cosechehoscritto

[gish]

Ma non posso sempre scrivere, eh Koch, sto giocando a Gish, tu sai cosa è Ghish? no non credo Koch è un gioco che mi sono comprato anni fa e che poi avevo mollato e oggi mi è venuta voglia di giocare ancora a Gish perché mi secca lasciare i giochi non finiti e una delle cause per le quali avevo mollato Gish era che mi si erano cancellate le partite salvate quando si era rotto l'hard disk e allora ricominciare non ne avevo voglia, era come se avessi perso tutta la storia vissuta nel mondo di Gish e invece ho ripreso, adesso sono al livello cinque che si svolge nell'inferno e cosa è Gish, beh la cosa rivoluzionaria di Gish è che il protagonista è una palla di grasso a cui hanno rubato la fidanzata antropomorfa, e per palla di grasso non intendo un tipo sovrappeso, intendo proprio dire una palla di grasso nero senza né mani né piedi, ha solo una bocca e gli occhi e delle piccole punte che gli possono nascere lungo il corpo, e quindi capisci bene che solo muoverlo è un casino Koch, solo fargli spostare un oggetto è un fottuto casino Koch, non ha mani, capisci, si muove rimbalzello come una palla di grasso e anche farlo saltare è un bel casino, hai mai visto una palla di grasso saltare koch? beh, posso assicurarti che le palle di grasso non sono nate per saltare, ce ne vuole per fargli fare anche dei saltini mediocri e altra cosa di questo gioco è che tutto segue le regole della forza di gravità, quindi le cose pesano, le corde basculano, i muri crollano e questo porta a cosa inaspettate del gioco anche perché, dovevo dirti anche questo, ci sono un fottuto numero di robe variabili e quindi le partite sono simili ma mai identiche, ogni tanto qualcosa cambia e la cosa che mi fa annodare lo stomaco e che se finisci tutti gli omini ti fa ricominciare dall'inizio del livello e quindi devi tornare in posti rognosi in cui speravi di non tornare mai più nella tua vita perché era uno di quei posti che quando li finisci ci metti una riga nera dicendo non so come cazzo ho fatto ma ci sono riuscito non ci tornerò mai, e invece in Gish ci torni se non riesci a finire tutto il livello e quindi diventi nervoso, non ti diverti ma impari molte cose della vita, perché la vita è così è una serie di merde che dici no, cazzo Koch, non farò mai più lo stesso errore, e invece rieccoti lì, stronzo come sempre a rifare le stesse cose, tipo tornare a giocare a Gish che non mi servirà mai un cazzo nella mia vita mentre potrei fare cose molto più intelligenti e sofisticate più adatte a un uomo della mia cultura e della mia intelligenza tipo finire di leggere il libro che sto leggendo, sai cosa sto leggendo? beh Koch sto leggendo un libro di Aldo Dieci, sai chi è Aldo Dieci? beh è la nuova versione di Aldo Nove, non ti viene già da ridere? beh Koch, smetti perché il libro è una merda, una cosa abominevole fatta da Castelvecchi con la quale, se esiste l'inferno ed è simile a quello che Gish mi ha mostrato essere, beh Castelvecchi con questa cosa abominevole se l'è guadagnato e aggiungo che 'abominevole' è un termine che non mi è congeniale, non lo uso quasi mai, ma in questo caso è necessario perché pagina dopo pagina mi chiedo perché, con tanta gente che merita di essere pubblicata con lavori dignitosi con il sudore della fronte, è stata sprecata carta e inchiostro per una cosa che mentre la leggi provi vergogna, non tanto per Castelvecchi che ormai starà con palla di grasso a saltare sui fiumi di lava, ma per gli scrittori che si sono prestati a una cosa del genere, Lagioia, io ho letto anche un romanzo di Lagioia e poi scopro che ha partorito una roba del genere, abominevole, senti Koch, sai che su Facebook avevo scritto a uno che la letteratura è sovrastimata, eccetera le solite cose e uno scrittore mi ha detto eh bravo, i giudizi sulla letteratura li danno sempre quelli che sono al di fuori della letteratura, come dire, caro veneracchio che cazzo parli di letteratura, lascia che ne parliamo noi che siamo dentro la letteratura, e io mi sono sentito fuori, mi sono girato e ho visto che ero fuori della letteratura e dentro questo posto, immaginiamo una specie di torre o un carcere, dentro questo carcere c'erano quelli che fanno la letteratura, da di dentro, e mi sono chiesto due o tre cose, la prima cosa che mi sono chiesto è stata, ma perché siamo qua a trascrivere tutto? Perché siamo qua a creare una spropositata base dati per modelli linguistici per poi – eh Koch – crepare e lasciare questa cosa irrisolta e indifesa in giro per il tempo che non abbiamo vissuto e che non viveremo mai? La letteratura sono come le partite non salvate di Gish. E poi, quelli che stanno dentro la letteratura lo sanno che fuori ci sono persone che leggono quello che scrivono e ne provano cose? e la terza cosa che ho pensato, e qui mi ricollego al discorso di Aldo Dieci, questi qua che a tavolino si mettono a fare letteratura, che campano con la letteratura passeggiano mai per la fiera del libro? questi che stanno dentro al carcere cosa pensano quando passeggiano per i corridoi della fiera del libro e osservano centinaia di case editrici sconosciute che pubblicano centinaia di libri di gente altrettanto sconosciuta? dalla loro torre in cui vedono la letteratura dal di dentro si rendono conto che fuori ci sono i morti che camminano, le manovalanze, gli zombies? Koch noi siamo zombies della letteratura, ci muoviamo come cretini e digrigniamo i denti con la bava alla bocca fuori della torre e da dentro la torre gli scrittori pagati fanno Aldo Dieci, fanno i giovani cannibali, fanno il grande successo del genere noir, fanno quello che dovrà essere messo nelle antologie fra dieci anni e che oggi lo leggono in dieci cristi dentro la torre, ecco cosa fanno e ogni tanto sparano agli zombies, dovessi rifare oggi un blog di scrittura sai come lo chiamerei? lo chiamerei “zombies” e parlerei di quelli che scrivono libri che non legge nessuno che gli editori li mettono a catalogo e ne fanno svanire i libri, dopo dieci anni di contratto scemano le copie vendute a niente non hanno niente, nessun diritto di autore, perché sono malati, come lo sei tu, come lo sono io, l'editore pensa, tanto questi sono malati, devono scrivere, non possono mica smettere e allora perché non sfruttare questa malattia che hanno, ma io avevo trovato il modo di fregare tutti Koch, sai cosa mi ero preso, mi ero preso in comodato uno Skyfonino, sai cosa era lo Skyfonino era un cellulare che potevi chattare con la gente su Skype, capisci cosa voglio dire, sei alle poste in coda e invece che tirare fuori il libro di Aldo Dieci, tac, prendi lo Skyfonino e chatti per ore e ore con Koch o con Platania e chattando non pensi a niente, non pensi alla letteratura, non ti metti a scrivere grandi capolavori della narrativa, chatti e basta e ti senti vivo e vai avanti a fare il tuo odore in giro per il mondo e infatti io sarei un uomo felice, ma ci sono dei problemi di abilitazione, non mi hanno ancora abilitato e quindi non posso chattare con nessuno e mi sto alienando, sto per schiantare il cellulare contro il muro perché quando tento di entrare in Skype dice che c'è un errore non meglio precisato e io sto male, fisicamente, vorrei che tutto fosse perfetto Koch, allora ti scrivo questa lettera per dirti alla fine che dopo un ora di gioco di Gish sento proprio il bisogno fisico di smetterla, di prendere un libro e di mettermi a leggere a tradurre qualcosa a fare qualcosa che mi faccia crollare nel letto con un sorriso dentro, un qualcosa, e a proposito mi sono di nuovo iscritto alla scuola di kung fu e

— il prossimo — buongiorno signor Tetsuo Hara, sono venerandi e... — dove devo fare il disegnino di Ken? — da nessuna parte, io... — hai pagato? — no, è questo il problema, io... — niente soldi, niente autografo — signor Tetsuo — eh — lo so — ok — non sono qua per l'autografo — ah — sono venuto a chiederle dei soldi — cosa? — come rimborso — rimborso per cosa? — per aver letto Ken il guerrierio da piccolo, e averlo anche visto in tv — e rimborso di cosa? — perché Ken il guerriero è una merda — ... — è uno dei fumetti più di merda che abbia mai letto — io... — ho anche venduto tutti gli Zero che avevo per pagare una multa — ... — alle bancarelle di piazza Banchi — non conosco — onesti, considerato il mestiere, ma non è questo il fatto: è che Ken mi ha sempre fatto pena, disegnato male, storie risibili, tonnellate di inchiostro e carta buttate via. E io ho perso ore a leggerlo — beh — quindi ora vorrei un rimborso, Tetsuo — capisco — per tutto il tempo perso per adeguarmi socialmente agli altri appassionati manga dei primi anni novanta — capisco. Ma io non sono Tetsuo — ah — io sono Kaneda — Kaneda! — Tetsuo! — Kanedaaaaaa! — Tetsuooooooo!

Forse è il fatto di usare un device a inchiostro elettronico per navigare, viene meno una parte di “intontimento” da luce che i normali monitor mi danno, ma mi rendo conto quante volte la mia navigazione si allunghi nel tempo perché una parte di me sta cercando una notizia in rete che non esiste

giro sui giornali, vado nei forum, salto da una piattaforma all'altra, apro e richiudo i post, gli articoli con un senso sempre più crescente di inappagamento, come se da qualche parte, nascosta su internet, ci fosse la notizia risolutiva, l'informazione che cambierebbe davvero qualcosa, ma io non riuscissi a trovarla

è una sensazione di fastidio e di debolezza: scorro centinaia e centinaia di titoli civetta che mi promettono frammenti di informazione su questo o quell'argomento, ma il loro scopo è quello di intrattenermi per un po', non di darmi qualcosa di sostanziale, capace di cambiare la mia visione del mondo

giro in una rete che è rimpinzata di conoscenze, ma queste conoscenze sono progettate per non disturbarmi, non richiedono – in genere – da parte mia un impegno eccessivo per essere assorbite o – quando lo fanno – non mi interessano

non è soltanto l'annichilimento da troppa informazione, è come il modo di comunicare sta cambiando per adattarsi a soglie di attenzione sempre più basse e a un ciclo di rinnovo dell'informazione spasmodico e irragionevole

dopo un po' mi rendo conto di questo, prendo consapevolezza di essere in rete a consultare un menù di cibi senza fine, dove i cibi sono poco nutrienti, poco dietetici e soprattutto che il ristorante è progettato per non darmi mai il senso di sazietà, che lo scopo del ristorante è ridurmi a un senso di appetito inestinguibile

I primi luoghi “social” digitali che abbia utilizzato erano le BBS, negli anni ottanta. Inizialmente la rete era – banalmente – un collegamento tra il mio computer, che faceva da client, e un altro computer dove girava il software della BBS, il server, gestito da un appassionato, il sysop, che a volte si appoggiava commercialmente a una qualche attività legata al mondo dell'informatica.

La “socialità” era data dal fatto che quando io mi scollegavo dalla BBS dopo aver letto e scritto messaggi, qualcun altro si collegava, leggeva i miei messaggi, scriveva i suoi, rispondeva ai miei e si scollegava a sua volta e così via. Un po' se come oggi Facebook fosse accessibile a una persona per volta. Eravamo sociali, ma a turno.

Il collegamento era diretto: attaccavo il modem al mio computer, attaccavo il cavo telefonico di casa mia al modem, davo il comando per fare il numero telefonico della BBS e mi connettevo. Differentemente dalle linee DSL più recenti, nel momento in cui si era collegati non era possibile usare il telefono per le normali telefonate. Se inavvertitamente alzavo la cornetta di uno dei telefoni di casa durante le connessioni, sentivo i suoni con cui i modem “parlavano”.

Il modem questo era: trasformava i segnali elettrici del computer in suoni che viaggiavano – come voci – sui doppini di rame fino al modem della BBS che trasformava i suoni in segnali elettrici. E viceversa. Un aneddoto al riguardo è quello delle telefonate urbane urgenti.

All'epoca esisteva un servizio che permetteva di sollecitare una telefonata che andasse troppo per le lunghe. In pratica, mettiamo che mia madre fosse al telefono da ore a parlare con una sua amica e io dovessi urgentemente parlare con lei, potevo usare questo servizio e mia madre avrebbe sentito una voce dire “chiamata urbana urgente per il numero” seguito dal numero telefonico di mia madre. Mia madre, conoscendola, terrorizzata avrebbe buttato giù il telefono temendo il peggio e io avrei potuto telefonarle trovando la linea libera.

È solo un esempio mamma, va tutto bene.

Cosa c'entra con le BBS? Quando qualche utente si attardava troppo attaccato alla BBS di fatto impediva a tutti gli altri di connettersi. Ci si poteva collegare solo uno per volta, ricordate? Allora, quando l'ubris dell'utente superava quella della normale decenza, si usava il servizio della chiamata urbana urgente. Si fingeva che ci fosse una chiamata urbana urgente per la BBS, in modo che ai suoni che i due modem stavano scambiandosi si sovrapponesse improvvisamente un nuovo suono: la voce che diceva “chiamata urbana urgente per il numero...”. A quel punto i due modem avrebbero cercato di trasformare i suoni di “chiamata urbana urgente per il numero...” in segnali elettrici comprensibili per il computer ma quello che arrivava era spazzatura, mucchi di dati senza senso che poco dopo facevano cadere la linea del malcapitato.

Quando queste cose succedevano io avevo diciassette, forse diciotto anni ed erano almeno quattro anni che usavo computer, 1983 circa. Per questo quando leggo i post dei vecchi nostalgici che rimpiangono la loro adolescenza fatta di rabbia, cazzotti, partite di pallamuro e botte (formative, ovvio) prese in casa mentre i giovani oggi sono sempre con la testa nei videogiochi o a perdere tempo in rete, io provo un serena indifferenza e un po' di fastidio.

Non che io non abbia vissuto la realtà delle botte, del muretto, degli antagonismi adolescenziali e i cinquantini smarmittati: ho vissuto tutto questo ma anche il contrario. Sono stato sia quello che scavava nel fango e si metteva le mani in bocca, sia quello che poi tornava a casa, si collegava a ITAPAC e si connetteva alla NUA della NASA, per vedere apparirne, in ASCII, il logo.

E non ho nostalgia né della prima né della seconda cosa. Ho solo fatto la cosa che era naturale per me e per molti come me in quel momento: prendere il meglio della tecnologia, provare il meglio di quello che avevamo attorno. Gli odori, le paure, il mistero. Vedere cosa sarebbe successo se. Non era molto, era davvero tanto.

[diario dalla poltrona]

Qualche giorno ero finito in un video recensione di un oggettino grosso come una grossa calcolatrice che si presentava come giocattolo per programmare come negli anni ottanta, aveva una tastiera completa attaccata a un piccolo monitor e si poteva programmare con un basic residente, staccati da tutti e tutto, no internet, no gui con anche la possibilità di fare andare alcune shell unix, un text-editor e un emulatore di non so quale console anni novanta (forse un Nintendo).

Compulsione di acquisto a cento, per fortuna mitigata dalla ragione e da alcuni limiti hardware del tutto. Poi guardo sul sito e c'è anche un modello con una tastiera più importante, un linux con schermo più largo e – nel case del tutto – una stampante termica. Non ricordo quale dei due modelli potevi anche attaccare cose elettriche, tipo led, per lavorare in modalità arduino. Anche qua compulsione di acquisto a mille mitigata dalla ragione e dal fatto che il prodotto era fuori catalogo.

E poi pensavo, ecco, ho computer potentissimi, molto più potenti di quei gadget nerd, ma poi sono sempre connesso in rete a perdere tempo, ecco. Poi un'ora dopo ero davanti a un text editor che programmavo una visual novel in renpy e mi mettevo lì a scrivere codice (semplice eh) per qualche ora per produrre qualcosa e quindi niente, non è lo strumento ma la dieta digitale che in qualche modo devi importi, in qualche modo deriva dalle cose che fai nel mondo reale.

Girare in rete, stare sui social non è male se sai come smettere. La rete non è andata proprio come volevamo. Leggevo stamattina sul nyt di come negli Stati Uniti ci siano zone rurali dove l'informazione locale tradizionale è stata sostituita del tutto (o quasi) da gruppi Facebook o influencer youtuber. L'informazione dal basso realizzata sembra però trascinarsi dietro un sacco di residui: censura, hate speech, polarizzazione e un generale livello di ignoranza.

Di contro i media tradizionali, anche qua in Italia, sono diventati illeggibili. E non solo per colpa loro. Questa possibilità di poter avere accesso a qualunque informazione nel mondo ha alzato l'asticella minima di informazione di cui ho bisogno. Non mi basta il tuo punto di vista, voglio anche sapere le tue fonti. Sapere chi ti paga.

Gli unici soldi che spendo per l'informazione li spendo per il nyt (soldi, non pochissimi, spesi in genere benissimo) e per Il post (soldi spesi meno bene: a volte sembra la versione omeopatica del nyt). La triade dell'informazione tradizionale, La Stampa, Repubblica e il Corriere, almeno quelli online, ha raggiunto dei livelli di asservimento al clickbait e alle informazioni tossiche da social da renderla vera e propria spazzatura di cui si può – appunto – solo fare pulizia. Non me ne voglia chi ci lavora dentro, ma scorrere le home page di quei siti è urticante.

Quello che mi piace del nyt, al di là di un certo conservatorismo culturale con cui bisogna un po' prendere la giusta distanza, è che si vedono gli investimenti in prodotti di informazione digitale pensati per una fruizione che vada oltre il semplice scrolling. I soldi che pago vengono reinvestiti in idee e metodi non convenzionali di narrazione del mondo. Che sia la narrazione di una persona che torna in Italia per assaggiare un gelato dopo un periodo di malattia che aveva leso la sua possibilità di sentire i gusti, le interviste a democratici che alle ultime elezioni hanno votato Trump o gli appuntamenti giornalieri per imparare una poesia attraverso video-letture e gamification, di volta in volta c'è un prodotto pensato e programmato ad hoc e non l'adozione a standard di cose che si ripetono in rete senza molta fantasia (l'ennesima newsletter o l'ennesimo podcast).

C'è troppa informazione, non devo aggiungerne altra, devo rendere la mia una performance unica con il lettore.

Mi faceva sorridere Strindberg che a inizio novecento, tra le cose che rendevano la vita un Inferno frenetico, inseriva il fatto di dover ogni giorno leggere i quotidiani. L'informazione pesa e oggi in cui è tutta lì, dietro allo schermo ad attenderci famelica è ancora più pericolosa.

Quando dormivo mi succedevano cose strane. Alcune notti sentivo che sotto le coperte c'erano le bisce. Urlavo terrorizzato e alzavo le coperte e non c'erano, ma bastava che ritirassi su le coperte che tornavano e mi passavano tra le gambe. Altre notti sentivo le battaglie. Moltitudini di persone che urlavano e combattevano mandando dei gemiti terribili, ne ho già parlato. Due volte sono stato visitato dagli alieni, dalle persiane filtrava una luce accecante e loro – per dimostrazione della loro potenza – tagliarono in due una moneta da dieci lire.

In cucina avevamo queste piastrelle con i motivi in rilievo, delle linee ondulate in rilievo, e una luce fantastica entrava di mattina nella cucina mentre mia madre disinfettava tutti questi elettrodomestici anni settanta, in casa mia c'era sempre questo odore perenne di disinfettante e io e mio fratello eravamo in ginocchio in un angolo soleggiato della cucina con le mani dietro alla testa, nessuno di noi piangeva, ci guardavamo senza pensare a niente, era solo una punizione, e quando finalmente ci alzavamo avevamo i ginocchi con le righe rosse dei rilievi delle piastrelle, e finché non se ne andavano non potevamo uscire di casa per andare a giocare fuori; faceva di tutto per farci essere felici nostra madre e non sapeva che ci stava preparando ad una adolescenza identica a tutte le adolescenze avute in precedenza, ma questa volta con un forte plusvalore.

Mio padre mi urlava di spegnere “quel cazzo di computer” e di uscire fuori a giocare e io uscivo e cercavo un posto tranquillo dove poter pensare a quel computer; mio padre mi parlava di cose irripetibili della sua infanzia e io assaporavo la prima infanzia uguale per tutti e riproducibile. C'era Actarus in tutti i nostri corpi così giovani, ed era una cosa così poco importante e così determinante per tutti quelli che sarebbero venuti dopo di noi. Mio padre mi raccontava della natura, della sua infanzia a contatto con la natura e io lo ascoltavo senza che lui si rendesse conto che quella natura non era natura e non esisteva più. Il mercato l'aveva modificata, l'aveva deprecata e ora stava creando nuove nature irresistibili che sentivo mie e che non avevano niente a che fare con quelle versioni di natura di cui mi parlava mio padre. Il tempo si nutriva delle ingenuità delle generazioni precedenti, dei loro sogni e sfornava nuovi sogni che erano incompatibili con i precedenti. Non ci si fermava un attimo.

Ero pieno di Actarus e di BASIC, il linguaggio del futuro. Tanto pieno che non me lo sono ancora tolto tutto di dosso, neppure adesso che il futuro era tanto tempo fa. Eravamo pieni di Actarus e di Venusia, di BASIC e di tette esplosive, eravamo adolescenti tutti caldi e pieni di odori, pieni di insicurezze del cazzo di terrori quotidiani, di videogiochi che ci apparivano la sera quando cercavamo di dormire, di gruppetti che ci aspettavano per riempirci di calci e spaccarci le cose che avevamo tra le mani, di ragazzine che ridevano e quei denti noi li desideravamo come non avremo mai desiderato nessun altro dente, eravamo alieni persi nei boschi di Sant'Olcese e sogni, avevamo tutti sogni che non vedevamo neppure, sogni che era magari anche solo toglierci dai coglioni, lasciare quel paese giocattolo che era così felice e così bello da somigliare a un carcere perché ci dovevamo tornare ogni sera, ogni momento e invece quello che volevamo era andare nel mondo che era al di là del vetro, sentivamo l'odore del Giappone che usciva dal Pac-Man, sentivamo l'America sconosciuta che si riscaldava sul silicio, nei comandi che scrivevamo dopo il prompt.

Continuavo a svegliarmi ogni mattina, cercavo di essere felice, mi immaginavo le cose che avrei fatto dopo, negli anni novanta, nel duemila, avevo questa immaginazione in cui creavo grandi videogiochi, scrivevo racconti e libri che tutti avrebbero letto, avevo i miei sogni di grandezza e li coltivavo con amore mentre camminavo per i campi deserti del paese. Ero felice o almeno avrei dovuto esserlo, e questa cosa di essere felice ad un certo punto si è girata e mi ha morso. Ad un certo punto nel mezzo del frastuono, con qualcosa in mano, mentre ridevo nel mezzo del frastuono, ecco che mi sono chiesto, ma cosa ho da ridere, ma perché sono in questo posto a ridere con questa cosa in mano, ma cosa ho da essere così felice, cosa sta succedendo?

[da PÈCMÉN, Blonk, 2020]

[diario dall'influenza]

Le cose si rompono, passano di stato. Lentamente la tastiera del Macbook sta perdendo sensibilità, dopo un decennio di vita premo le i e le o e non esce niente. La tastiera dell'ebook reader invece è impazzita, premo un tasto ed escono due caratteri, uno coerente con quello che ho scritto e l'altro lontano, tasti in là. Chissà cosa si è rotto. Quale parte infinitesimale dell'elettronica prodotta chissà dove si è fulminata, quale pista scollegata, che tensione. In pratica le macchine che usavo di più per scrivere in mobilità sono andate. Ora sto scrivendo con l'ebook reader e una tastiera meccanica esterna. Non è molto portatile.

D'altronde non ho molto da scrivere perché dopo un po' non riesco a continuare. Ho una febbriciattola costante e quando vado a fare qualcosa di impegnativo mi si tappano le orecchie e inizio ad avere delle vertigini, sudore. Le cose si rompono. Devo fare cose brevi e fare pause. Riposare. Prendere medicinali. Pensare, usare l'immaginazione che – dicevo ieri con qualcuno – è tanto terribile e ci fa soffrire, quanto salvifica. Ci vuole una parte di immaginazione per immaginare il mondo. La nostra piccola traduzione del mondo. Due citazioni, allora, da due libri che sto leggendo.

”(È necessaria) una trasformazione della scienza in generale in senso estetico, imparando a riconoscere una bellezza che è rappresentata dalle forme di interconnessione nell’ecosistema (...). Gli attori del sistema trasportano le informazioni da una parte all’altra della rete, e per farlo traducono. Traducendo abilitano la coesistenza, adattano il messaggio”. La rete quindi, non è neutra, noi non trasmettiamo informazioni con il nostro ripeterle, condividerle, ma attuiamo una traduzione di quello che prendiamo e – traducendo – trasformiamo anche noi stessi. Ora, dall'altro libro:

“Noi non viviamo nella realtà, ma nelle nostre rappresentazioni della realtà. Forse abbiamo il dovere di chiudere gli occhi e occultare certe cose come nascondiamo le funzioni naturali. (...) Un uomo non lo si conosce mai, si conoscono solo le rappresentazioni sue e di altri su di lui, ma, mutando tali rappresentazioni, l’immagine si fa poco nitida e velata”. Sembra un capitolo dello stesso libro, e invece il primo è di pochi anni fa, La Cura, mentre il secondo sono i Libri Blu strindberghiani. Non dicono la stessa cosa, ma parlano dello stesso argomento. In realtà noi variamo continuamente le rappresentazioni di quello che abbiamo attorno. Più variamo più abbiamo possibilità di sopravvivere.

C'era questo test fatto pochi anni fa, ne avevo già scritto, relativo all'amigdala. A un gruppo di bambini insegnano un gioco e a metà del gioco cambiano le regole. Un gruppo si bambini si adatta facilmente alle nuove regole, un altro gruppo no, continua a voler giocare con le regole precedenti. Conservatori e non. Alla fine si scopre che i bambini del primo gruppo hanno l'amigdala di dimensione e consistenza simile, così come il secondo gruppo. Alla fine la morale e l'etica deriva da un pezzo di carne. O viceversa: è come vediamo il mondo che muta la composizione del nostro corpo.

Basta, mi fischiano le orecchie, vado a fare il pane.

[il primo film che ho visto di David Lynch]

Il primo film che ho visto di Lynch, di cui io abbia memoria è Eraserhead. Il secondo Strade Perdute. Visti a pochi secondi di distanza. Marco mi aveva telefonato invitandomi ad andare con lui in un cinema all'aperto, estivo, dove – con un solo biglietto – avrei potuto assistere ad Eraserhead e subito dopo a Strade Perdute. Forse non era Marco. Forse era una ragazza che dopo il primo mi aveva lasciato solo a vedere il secondo. Questa cosa che io andassi ai cinema all'aperto, d'estate, per vedermi una retrospettiva su Lynch, mi mette tenerezza. Forse è l'incontrario. Prima Strade Perdute e poi Eraserhead. Fatto sta che Strade Perdute mi sembrò all'epoca una cazzata, mentre Eraserhead andai in solluccheri. Mi sembrava impossibile che li avesse fatti la stessa persona. Questo non mi impedì, una ventina di anni dopo, di comprarmi i due SACD con l'opera lirica di Strade Perdute fatta da Olga Neuwirth, pur non avendo un impianto SACD, per dire la determinazione.

Molti anni prima, ai tempi del clan, i ragazzi arrivavano sempre in ritardo o saltavano proprio le riunioni perché stavano in casa a seguire una serie tv. Twin Peaks. Io, da buon spocchioso, non ne ho mai visto allora nemmeno una puntata. Se lo guardavano loro non faceva per me. Decenni dopo Francesco mi prestò la sua serie di dvd e – di sera – li guardai tutti con Elettra. Avevamo messo l'iMac Tangerine in camera da letto e lì guardavamo tutti a ritmo continuo lì fino ad addormentarci. Tutta la prima stagione e poi, non ricordo da dove l'avevo tirata fuori, tutta la seconda. Dormivamo e guardavamo Twin Peaks.

L'altro film che mi ricordo di Lynch è Mulholland Drive. In pratica affittai il dvd e lo iniziai a vedere con la ragazza con cui uscivo all'epoca. Per motivi di privacy la chiamerò “angelo metallico”. In pratica a metà film, regolarmente, io e angelo metallico iniziavamo a fare sesso. O ad addormentarci, non ricordo. Forse tutte e due le cose. Il giorno dopo andavo a restituire il dvd con il fastidio che il film non lo avevo visto fino in fondo. La cosa si è ripetuta diverse volte, tanto che so praticamente a memoria la prima metà del film. Per vedere la seconda metà ho dovuto aspettare di essere solo in casa. Ho un ricordo della seconda parte, che ho visto solo una volta, come un sogno della prima. Nella mia memoria tutto questo è successo negli anni novanta, ma il film è del 2002, quindi devo averlo visto prima, come una agnizione.

Al cinema – di Lynch – sono andato una volta a vedere INLAND EMPIRE. Di sera, in un cinema piccolo nel centro storico, da solo, sala semideserta. Di INLAND EMPIRE ricordo che speravo di morire lì, per soffrire meno. Come nei film western quando sparano al cavallo. Anzi, ricordo che a un certo punto ho iniziato a crollare, fisicamente, dormire. Ma quando mi sono reso conto che stavo per dormire mi sono detto no, no. Sono un intellettuale. Devo resistere. Ho anche pagato. Allora ho iniziato a mordermi l'interno delle guancie, per sentire dolore e non addormentarmi. Ho visto tutto il film così, mordendomi l'interno delle guancie per sentire male e restare sveglio. Avevo gli occhi che mi facevano male, alla fine, e sangue in bocca.

Ho questo ricordo di me e i miei figli, tutti davanti alla tv che guardiamo Twin Peaks III. Non tutti, parzialmente tutti. Sicuramente primogenito. Elettra ci aveva rifatto vedere tutto Twin Peaks I e tutto Twin Peaks II per arrivare pronti psicologicamente a Twin Peaks III. Filologicamente. Di Twin Peaks III ricordo la leggera delusione degli episodi finali. Delusione nata dal fatto che la prima metà di Twin Peaks III era stata un godimento inaspettato. La prima metà di Twin Peaks III dovrebbero farla vedere in tutte le scuole al posto delle lezioni di “latino per idraulici”, metterla in classe al posto della lettura della Divina Commedia in Esperanto. Non capirebbero, gli studenti, farebbero casino, scrollerebbero i cellulari mentre la bellezza scorrerebbe davanti a loro. Non è forse così la vita?

Non ho mai visto altri film classici di Lynch come Velluto Blu o L'uomo elefante. Non li ho visti perché volevo tenermeli buoni per i momenti di pioggia. Ho visto tante delle cose folli che metteva su Youtube. La scimmietta. Jack. Ho visto tutto il suo Dune. Sting. Ho visto Fuoco cammina con me. Bowie. Vorrei aver avuto un decimo del suo talento e metà della sua capacità di trovare finanziamenti per i film. Anzi, un ventesimo del suo talento e tre quarti della sua capacità di trovare finanziamenti. Anzi, il talento mi basta il mio. Solo i finanziamenti.

Una cosa mi ha colpito ieri: l'atto di amore incondizionato e fesso della mia bolla che si univa al mio amore e dolore fesso e incondizionato come il loro. Da gente lontanissima, che non si è mai vista e che aveva tutta lo stesso idolo nascosto sotto la giacca. E come – nello stesso tempo – arrivava l'amore incondizionato di gente fuori dalla mia bolla, per motivi completamente diversi. La capacità di Lynch – insomma – di essere fuori di testa, sperimentatore non commerciale e nello stesso tempo iconico e mainstream.

Un mostro, che ha abitato il mio tempo e ha popolato il mio immaginario per qualche fotogramma, qualche deformazione della pellicola.

[diario dalla strada]

In pratica non sto bene, quest'anno lo vivo all'insegna dello non stare bene, l'ultima cosa che mi è venuta è un male alla schiena costante con fitte che vanno e vengono, stiamo indagando, probabilmente, come dice la mia medico “un'ernietta”, fatto sta che sto passando questi giorni di festa nel letto a digrignare i denti, mangiare pastiglie e pensare al futuro.

Comunque, oggi decido che male alla schiena o non male alla schiena devo fare una passeggiata e esco e prima di uscire ho in mente una canzone di Suzanne Vega che non ho in digitale, la faccio breve, mi scarico da Bandcamp un suo live di qualche anno fa che non avevo mai sentito, mi metto le cuffie e esco.

Faccio i primi passi e partono le chitarre di Marlene On The Wall e per un attimo mi sento come Maxine all'inizio di Life Is Strange, quando cammina per i corridoi della scuola e – niente – effetto madelaine mi sento per un attimo catapultato all'indietro di dieci, venti, trenta, quaranta anni.

Ho nella mia memoria alcuni ricordi precisi di io in giro per il mondo che ascolto la musica con le cuffie: io negli anni ottanta con un walkman scabeccio che ascolto, la sera in piazza Manin, Night Vision, io sempre anni ottanta che cammino con il cane a Sant'Olcese la sera e sento un disco dei Pink Floyd dove a un certo punto c'è un campionamento di una macchina che passa e io – solo in mezzo alla strada – faccio un salto a lato, terrorizzato; io che qualche anno dopo aspetto qualcuno alla stazione di La Spezia durante il servizio civile, ascoltando dal lettore cd portatile Buddha Of Suburbia, io che ascolto qualche anno dopo Rave Un2 The Joy Fantastic e mi si rompono le orecchie.

La mia rottura delle orecchie l'ho già raccontata, acufeni e iperacusia che ormai mi accompagnano da un ventennio. Quando non ci sono rumori in casa io ho nelle orecchie un fischio continuo 24/24, ho imparato a non farci caso, se ci faccio caso dopo un po' impazzisco perché è un fruscio sibilante che non si ferma mai e che diventa più intenso quando sono più stanco e più affranto.

Questo non mi ha impedito di ascoltare ancora musica, meno bene di prima, con più difficoltà e soprattutto le cuffie le uso rarissimamente, non solo perché me le fregano sempre i figli, ma perché se ascolto musica con le cuffie per più di una mezzoretta poi i fruscii sono decuplicati e divento ipersensibile a qualsiasi rumore.

Ma ogni tanto, appunto, cedo e accetto il rischio e le conseguenze.

E quindi mi faccio questa passeggiata camminando e ascoltando questo concerto di Suzanne Vega che mi fa sbrodolare, pura nostalgia e riemergere e penso che quello che sto provando non è tanto ascoltare le canzoni di Suzanne Vega, ma un ricollocamento temporale di me nel 2024 rispetto a tutto il tempo che è passato da quando quelle canzoni le ho sentite per la prima volta, la massa di tempo che ho vissuto e mi sono mosso e sono cambiato e che viene relazionata a quel ragazzino nel millenovecentoottantaqualcosa e quest'uomo, con la schiena a pezzi e i giramenti di testa e il piede guasto e le cartillagini dei ginocchio consumate che cammina e ancora ridacchia da solo pensando le cose così.

E tutto questo per nemmeno 15 euro, penso, non male. Penso a Suzanne Vega, a quella volta – irreale – che l'ho vista a Genova suonare al Porto Antico dove d'inverno c'è la pista di pattinaggio, al fatto che ho iniziato ad ascoltarla solo perché piaceva a un mio compagno del D'Oria e poi ho continuato a seguire tutti i suoi dischi per decenni senza sapere bene perché visto che non ho mai tradotto davvero tutte le sue canzoni, e alla fine penso che alla Vega, in quarant'anni le avrò dato in tutto un centinaio di euro, concerto non compreso, e penso che beh, ne è valsa la pena. Tutto questo per avere ancora un ricordo di me che cammino, una sera, e penso alle volte che sono stato nello stesso stato d'animo, così solitario e pieno.

Finisco la mia passeggiata mentre parte l'ultima canzone, sembra fatto apposta e mentre scorrono le ultime note il cellulare vibra e mi dice che sto ascoltando le cuffie da un po' troppo tempo, che sarebbe bene toglierle. Dico al cellulare che ok, aspetto che finisca la canzone e poi spengo e rido da solo, nella via desolata attorno a casa mia e intanto è notte, è dicembre, e tra poco sarò a casa.

Sono con il portatile linux in pizzeria che aspetto le pizze e scrivo e ascolto quello che sento e trascrivo. C'è animazione in ogni cosa, le luci elettriche danno una dimensione a questa serata di dicembre che ha tutta l'artificialità umana. Mi chiedo cosa succederebbe se si staccasse l'elettrico, ora. Una vallata nera, scossa da un vento gelido. I pilastri di cemento immersi nella terra. Le tane intonacate, piastrellate in gres. La gente chiusa in casa, avvolta nelle coperte, abbracciata per sentire meno il gelo che arriva da fuori. I ragazzi della pizzeria prendono in giro la ragazza che lavora con loro. Le dicono che non c'è mai. Che è stata assente per un sacco di tempo. Che non aveva voglia di lavorare. La ragazza risponde a tono, poi ridendo dice, guardate che io dovevo laurearmi! Non dovrei nemmeno essere qua, dovrei essere a lavorare da un'altra parte. Io sto lì, come un lurker della vita e trascrivo tutto. “Scusi ma dovrei prendere il casco” mi dice a un certo punto il portapizze e io dico, ci mancherebbe, e prendo il mio portatile e mi sposto.

Di notte apro gli occhi, sono le quattro. Ho un mal di testa che mi picchia dentro e un fischio. Non sono i soliti acufeni, è proprio un fischio continuo. Resto immobile sotto le coperte come un animale ferito. Prendere appunti, penso. Mi verrà utile quando parlerò di un personaggio che soffre. Molte lettere se premute con il tasto control creano caratteri invisibili all'occhio. Una vita che prendo appunti per quello che potrebbe succedere ai miei personaggi e invece queste cose succedono a me. Ad un certo punto arriverò alla fine e io coinciderò con il personaggio. Sentirò davvero male come lo si sentono nei romanzi o nelle fiction tv, in maniera ragionevole.

O smetterò di prendere appunti.

La mia medico dice che le analisi vanno bene e che probabilmente è lo stress. Sto male perché sono stressato. Ho ansia. Le rispondo che è stare male che mi mette stress. Che se stessi bene, starei benissimo. Lei risponde che – no – è proprio l'ansia e lo stress. E chiusa lì. A casa mi siedo, mi concentro e cerco di non essere stressato. Chiudo gli occhi. “Non devi essere stressato, Venerandi” mi dico. “Basta con queste ansie” aggiungo. Riapro gli occhi. Sto ancora male.

Parlando con i colleghi scopro che un sacco di gente, anche loro sono stressati. Che anche loro stanno male. Pieno. Inizio a pensare che sia una malattia professionale. Non parlo della docenza, che è effettivamente stressante, quanto essere qua, nel duemilaventiquattro, in questo sistema paranoico. Questo occidente paranoico, ricco e povero nello stesso tempo, che pensa alla realtà virtuale e guarda di quanti centesimi è aumentato l'olio d'oliva, che condivide le foto dell'ultimo portatile Apple e va dai genitori per chiedere i soldi per l'anticipo iva di fine anno. Che parla di comunicazione online e passa la sera a piangere e betsemmiare dopo l'ennesima litigata furiosa con la propria madre. Che come me spera di reggere fino alle vacanze di natale per avere finalmente un po' di tempo per stare male senza danneggiare la programmazione, la produzione.

Ho iniziato ad ascoltare un gruppo post-punk che si chiama Laguna Bollente, o qualcosa di simile. Hanno fatto due ep, li ho scoperti per caso su bandcamp. Probabilmente assomigliano a qualcuno di più importante che non conosco, ma l'ignoranza per una volta mi salva. Non posso postare i testi su Facebook perché ci sono diverse bestemmie e parole che hanno a che fare con umori corporali, e sono i momenti migliori btw. Un frammento che mi ha fatto decidere l'acquisto è un brano di quando parlano del fascismo nell'agire quotidiano, ed escono con un “'questo è mio' e ti rubo gli orociock”, che mi ha conquistato.

Un pensiero che ho è che in realtà non sto male per lo stress, ma per una malattia mortale che nessuno ha visto e che quando emergerà sarà troppo tardi. Ma è un pensiero che mi serve a poco. Diversamente dalle storielle che girano su Facebook dove ci sono grandi riscatti sociali e rivincite di chi era stato ingiustamente vessato, nel mondo reale difficilmente otterremo delle scuse da parte di chi ha sbagliato. Quando alla fine tirassero le fila delle grandi discussioni della rete, vaccinisti e antivaccinisti, pro nucleare e contro, pro motore elettrico e pro motore termico, pro immigrazione e controimmigrazione, se alla fine emergesse dagli oceani un grande delfino dorato, altezza almeno trenta chilometri, e dal suo ventre uscisse una voce che dice “ecco, adesso vi do i risultati” e poi snocciolasse chi aveva torto e chi aveva ragione, ecco, anche in un caso così plateale, chi aveva torto non chiederà mai scusa. Perché non ci sono delfini dorati e perché essere ingiusti e avere paura e ferire chi ti sta attorno è nella natura umana. Perché dovrebbero chiedere scusa, e di cosa.

Non c'è giustizia terrestre, se non in filamenti fragilissimi, figuriamoci quella immaginaria dell'ultramondo. L'ingiustizia è uno degli alimenti terrestri, che va masticato e addentato. E ingoiato. E rivomitato per terra e calpestato.