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Recensioni musicali di Silvano Bottaro

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Personaggio geniale e inquietante, provocatorio e imprevedibile Nick Cave, australiano di Melbourne ma cittadino Londinese è stato presente più volte in questo blog con ‘The Good Son’ del ’90, nove canzoni di una bellezza disarmante, con il progetto ‘Grinderman del 2007’ e del 2010 e ancora con i Bad Seeds in ‘Dig Lazarus, Dig!’ del 2008.

Kicking Against The Pricks è un album interamente composto di cover che percorre i sentieri della musica americana in modo quasi malato e angosciante. Il blues di John Lee Hooker (“I’m Gonna Kill That Woman”), il country di Johnny Cash (“The Singer”), l’hit hendrixiano (“Hey Joe”), il soul di Cooke (“Something’s Gotten Hold Of My Heart”), il canto urbano di Lou Reed (“All Tomorrow’s Parties”) sono qui rimasticati e stravolti, quasi irriconoscibili.

Con voce profonda e da brividi Cave conduce le sue personalissime rivisitazioni con grande perizia e abilità. E’ maestro in un’arte difficile: aggiungere senza togliere all’originale. Facendo in modo che, alla fine, tutti sembrino figli suoi.

#millenovecentoottantasei

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Si sta confermando come uno degli album più belli del 2011 questo ‘The Rip Tide’, terzo album dei Beirut, band statunitense capitanata da Zach Condon, giovane venticinquenne nato a Santa Fe nel Nuovo Messico.

Fin dal primo disco ‘Gulag Orkestar’ del 2006, Condon (infatti il gruppo ‘Beirut’ si formò successivamente per l’incisione del disco) si dimostrò un grande talento oltre a una gran bella voce ma fu con il secondo, ‘The Flying Club Cup’ del 2007, che i Beirut si fecero conoscere oltre continente.

Lasciando da parte certe influenze inevitabilmente tratte da ispirazioni ‘altrui’, con ‘The Rip Tide’ i Beirut fanno il grande salto di qualità, facendo emergere un suono completamente personale che li distinguono dalla ‘massa’ musicale odierna. Anche se orientativamente verso un sound più pop, i Beirut ci regalano trentatre minuti di intrecci musicali di notevole profondità. Le nove canzoni che compongono il disco hanno la forza di creare un flusso sonoro particolarmente sensibile ed elegante.

‘The Rip Tide’ è uno di quei dischi dove non c’è un solo secondo sprecato, che si ascoltano dall’inizio alla fine, senza nessuna interruzione e in continuazione per diversi giorni, per poi riprenderlo e trovare ancora delle ‘pieghe’ nascoste a riconferma della sua bellezza.

Un piccolo capolavoro di classe, godibile e intelligente, musicalmente ispirato alla grande tradizione folk della canzone americana e suonato da bravi musicisti.

‘The Rip Tide’ è un disco maturo, concentrato e accessibile ma soprattutto non banale. La musica di Condon è raffinata, gli strumenti sono ben amalgamati tanto da formare un ‘tappeto’ sonoro dove la voce, la sua bella voce, riesce a farlo ‘volare’.

Tra gli album dell’anno.

#duemilaundici

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(or What We Did On Our Summer Vacation)

A quattro anni dal loro ultimo disco “Saturday Nights and Sunday Mornings”, i Counting Crows ritornano con un nuovo lavoro e questa volta è un disco di cover, spiazzando ancora una volta i loro fan. Ad Adam Duritz & co. infatti, una cosa su cui non si discute è la libertà di “scelta”, in poche parole fanno quello che gli pare senza filtri e costrizioni di sorta. Questa loro “scelta” gli permette di spaziare non solo con dischi variegati; dal vivo, in studio, di cover ma soprattutto con i tempi da loro scelti in base alle loro esigenze e non quelli dettati dalle Majors di turno. Dimostrazione è la scelta dei quindici brani che non appartengono ad un repertorio di canzoni famose o di facile ascolto ma scelte tra quelle che più piacevano a loro. Come risponde Duritz in una intervista: “Io sono un grande credente di una semplice regola, che qui non ci sono regole”. Insomma un gruppo “indipendente” nelle scelte e nelle esecuzioni della serie “prendere o lasciare”.

Underwater Sunshine miscela quindici brani di artisti del calibro di The Byrds, Fairport Convention, Big Star e altri meno conosciuti. La bella voce di Duritz e il suono dei compagni, estremamente compatto e pulito, rendono impossibile la scelta delle migliori, tutte sono di buon livello con una manciata di ottime, comunque tutte ben riuscite.

In sostanza, Sunshine Underwater è un’omaggio alla musica degli altri e soprattutto alla musica in generale, un omaggio che, visto che la “personalizzazione” e la maestria con cui è suonato e arrangiato, lo rende uno dei lavori più belli della loro discografia.

#duemiladodici

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Neil Young è un artista imprevedibile, poliedrico, eclettico, dalle mille personalità. Un musicista che non finirà mai di stupire.

Così come alle sue produzioni più celebri degli anni settanta, dense di sapori e climi californiani, fece seguire musica sperimentale, uscendo poi con un disco di country nashvilliano e subito dopo con un episodio di hard rock, ora (siamo nel 1992) dopo “Freedom” (quasi interamente acustico) spiazza tutti con un doppio album dal vivo con il suo gruppo storico, i Crazy Horse, di tagliente, violento, sudatissimo rock americano.

Da subito ci si accorge che il sound è tirato, tostissimo, con chitarre elettriche lancinanti accompagnate da una asciutta ma potentissima ritmica. Questa immediatezza comunicativa, questo mostrarsi nelle intenzioni fin dalle prime note, questo stravolgimento dei vecchi hits, questa personalissima interpretazione dei brani lo fa accostare in maniera inequivocabile al miglior Bob Dylan, dal quale il “nostro” canadese ha preso molto e non solo dal punto di vista musicale; non a caso, tra i pezzi di questo “Weld” compare una versione davvero strana, ma non per questo poco affascinante, di “Blowing In The Wind”. Semplice omaggio al vecchio maestro o qualcosa di più?

L’album offre quasi due ore di grande musica, in cui Neil Young propone sedici brani tratti dal repertorio presente e passato. Accompagnato dai fidi “Crazy Horse”, Young riesce a creare un lavoro dal sapore agrodolce di grande fascino ed efficacia.

La bellezza delle composizioni è comunque così assoluta che anche chi avrebbe per istinto gusti musicali tesi verso sonorità più morbide o maggiormente sofisticate si fa trascinare dalla forza e dall’impatto dei Crazy Horse.

L’album si fa amare sin dal primo ascolto e riconferma il talento artistico di un personaggio che persegue, con cocciutaggine, la sua strada al di fuori dei classici compromessi e dei pasticci tipici del mercato discografico.

Il più bel album dal vivo di Mr. Neil Youg (& Crazy Horse), uno dei più bei album dal vivo della storia della musica rock. Rendiamo dunque onore e gloria al vecchio Neil.

#millenovecentonovantuno

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Live Dead è il primo album dal vivo della band che più di ogni altra ha costruito la propria immagine sui “live”. Nella loro discografia i dischi dal vivo hanno raggiunto quelli in studio e senza dubbio sono destinati ancora a crescere. Live Dead è un live un po’ speciale non solo perché è stato registrato con una platea di amici e non con un pubblico pagante ma soprattutto perché è un disco di passaggio, “il” disco di passaggio dagli Acid Tests e dalla San Francisco “sixties” verso il mondo nuovo, verso i settanta, anni più complicati e grigi.

Nel ’69 i Dead avevano appena abbandonato il quartier generale di Haight Ashbury e si erano spostati a nord, in campagna, alla ricerca della quiete e delle “buone vibrazioni” che nella città della baia, ormai sconsacrata, non poteva più dare. Con loro, anche la musica aveva cambiato domicilio, spostandosi dallo spazio astrale e psichico ai prati e alle colline di casa, dalle improvvisazioni elettriche alle semplici melodie country folk.

Nella sua magrezza assai poco Dead (settantacinque minuti su due LP, quando un “normale” show durava già allora più di tre ore), il Live rende la ricchezza e l’eccitazione del periodo, il “questo” e “quello” che Garcia e i suoi si stanno impegnando a fare. Ci sono schegge del passato prossimo (Saint Stephen) e folgoranti novità (Dark Star), ruminazioni sonore a oltranza (Feedback) e puntigliose rivisitazioni blues (Death Don’t Have No Mercy), in colorati “fili” sonori grossi e lunghi, brani di otto, dieci, venti minuti. C’è il classico suono Dead, sottile e sfuggente, tanto che non si ha mai capito perché il gruppo si dotasse di amplificazioni enormi e d’avanguardia se poi la musica era così pallida e spettrale: e c’è il gusto del gioco, del dilungamento, della piccola avventura da inventare sul momento, che è un po’ il segreto della storia Dead e la molla che anima tanti loro eredi, a cominciare dai Phish.

Due sono i brani che più hanno contribuito a insediare Live/Dead nella Hall Of Fame del rock. Uno è Turn On Your Love Light, uno swingante Bobby Pland subito tra i preferiti del pubblico. Dal vivo era la passerella di “Pigpen” McKernan, il percussionista che rappresentava l’anima spontaneista e “freak” del gruppo: che non solo cantava, ma la usava come spazio personale per improvvisati rap e storie di vita. L’altro clou è Dark Star, il lungo volo chitarristico di Garcia e Weir dove in gioco è più il sudore e swing di Love Light ma un “sballo” più sottile, un viaggio magico e profondo.

Registrato nel ’69, il 26 gennaio all’Avalon Ballroom e il 27 febbraio al Fillmore West a San Francisco, il disco dai quattro lati (del vinile s’intende) “colorati” come tavolozze, ci offre un flusso sonoro di blues, psichedelia, improvvisazione, sperimentazione o meglio una combinazione di tutti questi elementi, amalgamati come solo loro riescono a fare. Un grande progetto riuscito, e non a caso quella Stella Scura ha continuato a mandare la sua luce nei concerti Dead sino alla fine, ogni sera abbagliante e sempre diversa.

#millenovecentosessantanove

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A sei anni dall’ottimo Well never turn back e a tre dal buon You are not alone, ritorna Mavis Staples con “One True Vine”, quattordicesima incisione della sua ultra quarantennale carriera.

Da cantante gospel qual’è, è ancora la fede il comune denominatore dei suoi testi, ma è sempre la sua meravigliosa voce a renderli superlativi. A fronte dei suoi settantaquattro anni, la Mavis non mostra segni di decadimento ma anzi, come i migliori vini rossi, migliora col tempo.

Continuando la collaborazione artistica con Jeff Tweedy leader dei Wilco, iniziata con “You Are Not Alone” nel 2010, di cui è produttore, anche questa volta la Staples riesce a dare il meglio di sé. Fin dalle prime note è palpabile la passione religiosa per il Vangelo e il suo credo incrollabile ma è poi la sua voce e il feeling che riesce a creare che sanno rendere grandi le canzoni e farle apprezzare anche ai più atei ed agnostici. E’ proprio questa la grandezza dell’artista, una donna che sa esattamente come trovare l’anima di ogni lirica e consegnarla con estrema naturalezza, sincera ed onesta.

L’album cresce di ascolto dopo ascolto, ha un effetto magico che riesce a trasportare e soprattutto ad elevare anche lo spirito meno sensibile… che poi è quello che la buona musica dovrebbe fare, e (anche) in questo disco, la Grande Mavis Staples colpisce in pieno. One True Vine è un ottimo disco ed è soprattutto consigliato alle anime in cerca di pace.

#duemilatredici

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Big Science è il suo manifesto sonoro. Musica d’avanguardia, apparentemente priva di potenzialità commerciali, che scala fino ai vertici le classifiche commerciali di vendita americane: Big Science, conciso riassunto della ben più imponente performance multimediale United States I-IV, è un caso pressoché unico nella storia pur concitata e ricca di colpi di scena del suono dei nostri tempi.

Giochi di voci filtrate, tastiere solenni ma mai invadenti, imprevedibili soluzioni di arrangiamenti e ritmi appena accennati, con il sostanziale contributo del “tape-bow violin” — uno strumento inventato dalla stessa artista naturalizzata newyorkese, un violino in cui l’archetto è un nastro pre-inciso e le corde una testina magnetica — interagiscono nella creazione di un sound “caldo” a dispetto della sua ostentata glacialità, comunicativo pur nella sua minimale freddezza, pienamente godibile all’ascolto nonostante il suo impatto decisamente ostico: una novità assoluta per il mondo fatuo delle charts.

Influenzato dal rock nello spirito, e non certo nella forma, Big Science è la trasposizione in “musica” ipnotico-allucinata del nostro vivere in una società tecnologica, senza gli eccessi dissonanti che sovente accompagnano le sperimantazioni ma con la luce-guida di un approccio creativo sempre profondamente “umano” nel suo uso del media elettronico.

In bilico fra avanguardia, classica e “pop”, fra essenzialità strutturale e ridondanza di contenuti e “messaggio”, Big Science è il perfetto matrimonio fra arte e intelletto, fra istinto e ragione, fra l’uno e il tutto.

#millenovecentoottantadue

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Fu grazie a Talking Timbuktu, il capolavoro inciso con Ry Cooder nel ’94, che ad Ali Farka si apri una finestra nel mondo musicale mondiale. Nel 2005 insieme con Toumani Diabate’ incise il meraviglioso “In The Heart Of The Moon” un prezioso gioiello che si pensava fosse la sua ultima testimonianza, infatti l’anno dopo Ali Farka ci lasciò per un’altra vita. Ma a sorpresa, a cinque anni di distanza viene pubblicato questo “Ali and Toumani” ed è ancora solo ottima musica.

Anche questo disco è stato registrato nel 2005 dopo il trionfo di “The Heart…” che vinse un Grammy ed ebbe una trionfale serie di concerti. Proprio per questo motivo, carico di entusiasmo, Toumani decise di registrare “Ali and Toumani” e in sole tre session pomeridiane il disco fu ultimato, anche perchè Ali era gravemente malato.

Ancora una volta come per “In The Heart…”, i due musicisti del Mali, Ali grande chitarrista del nord, soprannominato “The King Of The Desert Blues”e Toumani proveniente dal sud, indiscusso maestro della Kora (arpa africana formata da una zucca) riescono nuovamente a commuovere. “Ali and Toumani” è un intreccio acustico di strumenti a corda. A volte sembra ci sia un’orchestra ad accompagnarli, in realtà i suoni che riescono a produrre le chitarre e il kora sono un trionfo sonoro ricco e pieno di emozione. La melodia di Ali viene “commentata” e abbellita da Toumani creando un vortice con effetto ipnotico. Nelle undici composizioni, poco cantate, non ci sono momenti di stanca e il disco lascia un segno profondo nella nostra memoria sonora. Un lavoro bellissimo quindi, l’interazione tra due uomini che avviene raramente nel mondo della musica. La musica di Ali e Toumani è profonda e potente, ogni nota è una goccia e tante gocce diventano un fiume in piena. Capolavoro.

#duemiladieci

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Lucinda è tra le mie preferite, non a caso infatti il suo West del 2007 fu per me il miglior album di quell’anno. Un grande disco, innovativo, suggestivo e profondo.

Dopo la pubblicazione nel 2008 di “Little Honey”, un album non certo brillante, abbiamo la fortuna di avere tra le mani questo ottimo lavoro che porta il titolo di “Blessed”, il suo decimo disco in studio. Blessed è un disco maturo, dodici canzoni equilibrate, dove la saggezza, la sensibilità e la bravura della cinquantottenne cantante statunitense traspare in maniera evidente.

Se ancora una volta, come in “West”, i testi delle sue ballate sembrano esprimere una certa malinconia e a volte anche tristezza, in realtà, celano un cauto ottimismo, una riflessione positiva sulla vita. Anche nel suono, questa poetessa rock evidenzia una maggior ispirazione e grazie all’uso di chitarre elettriche il sound è meno rarefatto e più aggressivo. Terzo elemento fondamentale è la voce, intensa e particolare, con la quale la songwriter americana ci regala emozioni forti.

Ottimo album, in conclusione, dove ancora una volta la Williams dimostra di aver raggiunto una maturità ed un equilibrio in grado di poter creare delle belle canzoni, canzoni che sono dei gioielli da incastonare nella nostra memoria musicale.

#duemilaundici

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Stan Ridgway è un talento unico, uno dei songwriter più originali ed ispirati degli anni ottanta. E The Big Heat, sua prima opera solista dopo il fruttuosissimo tirocinio come voce e anima dei Wall Of Voodoo, fonde mirabilmente conservatorismo e rinnovamento in nove episodi di magica intensità emotiva e disarmante spessore musicale. Canzoni commoventi, ilari, pacate, trascinanti, estroverse, introspettive, serie, ironiche. Canzoni di vita, reale o immaginaria. Un maestro nell’arte di inventare storie di ordinaria e straordinaria quotidianità con un gusto speciale per l’allegoria.

The Big Heat è un monumento canoro e compositivo fuori da ogni clichè, prodigiosamente sospeso da qualche parte fra il rock e l’eternità. Proprio come “Camouflage”, la lunga e solenne ballata che chiude l’album fra echi western e misteriose incognite.

#millenovecentoottantasei

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