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Recensioni musicali di Silvano Bottaro

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William Fitzsimmons è un musicista abbastanza atipico, lo si vede dal fisico, lo si sente dalle sue canzoni. Dalle increspature delle dita sulle corde della chitarra al tremolio dolce della sua voce. Paesaggi fatti di luce e ombre che attraversano la nebbia, dando un senso di tranquillità, fino alla commozione. Gioie, segreti, verità, profondi dettagli, sussurrati.

Lions è merce rara come raro e William Fitzsimmons, cantautore e musicista dall’aspetto devozionale, monastico, in viaggio alla ricerca di dare un senso alla condizione umana. Parla del senso di gratitudine per essere in grado di fare musica e allo stesso tempo vive un senso di inquietudine e di conflitto. Ecco infatti cosa afferma: “Più a lungo ho avuto la meravigliosa opportunità di scrivere e creare cose, e successivamente di condividerle con gli altri, più seriamente e preziosamente prendo atto di questo sforzo e responsabilità. E’ qualcosa che guardo con la massima gratitudine e rispetto. Eppure, allo stesso tempo mi ritrovo a fare arte in un campo che è in sé tutto e il contrario di tutto.”

William, figlio di due genitori ciechi, entrambi musicisti, è cresciuto con un vivo interesse per la musica. La sua formazione musicale è iniziata in tenera età con lezioni di pianoforte e trombone per poi passare ai strumenti a corda, mentre la sua formazione professionale è quella di consulente terapeuta di salute mentale.

Questi indizi danno la dimensione di un personaggio complesso, come si diceva all’inizio; la sua musica non è di facile spiegazione come non a caso egli stesso afferma: “Sinceramente non voglio dire troppo sulla musica, perché la verità è che se la musica ha valore, dovrebbe essere in grado di parlare da sola.”

Lions è abbastanza bello, con diverse canzoni velate, cariche di “impressioni” sussurrate nell’orecchio. Potrà annoiarvi o emozionarvi, ma in qualsiasi caso merita l’ascolto.

#duemilaquattordici

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Nonostante sia suonato in buona parte dai componenti dei: Grateful Dead, Jefferson Airplane, Quicksilver Messenger Service e da: Neil Young, Graham Nash e Joni Mitchell, If I Could Only Remember My Name è senza dubbio il capolavoro personale e privato di David Crosby. Un album tutto di voci, ma con pochissime parole, come se esprimere pensieri e significati non fosse più possibile e soprattutto non avesse più molto senso.

Siamo a San Francisco (California) nel 1971 e mai come in questo momento i “figli dei fiori” o dell’utopia assumono le sembianze di profeti di un nuovo credo, sempre più staccato dalla realtà urbana e sempre più proteso verso un mondo ideale, tanto astratto quanto contradditorio.

David ha già scritto delle meraviglie con i Byrds e con i C.S.N.&Y, ma è in questo album che il suo sogno visionario, la sua anima più interna e creativa si esprime al meglio. La più profonda esplorazione del proprio amore per la Natura, la necessità di esplorare ogni frammento della propria coscienza viene portato in musica.

Una musica liquida e stellare, su una linea di confine tra folk e jazz, leggero come un gas evanescente If I Could Only Remember My Name è adagiato su un tappeto fluttuante in zone inaccessibili alla coscienza umana.

In questa evidente fragilità generazionale è importante esprimere emozioni, colori, suoni, sensazioni, stati d’animo. Questo solo conta, questo solo è possibile fare e If I Could Only Remember My Name ne è l’esempio più emblematico, bello e profondo.

#millenovecentosettantuno

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Il discorso filosofico-religioso-trascendentale iniziato con gli anni ’80 si conclude nella serenità di un’opera dal titolo lungo e curioso. Nella band quasi completamente rinnovata ritroviamo due vecchie conoscenze come Jeff Labes e John Platania ed un’ ottima Kate St. John (oboe e corno inglese) che si rivela adattissima per ricreare le atmosfere celtiche/oniriche sempre più frequenti. Se, anche al primo ascolto, sembra di conoscere già questo disco, il motivo è semplice: di tutta la produzione, questo esemplare è quello che più si avvicina ad “Astral Weeks”. Simili la struttura dei pezzi e la strumentazione acustica. Di diverso ci sono la brevità dei brani, un pizzico di varietà in più, maggior cura degli arrangiamenti e assenza di sperimentazioni. Van canta con grande naturalezza e (troppa) scioltezza, evitando le strade più difficili. Si ha solo una pallida idea della bravura dimostrata altrove. I testi sono per lo più vaghi, con argomenti che oscillano fra la polemica stizzita con chi lo critica (ma come gli si può credere quando canta “Tu hai soldi in banca/Io non ne ho affatto”?) e la meditazione come fonte di felicità. L’amore è puramente platonico, come nella canzone culminante, “In the Garden”. La casa discografica fece uscire un album-intervista, in cui veniva spiegata appunto questa canzone, dalle parole dell’autore, che qui traduco.

“C’è una canzone sull’album chiamata “In the Garden” dove in realtà io ti porto attraverso un programma di meditazione. Da circa metà della canzone sino al termine. Ti porto attraverso un preciso programma di meditazione. Che è una specie di meditazione trascendentale. Non è meditazione trascendentale, sia chiaro. […] Se ascolti la cosa attentamente, dovresti aver raggiunto una forma di tranquillità prima di essere alla fine. Accade quando dico “E mi rivolsi a te e dissi: ‘Nessun Guru, Nessun Metodo, Nessun Maestro. Solo tu ed io e la natura, ed il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo’. Solo la frase intera conserva tutto il senso. E volevamo metterla così come titolo dell’album. Ma abbiamo capito che sarebbe stata troppo lunga”.

Le restanti canzoni sono solo di poco inferiori, cosicchè di questo lungo album non c’è proprio nulla da scartare.

#millenovecentoottantasei

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Irlandesi e soprattutto figli di irlandesi, i Pogues nascono a Londra, a King’s Road, la via dorata del punk. Shane MacGowan e i suoi denti storti si notano ancora oggi nei pochi filmati dei primi concerti dei Sex Pistols. La storia è proprio quella: il folk, l’eredità irlandese una scoperta, e mica tanto ovvia. La ventata di punk folk che attraversa il continente, fa resuscitare i dialetti e gli strumenti della tradizione, e il usa come nuova linfa per l’albero secco del rock’n’roll. Questa è roba nuova, forte, e se sotto ci sono fisarmoniche, flauti o cornamuse, meglio ancora. Di tutto ciò i Pogues sono il meglio, grazie al talento di molti dei musicisti della band e per via della più impresentabile rockstar di sempre. Shane, appunto, denti marci e stonature continue, alcolista senza possibilità di salvezza. Capace, nei rari momenti di lucidità, di scrivere canzoni strepitose. L’album precedente, Rum Sodomy & The Lash, ha messo a fuoco il punk celtico che li caratterizzerà per sempre, ma questo If Should Fall… ha almeno tre o quattro pezzi strepitosi, in particolare le ballate: Thousands Are Sailing, peraltro non scritta da MacGowan, The Broad Majestic Shannon e Fairytale Of New York, cantata in duetto con Kirsty MacColl. Lui e lei sono irlandesi di New York, si odiano dopo essersi amati alla follia. Se esistesse una lista di classici rock’n’roll da inviare nello Spazio per far mostrare all’universo quanta umanità possa stare dentro una canzone, Fairytale Of New York salirebbe a bordo con tutti gli onori: quattro minuti e mezzo perfetti, grazie ai quali il declino alcolico di Shane MacGowan mette ancora più tristezza. La stessa tristezza dei due irlandesi della canzone.

#millenovecentoottantasette

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Con questo terzo album Stay Gold, le due sorelle svedesi Klara e Johanna Söderberg convincono alla grande e si confermano tra le più belle realtà della musica scandinava. Quello che colpisce fin dal primo ascolto è la capacità di creare armonie tanto semplici quanto belle. Mettendo in risalto le loro capacità vocali, le due sorelle di Stoccolma riescono ad assecondare gli strumenti musicali rendendoli quasi irrilevanti a favore delle liriche cantate alla perfezione. Sono cresciute notevolmente in questi quattro anni (la loro prima prova discografica risale al 2010) e da poco più che adolescenti (avevano 20 e 17 anni) sono passate all’età adulta, e non solo musicalmente parlando. La testimonianza viene data dal valore che le loro esperienze hanno contribuito alla creatività. Più sagge, per quanto siano ancora molto giovani, lo dimostrano i loro testi ma ancor di più lo dimostrano i suggestivi complessi sonori dati dalla bellezza armonica e dalla perfezione assoluta delle loro voci. Dieci brani che formano una colonna sonora di una cinquantina di minuti senza nessuna sbavatura, senza nessuna caduta di tono. Una splendida miscela palpitante, ideale per accompagnare un’estate calda e non solo atmosfericamente.

#duemilaquattordici

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E’ un buon ritorno questo di Paul Simon che, dopo diverse pubblicazioni di non grande valore, ritorna finalmente con un disco sopra la media, anche se lontano dall’ultimo suo capolavoro solista che è Graceland.

So Beautiful Or So What è il dodicesimo lavoro in studio del settantenne cantautore americano famoso anche per il duo con Art Garfunkel.

Nei testi è la spiritualità l’elemento predominante, ecco infatti cosa dice in una sua intervista: “Spiritualità sì, tanta, anche se in senso non religioso. Credo sia connessa con i tempi, con i problemi economici in America; c’è tanta gente che ha perso e perde il lavoro. Quel che capita nel mondo, e anche nella mia vita, finisce sempre nelle canzoni. Ma direi che sarebbe troppo appioppargli il titolo “Now i sing God”; il soggetto Dio appare in 4 o 5 canzoni, non l’ho fatto intenzionalmente”, un disco quindi, che approfondisce il significato della vita.

Pur non avendo uno stile musicale dominante, in una manciata delle dieci canzoni dell’album si respira il ritmo, il sound africano, che riporta alla mente “Graceland”, nelle restanti, l’armonia e la melodia hanno il sopravvento sul ritmo e si allontanano perciò da “mamma africa” e approdano a suoni più standardizzati.

L’inizio del disco è la parte migliore e i primi quattro brani, Getting Ready For Christmas Day, The Afterlife, Dazzling Blue e Rewrite, sono probabilmente i più belli e già da soli meritano l’ascolto del disco. Love And Hard Times, Amulet (poco più di un minuto) e Questions For The Angels invece sono la parte meno felice.

Se nella prima quartina si viene “presi” da un vortice sonoro carico di ritmo, piacevole all’udito e soprattutto ben amalgamato strumentalmente parlando, nella terzina sopradetta la melodia fin troppo scontata e a volte noiosa, abbassa un po’ il livello sonoro dell’album.

Le restanti tre canzoni Love And Hard Times, Love And Blessings e So Beautiful or So What, aggirandosi tra il primo “Simon & Garfunkel” e riecheggiando il “Paul Simon” solista dei tempi migliori, mediano la qualità musicale dell’album.

In conclusione So Beautiful Or So What è un buon album, una sommatoria di molteplici suoni e interessi realizzati da un grande musicista, coerente e maturo non solo anagraficamente parlando. Dopo quel capolavoro di “Graceland” è senz’altro l’opera più interessante che abbia pubblicato.

Dopo un quarto di secolo non è poco.

#Duemilaundici

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Ognuno ha il suo ‘metro’ per valutare un disco, ognuno lo può ‘criticare’ attraverso le sue priorità. Personalmente uso sempre questo mio teorema: “La somma di quante volte un cd suona nel tuo lettore musicale è uguale alla somma di quanto il disco ti piace”. Al di là quindi di ogni razionale ricerca sonora, quello che conta, alla fine, riguarda una più semplice questione di ‘pelle’ o meglio di ‘udito’.

In base al suddetto teorema, ‘I’ll Never Get Out of This World Alive’ è l’album più ascoltato in questo primo quadrimestre del 2011 e per un semplice motivo: è bello!

Non ci si aspetti niente di straordinario, sia chiaro, nessuna rivoluzione sonora, anzi, il contrario. Folk, Country e simili, sono i generi suonati, e, sarà la produzione di T-Bone Burnette, sarà il momento felice di Steve, il disco suona bene, ha grande carisma, ed è un piacere ascoltarlo.

Non si può certamente dire che Earle abbia avuto una vita monotona: sposato sette volte e con figli, attività politica, sostanze stupefacenti, carcere, disintossicazione, ecc. ecc. (Wikipedia), circostanze che hanno segnato profondamente la sua vita, ora sembra si sia ‘tranquillizzato’ e nel disco questa sensazione è palpabile.

Non ci sono cadute di tono nelle undici canzoni che formano i quaranta minuti di musica. Ballate folk elettriche ed acustiche, echi rock e blues, sentori popolari, tradizionali e ricordi ‘Guthriani’ sono gli elementi sonori del disco. Poi le liriche, la voce e la passione di Steve fanno di questo I’ll Never Get… un disco godibile e affascinante.

Un gioiellino quindi, probabilmente uno dei suoi più belli.

#duemilaundici

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Con cadenza quasi biennale torna con un nuovo disco John Hiatt che alle porte dei sessant’anni ci regala questo The Open Road. Considero Hiatt uno dei migliori songwriter americani e la sua voce, insieme al compianto Willy de Ville, The Man e poche altre, tra le più belle in circolazione.

Nella sua trentacinquennale carriera musicale John ha pubblicato una ventina di dischi, alcuni di poco valore, soprattutto i primi, alcuni capolavori; Slow Turning del ’88, l’irrinunciabile Bring the Family del ’87, disco che obbligo tutti ad avere nella propria collezione discografica e nel mezzo una serie di ottimi dischi; Perfectly Good Guitar, Crossing Muddy Waters, Master of Disaster e questo The open Road.

Anche se al primo ascolto il disco non mi ha particolarmente colpito, un po’ alla volta ha catturato le mie simpatie e, dopo la poco esaltante prova di Same old man del 2008, riporta John ancora in carreggiata, scongiurando così una sua possibile “caduta” che, visto l’età, poteva diventare definitiva.

Le undici canzoni che compongono questo album esaltano le doti artistiche del musicista e mettono in evidenza le sue qualità brillanti e romantiche. Una manciata di loro: la title track The Open Road, Haulin’, Like a Freight Train, Homeland e Carry You Back Home, sono tra i brani più vibranti e belli dell’album, le restanti sei canzoni, pur non della stessa lunghezza sonora meritano comunque la sufficienza.

Ascolto dopo ascolto il disco entra nella sfera dei suoni che più affascinano le mie “corde” uditive e anche con la consapevolezza che non diventerà tra capolavori della sua discografia, alcune canzoni entreranno di sicuro tra la playlist dei suoi brani migliori.

#duemiladieci

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Dopo una pausa di quasi quattro anni (il suo ultimo lavoro “Red Letter Year” è del 2008) dovuti al matrimonio e alla maternità, la quarantunenne Ani DiFranco ritorna con un nuovo disco, il diciannovesimo: ¿Which Side Are You On?

Sono presenti alla realizzazione di questo album Pete Seeger, i Neville Brothers, il compagno e produttore del disco Mike Napolitano e molti altri musicisti di New Orleans, città di residenza della DiFranco.

Il “marchio” che ha sempre contraddistinto la folksinger americana è l’impegno politico, la libertà e l’autonomia di pensiero e di azione, proprio per questo non ha mai accettato compromessi con le major, pagando di persona l’esclusione dalle radio e dai riflettori mass-mediatici.

Combattente, idealista e coerente è da più di vent’anni sulla scena folk, dimostrando sempre un marcato talento, una coscienza sociale, uno stile e una voce evoluti e fuori dal coro.

Abbandonate le raffiche furiose, i riff energici di chitarra dei vecchi tempi, l’atmosfera generale è tranquilla, il “suono” è più tenero e riflessivo ma non per questo meno forte. I testi dei brani parlano di temi sociali e politici e gli argomenti non mancano: aborto, situazione economica, tensioni razziali e diritti delle donne. Le sue canzoni infatti, altro non sono che riflessioni personali su quello che gli accade attorno e, con sorprendente ironia e chiarezza, riesce a trasmettere in maniera semplice e diretta.

Nonostante i temi ricorrenti, considerando l’attuale clima politico e una sua dichiarazione: “Mi sento frustrata, politicamente disperata. Dopo aver scritto centinaia di canzoni, mi chiedo, oggi quanto posso spingermi oltre? Credo di aver superato una volta ancora i miei limiti nella politica e nell’arte, per vedere cosa la gente è pronta a sentire”, la DiFranco non dispera e lascia intravedere qualche spiraglio di cambiamento. I suoi testi e la sua musica sono più attuali che mai. Nel caos della protesta globale, la voce sincera, toccante e determinata della DiFranco riesce a farsi sentire, ed è certamente una che vale la pena ascoltare.

#duemiladodici

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A parte la collaborazione con Roky Erickson nel suo bellissimo True Love Cast All, gli Okkervil River mancavano dalla scena musicale da tre anni e questo nuovo album si preannunciava come un album ‘difficile’.

“Voglio fare un disco di suoni per me stesso e non per la massa” disse a suo tempo Will Sheff, compositore e cantante del gruppo, e così è stato. Il termine ‘difficile’ in questo caso non è da intendersi come poco accessibile, ma soprattutto come ‘spiazzante’.

I Am Very Far, settimo album della band Texana si allontana dalla sua matrice prevalentemente Folk — rock, da quel sound personale e pulito che li ha caratterizzati e approda a suoni più arrangiati ed orchestrali, infatti molte delle canzoni sono eseguite da due batterie, due bassi, due tastiere e ben sette chitarre.

La prima cosa che risalta di questo ‘I Am Very Far’ è il suo ‘umore’, difficile da raccontare, non semplice da assorbire. Viene da chiedersi se il disco è frutto di un progetto musicale che li vede in parte cambiar rotta, allontanandosi così dalla matrice che li ha fin d’ora caratterizzati o se invece, cosa assai meno probabile, è la conseguenza di un vuoto creativo. Personalmente quello che conta è che l’album suona bene, per il resto, solo il futuro prossimo darà una risposta.

Nelle undici canzoni si respira una libertà espressiva mai sentita fin’ora; il filo conduttore del disco è infatti il desiderio di voler suonare quello che piace, senza vincoli o particolari ostacoli. Un suono più ‘sensazionale’ che ‘celebrale’ rende questo ‘I Am Very Far’ probabilmente uno dei loro migliori lavori. Voler creare un nuovo sound, allontanandosi così da quel ’canale’ che li ha fin d’ora caratterizzati è ciò che risalta fin dal primo ascolto. Man mano che si prende confidenza, meglio viene evidenziata la profondità del suono, che penetrando nei padiglioni auricolari, riesce a trasformarsi in belle emozioni.

Un ottimo disco quindi, che sottolinea la grandezza di questo gruppo.

#duemilaundici

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