cosechehoscritto

[diario dalla poltrona]

Qualche giorno ero finito in un video recensione di un oggettino grosso come una grossa calcolatrice che si presentava come giocattolo per programmare come negli anni ottanta, aveva una tastiera completa attaccata a un piccolo monitor e si poteva programmare con un basic residente, staccati da tutti e tutto, no internet, no gui con anche la possibilità di fare andare alcune shell unix, un text-editor e un emulatore di non so quale console anni novanta (forse un Nintendo).

Compulsione di acquisto a cento, per fortuna mitigata dalla ragione e da alcuni limiti hardware del tutto. Poi guardo sul sito e c'è anche un modello con una tastiera più importante, un linux con schermo più largo e – nel case del tutto – una stampante termica. Non ricordo quale dei due modelli potevi anche attaccare cose elettriche, tipo led, per lavorare in modalità arduino. Anche qua compulsione di acquisto a mille mitigata dalla ragione e dal fatto che il prodotto era fuori catalogo.

E poi pensavo, ecco, ho computer potentissimi, molto più potenti di quei gadget nerd, ma poi sono sempre connesso in rete a perdere tempo, ecco. Poi un'ora dopo ero davanti a un text editor che programmavo una visual novel in renpy e mi mettevo lì a scrivere codice (semplice eh) per qualche ora per produrre qualcosa e quindi niente, non è lo strumento ma la dieta digitale che in qualche modo devi importi, in qualche modo deriva dalle cose che fai nel mondo reale.

Girare in rete, stare sui social non è male se sai come smettere. La rete non è andata proprio come volevamo. Leggevo stamattina sul nyt di come negli Stati Uniti ci siano zone rurali dove l'informazione locale tradizionale è stata sostituita del tutto (o quasi) da gruppi Facebook o influencer youtuber. L'informazione dal basso realizzata sembra però trascinarsi dietro un sacco di residui: censura, hate speech, polarizzazione e un generale livello di ignoranza.

Di contro i media tradizionali, anche qua in Italia, sono diventati illeggibili. E non solo per colpa loro. Questa possibilità di poter avere accesso a qualunque informazione nel mondo ha alzato l'asticella minima di informazione di cui ho bisogno. Non mi basta il tuo punto di vista, voglio anche sapere le tue fonti. Sapere chi ti paga.

Gli unici soldi che spendo per l'informazione li spendo per il nyt (soldi, non pochissimi, spesi in genere benissimo) e per Il post (soldi spesi meno bene: a volte sembra la versione omeopatica del nyt). La triade dell'informazione tradizionale, La Stampa, Repubblica e il Corriere, almeno quelli online, ha raggiunto dei livelli di asservimento al clickbait e alle informazioni tossiche da social da renderla vera e propria spazzatura di cui si può – appunto – solo fare pulizia. Non me ne voglia chi ci lavora dentro, ma scorrere le home page di quei siti è urticante.

Quello che mi piace del nyt, al di là di un certo conservatorismo culturale con cui bisogna un po' prendere la giusta distanza, è che si vedono gli investimenti in prodotti di informazione digitale pensati per una fruizione che vada oltre il semplice scrolling. I soldi che pago vengono reinvestiti in idee e metodi non convenzionali di narrazione del mondo. Che sia la narrazione di una persona che torna in Italia per assaggiare un gelato dopo un periodo di malattia che aveva leso la sua possibilità di sentire i gusti, le interviste a democratici che alle ultime elezioni hanno votato Trump o gli appuntamenti giornalieri per imparare una poesia attraverso video-letture e gamification, di volta in volta c'è un prodotto pensato e programmato ad hoc e non l'adozione a standard di cose che si ripetono in rete senza molta fantasia (l'ennesima newsletter o l'ennesimo podcast).

C'è troppa informazione, non devo aggiungerne altra, devo rendere la mia una performance unica con il lettore.

Mi faceva sorridere Strindberg che a inizio novecento, tra le cose che rendevano la vita un Inferno frenetico, inseriva il fatto di dover ogni giorno leggere i quotidiani. L'informazione pesa e oggi in cui è tutta lì, dietro allo schermo ad attenderci famelica è ancora più pericolosa.

Quando dormivo mi succedevano cose strane. Alcune notti sentivo che sotto le coperte c'erano le bisce. Urlavo terrorizzato e alzavo le coperte e non c'erano, ma bastava che ritirassi su le coperte che tornavano e mi passavano tra le gambe. Altre notti sentivo le battaglie. Moltitudini di persone che urlavano e combattevano mandando dei gemiti terribili, ne ho già parlato. Due volte sono stato visitato dagli alieni, dalle persiane filtrava una luce accecante e loro – per dimostrazione della loro potenza – tagliarono in due una moneta da dieci lire.

In cucina avevamo queste piastrelle con i motivi in rilievo, delle linee ondulate in rilievo, e una luce fantastica entrava di mattina nella cucina mentre mia madre disinfettava tutti questi elettrodomestici anni settanta, in casa mia c'era sempre questo odore perenne di disinfettante e io e mio fratello eravamo in ginocchio in un angolo soleggiato della cucina con le mani dietro alla testa, nessuno di noi piangeva, ci guardavamo senza pensare a niente, era solo una punizione, e quando finalmente ci alzavamo avevamo i ginocchi con le righe rosse dei rilievi delle piastrelle, e finché non se ne andavano non potevamo uscire di casa per andare a giocare fuori; faceva di tutto per farci essere felici nostra madre e non sapeva che ci stava preparando ad una adolescenza identica a tutte le adolescenze avute in precedenza, ma questa volta con un forte plusvalore.

Mio padre mi urlava di spegnere “quel cazzo di computer” e di uscire fuori a giocare e io uscivo e cercavo un posto tranquillo dove poter pensare a quel computer; mio padre mi parlava di cose irripetibili della sua infanzia e io assaporavo la prima infanzia uguale per tutti e riproducibile. C'era Actarus in tutti i nostri corpi così giovani, ed era una cosa così poco importante e così determinante per tutti quelli che sarebbero venuti dopo di noi. Mio padre mi raccontava della natura, della sua infanzia a contatto con la natura e io lo ascoltavo senza che lui si rendesse conto che quella natura non era natura e non esisteva più. Il mercato l'aveva modificata, l'aveva deprecata e ora stava creando nuove nature irresistibili che sentivo mie e che non avevano niente a che fare con quelle versioni di natura di cui mi parlava mio padre. Il tempo si nutriva delle ingenuità delle generazioni precedenti, dei loro sogni e sfornava nuovi sogni che erano incompatibili con i precedenti. Non ci si fermava un attimo.

Ero pieno di Actarus e di BASIC, il linguaggio del futuro. Tanto pieno che non me lo sono ancora tolto tutto di dosso, neppure adesso che il futuro era tanto tempo fa. Eravamo pieni di Actarus e di Venusia, di BASIC e di tette esplosive, eravamo adolescenti tutti caldi e pieni di odori, pieni di insicurezze del cazzo di terrori quotidiani, di videogiochi che ci apparivano la sera quando cercavamo di dormire, di gruppetti che ci aspettavano per riempirci di calci e spaccarci le cose che avevamo tra le mani, di ragazzine che ridevano e quei denti noi li desideravamo come non avremo mai desiderato nessun altro dente, eravamo alieni persi nei boschi di Sant'Olcese e sogni, avevamo tutti sogni che non vedevamo neppure, sogni che era magari anche solo toglierci dai coglioni, lasciare quel paese giocattolo che era così felice e così bello da somigliare a un carcere perché ci dovevamo tornare ogni sera, ogni momento e invece quello che volevamo era andare nel mondo che era al di là del vetro, sentivamo l'odore del Giappone che usciva dal Pac-Man, sentivamo l'America sconosciuta che si riscaldava sul silicio, nei comandi che scrivevamo dopo il prompt.

Continuavo a svegliarmi ogni mattina, cercavo di essere felice, mi immaginavo le cose che avrei fatto dopo, negli anni novanta, nel duemila, avevo questa immaginazione in cui creavo grandi videogiochi, scrivevo racconti e libri che tutti avrebbero letto, avevo i miei sogni di grandezza e li coltivavo con amore mentre camminavo per i campi deserti del paese. Ero felice o almeno avrei dovuto esserlo, e questa cosa di essere felice ad un certo punto si è girata e mi ha morso. Ad un certo punto nel mezzo del frastuono, con qualcosa in mano, mentre ridevo nel mezzo del frastuono, ecco che mi sono chiesto, ma cosa ho da ridere, ma perché sono in questo posto a ridere con questa cosa in mano, ma cosa ho da essere così felice, cosa sta succedendo?

[da PÈCMÉN, Blonk, 2020]

[diario dall'influenza]

Le cose si rompono, passano di stato. Lentamente la tastiera del Macbook sta perdendo sensibilità, dopo un decennio di vita premo le i e le o e non esce niente. La tastiera dell'ebook reader invece è impazzita, premo un tasto ed escono due caratteri, uno coerente con quello che ho scritto e l'altro lontano, tasti in là. Chissà cosa si è rotto. Quale parte infinitesimale dell'elettronica prodotta chissà dove si è fulminata, quale pista scollegata, che tensione. In pratica le macchine che usavo di più per scrivere in mobilità sono andate. Ora sto scrivendo con l'ebook reader e una tastiera meccanica esterna. Non è molto portatile.

D'altronde non ho molto da scrivere perché dopo un po' non riesco a continuare. Ho una febbriciattola costante e quando vado a fare qualcosa di impegnativo mi si tappano le orecchie e inizio ad avere delle vertigini, sudore. Le cose si rompono. Devo fare cose brevi e fare pause. Riposare. Prendere medicinali. Pensare, usare l'immaginazione che – dicevo ieri con qualcuno – è tanto terribile e ci fa soffrire, quanto salvifica. Ci vuole una parte di immaginazione per immaginare il mondo. La nostra piccola traduzione del mondo. Due citazioni, allora, da due libri che sto leggendo.

”(È necessaria) una trasformazione della scienza in generale in senso estetico, imparando a riconoscere una bellezza che è rappresentata dalle forme di interconnessione nell’ecosistema (...). Gli attori del sistema trasportano le informazioni da una parte all’altra della rete, e per farlo traducono. Traducendo abilitano la coesistenza, adattano il messaggio”. La rete quindi, non è neutra, noi non trasmettiamo informazioni con il nostro ripeterle, condividerle, ma attuiamo una traduzione di quello che prendiamo e – traducendo – trasformiamo anche noi stessi. Ora, dall'altro libro:

“Noi non viviamo nella realtà, ma nelle nostre rappresentazioni della realtà. Forse abbiamo il dovere di chiudere gli occhi e occultare certe cose come nascondiamo le funzioni naturali. (...) Un uomo non lo si conosce mai, si conoscono solo le rappresentazioni sue e di altri su di lui, ma, mutando tali rappresentazioni, l’immagine si fa poco nitida e velata”. Sembra un capitolo dello stesso libro, e invece il primo è di pochi anni fa, La Cura, mentre il secondo sono i Libri Blu strindberghiani. Non dicono la stessa cosa, ma parlano dello stesso argomento. In realtà noi variamo continuamente le rappresentazioni di quello che abbiamo attorno. Più variamo più abbiamo possibilità di sopravvivere.

C'era questo test fatto pochi anni fa, ne avevo già scritto, relativo all'amigdala. A un gruppo di bambini insegnano un gioco e a metà del gioco cambiano le regole. Un gruppo si bambini si adatta facilmente alle nuove regole, un altro gruppo no, continua a voler giocare con le regole precedenti. Conservatori e non. Alla fine si scopre che i bambini del primo gruppo hanno l'amigdala di dimensione e consistenza simile, così come il secondo gruppo. Alla fine la morale e l'etica deriva da un pezzo di carne. O viceversa: è come vediamo il mondo che muta la composizione del nostro corpo.

Basta, mi fischiano le orecchie, vado a fare il pane.

[il primo film che ho visto di David Lynch]

Il primo film che ho visto di Lynch, di cui io abbia memoria è Eraserhead. Il secondo Strade Perdute. Visti a pochi secondi di distanza. Marco mi aveva telefonato invitandomi ad andare con lui in un cinema all'aperto, estivo, dove – con un solo biglietto – avrei potuto assistere ad Eraserhead e subito dopo a Strade Perdute. Forse non era Marco. Forse era una ragazza che dopo il primo mi aveva lasciato solo a vedere il secondo. Questa cosa che io andassi ai cinema all'aperto, d'estate, per vedermi una retrospettiva su Lynch, mi mette tenerezza. Forse è l'incontrario. Prima Strade Perdute e poi Eraserhead. Fatto sta che Strade Perdute mi sembrò all'epoca una cazzata, mentre Eraserhead andai in solluccheri. Mi sembrava impossibile che li avesse fatti la stessa persona. Questo non mi impedì, una ventina di anni dopo, di comprarmi i due SACD con l'opera lirica di Strade Perdute fatta da Olga Neuwirth, pur non avendo un impianto SACD, per dire la determinazione.

Molti anni prima, ai tempi del clan, i ragazzi arrivavano sempre in ritardo o saltavano proprio le riunioni perché stavano in casa a seguire una serie tv. Twin Peaks. Io, da buon spocchioso, non ne ho mai visto allora nemmeno una puntata. Se lo guardavano loro non faceva per me. Decenni dopo Francesco mi prestò la sua serie di dvd e – di sera – li guardai tutti con Elettra. Avevamo messo l'iMac Tangerine in camera da letto e lì guardavamo tutti a ritmo continuo lì fino ad addormentarci. Tutta la prima stagione e poi, non ricordo da dove l'avevo tirata fuori, tutta la seconda. Dormivamo e guardavamo Twin Peaks.

L'altro film che mi ricordo di Lynch è Mulholland Drive. In pratica affittai il dvd e lo iniziai a vedere con la ragazza con cui uscivo all'epoca. Per motivi di privacy la chiamerò “angelo metallico”. In pratica a metà film, regolarmente, io e angelo metallico iniziavamo a fare sesso. O ad addormentarci, non ricordo. Forse tutte e due le cose. Il giorno dopo andavo a restituire il dvd con il fastidio che il film non lo avevo visto fino in fondo. La cosa si è ripetuta diverse volte, tanto che so praticamente a memoria la prima metà del film. Per vedere la seconda metà ho dovuto aspettare di essere solo in casa. Ho un ricordo della seconda parte, che ho visto solo una volta, come un sogno della prima. Nella mia memoria tutto questo è successo negli anni novanta, ma il film è del 2002, quindi devo averlo visto prima, come una agnizione.

Al cinema – di Lynch – sono andato una volta a vedere INLAND EMPIRE. Di sera, in un cinema piccolo nel centro storico, da solo, sala semideserta. Di INLAND EMPIRE ricordo che speravo di morire lì, per soffrire meno. Come nei film western quando sparano al cavallo. Anzi, ricordo che a un certo punto ho iniziato a crollare, fisicamente, dormire. Ma quando mi sono reso conto che stavo per dormire mi sono detto no, no. Sono un intellettuale. Devo resistere. Ho anche pagato. Allora ho iniziato a mordermi l'interno delle guancie, per sentire dolore e non addormentarmi. Ho visto tutto il film così, mordendomi l'interno delle guancie per sentire male e restare sveglio. Avevo gli occhi che mi facevano male, alla fine, e sangue in bocca.

Ho questo ricordo di me e i miei figli, tutti davanti alla tv che guardiamo Twin Peaks III. Non tutti, parzialmente tutti. Sicuramente primogenito. Elettra ci aveva rifatto vedere tutto Twin Peaks I e tutto Twin Peaks II per arrivare pronti psicologicamente a Twin Peaks III. Filologicamente. Di Twin Peaks III ricordo la leggera delusione degli episodi finali. Delusione nata dal fatto che la prima metà di Twin Peaks III era stata un godimento inaspettato. La prima metà di Twin Peaks III dovrebbero farla vedere in tutte le scuole al posto delle lezioni di “latino per idraulici”, metterla in classe al posto della lettura della Divina Commedia in Esperanto. Non capirebbero, gli studenti, farebbero casino, scrollerebbero i cellulari mentre la bellezza scorrerebbe davanti a loro. Non è forse così la vita?

Non ho mai visto altri film classici di Lynch come Velluto Blu o L'uomo elefante. Non li ho visti perché volevo tenermeli buoni per i momenti di pioggia. Ho visto tante delle cose folli che metteva su Youtube. La scimmietta. Jack. Ho visto tutto il suo Dune. Sting. Ho visto Fuoco cammina con me. Bowie. Vorrei aver avuto un decimo del suo talento e metà della sua capacità di trovare finanziamenti per i film. Anzi, un ventesimo del suo talento e tre quarti della sua capacità di trovare finanziamenti. Anzi, il talento mi basta il mio. Solo i finanziamenti.

Una cosa mi ha colpito ieri: l'atto di amore incondizionato e fesso della mia bolla che si univa al mio amore e dolore fesso e incondizionato come il loro. Da gente lontanissima, che non si è mai vista e che aveva tutta lo stesso idolo nascosto sotto la giacca. E come – nello stesso tempo – arrivava l'amore incondizionato di gente fuori dalla mia bolla, per motivi completamente diversi. La capacità di Lynch – insomma – di essere fuori di testa, sperimentatore non commerciale e nello stesso tempo iconico e mainstream.

Un mostro, che ha abitato il mio tempo e ha popolato il mio immaginario per qualche fotogramma, qualche deformazione della pellicola.

[diario dalla strada]

In pratica non sto bene, quest'anno lo vivo all'insegna dello non stare bene, l'ultima cosa che mi è venuta è un male alla schiena costante con fitte che vanno e vengono, stiamo indagando, probabilmente, come dice la mia medico “un'ernietta”, fatto sta che sto passando questi giorni di festa nel letto a digrignare i denti, mangiare pastiglie e pensare al futuro.

Comunque, oggi decido che male alla schiena o non male alla schiena devo fare una passeggiata e esco e prima di uscire ho in mente una canzone di Suzanne Vega che non ho in digitale, la faccio breve, mi scarico da Bandcamp un suo live di qualche anno fa che non avevo mai sentito, mi metto le cuffie e esco.

Faccio i primi passi e partono le chitarre di Marlene On The Wall e per un attimo mi sento come Maxine all'inizio di Life Is Strange, quando cammina per i corridoi della scuola e – niente – effetto madelaine mi sento per un attimo catapultato all'indietro di dieci, venti, trenta, quaranta anni.

Ho nella mia memoria alcuni ricordi precisi di io in giro per il mondo che ascolto la musica con le cuffie: io negli anni ottanta con un walkman scabeccio che ascolto, la sera in piazza Manin, Night Vision, io sempre anni ottanta che cammino con il cane a Sant'Olcese la sera e sento un disco dei Pink Floyd dove a un certo punto c'è un campionamento di una macchina che passa e io – solo in mezzo alla strada – faccio un salto a lato, terrorizzato; io che qualche anno dopo aspetto qualcuno alla stazione di La Spezia durante il servizio civile, ascoltando dal lettore cd portatile Buddha Of Suburbia, io che ascolto qualche anno dopo Rave Un2 The Joy Fantastic e mi si rompono le orecchie.

La mia rottura delle orecchie l'ho già raccontata, acufeni e iperacusia che ormai mi accompagnano da un ventennio. Quando non ci sono rumori in casa io ho nelle orecchie un fischio continuo 24/24, ho imparato a non farci caso, se ci faccio caso dopo un po' impazzisco perché è un fruscio sibilante che non si ferma mai e che diventa più intenso quando sono più stanco e più affranto.

Questo non mi ha impedito di ascoltare ancora musica, meno bene di prima, con più difficoltà e soprattutto le cuffie le uso rarissimamente, non solo perché me le fregano sempre i figli, ma perché se ascolto musica con le cuffie per più di una mezzoretta poi i fruscii sono decuplicati e divento ipersensibile a qualsiasi rumore.

Ma ogni tanto, appunto, cedo e accetto il rischio e le conseguenze.

E quindi mi faccio questa passeggiata camminando e ascoltando questo concerto di Suzanne Vega che mi fa sbrodolare, pura nostalgia e riemergere e penso che quello che sto provando non è tanto ascoltare le canzoni di Suzanne Vega, ma un ricollocamento temporale di me nel 2024 rispetto a tutto il tempo che è passato da quando quelle canzoni le ho sentite per la prima volta, la massa di tempo che ho vissuto e mi sono mosso e sono cambiato e che viene relazionata a quel ragazzino nel millenovecentoottantaqualcosa e quest'uomo, con la schiena a pezzi e i giramenti di testa e il piede guasto e le cartillagini dei ginocchio consumate che cammina e ancora ridacchia da solo pensando le cose così.

E tutto questo per nemmeno 15 euro, penso, non male. Penso a Suzanne Vega, a quella volta – irreale – che l'ho vista a Genova suonare al Porto Antico dove d'inverno c'è la pista di pattinaggio, al fatto che ho iniziato ad ascoltarla solo perché piaceva a un mio compagno del D'Oria e poi ho continuato a seguire tutti i suoi dischi per decenni senza sapere bene perché visto che non ho mai tradotto davvero tutte le sue canzoni, e alla fine penso che alla Vega, in quarant'anni le avrò dato in tutto un centinaio di euro, concerto non compreso, e penso che beh, ne è valsa la pena. Tutto questo per avere ancora un ricordo di me che cammino, una sera, e penso alle volte che sono stato nello stesso stato d'animo, così solitario e pieno.

Finisco la mia passeggiata mentre parte l'ultima canzone, sembra fatto apposta e mentre scorrono le ultime note il cellulare vibra e mi dice che sto ascoltando le cuffie da un po' troppo tempo, che sarebbe bene toglierle. Dico al cellulare che ok, aspetto che finisca la canzone e poi spengo e rido da solo, nella via desolata attorno a casa mia e intanto è notte, è dicembre, e tra poco sarò a casa.

Sono con il portatile linux in pizzeria che aspetto le pizze e scrivo e ascolto quello che sento e trascrivo. C'è animazione in ogni cosa, le luci elettriche danno una dimensione a questa serata di dicembre che ha tutta l'artificialità umana. Mi chiedo cosa succederebbe se si staccasse l'elettrico, ora. Una vallata nera, scossa da un vento gelido. I pilastri di cemento immersi nella terra. Le tane intonacate, piastrellate in gres. La gente chiusa in casa, avvolta nelle coperte, abbracciata per sentire meno il gelo che arriva da fuori. I ragazzi della pizzeria prendono in giro la ragazza che lavora con loro. Le dicono che non c'è mai. Che è stata assente per un sacco di tempo. Che non aveva voglia di lavorare. La ragazza risponde a tono, poi ridendo dice, guardate che io dovevo laurearmi! Non dovrei nemmeno essere qua, dovrei essere a lavorare da un'altra parte. Io sto lì, come un lurker della vita e trascrivo tutto. “Scusi ma dovrei prendere il casco” mi dice a un certo punto il portapizze e io dico, ci mancherebbe, e prendo il mio portatile e mi sposto.

Di notte apro gli occhi, sono le quattro. Ho un mal di testa che mi picchia dentro e un fischio. Non sono i soliti acufeni, è proprio un fischio continuo. Resto immobile sotto le coperte come un animale ferito. Prendere appunti, penso. Mi verrà utile quando parlerò di un personaggio che soffre. Molte lettere se premute con il tasto control creano caratteri invisibili all'occhio. Una vita che prendo appunti per quello che potrebbe succedere ai miei personaggi e invece queste cose succedono a me. Ad un certo punto arriverò alla fine e io coinciderò con il personaggio. Sentirò davvero male come lo si sentono nei romanzi o nelle fiction tv, in maniera ragionevole.

O smetterò di prendere appunti.

La mia medico dice che le analisi vanno bene e che probabilmente è lo stress. Sto male perché sono stressato. Ho ansia. Le rispondo che è stare male che mi mette stress. Che se stessi bene, starei benissimo. Lei risponde che – no – è proprio l'ansia e lo stress. E chiusa lì. A casa mi siedo, mi concentro e cerco di non essere stressato. Chiudo gli occhi. “Non devi essere stressato, Venerandi” mi dico. “Basta con queste ansie” aggiungo. Riapro gli occhi. Sto ancora male.

Parlando con i colleghi scopro che un sacco di gente, anche loro sono stressati. Che anche loro stanno male. Pieno. Inizio a pensare che sia una malattia professionale. Non parlo della docenza, che è effettivamente stressante, quanto essere qua, nel duemilaventiquattro, in questo sistema paranoico. Questo occidente paranoico, ricco e povero nello stesso tempo, che pensa alla realtà virtuale e guarda di quanti centesimi è aumentato l'olio d'oliva, che condivide le foto dell'ultimo portatile Apple e va dai genitori per chiedere i soldi per l'anticipo iva di fine anno. Che parla di comunicazione online e passa la sera a piangere e betsemmiare dopo l'ennesima litigata furiosa con la propria madre. Che come me spera di reggere fino alle vacanze di natale per avere finalmente un po' di tempo per stare male senza danneggiare la programmazione, la produzione.

Ho iniziato ad ascoltare un gruppo post-punk che si chiama Laguna Bollente, o qualcosa di simile. Hanno fatto due ep, li ho scoperti per caso su bandcamp. Probabilmente assomigliano a qualcuno di più importante che non conosco, ma l'ignoranza per una volta mi salva. Non posso postare i testi su Facebook perché ci sono diverse bestemmie e parole che hanno a che fare con umori corporali, e sono i momenti migliori btw. Un frammento che mi ha fatto decidere l'acquisto è un brano di quando parlano del fascismo nell'agire quotidiano, ed escono con un “'questo è mio' e ti rubo gli orociock”, che mi ha conquistato.

Un pensiero che ho è che in realtà non sto male per lo stress, ma per una malattia mortale che nessuno ha visto e che quando emergerà sarà troppo tardi. Ma è un pensiero che mi serve a poco. Diversamente dalle storielle che girano su Facebook dove ci sono grandi riscatti sociali e rivincite di chi era stato ingiustamente vessato, nel mondo reale difficilmente otterremo delle scuse da parte di chi ha sbagliato. Quando alla fine tirassero le fila delle grandi discussioni della rete, vaccinisti e antivaccinisti, pro nucleare e contro, pro motore elettrico e pro motore termico, pro immigrazione e controimmigrazione, se alla fine emergesse dagli oceani un grande delfino dorato, altezza almeno trenta chilometri, e dal suo ventre uscisse una voce che dice “ecco, adesso vi do i risultati” e poi snocciolasse chi aveva torto e chi aveva ragione, ecco, anche in un caso così plateale, chi aveva torto non chiederà mai scusa. Perché non ci sono delfini dorati e perché essere ingiusti e avere paura e ferire chi ti sta attorno è nella natura umana. Perché dovrebbero chiedere scusa, e di cosa.

Non c'è giustizia terrestre, se non in filamenti fragilissimi, figuriamoci quella immaginaria dell'ultramondo. L'ingiustizia è uno degli alimenti terrestri, che va masticato e addentato. E ingoiato. E rivomitato per terra e calpestato.

Sto continuando a leggere Tomorrow and Tomorrow and Tomorrow con sentimenti misti. Storia d'amore, alcuni momenti brillanti, di nuovo sdoganato l'universo nerd, qua presentato nel suo processo fico e produttivo (almeno fin dove sono arrivato). Eppure, di nuovo, questi racconti del mondo dei videogiochi continuano a non convincermi, forse perché è un mondo che ho attraversato e raccontato anche io in libro.

Troppa rimozione, troppe cose giuste al posto giusto, riferimenti sempre azzeccati. Tutto troppo pulito e perfetto, sembra una serie Netflix. Come se questi ragazzi vivessero solo di scuola, amore e videogiochi. Dov'è tutto il resto?

***

Sono qua che leggo ancora Tomorrow, and tomorrow and tomorrow e – per essere un romanzo che non mi piace – non è male. Sono a un terzo, proseguo, ma senza ansie. La vicenda racconta una storia d'amore nel mondo dei programmatori di videogame, il che lo rende piuttosto atipico. Mi disturba, l'ho già detto, che i riferimenti culturali siano sempre quelli giusti, sia eliminato il rumore di fondo della vita reale, rendendolo in alcuni punti una specie di bigino uso fiction tv.

Tipo, stamattina la protagonista metteva a posto i cd della sua collezione di giochi per PC: Commander Keen, Myst, Doom, Diablo, Final Fantasy, Metal Gear Solid, Leisure Suit Larry, The Colonel's Bequest, Ultima, Warcraft, Monkey Island, The Oregon Trail e, dice, “una trentina di altri”. E io leggo la lista e mi irrito perché sono tutte strizzate d'occhio al lettore. Dove sono gli altri? Dove sono i mezzi giochi, le boiate, i lavori di passaggio? Perché fare passare l'idea che esistano solo i capolavori nella vita di una persona e che uno sappia riconoscerli e tenerli con sé con tanta facilità?

È tutto così telefonato da essere irrealistico.

***

Continuando però peggiora. I personaggi cambiano in maniera un po' casuale. Manca uno svolgimento omogeneo della storia, tutto procede con un'andatura che trovo piuttosto confusa.

***

A un anno dalla lettura, non ricordo quasi niente della trama e non ho nessun ricordo dello stile.

C'è questa cosa che non sopporto dei videogiochi che potrei chiamare la sciatteria della verosimiglianza o – come direbbero i miei figli che pensano in inglese e poi traducono in italiano – la mancanza di “consistenza” nella narrazione ludica.

Il tipico esempio è Tomb Raider, qualche decennio fa ero Lara Croft, mi tuffo in una piscina e scopro che sul fondo c'è un passaggio che mi porta – in apnea – in una stanza segreta sotterranea dove c'è un kit di pronto soccorso.

E io resto lì a pensare, ma chi è che si è tuffato, è andato sul fondo della piscina, ha fatto tutto il percorso in apnea, è arrivato in questa stanza segreta, opera – immagino – di un architetto con vuoti di memoria – ha lasciato qua un kit di pronto soccorso, perché non si sa mai, e poi si è rituffato e in apena ha fatto il percorso opposto? Perché.

E soprattutto: perché lo vedo se sono nel sottosuolo senza illuminazione?

Sempre come Lara Croft, a Venezia, ero saltata su un lampadario, da lì ero riuscita a raggiugere un soppalco irraggiungibile pieno di casse ed ecco, dietro questa montaga di casse, un cattivo che inizia a sparami con degli uzi.

Il soppalco è irragiungibile se non saltando sul lampadario, quindi io – Lara – cerco di capire la psicologia di questo maschio alfa che salta sul lampadario, accede al soppalco, si nasconde dietro al mucchio di casse e resta lì ad asapettare con gli uzi in mano. Perché prima o poi qualcuno passerà, no? Anni, immagino.

I vieogiochi ne sono pieni. Anche Sable, che è molto più raffinato nelle sue meccaniche, ci cade. Oggi ero all'interno di una astronave che si è schiantata sul suolo del pianeta che sto esplorando e ci sono dei generatori di energia che – se ben posizionati – attivano degli enormi stantuffi. Salendo su questi stantuffi io vengo “sparata” verso il soffitto e posso accedere a piattaforme altrimenti non accessibili perché non ci sono scale.

Perché non ci sono scale.

Perché? Dove sono le scale? Perché degli esseri umani dovrebbero usare, al posto delle scale, degli enormi stantuffi meccanici, costosissimi in termini energetici, che mi sparano verso il soffitto con il rischio di spaccarmi qualche osso del collo?

Perché sotto sotto il videogioco per molti giocatori “è solo un gioco” e per tenere alta la giocabilità gli sviluppatori tengono in vita dei relitti ludici “inconsistenti” perché il grosso del pubblico a queste cose non ci fa nemmeno caso e – a livello di sviluppo – questi kit, queste secret, quest mob messi dove serve in termini di giocabilità ma non di verosimiglianza, queste monete che si trovano nel mezzo delle esplorazioni, questi meccanismi che per attivarli serve spostare logicamente una serie di oggetti che sono esattamente quello che abbiamo attorno a noi, ecco tutta questa roba è più facile da implementare. E è pure facilmente riconoscibile.

È il junk food dei videogame.

La settimana scorsa a Genova c'è stato il derby, una partita di calcio tra le due squadre di calcio locali. Lo stadio di Genova è felicemente annegato nel cuore della città, con il culo proprio sotto le alture franose di Marassi alta e la pancia sul greto esondante del Bisagno.

Quando a Marassi c'è la partita, qualunque partita, un pezzo della città viene – nel migliore dei casi – messo sotto sequestro. Auto posteggiate rimosse, supermercati che non possono vendere cose con cui i tifosi potrebbero farsi del male, massa di gente che cammina per strada, arterie chiuse, eccetera.

Con il derby è semplicemente peggio. Questi cosplayer della guerriglia da settimane si preparano allo scontro in piazza. Lo sa la polizia, lo sanno i negozianti, tutto viene serrato e si dà modo di sfogarsi.

“Fabrizio – mi dice mia madre – eravamo uscite con le amiche per festeggiare il compleanno di una nostra conoscente, entriamo, ci sediamo e dopo un po' ci dicono che ce ne dobbiamo andare. Chiudono tutto, c'è la gente che si mena. Per strada non sappiamo dove andare, sentiamo in lontananza il rumore come di esplosioni. E torniamo a casa in mezzo a questi qua, ma tu dovevi vederli Fabrizio. Tutti ubriachi. Gente sdraiata per terra con delle spranghe di ferro. Mi chiama mia sorella che stava tornando a casa e la polizia l'ha fermata. Strada chiusa. Non l'hanno fatta manco tornare a casa. Non sa dove andare. E io guardavo questi ragazzi e pensavo, ma le loro madri lo sapranno in che stato sono i loro figli?”

E io sorrido amaro e le dico, guarda mamma, facile che le madri siano lì in mezzo. Mia madre scuote la testa, è impossibile. E le racconto allora di quando, poco tempo fa vedo dei bambini vestiti con i colori della squadra del cuore che passano con le loro madri e i bambini iniziano a dire le peggio cose, roba violenta e grossa verso la squadra avversaria. E le madri, dietro, che si guardano e ridono ammiccando.

“Ma questa – dice mia madre – è gente che del calcio non gliene frega niente. Non la vedono nemmeno la partita”. La guardo, in mezzo, le rispondo, c'è gente per cui la squadra di calcio è una fede. Una fede, non scherzo. Gente che ti dice che loro padre era tifoso, loro sono tifosi e stanno addestrando i figli a essere come loro. Una fede parallela a quella, morente, cattolica, ma con molta più energia e con una messa domenicale oggettivamente più coinvolgente.

In più, dentro, ci sono dei bei gruppi fascisti, di quel fascismo da Uniposca nero. L'altro giorno salivo sulle alture dietro Marassi e vedevo le mura di contenimento in cemento armato che tengono su gli infelici quartieri popolari costruiti il secolo scorso. Avevano dipinto tutte le mura con i colori della squadra del cuore, i guerriglieri, con tanto di logo, solo che a un certo punto i colori della squadra sparivano e il logo appariva ancora, ma questa volta su un lungo fondo uniforme, nero, una decina di metri di mura di contenimento dipinte di nero e tutto assumeva un significato politico più chiaro.

“E capisci, io poi dovrei dare i sei, i cinque di condotta a questi ragazzi che vedono ogni settimana lo stato civile messo in disparte, i cassonetti bruciati, la digos per strada, gli elicotteri che ancora a mezzanotte girano sopra di noi. Perché questa farsa continua a fare comodo. Meglio la fede nel calcio che – chessò – incazzarsi perché non siamo felici, perché c'è chi sta troppo meglio di noi” dico e poi mi fermo perché sto ripetendo delle cazzate, dei luoghi comuni, veri, ma inutili.

mentre sono qua che penso a come potrei chiedere scusa ai miei figli per avere sostituito la polveriera balcanica con quella israelo-palestinese e per aver permesso guerre sanguinarie nel golfo e missili europei in terra russa, nel caso tutto vada in merda, c'è gente che è pagata per fotografare una ragazza chiusa in auto, che si copre il volto, ragazza che ha sepolto i cadaveri dei suoi due neonati nel giardino di casa e penso che da questa barbarie non usciremo mai

la barbarie è la fame dei nostri occhi, che masticano tanto quelle poche parole che restano incastrate da qualche parte dentro di noi, tanto il junk food della comunicazione e dell'informazione, c'è poco da fare, la dieta occidentale prevede entrambe le cose – tanto poi vomiteremo tutto

sono invecchiato cinquantaquattro anni per essere qua seduto con un calice in mano che scrivo, sbagliando, con una tastiera meccanica e ascolto del pop francese uscito oggi di cui non capisco una parola e ho frammenti di me e dei miei figli sparsi per tutta la casa e fuori per il mondo, ho due genitori nascosti nel loro piccolo appartamento che mi sorridono ancora ogni volta che mi vedono, mi offrono dolci e acqua tonica e io li tratto come se fossero immortali, non so se sia la cosa giusta, come se avessimo davanti ancora tutto il tempo del mondo

se so che il mondo è una mezza schifezza, e lo è indubbiamente, mi salva l'altra metà, la meraviglia di questo sforzo improbabile, l'erezione tutta scoordinata di questo muscolo gonfio dove dentro c'è la speranza, il sogno, la gloria, la protezione e l'empatia, quella animale e quella non, quella ragionata e razionale, la più cattiva e necessaria però

stanotte ho sognato che non ero amato, che venivo lasciato così sul letto come un ravatto qualsiasi e mi alzavo allora, dicevo, ravatto per ravatto mi metto a fare qualcosa, che pena

e che energia quella di essere comunque, dopo il desiderio, una volta finita tutta l'energia essere lì in ogni caso e quindi muoversi ancora e fare cose, dare identità a quello che si è e che si sta facendo, che energia incomprensibile è quella che ci muove ogni giorno a fare

le nostre piccole cose, i piccoli rapimenti, i graffi sulla pelle dei vicini, i segni dei morsi sui figli, le impronte sudate delle mani sui muri a cui si siamo appoggiati per un attimo, nel corridoio centrale, per riprendere fiato, ricaricare l'energia