cosechehoscritto

Sto continuando a leggere Tomorrow and Tomorrow and Tomorrow con sentimenti misti. Storia d'amore, alcuni momenti brillanti, di nuovo sdoganato l'universo nerd, qua presentato nel suo processo fico e produttivo (almeno fin dove sono arrivato). Eppure, di nuovo, questi racconti del mondo dei videogiochi continuano a non convincermi, forse perché è un mondo che ho attraversato e raccontato anche io in libro.

Troppa rimozione, troppe cose giuste al posto giusto, riferimenti sempre azzeccati. Tutto troppo pulito e perfetto, sembra una serie Netflix. Come se questi ragazzi vivessero solo di scuola, amore e videogiochi. Dov'è tutto il resto?

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Sono qua che leggo ancora Tomorrow, and tomorrow and tomorrow e – per essere un romanzo che non mi piace – non è male. Sono a un terzo, proseguo, ma senza ansie. La vicenda racconta una storia d'amore nel mondo dei programmatori di videogame, il che lo rende piuttosto atipico. Mi disturba, l'ho già detto, che i riferimenti culturali siano sempre quelli giusti, sia eliminato il rumore di fondo della vita reale, rendendolo in alcuni punti una specie di bigino uso fiction tv.

Tipo, stamattina la protagonista metteva a posto i cd della sua collezione di giochi per PC: Commander Keen, Myst, Doom, Diablo, Final Fantasy, Metal Gear Solid, Leisure Suit Larry, The Colonel's Bequest, Ultima, Warcraft, Monkey Island, The Oregon Trail e, dice, “una trentina di altri”. E io leggo la lista e mi irrito perché sono tutte strizzate d'occhio al lettore. Dove sono gli altri? Dove sono i mezzi giochi, le boiate, i lavori di passaggio? Perché fare passare l'idea che esistano solo i capolavori nella vita di una persona e che uno sappia riconoscerli e tenerli con sé con tanta facilità?

È tutto così telefonato da essere irrealistico.

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Continuando però peggiora. I personaggi cambiano in maniera un po' casuale. Manca uno svolgimento omogeneo della storia, tutto procede con un'andatura che trovo piuttosto confusa.

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A un anno dalla lettura, non ricordo quasi niente della trama e non ho nessun ricordo dello stile.

C'è questa cosa che non sopporto dei videogiochi che potrei chiamare la sciatteria della verosimiglianza o – come direbbero i miei figli che pensano in inglese e poi traducono in italiano – la mancanza di “consistenza” nella narrazione ludica.

Il tipico esempio è Tomb Raider, qualche decennio fa ero Lara Croft, mi tuffo in una piscina e scopro che sul fondo c'è un passaggio che mi porta – in apnea – in una stanza segreta sotterranea dove c'è un kit di pronto soccorso.

E io resto lì a pensare, ma chi è che si è tuffato, è andato sul fondo della piscina, ha fatto tutto il percorso in apnea, è arrivato in questa stanza segreta, opera – immagino – di un architetto con vuoti di memoria – ha lasciato qua un kit di pronto soccorso, perché non si sa mai, e poi si è rituffato e in apena ha fatto il percorso opposto? Perché.

E soprattutto: perché lo vedo se sono nel sottosuolo senza illuminazione?

Sempre come Lara Croft, a Venezia, ero saltata su un lampadario, da lì ero riuscita a raggiugere un soppalco irraggiungibile pieno di casse ed ecco, dietro questa montaga di casse, un cattivo che inizia a sparami con degli uzi.

Il soppalco è irragiungibile se non saltando sul lampadario, quindi io – Lara – cerco di capire la psicologia di questo maschio alfa che salta sul lampadario, accede al soppalco, si nasconde dietro al mucchio di casse e resta lì ad asapettare con gli uzi in mano. Perché prima o poi qualcuno passerà, no? Anni, immagino.

I vieogiochi ne sono pieni. Anche Sable, che è molto più raffinato nelle sue meccaniche, ci cade. Oggi ero all'interno di una astronave che si è schiantata sul suolo del pianeta che sto esplorando e ci sono dei generatori di energia che – se ben posizionati – attivano degli enormi stantuffi. Salendo su questi stantuffi io vengo “sparata” verso il soffitto e posso accedere a piattaforme altrimenti non accessibili perché non ci sono scale.

Perché non ci sono scale.

Perché? Dove sono le scale? Perché degli esseri umani dovrebbero usare, al posto delle scale, degli enormi stantuffi meccanici, costosissimi in termini energetici, che mi sparano verso il soffitto con il rischio di spaccarmi qualche osso del collo?

Perché sotto sotto il videogioco per molti giocatori “è solo un gioco” e per tenere alta la giocabilità gli sviluppatori tengono in vita dei relitti ludici “inconsistenti” perché il grosso del pubblico a queste cose non ci fa nemmeno caso e – a livello di sviluppo – questi kit, queste secret, quest mob messi dove serve in termini di giocabilità ma non di verosimiglianza, queste monete che si trovano nel mezzo delle esplorazioni, questi meccanismi che per attivarli serve spostare logicamente una serie di oggetti che sono esattamente quello che abbiamo attorno a noi, ecco tutta questa roba è più facile da implementare. E è pure facilmente riconoscibile.

È il junk food dei videogame.

La settimana scorsa a Genova c'è stato il derby, una partita di calcio tra le due squadre di calcio locali. Lo stadio di Genova è felicemente annegato nel cuore della città, con il culo proprio sotto le alture franose di Marassi alta e la pancia sul greto esondante del Bisagno.

Quando a Marassi c'è la partita, qualunque partita, un pezzo della città viene – nel migliore dei casi – messo sotto sequestro. Auto posteggiate rimosse, supermercati che non possono vendere cose con cui i tifosi potrebbero farsi del male, massa di gente che cammina per strada, arterie chiuse, eccetera.

Con il derby è semplicemente peggio. Questi cosplayer della guerriglia da settimane si preparano allo scontro in piazza. Lo sa la polizia, lo sanno i negozianti, tutto viene serrato e si dà modo di sfogarsi.

“Fabrizio – mi dice mia madre – eravamo uscite con le amiche per festeggiare il compleanno di una nostra conoscente, entriamo, ci sediamo e dopo un po' ci dicono che ce ne dobbiamo andare. Chiudono tutto, c'è la gente che si mena. Per strada non sappiamo dove andare, sentiamo in lontananza il rumore come di esplosioni. E torniamo a casa in mezzo a questi qua, ma tu dovevi vederli Fabrizio. Tutti ubriachi. Gente sdraiata per terra con delle spranghe di ferro. Mi chiama mia sorella che stava tornando a casa e la polizia l'ha fermata. Strada chiusa. Non l'hanno fatta manco tornare a casa. Non sa dove andare. E io guardavo questi ragazzi e pensavo, ma le loro madri lo sapranno in che stato sono i loro figli?”

E io sorrido amaro e le dico, guarda mamma, facile che le madri siano lì in mezzo. Mia madre scuote la testa, è impossibile. E le racconto allora di quando, poco tempo fa vedo dei bambini vestiti con i colori della squadra del cuore che passano con le loro madri e i bambini iniziano a dire le peggio cose, roba violenta e grossa verso la squadra avversaria. E le madri, dietro, che si guardano e ridono ammiccando.

“Ma questa – dice mia madre – è gente che del calcio non gliene frega niente. Non la vedono nemmeno la partita”. La guardo, in mezzo, le rispondo, c'è gente per cui la squadra di calcio è una fede. Una fede, non scherzo. Gente che ti dice che loro padre era tifoso, loro sono tifosi e stanno addestrando i figli a essere come loro. Una fede parallela a quella, morente, cattolica, ma con molta più energia e con una messa domenicale oggettivamente più coinvolgente.

In più, dentro, ci sono dei bei gruppi fascisti, di quel fascismo da Uniposca nero. L'altro giorno salivo sulle alture dietro Marassi e vedevo le mura di contenimento in cemento armato che tengono su gli infelici quartieri popolari costruiti il secolo scorso. Avevano dipinto tutte le mura con i colori della squadra del cuore, i guerriglieri, con tanto di logo, solo che a un certo punto i colori della squadra sparivano e il logo appariva ancora, ma questa volta su un lungo fondo uniforme, nero, una decina di metri di mura di contenimento dipinte di nero e tutto assumeva un significato politico più chiaro.

“E capisci, io poi dovrei dare i sei, i cinque di condotta a questi ragazzi che vedono ogni settimana lo stato civile messo in disparte, i cassonetti bruciati, la digos per strada, gli elicotteri che ancora a mezzanotte girano sopra di noi. Perché questa farsa continua a fare comodo. Meglio la fede nel calcio che – chessò – incazzarsi perché non siamo felici, perché c'è chi sta troppo meglio di noi” dico e poi mi fermo perché sto ripetendo delle cazzate, dei luoghi comuni, veri, ma inutili.

mentre sono qua che penso a come potrei chiedere scusa ai miei figli per avere sostituito la polveriera balcanica con quella israelo-palestinese e per aver permesso guerre sanguinarie nel golfo e missili europei in terra russa, nel caso tutto vada in merda, c'è gente che è pagata per fotografare una ragazza chiusa in auto, che si copre il volto, ragazza che ha sepolto i cadaveri dei suoi due neonati nel giardino di casa e penso che da questa barbarie non usciremo mai

la barbarie è la fame dei nostri occhi, che masticano tanto quelle poche parole che restano incastrate da qualche parte dentro di noi, tanto il junk food della comunicazione e dell'informazione, c'è poco da fare, la dieta occidentale prevede entrambe le cose – tanto poi vomiteremo tutto

sono invecchiato cinquantaquattro anni per essere qua seduto con un calice in mano che scrivo, sbagliando, con una tastiera meccanica e ascolto del pop francese uscito oggi di cui non capisco una parola e ho frammenti di me e dei miei figli sparsi per tutta la casa e fuori per il mondo, ho due genitori nascosti nel loro piccolo appartamento che mi sorridono ancora ogni volta che mi vedono, mi offrono dolci e acqua tonica e io li tratto come se fossero immortali, non so se sia la cosa giusta, come se avessimo davanti ancora tutto il tempo del mondo

se so che il mondo è una mezza schifezza, e lo è indubbiamente, mi salva l'altra metà, la meraviglia di questo sforzo improbabile, l'erezione tutta scoordinata di questo muscolo gonfio dove dentro c'è la speranza, il sogno, la gloria, la protezione e l'empatia, quella animale e quella non, quella ragionata e razionale, la più cattiva e necessaria però

stanotte ho sognato che non ero amato, che venivo lasciato così sul letto come un ravatto qualsiasi e mi alzavo allora, dicevo, ravatto per ravatto mi metto a fare qualcosa, che pena

e che energia quella di essere comunque, dopo il desiderio, una volta finita tutta l'energia essere lì in ogni caso e quindi muoversi ancora e fare cose, dare identità a quello che si è e che si sta facendo, che energia incomprensibile è quella che ci muove ogni giorno a fare

le nostre piccole cose, i piccoli rapimenti, i graffi sulla pelle dei vicini, i segni dei morsi sui figli, le impronte sudate delle mani sui muri a cui si siamo appoggiati per un attimo, nel corridoio centrale, per riprendere fiato, ricaricare l'energia

Dopo qualche ora che siamo in spiaggia vado da mia madre e le dico, ok io faccio una passeggiata, lei annuisce, mi dà qualche raccomandazione sui posti dove non dovrei andare e dove dovrei invece andare mentre io mi metto la t-shirt e i pantaloncini e le ciabatte e la saluto e a passi lenti mi dirigo verso il budello in modo da abbandonare la spiaggia, i miei piedi sprofondano nella sabbia bollente, protetti appena dalla plastica delle ciabatte comprate alla STANDA.

A passi lenti e pensosi lascio il calore estivo della spiaggia, sento l'odore della mia pelle mescolato al mio odore di sudato mescolato agli strati di creme solari sotto alle quali – ancora – batte il mio cuore ragazzino. Torno in strada e mi dirigo verso Pietra Ligure.

Non ho alcun interesse ad andare a Pietra Ligure, nulla mi aspetta là. Da Borgio Verezzi a Pietra Ligure ci sono due o tre chilometri e questi chilometri sono occupati da una successione ininterrotta di stabilimenti balneari, gelaterie, bar, e in ognuno di questi posti, in ogni singolo esercente aperto per il pubblico – in questi magici anni ottanta che sto attraversando – c'è un videogioco. Almeno uno. La passeggiata tra Borgio e Pietra non è una vera passeggiata, è una completa mappatura di tutti i videogiochi presenti, a volte dentro al bar, a volte tenuti esternamente in grossi container di metallo verde, lunghi, a forma di parallelepipedo.

Di notte il parallelepipedo di metallo verde è chiuso e incatenato, di giorno viene aperto, viene liberata la quarta parete e noi ragazzini possiamo avvicinarci e toccarli. Se il tipo del bar si è dimenticato di accendere i giochi ci pensiamo noi, quasi tutti i cabinati hanno l'interruttore sul tetto, in alto a destra, e l'interruttore è di metallo, fatto a forma di bastoncino. Quando scatta si sente il rumore dell'elettronica e poi appaiono sullo schermo scritte strane, simboli, segnali che le ROM sono state caricate. E noi siamo lì a vedere tutto questo, a immaginare e a sognare. Io ne ho bisogno.

Io cammino in questa via crucis da Borgio a Pietra e poi da Pietra a Borgio passando – al ritorno – per la grossa via interna che – anche quella – è carica di locali, bar e quindi di videogiochi e mi segno mentalmente i videogiochi che ci sono. Alcuni sono giochi che conosco, a cui ho già giocato in città, ma altre volte trovo rarità introvabili, giochi di cui avevo solo sentito parlare o di cui avevo visto qualche povero porting per home computer. Kangaroo, Lady Bug, Out Run, Pengo, Rally X, Mr. Do.

Passeggiando da Borgio a Pietra entro in questa enorme biblioteca di gaming digitale, mi butto nel colori elettrici, guardo gli altri ragazzini che giocano, che sognano. Esco da Borgio, esco dalla Liguria, dall'Italia. Sono a contatto con un immaginario fantastico che mi trasporta lontanissimo, mi fa sentire una voce e un linguaggio nuovo che nemmeno gli spacciatori di quei videogame capiscono, i baristi che guardano le duecento lire che entrano nel cabinato e non si rendono conto che – monetina dopo monetina – c'è una generazione che li sta abbandonando, c'è una generazione che sta imparando una nuova lingua, nuove forme di divertimento, nuove forme di comunicare e sfidarsi e loro – che alla sera raccolgono quella pentola di monetine pronte per reificarli – ne sono tagliati inesorabilmente fuori.

[da “pécmèn”, Blonk editore, 2020]

ieri notte ero sul divano che cercavo di dormire, avevo problemi di sonno, comunque sentivo i rumori che fanno i gas nel frigorifero e ho pensato che i suoni dell'inizio dell'universo io me li immagino come questi del frigorifero di notte, di giorno magari non ci fai caso, ma di notte nel cuore della notte senti questi suoni improvvisi, chimici, ancestrali, oscuri

e mi sono immaginato, lì nel buio della cucina/salotto, che in ogni frigorifero fosse nascosto un universo che nasce nel momento che infiliamo la spina del frigo e continua la sua esistenza finché il frigo non muore e lentamente inizia a dissolversi

così anche il nostro universo che si espande e poi non si contrarrà mai ma inizierà a guastarsi, parti di universo inizieranno a non essere più e poco a poco tutto si sfilaccerà, ci sarà qualche scintilla e poi tutto si spegnerà nel silenzio

a quel punto credere o non credere in dio o nella Ignis farà poca differenza

[dell'intelligenza umana&aliena]

Tu puoi dirmi è velleitario, è velleitario Venerandi ma la verità è che accanto a chi magari t'appaga, in maniera chiara e solare, c'è chi si mette lì e seguendo percorsi tutti suoi sembra fare tutto l'opposto di appagarti. Sto parlando di cose, di oggetti che nascono per comunicare come raccontare, mettere le cose in versi, in video o in musica.

C'è chi si mette lì e si vede che ha cuore d'appagarti e ci riesce anche bontà sua. E poi ci sono quelli che fanno la stessa cosa, ma sono alieni. Non sono in realtà alieni alieni: arrivano ad essere extraterrestri per percorsi che sono tutto meno che interstellari, ma a un certo punto hanno più interesse a parlare un linguaggio che altro che criptato. Altro che chiavi simmetriche o sbalestrate.

Gli altri – e il sottoscritto Venerandi un po' s'illude di esserci anche dentro diciamocelo – gli altri sembra che non stiano facendo le loro cose per te, per appagare te, ma sembra che stiano facendo la loro cosa per un essere altro, un altro alienazzo come loro sembrano a te. Un alienazzo che però non esiste in carne e spirito: è più un'idea di alieno sceso in terra che parla un linguaggio che non è umano.

Prendere il linguaggio umano, prendere le consuetudini che ci rendono questo linguaggio intellegibile e anche un po' affettivo, e farle a fette prescindendole, anzi niente fette, proprio bypassarle. Prendere come presupposto che il linguaggio abbia una sua forma a prescindere da fatto che sia nato per comunicare roba.

E allora titillarlo per vedere se comunica ancora e se comunica ancora cosa comunica e quella cosa che comunica ancora come è che comunica se noi non stiamo comunicando quanto guardando le cose che comunicano cosa dicono e fino dove possono dire e poi non dire.

Quella cosa – che può sembrare velleitaria – è la ragione d'essere della comunicazione, cioè smettere di comunicare eppure continuare a dire cose ma non sapere esattamente cosa sia quel rumore, tu che le vedi e che le ascolti, mentre io che le metto assieme e le guardo seguendo i miei ragionamenti tutti terrestri ma che tengono in caro conto le stelle, mi nutro di quello che vedo, che sento, che si muove e le creo con quello che ho tra le mani.

oggi ero in moto e pensavo che sono un ateo materialista con una visione del mondo meccanicistica con una spruzzata di scientismo e pessimismo cosmico e ci sto proprio bene

e ho accelerato sorridendo con il mio scooter elettrico nel mezzo di via Piacenza, piena di auto e di gente, case popolari e pensavo guarda l'uomo, che curiosa efflorescenza del mondo è venuta fuori

alberi, natura, umidità, lampi nella notte e questo qua ora gira con un casco rosa, corre frenetico mosso dal capitale, fa lampeggiare microcircuiti e correre l'elettricità a migliaia di chilometri per scorrere via il porno e minare soldi

eppure tutto questo è solo quello che abbiamo, la contemporaneità, un albume fragilissimo e morbido che non dura niente, cari

mia madre oggi mi chiedeva a pranzo, ma tu venerandi non balbetti più? e io la guardavo e le rispondevo, certo che balbetto, cosa ti credi?

brutto a dirsi ma in queste sere in cui sono solo in cucina, con mio figlio davanti che mangia e guarda lo smartphone, la cagna che mangia rumorosa, la gatta che miagola impazzita in calore, io sono qua e penso che il reale è lì e non mi sopravviverà

ecco, ora mi ricordo, sullo scooter ho pensato: peccato che da morto non potrò più sentire i nuovi dischi di Prince, questo è davvero un rammarico

ho immaginato un mondo dove un motore immobile genera musica partendo dalla musica presistente e questa musica si distrugge nel momento in cui qualcuno l'ascolta

non potere più riascoltare una canzone ma solo nuove generazioni da canoni che si nutrono delle loro stesse invenzioni

suzie q. mi chiede come mi viene in mente certa roba e ci mette un sacco di smile e io le dico che è nella mia natura e sono curioso di vedere cosa succede, come va a finire

oggi ho raccontato a terzogenita di quando una volta ho spezzato il cuore a una ragazza, migliaia di anni fa, le ho spiegato che da ragazzino ero molto immaturo e spaventato e mia figlia non ha detto niente, ha continuato a guardare oltre il vetro del parabrezza

ma quello che non le ho detto è che ero immaturo e spaventato, vero, ma non tanto diverso da come lo sono adesso

a saggiare il vaso con l'unghia sotto la carne si trovano gli stessi guerrieri che ci accompagnavano nelle notti preadolescenzali, gli stessi tamburi e la voglia di distruggere e essere annientati

Oggi sono andato a nuotare, ho ripreso a fare del nuoto libero omeopatico, mi butto in acqua e muovo gli arti sfruttando le onde delle donne che fanno ginnastica nella corsia a fianco alla mia. Uso degli occhialini da sole che deve aver comprato Elettra quando nuotava al mare, così che quando me li metto sembra che sia notte.

Oggi ero lì che nuotavo e pensavo a Leopardi, pensavo che secondo me Leopardi non è pessimista per niente. Questa cosa del pessimismo storico e cosmico sono cazzate. Leopardi non era pessimista, era solo realista. La vita è davvero il male. Il fine dell'universo è il male. Ciascuna cosa esistita è il male. Eppure, nonostante questo, vado alla grande, ho fatto anche dieci vasche a stile libero.

ll concetto che mi piace di Leopardi è quello dell'immaginazione. Lui dice che – in pratica – l'uomo non capisce che l'immaginazione è solo immaginazione, ma la confonde con la “facoltà conoscitrice” e quindi considera i sogni dell'immaginazione come cose reali.

E mentre sono lì, in questa notte artificiale che muovo le gambe e le braccia e le sento strapazzate dal cloro, penso che altro che pessimista. Da qui è partito l'uomo: immaginarsi delle cose e crederle reali. E fingendo che fossero reali viverci assieme finché – ad un certo punto – ma questo Leopardi non lo dice è una mia idea eh – finché ad un certo punto queste illusioni le ha raggiunte davvero. E quell'immaginazione è diventata sul serio conoscenza.

Diritti civili, parità, contratto sociale, le mie prossime due vasche a rana. Erano solo una nostra immaginazione ma ci abbiamo creduto così tanto che le abbiamo raggiunte davvero.

Arrivo al bordo vasca e mi aggrappo al cemento, sono sfinito. Faccio per uscire e guardo da quante ore sto nuotando.

Dieci cazzo di minuti. Osservo l'orologio al quarzo rosso che troneggia sopra i nuotatori serali. Sto nuotando da dieci cazzo di minuti, mi sembra di essere entrato sei ore fa. Rinuncio ad uscire. Mica per altro, ho pagato.

Mi sembra una vita che sto nuotando e ogni vasca perdo qualcosa, ieri mentre scrivevo con la penna mi sono reso conto che mi tremavano impercettibilmente le dita. Ogni vasca perdo qualcosa e guadagno qualcosa: ogni tanto vado sott'acqua e guardo i tunnel subacquei che ho scavato con il mio passaggio.

Non v'è altro bene che il non essere, non v'ha altro buono che quel che non è, le cose che non son cose. “E questo sarebbe un pessimista?”, penso. Un pessimista non dice queste cose splendide, un pessimista si lamenta che invecchia, scatarra nella doccia comune, guarda male i ragazzi che scazzano negli spogliatoi. Un pessimista non fa lo splendido con il mondo e i suoi significati.

Esco dall'acqua come Venere durante un'incauta gravidanza. Corro all'accappatoio a passi tardi e lenti, me lo metto addosso, l'accappatoio, per nascondere la pancetta che – potessi aspettare – aspetterei.

Supererò la prova costume, penso tra me e me mentre – negli spogliatoi, indosso la tuta azzurra e rossa, la S gialla, lego bene il mantello dietro e stringo forte l'addome per sentire la mia piccola kriptonite crepitare.

— salve, sono venerandi, c'è un tavolo? — certo, le hanno già spiegato come funziona qui? — immagino che mi siedo e mangio — ah ah — è un ristorante, no? — ci piace definirci una “officina degli alimenti” — una officina degli alimenti — sì, è il nome del locale — ma avete le frese? — prego? — no, dico, nelle officine ci sono le frese, saldatori, roba in genere tagliente e sporca che ho difficoltà ad associare al cibo — capisco, noi abbiamo una rifilatore per profilati in alluminio — è già qualcosa! — ma non si può usare, vede la usiamo come bancone — non avevo intenzione, perché in realtà ho fame — capisco, senta, mi dica cosa vuole che vedo di portarglielo — avete un menu? — può usare il qr—code — il qr—code? — sì può usare il qr—code — sa una cosa? — cosa? — io scrivo poesie — ah — ma non qua a Milano, a Genova — capisco — e una volta mi hanno chiesto, “ma lei, venerandi, cosa è che vuole ottenere con la poesia che ancora non ha ottenuto?” — e lei cosa ha risposto? — “esclusi i soldi?” — e loro? — mi hanno detto, “no, no, inclusi anche i soldi” — e lei cosa ha detto allora? — “allora i soldi” — capisco — questo aneddoto sta a significare che non ho un cellulare atto a scansire il qr—code. Oppure non ho rete. Oppure ho paura che prendendo in mano il cellulare appaiano i messaggi di chi mi scrive nelle chat. O che mi scappa il dito e spengo di nuovo Meta — capisco — quindi vado alla cieca, mi porti un Negroni con delle noccioline — ehh — non fate il Negroni? — qua facciamo dei cocktail di nostra creazione — te pareva — se potesse leggere il qr—code, io... — aspetti — eh? — improvviso — ... — “esproprio proletario” — ... — non avete un cocktail chiamato “esproprio proletario”? — temo di no — peccato — ribadisco che con il qr—code... — “l'apericena del coworker” — ... — non avete un “l'apericena del coworker”? — la cosa sta diventando imbarazzante — “industrial chic” — ah quello ce l'abbiamo! — ottimo, due — però non abbiamo le noccioline — te pareva — però... — aspetta — eh — “mandorle norrene con spruzzata di pistacchio canadese su gherigli di sale tibetano” — chiedo in cucina — grazie