cosechehoscritto

[diario dalla strada]

In pratica non sto bene, quest'anno lo vivo all'insegna dello non stare bene, l'ultima cosa che mi è venuta è un male alla schiena costante con fitte che vanno e vengono, stiamo indagando, probabilmente, come dice la mia medico “un'ernietta”, fatto sta che sto passando questi giorni di festa nel letto a digrignare i denti, mangiare pastiglie e pensare al futuro.

Comunque, oggi decido che male alla schiena o non male alla schiena devo fare una passeggiata e esco e prima di uscire ho in mente una canzone di Suzanne Vega che non ho in digitale, la faccio breve, mi scarico da Bandcamp un suo live di qualche anno fa che non avevo mai sentito, mi metto le cuffie e esco.

Faccio i primi passi e partono le chitarre di Marlene On The Wall e per un attimo mi sento come Maxine all'inizio di Life Is Strange, quando cammina per i corridoi della scuola e – niente – effetto madelaine mi sento per un attimo catapultato all'indietro di dieci, venti, trenta, quaranta anni.

Ho nella mia memoria alcuni ricordi precisi di io in giro per il mondo che ascolto la musica con le cuffie: io negli anni ottanta con un walkman scabeccio che ascolto, la sera in piazza Manin, Night Vision, io sempre anni ottanta che cammino con il cane a Sant'Olcese la sera e sento un disco dei Pink Floyd dove a un certo punto c'è un campionamento di una macchina che passa e io – solo in mezzo alla strada – faccio un salto a lato, terrorizzato; io che qualche anno dopo aspetto qualcuno alla stazione di La Spezia durante il servizio civile, ascoltando dal lettore cd portatile Buddha Of Suburbia, io che ascolto qualche anno dopo Rave Un2 The Joy Fantastic e mi si rompono le orecchie.

La mia rottura delle orecchie l'ho già raccontata, acufeni e iperacusia che ormai mi accompagnano da un ventennio. Quando non ci sono rumori in casa io ho nelle orecchie un fischio continuo 24/24, ho imparato a non farci caso, se ci faccio caso dopo un po' impazzisco perché è un fruscio sibilante che non si ferma mai e che diventa più intenso quando sono più stanco e più affranto.

Questo non mi ha impedito di ascoltare ancora musica, meno bene di prima, con più difficoltà e soprattutto le cuffie le uso rarissimamente, non solo perché me le fregano sempre i figli, ma perché se ascolto musica con le cuffie per più di una mezzoretta poi i fruscii sono decuplicati e divento ipersensibile a qualsiasi rumore.

Ma ogni tanto, appunto, cedo e accetto il rischio e le conseguenze.

E quindi mi faccio questa passeggiata camminando e ascoltando questo concerto di Suzanne Vega che mi fa sbrodolare, pura nostalgia e riemergere e penso che quello che sto provando non è tanto ascoltare le canzoni di Suzanne Vega, ma un ricollocamento temporale di me nel 2024 rispetto a tutto il tempo che è passato da quando quelle canzoni le ho sentite per la prima volta, la massa di tempo che ho vissuto e mi sono mosso e sono cambiato e che viene relazionata a quel ragazzino nel millenovecentoottantaqualcosa e quest'uomo, con la schiena a pezzi e i giramenti di testa e il piede guasto e le cartillagini dei ginocchio consumate che cammina e ancora ridacchia da solo pensando le cose così.

E tutto questo per nemmeno 15 euro, penso, non male. Penso a Suzanne Vega, a quella volta – irreale – che l'ho vista a Genova suonare al Porto Antico dove d'inverno c'è la pista di pattinaggio, al fatto che ho iniziato ad ascoltarla solo perché piaceva a un mio compagno del D'Oria e poi ho continuato a seguire tutti i suoi dischi per decenni senza sapere bene perché visto che non ho mai tradotto davvero tutte le sue canzoni, e alla fine penso che alla Vega, in quarant'anni le avrò dato in tutto un centinaio di euro, concerto non compreso, e penso che beh, ne è valsa la pena. Tutto questo per avere ancora un ricordo di me che cammino, una sera, e penso alle volte che sono stato nello stesso stato d'animo, così solitario e pieno.

Finisco la mia passeggiata mentre parte l'ultima canzone, sembra fatto apposta e mentre scorrono le ultime note il cellulare vibra e mi dice che sto ascoltando le cuffie da un po' troppo tempo, che sarebbe bene toglierle. Dico al cellulare che ok, aspetto che finisca la canzone e poi spengo e rido da solo, nella via desolata attorno a casa mia e intanto è notte, è dicembre, e tra poco sarò a casa.

Sono con il portatile linux in pizzeria che aspetto le pizze e scrivo e ascolto quello che sento e trascrivo. C'è animazione in ogni cosa, le luci elettriche danno una dimensione a questa serata di dicembre che ha tutta l'artificialità umana. Mi chiedo cosa succederebbe se si staccasse l'elettrico, ora. Una vallata nera, scossa da un vento gelido. I pilastri di cemento immersi nella terra. Le tane intonacate, piastrellate in gres. La gente chiusa in casa, avvolta nelle coperte, abbracciata per sentire meno il gelo che arriva da fuori. I ragazzi della pizzeria prendono in giro la ragazza che lavora con loro. Le dicono che non c'è mai. Che è stata assente per un sacco di tempo. Che non aveva voglia di lavorare. La ragazza risponde a tono, poi ridendo dice, guardate che io dovevo laurearmi! Non dovrei nemmeno essere qua, dovrei essere a lavorare da un'altra parte. Io sto lì, come un lurker della vita e trascrivo tutto. “Scusi ma dovrei prendere il casco” mi dice a un certo punto il portapizze e io dico, ci mancherebbe, e prendo il mio portatile e mi sposto.

Di notte apro gli occhi, sono le quattro. Ho un mal di testa che mi picchia dentro e un fischio. Non sono i soliti acufeni, è proprio un fischio continuo. Resto immobile sotto le coperte come un animale ferito. Prendere appunti, penso. Mi verrà utile quando parlerò di un personaggio che soffre. Molte lettere se premute con il tasto control creano caratteri invisibili all'occhio. Una vita che prendo appunti per quello che potrebbe succedere ai miei personaggi e invece queste cose succedono a me. Ad un certo punto arriverò alla fine e io coinciderò con il personaggio. Sentirò davvero male come lo si sentono nei romanzi o nelle fiction tv, in maniera ragionevole.

O smetterò di prendere appunti.

La mia medico dice che le analisi vanno bene e che probabilmente è lo stress. Sto male perché sono stressato. Ho ansia. Le rispondo che è stare male che mi mette stress. Che se stessi bene, starei benissimo. Lei risponde che – no – è proprio l'ansia e lo stress. E chiusa lì. A casa mi siedo, mi concentro e cerco di non essere stressato. Chiudo gli occhi. “Non devi essere stressato, Venerandi” mi dico. “Basta con queste ansie” aggiungo. Riapro gli occhi. Sto ancora male.

Parlando con i colleghi scopro che un sacco di gente, anche loro sono stressati. Che anche loro stanno male. Pieno. Inizio a pensare che sia una malattia professionale. Non parlo della docenza, che è effettivamente stressante, quanto essere qua, nel duemilaventiquattro, in questo sistema paranoico. Questo occidente paranoico, ricco e povero nello stesso tempo, che pensa alla realtà virtuale e guarda di quanti centesimi è aumentato l'olio d'oliva, che condivide le foto dell'ultimo portatile Apple e va dai genitori per chiedere i soldi per l'anticipo iva di fine anno. Che parla di comunicazione online e passa la sera a piangere e betsemmiare dopo l'ennesima litigata furiosa con la propria madre. Che come me spera di reggere fino alle vacanze di natale per avere finalmente un po' di tempo per stare male senza danneggiare la programmazione, la produzione.

Ho iniziato ad ascoltare un gruppo post-punk che si chiama Laguna Bollente, o qualcosa di simile. Hanno fatto due ep, li ho scoperti per caso su bandcamp. Probabilmente assomigliano a qualcuno di più importante che non conosco, ma l'ignoranza per una volta mi salva. Non posso postare i testi su Facebook perché ci sono diverse bestemmie e parole che hanno a che fare con umori corporali, e sono i momenti migliori btw. Un frammento che mi ha fatto decidere l'acquisto è un brano di quando parlano del fascismo nell'agire quotidiano, ed escono con un “'questo è mio' e ti rubo gli orociock”, che mi ha conquistato.

Un pensiero che ho è che in realtà non sto male per lo stress, ma per una malattia mortale che nessuno ha visto e che quando emergerà sarà troppo tardi. Ma è un pensiero che mi serve a poco. Diversamente dalle storielle che girano su Facebook dove ci sono grandi riscatti sociali e rivincite di chi era stato ingiustamente vessato, nel mondo reale difficilmente otterremo delle scuse da parte di chi ha sbagliato. Quando alla fine tirassero le fila delle grandi discussioni della rete, vaccinisti e antivaccinisti, pro nucleare e contro, pro motore elettrico e pro motore termico, pro immigrazione e controimmigrazione, se alla fine emergesse dagli oceani un grande delfino dorato, altezza almeno trenta chilometri, e dal suo ventre uscisse una voce che dice “ecco, adesso vi do i risultati” e poi snocciolasse chi aveva torto e chi aveva ragione, ecco, anche in un caso così plateale, chi aveva torto non chiederà mai scusa. Perché non ci sono delfini dorati e perché essere ingiusti e avere paura e ferire chi ti sta attorno è nella natura umana. Perché dovrebbero chiedere scusa, e di cosa.

Non c'è giustizia terrestre, se non in filamenti fragilissimi, figuriamoci quella immaginaria dell'ultramondo. L'ingiustizia è uno degli alimenti terrestri, che va masticato e addentato. E ingoiato. E rivomitato per terra e calpestato.

Sto continuando a leggere Tomorrow and Tomorrow and Tomorrow con sentimenti misti. Storia d'amore, alcuni momenti brillanti, di nuovo sdoganato l'universo nerd, qua presentato nel suo processo fico e produttivo (almeno fin dove sono arrivato). Eppure, di nuovo, questi racconti del mondo dei videogiochi continuano a non convincermi, forse perché è un mondo che ho attraversato e raccontato anche io in libro.

Troppa rimozione, troppe cose giuste al posto giusto, riferimenti sempre azzeccati. Tutto troppo pulito e perfetto, sembra una serie Netflix. Come se questi ragazzi vivessero solo di scuola, amore e videogiochi. Dov'è tutto il resto?

***

Sono qua che leggo ancora Tomorrow, and tomorrow and tomorrow e – per essere un romanzo che non mi piace – non è male. Sono a un terzo, proseguo, ma senza ansie. La vicenda racconta una storia d'amore nel mondo dei programmatori di videogame, il che lo rende piuttosto atipico. Mi disturba, l'ho già detto, che i riferimenti culturali siano sempre quelli giusti, sia eliminato il rumore di fondo della vita reale, rendendolo in alcuni punti una specie di bigino uso fiction tv.

Tipo, stamattina la protagonista metteva a posto i cd della sua collezione di giochi per PC: Commander Keen, Myst, Doom, Diablo, Final Fantasy, Metal Gear Solid, Leisure Suit Larry, The Colonel's Bequest, Ultima, Warcraft, Monkey Island, The Oregon Trail e, dice, “una trentina di altri”. E io leggo la lista e mi irrito perché sono tutte strizzate d'occhio al lettore. Dove sono gli altri? Dove sono i mezzi giochi, le boiate, i lavori di passaggio? Perché fare passare l'idea che esistano solo i capolavori nella vita di una persona e che uno sappia riconoscerli e tenerli con sé con tanta facilità?

È tutto così telefonato da essere irrealistico.

***

Continuando però peggiora. I personaggi cambiano in maniera un po' casuale. Manca uno svolgimento omogeneo della storia, tutto procede con un'andatura che trovo piuttosto confusa.

***

A un anno dalla lettura, non ricordo quasi niente della trama e non ho nessun ricordo dello stile.

C'è questa cosa che non sopporto dei videogiochi che potrei chiamare la sciatteria della verosimiglianza o – come direbbero i miei figli che pensano in inglese e poi traducono in italiano – la mancanza di “consistenza” nella narrazione ludica.

Il tipico esempio è Tomb Raider, qualche decennio fa ero Lara Croft, mi tuffo in una piscina e scopro che sul fondo c'è un passaggio che mi porta – in apnea – in una stanza segreta sotterranea dove c'è un kit di pronto soccorso.

E io resto lì a pensare, ma chi è che si è tuffato, è andato sul fondo della piscina, ha fatto tutto il percorso in apnea, è arrivato in questa stanza segreta, opera – immagino – di un architetto con vuoti di memoria – ha lasciato qua un kit di pronto soccorso, perché non si sa mai, e poi si è rituffato e in apena ha fatto il percorso opposto? Perché.

E soprattutto: perché lo vedo se sono nel sottosuolo senza illuminazione?

Sempre come Lara Croft, a Venezia, ero saltata su un lampadario, da lì ero riuscita a raggiugere un soppalco irraggiungibile pieno di casse ed ecco, dietro questa montaga di casse, un cattivo che inizia a sparami con degli uzi.

Il soppalco è irragiungibile se non saltando sul lampadario, quindi io – Lara – cerco di capire la psicologia di questo maschio alfa che salta sul lampadario, accede al soppalco, si nasconde dietro al mucchio di casse e resta lì ad asapettare con gli uzi in mano. Perché prima o poi qualcuno passerà, no? Anni, immagino.

I vieogiochi ne sono pieni. Anche Sable, che è molto più raffinato nelle sue meccaniche, ci cade. Oggi ero all'interno di una astronave che si è schiantata sul suolo del pianeta che sto esplorando e ci sono dei generatori di energia che – se ben posizionati – attivano degli enormi stantuffi. Salendo su questi stantuffi io vengo “sparata” verso il soffitto e posso accedere a piattaforme altrimenti non accessibili perché non ci sono scale.

Perché non ci sono scale.

Perché? Dove sono le scale? Perché degli esseri umani dovrebbero usare, al posto delle scale, degli enormi stantuffi meccanici, costosissimi in termini energetici, che mi sparano verso il soffitto con il rischio di spaccarmi qualche osso del collo?

Perché sotto sotto il videogioco per molti giocatori “è solo un gioco” e per tenere alta la giocabilità gli sviluppatori tengono in vita dei relitti ludici “inconsistenti” perché il grosso del pubblico a queste cose non ci fa nemmeno caso e – a livello di sviluppo – questi kit, queste secret, quest mob messi dove serve in termini di giocabilità ma non di verosimiglianza, queste monete che si trovano nel mezzo delle esplorazioni, questi meccanismi che per attivarli serve spostare logicamente una serie di oggetti che sono esattamente quello che abbiamo attorno a noi, ecco tutta questa roba è più facile da implementare. E è pure facilmente riconoscibile.

È il junk food dei videogame.

La settimana scorsa a Genova c'è stato il derby, una partita di calcio tra le due squadre di calcio locali. Lo stadio di Genova è felicemente annegato nel cuore della città, con il culo proprio sotto le alture franose di Marassi alta e la pancia sul greto esondante del Bisagno.

Quando a Marassi c'è la partita, qualunque partita, un pezzo della città viene – nel migliore dei casi – messo sotto sequestro. Auto posteggiate rimosse, supermercati che non possono vendere cose con cui i tifosi potrebbero farsi del male, massa di gente che cammina per strada, arterie chiuse, eccetera.

Con il derby è semplicemente peggio. Questi cosplayer della guerriglia da settimane si preparano allo scontro in piazza. Lo sa la polizia, lo sanno i negozianti, tutto viene serrato e si dà modo di sfogarsi.

“Fabrizio – mi dice mia madre – eravamo uscite con le amiche per festeggiare il compleanno di una nostra conoscente, entriamo, ci sediamo e dopo un po' ci dicono che ce ne dobbiamo andare. Chiudono tutto, c'è la gente che si mena. Per strada non sappiamo dove andare, sentiamo in lontananza il rumore come di esplosioni. E torniamo a casa in mezzo a questi qua, ma tu dovevi vederli Fabrizio. Tutti ubriachi. Gente sdraiata per terra con delle spranghe di ferro. Mi chiama mia sorella che stava tornando a casa e la polizia l'ha fermata. Strada chiusa. Non l'hanno fatta manco tornare a casa. Non sa dove andare. E io guardavo questi ragazzi e pensavo, ma le loro madri lo sapranno in che stato sono i loro figli?”

E io sorrido amaro e le dico, guarda mamma, facile che le madri siano lì in mezzo. Mia madre scuote la testa, è impossibile. E le racconto allora di quando, poco tempo fa vedo dei bambini vestiti con i colori della squadra del cuore che passano con le loro madri e i bambini iniziano a dire le peggio cose, roba violenta e grossa verso la squadra avversaria. E le madri, dietro, che si guardano e ridono ammiccando.

“Ma questa – dice mia madre – è gente che del calcio non gliene frega niente. Non la vedono nemmeno la partita”. La guardo, in mezzo, le rispondo, c'è gente per cui la squadra di calcio è una fede. Una fede, non scherzo. Gente che ti dice che loro padre era tifoso, loro sono tifosi e stanno addestrando i figli a essere come loro. Una fede parallela a quella, morente, cattolica, ma con molta più energia e con una messa domenicale oggettivamente più coinvolgente.

In più, dentro, ci sono dei bei gruppi fascisti, di quel fascismo da Uniposca nero. L'altro giorno salivo sulle alture dietro Marassi e vedevo le mura di contenimento in cemento armato che tengono su gli infelici quartieri popolari costruiti il secolo scorso. Avevano dipinto tutte le mura con i colori della squadra del cuore, i guerriglieri, con tanto di logo, solo che a un certo punto i colori della squadra sparivano e il logo appariva ancora, ma questa volta su un lungo fondo uniforme, nero, una decina di metri di mura di contenimento dipinte di nero e tutto assumeva un significato politico più chiaro.

“E capisci, io poi dovrei dare i sei, i cinque di condotta a questi ragazzi che vedono ogni settimana lo stato civile messo in disparte, i cassonetti bruciati, la digos per strada, gli elicotteri che ancora a mezzanotte girano sopra di noi. Perché questa farsa continua a fare comodo. Meglio la fede nel calcio che – chessò – incazzarsi perché non siamo felici, perché c'è chi sta troppo meglio di noi” dico e poi mi fermo perché sto ripetendo delle cazzate, dei luoghi comuni, veri, ma inutili.

mentre sono qua che penso a come potrei chiedere scusa ai miei figli per avere sostituito la polveriera balcanica con quella israelo-palestinese e per aver permesso guerre sanguinarie nel golfo e missili europei in terra russa, nel caso tutto vada in merda, c'è gente che è pagata per fotografare una ragazza chiusa in auto, che si copre il volto, ragazza che ha sepolto i cadaveri dei suoi due neonati nel giardino di casa e penso che da questa barbarie non usciremo mai

la barbarie è la fame dei nostri occhi, che masticano tanto quelle poche parole che restano incastrate da qualche parte dentro di noi, tanto il junk food della comunicazione e dell'informazione, c'è poco da fare, la dieta occidentale prevede entrambe le cose – tanto poi vomiteremo tutto

sono invecchiato cinquantaquattro anni per essere qua seduto con un calice in mano che scrivo, sbagliando, con una tastiera meccanica e ascolto del pop francese uscito oggi di cui non capisco una parola e ho frammenti di me e dei miei figli sparsi per tutta la casa e fuori per il mondo, ho due genitori nascosti nel loro piccolo appartamento che mi sorridono ancora ogni volta che mi vedono, mi offrono dolci e acqua tonica e io li tratto come se fossero immortali, non so se sia la cosa giusta, come se avessimo davanti ancora tutto il tempo del mondo

se so che il mondo è una mezza schifezza, e lo è indubbiamente, mi salva l'altra metà, la meraviglia di questo sforzo improbabile, l'erezione tutta scoordinata di questo muscolo gonfio dove dentro c'è la speranza, il sogno, la gloria, la protezione e l'empatia, quella animale e quella non, quella ragionata e razionale, la più cattiva e necessaria però

stanotte ho sognato che non ero amato, che venivo lasciato così sul letto come un ravatto qualsiasi e mi alzavo allora, dicevo, ravatto per ravatto mi metto a fare qualcosa, che pena

e che energia quella di essere comunque, dopo il desiderio, una volta finita tutta l'energia essere lì in ogni caso e quindi muoversi ancora e fare cose, dare identità a quello che si è e che si sta facendo, che energia incomprensibile è quella che ci muove ogni giorno a fare

le nostre piccole cose, i piccoli rapimenti, i graffi sulla pelle dei vicini, i segni dei morsi sui figli, le impronte sudate delle mani sui muri a cui si siamo appoggiati per un attimo, nel corridoio centrale, per riprendere fiato, ricaricare l'energia

Dopo qualche ora che siamo in spiaggia vado da mia madre e le dico, ok io faccio una passeggiata, lei annuisce, mi dà qualche raccomandazione sui posti dove non dovrei andare e dove dovrei invece andare mentre io mi metto la t-shirt e i pantaloncini e le ciabatte e la saluto e a passi lenti mi dirigo verso il budello in modo da abbandonare la spiaggia, i miei piedi sprofondano nella sabbia bollente, protetti appena dalla plastica delle ciabatte comprate alla STANDA.

A passi lenti e pensosi lascio il calore estivo della spiaggia, sento l'odore della mia pelle mescolato al mio odore di sudato mescolato agli strati di creme solari sotto alle quali – ancora – batte il mio cuore ragazzino. Torno in strada e mi dirigo verso Pietra Ligure.

Non ho alcun interesse ad andare a Pietra Ligure, nulla mi aspetta là. Da Borgio Verezzi a Pietra Ligure ci sono due o tre chilometri e questi chilometri sono occupati da una successione ininterrotta di stabilimenti balneari, gelaterie, bar, e in ognuno di questi posti, in ogni singolo esercente aperto per il pubblico – in questi magici anni ottanta che sto attraversando – c'è un videogioco. Almeno uno. La passeggiata tra Borgio e Pietra non è una vera passeggiata, è una completa mappatura di tutti i videogiochi presenti, a volte dentro al bar, a volte tenuti esternamente in grossi container di metallo verde, lunghi, a forma di parallelepipedo.

Di notte il parallelepipedo di metallo verde è chiuso e incatenato, di giorno viene aperto, viene liberata la quarta parete e noi ragazzini possiamo avvicinarci e toccarli. Se il tipo del bar si è dimenticato di accendere i giochi ci pensiamo noi, quasi tutti i cabinati hanno l'interruttore sul tetto, in alto a destra, e l'interruttore è di metallo, fatto a forma di bastoncino. Quando scatta si sente il rumore dell'elettronica e poi appaiono sullo schermo scritte strane, simboli, segnali che le ROM sono state caricate. E noi siamo lì a vedere tutto questo, a immaginare e a sognare. Io ne ho bisogno.

Io cammino in questa via crucis da Borgio a Pietra e poi da Pietra a Borgio passando – al ritorno – per la grossa via interna che – anche quella – è carica di locali, bar e quindi di videogiochi e mi segno mentalmente i videogiochi che ci sono. Alcuni sono giochi che conosco, a cui ho già giocato in città, ma altre volte trovo rarità introvabili, giochi di cui avevo solo sentito parlare o di cui avevo visto qualche povero porting per home computer. Kangaroo, Lady Bug, Out Run, Pengo, Rally X, Mr. Do.

Passeggiando da Borgio a Pietra entro in questa enorme biblioteca di gaming digitale, mi butto nel colori elettrici, guardo gli altri ragazzini che giocano, che sognano. Esco da Borgio, esco dalla Liguria, dall'Italia. Sono a contatto con un immaginario fantastico che mi trasporta lontanissimo, mi fa sentire una voce e un linguaggio nuovo che nemmeno gli spacciatori di quei videogame capiscono, i baristi che guardano le duecento lire che entrano nel cabinato e non si rendono conto che – monetina dopo monetina – c'è una generazione che li sta abbandonando, c'è una generazione che sta imparando una nuova lingua, nuove forme di divertimento, nuove forme di comunicare e sfidarsi e loro – che alla sera raccolgono quella pentola di monetine pronte per reificarli – ne sono tagliati inesorabilmente fuori.

[da “pécmèn”, Blonk editore, 2020]

ieri notte ero sul divano che cercavo di dormire, avevo problemi di sonno, comunque sentivo i rumori che fanno i gas nel frigorifero e ho pensato che i suoni dell'inizio dell'universo io me li immagino come questi del frigorifero di notte, di giorno magari non ci fai caso, ma di notte nel cuore della notte senti questi suoni improvvisi, chimici, ancestrali, oscuri

e mi sono immaginato, lì nel buio della cucina/salotto, che in ogni frigorifero fosse nascosto un universo che nasce nel momento che infiliamo la spina del frigo e continua la sua esistenza finché il frigo non muore e lentamente inizia a dissolversi

così anche il nostro universo che si espande e poi non si contrarrà mai ma inizierà a guastarsi, parti di universo inizieranno a non essere più e poco a poco tutto si sfilaccerà, ci sarà qualche scintilla e poi tutto si spegnerà nel silenzio

a quel punto credere o non credere in dio o nella Ignis farà poca differenza

[dell'intelligenza umana&aliena]

Tu puoi dirmi è velleitario, è velleitario Venerandi ma la verità è che accanto a chi magari t'appaga, in maniera chiara e solare, c'è chi si mette lì e seguendo percorsi tutti suoi sembra fare tutto l'opposto di appagarti. Sto parlando di cose, di oggetti che nascono per comunicare come raccontare, mettere le cose in versi, in video o in musica.

C'è chi si mette lì e si vede che ha cuore d'appagarti e ci riesce anche bontà sua. E poi ci sono quelli che fanno la stessa cosa, ma sono alieni. Non sono in realtà alieni alieni: arrivano ad essere extraterrestri per percorsi che sono tutto meno che interstellari, ma a un certo punto hanno più interesse a parlare un linguaggio che altro che criptato. Altro che chiavi simmetriche o sbalestrate.

Gli altri – e il sottoscritto Venerandi un po' s'illude di esserci anche dentro diciamocelo – gli altri sembra che non stiano facendo le loro cose per te, per appagare te, ma sembra che stiano facendo la loro cosa per un essere altro, un altro alienazzo come loro sembrano a te. Un alienazzo che però non esiste in carne e spirito: è più un'idea di alieno sceso in terra che parla un linguaggio che non è umano.

Prendere il linguaggio umano, prendere le consuetudini che ci rendono questo linguaggio intellegibile e anche un po' affettivo, e farle a fette prescindendole, anzi niente fette, proprio bypassarle. Prendere come presupposto che il linguaggio abbia una sua forma a prescindere da fatto che sia nato per comunicare roba.

E allora titillarlo per vedere se comunica ancora e se comunica ancora cosa comunica e quella cosa che comunica ancora come è che comunica se noi non stiamo comunicando quanto guardando le cose che comunicano cosa dicono e fino dove possono dire e poi non dire.

Quella cosa – che può sembrare velleitaria – è la ragione d'essere della comunicazione, cioè smettere di comunicare eppure continuare a dire cose ma non sapere esattamente cosa sia quel rumore, tu che le vedi e che le ascolti, mentre io che le metto assieme e le guardo seguendo i miei ragionamenti tutti terrestri ma che tengono in caro conto le stelle, mi nutro di quello che vedo, che sento, che si muove e le creo con quello che ho tra le mani.

oggi ero in moto e pensavo che sono un ateo materialista con una visione del mondo meccanicistica con una spruzzata di scientismo e pessimismo cosmico e ci sto proprio bene

e ho accelerato sorridendo con il mio scooter elettrico nel mezzo di via Piacenza, piena di auto e di gente, case popolari e pensavo guarda l'uomo, che curiosa efflorescenza del mondo è venuta fuori

alberi, natura, umidità, lampi nella notte e questo qua ora gira con un casco rosa, corre frenetico mosso dal capitale, fa lampeggiare microcircuiti e correre l'elettricità a migliaia di chilometri per scorrere via il porno e minare soldi

eppure tutto questo è solo quello che abbiamo, la contemporaneità, un albume fragilissimo e morbido che non dura niente, cari

mia madre oggi mi chiedeva a pranzo, ma tu venerandi non balbetti più? e io la guardavo e le rispondevo, certo che balbetto, cosa ti credi?

brutto a dirsi ma in queste sere in cui sono solo in cucina, con mio figlio davanti che mangia e guarda lo smartphone, la cagna che mangia rumorosa, la gatta che miagola impazzita in calore, io sono qua e penso che il reale è lì e non mi sopravviverà

ecco, ora mi ricordo, sullo scooter ho pensato: peccato che da morto non potrò più sentire i nuovi dischi di Prince, questo è davvero un rammarico

ho immaginato un mondo dove un motore immobile genera musica partendo dalla musica presistente e questa musica si distrugge nel momento in cui qualcuno l'ascolta

non potere più riascoltare una canzone ma solo nuove generazioni da canoni che si nutrono delle loro stesse invenzioni

suzie q. mi chiede come mi viene in mente certa roba e ci mette un sacco di smile e io le dico che è nella mia natura e sono curioso di vedere cosa succede, come va a finire

oggi ho raccontato a terzogenita di quando una volta ho spezzato il cuore a una ragazza, migliaia di anni fa, le ho spiegato che da ragazzino ero molto immaturo e spaventato e mia figlia non ha detto niente, ha continuato a guardare oltre il vetro del parabrezza

ma quello che non le ho detto è che ero immaturo e spaventato, vero, ma non tanto diverso da come lo sono adesso

a saggiare il vaso con l'unghia sotto la carne si trovano gli stessi guerrieri che ci accompagnavano nelle notti preadolescenzali, gli stessi tamburi e la voglia di distruggere e essere annientati