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duemilaquattordici

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A tre anni da Go‐Go Boots, la band Georgiana attiva dal 1996, pubblica il suo dodicesimo album (decimo in studio, due sono dal vivo). La coerenza è sicuramente uno dei meriti principali della band, in diciotto anni di attività infatti, la band non è mai scesa a compromessi con mode e facili suoni commerciali, ma ha sempre mantenuto un’ottimo pregio musicale. Di controparte però, una certa stagnatura non gli ha permesso di fare quel salto di qualità da renderli davvero rilevanti. I Drive-By Truckers proseguono, se così si può dire, quel suono classico degli anni settanta, fatto di lunghi assoli e tanto southern rock, evitando allo stesso tempo però, tutti quegli orpelli che hanno caratterizzato quel genere. Se per certi aspetti quindi, la prevedibilità di English Oceans è abbastanza forte i brani non sembrano soffrire di ripetizione. Tredici canzoni sincere, quasi tutte travolgenti e con una manciata di brani sopra la media.

English Oceans è un diario di viaggio fatto di pagine sentimentali e di pagine oscure, di realtà e sogno, di felicità e dolore, di emozione e rabbia. Non c’è fretta nello stile dei Drive-By Truckers, la lunghezza dei brani divagano dolcemente nell’oblio, facendo emergere ricordi di amori perduti, di cose passate. C’è molta poesia quindi ma anche filosofia e storie di vita quotidiana.

Un disco che piacerà molto agli amanti della musica sudista americana degli anni settanta, fatto di blues e ascendenze psichedeliche.

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I The War on Drugs si formano nel 2005 grazie all’incontro di Adam Granduciel e Kurt Vile. Dopo alcuni demo e l’album di debutto Wagonwheel Blues, Vile lascia il gruppo e inizia la sua ottima carriera solista. Nel 2011 viene pubblicato il secondo album Slave Ambient e nel marzo 2014 Lost in the Dream.

Dieci brani, solo due al di sotto dei cinque minuti, confermano la grandezza di questo gruppo. Ballate con dei riff trascinanti, riescono ad emozionare in maniera disarmante. E’ un disco piacevolissimo con dei spunti di valore assoluti, dove classic rock e psichedelia si fondono in un tutt’uno, senza mai cadere nel banale. Il suono infatti, molto legato agli anni settanta, è perfetto senza nessuna sbavatura. Non mancano il synth e le atmosfere ambient che degli anni ’70 furono tra i protagonisti, non mancano certo i richiami in primis ai Petty, Knopfler e Springsteen ma non per questo il sound gode di propria autonomia. Si sentono brani lunghi ricchi di atmosfere, con chitarre incisive e a volte il piano in evidenza. Come trama e ordito, testi e suono, s’intrecciano in un tutt’uno, formando un tappeto sonoro intriso di gioia, nostalgia, tranquillità e tristezza, tutto profondamente riflessivo, dove gli stati d’animo sono meravigliosamente aromatizzati.

La cosa che più colpisce è che, pur con arrangiamenti e melodie non particolarmente originali, il disco è decisamente spiazzante. Impressiona la profondità emotiva, le perfette vibrazioni sognanti, gli stati d’animo mutevoli. Lost In The Dream è una collezione perfetta per una lunga distillazione sonora.

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I Pontiak sono un gruppo musicale statunitense originario delle Blue Ridge Mountains nello stato della Virginia composto da tre fratelli nati a Washington DC: Jennings Carney (1978, organo, basso), Van Carney (1980, voce, chitarra) e Lain Carney (1982, batteria). (Wikipedia)

A due anni da Echo Ono, apice della loro carriera, i Pontiak pubblicano il loro settimo album Innocence. Devo ammettere che pur non amando particolarmente l’hard-rock, se così si può etichettare il suono di questa band statunitense, il disco mi ha subito preso e ascolto dopo ascolto è entrato tra i miei preferiti di questo inizio duemilaquattordici. Una miscela musicale deflagrante e alquanto variegata, undici tracce esplosive tutte con un minimo comune denominatore: energiche. A onor del vero una manciata di brani sconfinano dal territorio heavy, dal rock potente a tratti metal, fatto di distorsioni elettriche e ritmi hard, per entrare in “suoni” più strettamente blues e psichedelici anche se sempre grezzi e vibranti e a volte tipicamente garage.

Lascerà forse l’amaro in bocca a tutti quelli che hanno amato il precedente “Echo Ono”, ma, non si può certo dire che questa ultima prova non sia un buon prodotto, mancherà forse quella “genialità” ma nel complesso la band si dimostra matura e sicuramente dotata di gran classe. Innocence è un disco di qualità, brillante e denso.

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William Fitzsimmons è un musicista abbastanza atipico, lo si vede dal fisico, lo si sente dalle sue canzoni. Dalle increspature delle dita sulle corde della chitarra al tremolio dolce della sua voce. Paesaggi fatti di luce e ombre che attraversano la nebbia, dando un senso di tranquillità, fino alla commozione. Gioie, segreti, verità, profondi dettagli, sussurrati.

Lions è merce rara come raro e William Fitzsimmons, cantautore e musicista dall’aspetto devozionale, monastico, in viaggio alla ricerca di dare un senso alla condizione umana. Parla del senso di gratitudine per essere in grado di fare musica e allo stesso tempo vive un senso di inquietudine e di conflitto. Ecco infatti cosa afferma: “Più a lungo ho avuto la meravigliosa opportunità di scrivere e creare cose, e successivamente di condividerle con gli altri, più seriamente e preziosamente prendo atto di questo sforzo e responsabilità. E’ qualcosa che guardo con la massima gratitudine e rispetto. Eppure, allo stesso tempo mi ritrovo a fare arte in un campo che è in sé tutto e il contrario di tutto.”

William, figlio di due genitori ciechi, entrambi musicisti, è cresciuto con un vivo interesse per la musica. La sua formazione musicale è iniziata in tenera età con lezioni di pianoforte e trombone per poi passare ai strumenti a corda, mentre la sua formazione professionale è quella di consulente terapeuta di salute mentale.

Questi indizi danno la dimensione di un personaggio complesso, come si diceva all’inizio; la sua musica non è di facile spiegazione come non a caso egli stesso afferma: “Sinceramente non voglio dire troppo sulla musica, perché la verità è che se la musica ha valore, dovrebbe essere in grado di parlare da sola.”

Lions è abbastanza bello, con diverse canzoni velate, cariche di “impressioni” sussurrate nell’orecchio. Potrà annoiarvi o emozionarvi, ma in qualsiasi caso merita l’ascolto.

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Con questo terzo album Stay Gold, le due sorelle svedesi Klara e Johanna Söderberg convincono alla grande e si confermano tra le più belle realtà della musica scandinava. Quello che colpisce fin dal primo ascolto è la capacità di creare armonie tanto semplici quanto belle. Mettendo in risalto le loro capacità vocali, le due sorelle di Stoccolma riescono ad assecondare gli strumenti musicali rendendoli quasi irrilevanti a favore delle liriche cantate alla perfezione. Sono cresciute notevolmente in questi quattro anni (la loro prima prova discografica risale al 2010) e da poco più che adolescenti (avevano 20 e 17 anni) sono passate all’età adulta, e non solo musicalmente parlando. La testimonianza viene data dal valore che le loro esperienze hanno contribuito alla creatività. Più sagge, per quanto siano ancora molto giovani, lo dimostrano i loro testi ma ancor di più lo dimostrano i suggestivi complessi sonori dati dalla bellezza armonica e dalla perfezione assoluta delle loro voci. Dieci brani che formano una colonna sonora di una cinquantina di minuti senza nessuna sbavatura, senza nessuna caduta di tono. Una splendida miscela palpitante, ideale per accompagnare un’estate calda e non solo atmosfericamente.

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David Crosby non ci ha abituato a frequenti uscite discografiche, a oltre quarant’anni da If I Could Only Remember My Name del ’71, in mezzo ci sono stati solo due dischi: Oh Yes I Can del ’89 e Thousand Roads del ’93. Se è facile pensare che questo sia il suo commiato musicale le canzoni non lo sono affatto. Undici brani quasi tutti a sua firma, l’aiuto del figlio Raymond, di Mark Knopfer e di Wynton Marsalis, danno un tocco di notevole presenza ad alcuni pezzi dell’album.

Quello che fa “grande” Croz è il suo “spiazzare” che, ancora una volta, è parte integrante della sua vita. David Crosby abituato a continue cadute e continue rinascite non poteva anche questa volta sorprendere critica e fan. L’album infatti, non era previsto e se poteva sembrare come un’operazione commerciale il risultato è invece tutt’altro. “…avevo ancora delle cose da dire” è la sua affermazione all’uscita del disco, e “per fortuna” aggiungiamo noi.

Crosby ancora una volta riesce a sceneggiare storie, confessare brividi profondi, narrare difficili rapporti con la vita, preparare balsami di guarigione. Croz è un disco ricco di fascino e dal suono elegante. La voce è intensa, le canzoni suscitano suggestioni e piccole magie. L’uomo riesce (ancora una volta) a stupire, a colorare il mondo con le tempere del vero artista, con i colori che accendono la fantasia, di azzurri profondi.

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Dopo l’ennesimo ascolto di Emmaar, il parallelo con Tassili, ultimo lavoro uscito nel 2011, è inevitabile. Il gruppo maliano che ha fatto, e continua a far conoscere la cultura tuareg in giro per il mondo, con questo disco, non si discosta di molto dal suo predecessore. Due sono soprattutto gli elementi in comune: deserto e messaggio. Il primo è stato registrato nel deserto algerino, Emmar invece, in quello nord americano del Joshua tree. Il messaggio: la musica come strumento di ribellione.

Il suono invece, pur restando nell’”area” del blues rurale, una delle massime espressioni della musica afro-americana, è leggermente più elettrico, a differenza di Tassili, più acustico. Titolari di un nuovo genere musicale chiamato Tishoumaren, ovvero la musica degli ishumar: ishumar, che significa disoccupato, si riferisce alla generazione di giovani esuli touareg che hanno abbandonato il loro territorio prostrati dalla siccità e dalla repressione delle autorità. I Tinariwen hanno combinato le forme musicali tradizionali touareg e del Mali con una moderna sensibilità ribelle e radicale: strumenti tradizionali come il liuto teherdent ed il flauto utilizzato dai pastori sono stati abbandonati in cambio di chitarra elettrica, basso e batteria, mantenendo però il tradizionale violino ad una corda del Mali.

Chi ha aprezzato Tassili non rimarrà deluso da questo ultimo lavoro, ma, ad onor del vero, non rimarrà neanche particolarmente colpito visto che la “colonna sonora” è rimasta in linea di massima pressoché la stessa, è solo leggermente più “elettrico” ed è stato probabilmente l’ambiente “deserto” a far questa differenza.

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Ci sono voluti ben tre anni per pubblicare questo secondo lavoro dal titolo omonimo, il loro debutto “The Fool” infatti, risale alla fine del 2010. Le Warpaint sono quattro ragazze che si sono formate a Los Angeles nel 2004.

Fin dai primi ascolti il sound trasmesso, per usare degli aggettivi poco efficaci, è un mix psichedelico e ipnotico. Le voci sono sicuramente il loro punto di forza ma anche la vivace base ritmica e le esplosioni di chitarre non sono da meno. Per certi aspetti il suono che ne deriva è più adatto ad atmosfere notturne che alla luce del sole.

Il non essere facile a paragonare le Warpaint ad altri predecessori sta a significare che il loro stile è abbastanza unico e originale. Le atmosfere a volte serene e volte inebrianti riescono a far breccia ascolto dopo ascolto.

Se i testi si focalizzano su tribolazioni amorose e relazioni complicate, la peculiarità sonora è proprio quella di adattarsi a questi contesti, e quindi il creare delle tensioni emotive tangibili e dense.

Con il loro intreccio a quattro voci, emozionante e coraggioso, le Warpaint convincono e ci offrono un bel disco scintillante da ascoltare tutto d’un fiato senza remore e pregiudizi. Dodici canzoni che formano un collage semplice e diretto.

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Le pubblicazioni discografiche nell’ultimo decennio del Boss sono un susseguirsi altalenante di discrete e buone confezioni sonore. Con High Hopes, Springsteen si assesta su posizioni di tutto rispetto, anzi più che buone, ottime direi. Il rock è il suo disperato amore e lo interpreta con grande anima e passionalità e, alla faccia di tutti i suoi detrattori, prosegue imperterrito sulla sua linea ortodossa riuscendo a dare ancora ottime vibrazioni e feeling.

A sessantaquattro anni, Bruce Springsteen ha imparato che “la vita ha i suoi paradossi”, così come il rock’n’roll, che “porta con se una certa gioia, una felicità che è ciò per cui vale la pena vivere”. Ma parla anche sempre di gelo e della solitudine che abbiamo dentro”. In questo diciottesimo album in studio, riesce a farci stare dentro tutto, la felicità e la solitudine, l’oscurità ai bordi della città ma anche l’energia che trasforma i suoi concerti in quanto di meglio si possa oggi vedere su un palcoscenico rock’n’roll.

Coadiuvato dagli amici di sempre: Roy Bittan (piano, tastiera, fisarmonica), Danny Federici (organo, tastiera), Nils Lofgren (chitarra, cori), Patti Scialfa (cori), Garry Tallent (basso), Steven Van Zandt (chitarra, mandolino, cori), Max Weinberg (batteria), ospita musicisti come: Soozie Tyrell (violino, chitarra, cori) Charles Giordano (organo, fisarmonica, tastiera), Jake Clemons, Ed Manion, Curt Ramm, Barry Danielian, Clark Gayton (sassofoni, trombe, tromboni, tuba), è soprattutto la presenza non indifferente di Tom Morello alla chitarra e voce che fa la differenza.

Il vecchio Boss mette a punto una dozzina di brani, (tre sono delle cover) di grande rilievo che sono più vicini alla tradizione Rock di quanto facesse con le ultime produzioni. Bruce ha distribuito i rinforzi nei vari pezzi ottenendo come risultato una nobilitazione di praticamente tutto il suo ultimo repertorio. Ha voluto ancora una volta dare prova del suo valore e ha confezionato un disco che deve essere additato come esempio di coerenza e professionalità: la sua voce e la sua musica non risentono degli anni, portati tra l’altro benissimo, e sono ancora in primo piano a sottolineare la fierezza del Rock. Springsteen lavora per accumulo (in tutti i sensi: accumulo di significati e di racconti, di suoni, di stili) e si candida così a un ruolo di sintesi della musica americana, il ruolo di custode dell’ortodossia rock’n’roll.

Si potrà obiettare che la musica proposta non è una novità però una cosa è certa che quando le note di questo “High Hopes” riempiranno le vostre orecchie sarà subito divertimento e il vostro piede inizierà subito a muoversi per seguire il pulsare del ritmo quando sentirete “High Hopes”, “Just Like Fire Would” e “Frankie Fell In Love”, sarà soprattutto emozione quando ascolterete “American Skin”, “Heaven’s Wall” e “The Ghost of Tom Joad”, sarà semplicemente rock quando ascolterete “Harry’s Place”, “Down in the Hole” e “This is Your Sword”.

In fondo cari amici come diceva qualcuno… “It’s Only Rock’n Roll, But I Like It”.

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