi di ballate, alcune struggenti, altre ruvide, altre melodiche, con il supplemento vocale di Patti Smith e Eddie Vedder in due brani che è un piacere sentire, mettendoci a nostro agio e strizzandoci l’occhio simpaticamente.

Un buon disco, in conclusione, a dimostrazione che i R.E.M. nonostante la fama e il denaro (il parallelo con i Rolling Stones è inevitabile) hanno ancora voglia di mettersi in discussione, nonostante l’età.

Un Cd di quelli che possiamo ascoltare nei viaggi automobilistici a far da corollario alle immagini che vediamo dai finestrini mentre la nostra mente naviga chissà verso quali pensieri.

#duemilaundici

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Come si diceva, un nuovo disco va assaporato lentamente, se poi il disco in questione è dei Radiohead, allora la regola va moltiplicata. The King of Limbs non è un disco facile, chi conosce e ama i Radiohead è preparato a questo. Molte loro uscite hanno spiazzato e anche The King of Limbs, in parte, mantiene questa promessa. Chiamiamole ricerche, esperimenti, poco cambia, il loro percorso sonoro è sempre all’insegna dell’innovazione e dello stile progressivo.

Ora, alla domanda se il disco è bello o brutto, la mia risposta è che va al di là di questi aggettivi. The King of Limbs è un disco emozionale prima di tutto e come tale il nostro stato d’animo influisce molto sul giudizio.

Il suono a volte melodico, piacevole e godibile, a volte tortuoso, spigoloso e monotono, è un alternarsi sinusoidale di sensazioni uditive. E’ un “progetto” questo The King of Limbs, dove nulla viene lasciato al caso ma è parte integrante di un viaggio. Un viaggio urbano, un viaggio metropolitano nei nostri giorni, dove gioia e noia si mischiano, come quasi sempre accade.

In questo ultimo lavoro Thom Yorke e compagni confezionano un album “al nostro bisogno”, un bisogno che noi cerchiamo nei nostri gesti, nei nostri pensieri, nelle nostre speranze, nella nostra quotidianità. Il disco si modella alla nostra vita, al tempo che stiamo vivendo.

Un album complesso quindi, ma pur sempre un disco d’arte, con suoni in sintonia col vivere questi nostri anni duemila.

#duemilaundici

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A tre anni da Go‐Go Boots, la band Georgiana attiva dal 1996, pubblica il suo dodicesimo album (decimo in studio, due sono dal vivo). La coerenza è sicuramente uno dei meriti principali della band, in diciotto anni di attività infatti, la band non è mai scesa a compromessi con mode e facili suoni commerciali, ma ha sempre mantenuto un’ottimo pregio musicale. Di controparte però, una certa stagnatura non gli ha permesso di fare quel salto di qualità da renderli davvero rilevanti. I Drive-By Truckers proseguono, se così si può dire, quel suono classico degli anni settanta, fatto di lunghi assoli e tanto southern rock, evitando allo stesso tempo però, tutti quegli orpelli che hanno caratterizzato quel genere. Se per certi aspetti quindi, la prevedibilità di English Oceans è abbastanza forte i brani non sembrano soffrire di ripetizione. Tredici canzoni sincere, quasi tutte travolgenti e con una manciata di brani sopra la media.

English Oceans è un diario di viaggio fatto di pagine sentimentali e di pagine oscure, di realtà e sogno, di felicità e dolore, di emozione e rabbia. Non c’è fretta nello stile dei Drive-By Truckers, la lunghezza dei brani divagano dolcemente nell’oblio, facendo emergere ricordi di amori perduti, di cose passate. C’è molta poesia quindi ma anche filosofia e storie di vita quotidiana.

Un disco che piacerà molto agli amanti della musica sudista americana degli anni settanta, fatto di blues e ascendenze psichedeliche.

#duemilaquattordici

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I The War on Drugs si formano nel 2005 grazie all’incontro di Adam Granduciel e Kurt Vile. Dopo alcuni demo e l’album di debutto Wagonwheel Blues, Vile lascia il gruppo e inizia la sua ottima carriera solista. Nel 2011 viene pubblicato il secondo album Slave Ambient e nel marzo 2014 Lost in the Dream.

Dieci brani, solo due al di sotto dei cinque minuti, confermano la grandezza di questo gruppo. Ballate con dei riff trascinanti, riescono ad emozionare in maniera disarmante. E’ un disco piacevolissimo con dei spunti di valore assoluti, dove classic rock e psichedelia si fondono in un tutt’uno, senza mai cadere nel banale. Il suono infatti, molto legato agli anni settanta, è perfetto senza nessuna sbavatura. Non mancano il synth e le atmosfere ambient che degli anni ’70 furono tra i protagonisti, non mancano certo i richiami in primis ai Petty, Knopfler e Springsteen ma non per questo il sound gode di propria autonomia. Si sentono brani lunghi ricchi di atmosfere, con chitarre incisive e a volte il piano in evidenza. Come trama e ordito, testi e suono, s’intrecciano in un tutt’uno, formando un tappeto sonoro intriso di gioia, nostalgia, tranquillità e tristezza, tutto profondamente riflessivo, dove gli stati d’animo sono meravigliosamente aromatizzati.

La cosa che più colpisce è che, pur con arrangiamenti e melodie non particolarmente originali, il disco è decisamente spiazzante. Impressiona la profondità emotiva, le perfette vibrazioni sognanti, gli stati d’animo mutevoli. Lost In The Dream è una collezione perfetta per una lunga distillazione sonora.

#duemilaquattordici

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Mai su un disco dal vivo sono state scritte così tante parole d’elogio. Anch’io allora, per non essere da meno, spenderò qualche frase. D’altronde se in questi cinquant’anni dalla sua uscita se ne parla ancora un motivo ci sarà.

Made in Japan, definito a ragione l’album-manifesto dell’hard rock è il ritratto in movimento di una band dalle qualità tecniche eccezionali, sospesa fra barocchismo classicheggiante (Jon Lord), le urla lancinanti di Ian Gillan (in assoluto, il vocalist più potente di tutti i tempi, non solo nell’ambito specifico) e le supersoniche scale cromatiche di Ritchie Blackmore. Questa formazione vive il suo massimo splendore proprio in questi anni, dal vivo le loro esibizioni sono travolgenti e questo Made in Japan ne è la prova.

I sette brani che compongono il disco sono stati registrati il 15, 16 e 17 agosto 1972 ad Osaka e Tokyo, in Giappone. Sono canzoni che predilogono il blues e le sue trasfigurazioni, lunghe jam in cui, a turno, ciascuno strumento dice la sua. Le note dell’hammond di Jon Lord apre il disco con Highway Star ed è già gran suono. Il pubblico comincia subito a scaldarsi. Child In Time placa un po’ gli animi, ma è ancora musica struggente. Gillan ha dell’incredibile, la sua voce passa dal dolce all’energico con una disinvoltura unica. Il gruppo lo segue con maestria per dodici minuti di estremo piacere sonoro. E’ il turno della famosissima Smoke On The Water, Blackmore la esegue magistralmente. Avrà per sempre il “rimorso” di aver fatto “cominciare” a suonare la chitarra a milioni di ragazzini a discapito di altri strumenti. Arriviamo al quarto brano che chiude la seconda facciata del primo disco, The Mule. Qui ha la meglio il batterista Paice, che con la sua tecnica riuscirà in un assolo tra i più noti di tutti i tempi. Strange Kind Of Woman è il classico esempio dell’unione voce Gillan e chitarra Blackmore, un intreccio incredibilmente unico, meglio non si può’. Altra bravura tecnica con Lazy, dove anche il più settico dei virtuosismi non può che rimanere affascinato da cotanta bravura. Non si poteva chiudere meglio questo doppio capolavoro live con Space Truckin’. Venti minuti di pura interpretazione tecnica ma non solo. In questo brano, infatti, è riassunto l’intero album, dove traspare al di là della bravura strumentale anche la voglia di comunicare sensazioni, phatos e profondità sonora.

La bellezza di quest’opera sta nel differenziarsi dalle versioni in studio, i brani infatti, hanno poco in comune e respirano di un’aria estremamente creativa. Questo è il “marchio ”Deep Purple” che riservano soprattutto nelle loro scorribande sui palcoscenici di metà mondo. Il manierismo musicale incombe, l’heavy metal è dietro l’angolo. Ma questa è un’altra storia…

#millenovecentosettantadue

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I Pontiak sono un gruppo musicale statunitense originario delle Blue Ridge Mountains nello stato della Virginia composto da tre fratelli nati a Washington DC: Jennings Carney (1978, organo, basso), Van Carney (1980, voce, chitarra) e Lain Carney (1982, batteria). (Wikipedia)

A due anni da Echo Ono, apice della loro carriera, i Pontiak pubblicano il loro settimo album Innocence. Devo ammettere che pur non amando particolarmente l’hard-rock, se così si può etichettare il suono di questa band statunitense, il disco mi ha subito preso e ascolto dopo ascolto è entrato tra i miei preferiti di questo inizio duemilaquattordici. Una miscela musicale deflagrante e alquanto variegata, undici tracce esplosive tutte con un minimo comune denominatore: energiche. A onor del vero una manciata di brani sconfinano dal territorio heavy, dal rock potente a tratti metal, fatto di distorsioni elettriche e ritmi hard, per entrare in “suoni” più strettamente blues e psichedelici anche se sempre grezzi e vibranti e a volte tipicamente garage.

Lascerà forse l’amaro in bocca a tutti quelli che hanno amato il precedente “Echo Ono”, ma, non si può certo dire che questa ultima prova non sia un buon prodotto, mancherà forse quella “genialità” ma nel complesso la band si dimostra matura e sicuramente dotata di gran classe. Innocence è un disco di qualità, brillante e denso.

#duemilaquattordici

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Nei primi anni ottanta la musica era pesantemente plastificata ed anche Van non fu immune dalla moda del momento. Ciononostante riuscì a sfornare un capolavoro che non è affatto invecchiato a oltre quarant’anni di distanza. Il suono è diverso da qualsiasi cosa egli abbia fatto prima, nonché personalissimo. C’è la rinuncia all’intero bagaglio di trucchi vocali, eppure la voce rimane espressiva, bella ed emozionante come sempre. I sintetizzatori dominano fra gli strumenti, con apprezzabili contributi di fiati e, soprattutto, chitarra elettrica. Il giovane Mark Isham passa sempre più dalla tromba al sintetizzatore ed acquista un ruolo di primo piano, anche come arrangiatore e, verosimilmente, come contagiatore nei confronti del leader. Il brano “Scandinavia”, in coda all’album, è il primo pezzo strumentale della carriera di Van, che nell’occasione si cimenta al pianoforte. I testi sono estremamente semplici, con descrizioni di scale che salgono in paradiso ed illuminazioni simili. La copertina rende bene l’idea. Nelle note dell’album è spiegato che un paio di liriche sono state ispirate da un racconto di Alice Bailey e ben tre sono state scritte in collaborazione con un vecchio amico di nome Hugh Murphy. Le cose saranno ancora più chiare sulla copertina dell’album successivo, che recherà una dedica al fondatore di Scientology, Ron Hubbard. Le composizioni su “Beautiful Vision” sono fra le migliori dell’ intero repertorio morrisoniano ed intonate al sound del disco. Un paio di esse raffigurano con efficacia i ricordi dell’infanzia a Belfast. Nell’allegra “Cleaning Windows” si racconta di uno dei pochi mestieri che Van ha fatto al di fuori dell’ambito musicale.

#millenovecentoottantadue

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“Sono nato così, non ho mai avuto scelta, sono nato con il dolore di una voce d’oro”, canta Leonard Cohen nell’ultimo brano del disco, Tower Of Song, cronaca poetica e ironica del tormentato percorso che da Various Positions del 1984, il suo primo album “elettronico”, l’ha portato a I’m Your Man. Nel mezzo, c’è stato Famous Blue Raincoat, in cui l’ex corista Jennifer Warnes ha interpretato le sue canzoni più celebri: un successo che ha rimesso Cohen sulla mappa della casa discografica di sempre, la Columbia.

I’m Your Man gode dunque di rinnovate attenzioni, non è più il solito disco del solito Cohen. E I’m Your Man non delude, fin dalle prime battute. L’inizio è bizzarro, forse provocatorio: batterie elettroniche e tastiere introducono a versi enigmatici che sanno di guerra: “Mi hanno condannato a vent’anni di noia, per aver tentato di cambiare il sistema dal suo interno. Sto tornando per ricompensarli, prima prendiamo Manhattan, poi prendiamo Berlino”. E’ possibile che sia un ironico accenno alla sua fortuna come musicista, tradizionalmente molto più europea che americana, ma in realtà il procedimento secondo il quale il poeta divenuto cantautore opera è di solito inverso: da una riflessione filosofica generale si arriva, sottrazione dopo sottrazione, riscrittura dopo riscrittura, semplificazione dopo semplificazione, a raccontare una storia d’amore. Almeno, questo è ciò che accade a Leonard Cohen nel pieno degli anni Ottanta, cinquantenne, fiaccato ma non distrutto da innumerevoli esperienze estreme (la vita sull’isola greca di Idra, vent’anni di attività discografica, un album prodotto da Phil Spector) che hanno avuto l’unico effetto di abbassargli ancora un po’ la caratteristica voce da baritono. Ora, è chiaro che quando un veterano come lui, un uomo che ha esordito nel 1967 (e come poeta nel 1956), si avvicina al pop elettronico lo fa con una sorta di ammiccante autoironia. Non solo. L’elettronica, specialmente se applicata alla più classica canzone novecentesca non può che rafforzare l’individualismo del poeta che canta, sottolinearne la solitudine (I’m Your Man, appunto). Anche se poi — altro che voce d’oro — per portare a termine quest’album il vecchio maestro ci ha impiegato tre anni, consumando decine di taccuini d’appunti e riscrivendo quasi tutte le canzoni.

#millenovecentoottantotto

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Per fortuna questo è l’ultimo album in studio in cui compare Mark Isham, sempre più lanciato ad emulare Brian Eno e sempre meno impegnato a suonare la tromba. Per quanto l’album sia piacevole, sembra fatto con gli scarti del precedente. Troppi brani strumentali ed un suono che vorrebbe essere levigato e pulito ma rischia di cadere nella volgarità. L’inizio è scioccante, con i bassi pompati tanto da far pensare di aver preso per sbaglio un disco di Barry White. La voce emoziona come sempre, anche quando non canta ma recita, vedasi l’introduzione di “Rave on, John Donne”. Per chi riesca, non è difficile, ad abituarsi al suono ammorbidito e plastificato, quest’album può rappresentare un piacevole diversivo nel catalogo dell’irlandese, o comunque un aromatico sedativo. Non mancano le belle canzoni, come “The Street Only Knew Your Name” che cerca di ripetere la “Cleaning Windows” dell’album precedente, ma nessuna è essenziale.

#millenovecentoottantatre

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