cosechehoscritto

[l'arrivo dei robot giapponesi]

Nel frattempo, in contemporanea al Pac-Man ma dalla parte opposta del mondo, erano arrivati degli enormi golem nella mia vita, dei giganti di metallo placcati, dei soldati che camminavano sulla terra portando dietro una nuova mitologia. Io li guardavo come ipnotizzato, li vedevo uscire dal mare, emergere da parchi giochi che si dividevano in due, sfociare da piscine come Veneri nippo. Si ergevano contro il cielo azzurro, mi fissavano e mi dicevano questo portento potrebbe essere tuo, sei tu che potresti muovere questo colosso d'acciaio.

Allora io correvo fuori di casa, scendevo gli scalini di casa mia, saltavo per la strada, l'unica strada che – come un intestino – univa il capoluogo con il paese dove abitavo. Correvo in discesa fino alla Bruna che era – di fatto – il ferramenta di tutto il paese, per chilometri e chilometri.

Non era propriamente un negozio, era piuttosto un antro, e la Bruna era una donna dagli occhi furbi, i capelli neri, capace di dispensare oggetti di ferramenta indispensabili per un ragazzino della mia età, soprattutto i chiodi che erano alla base delle baracche che noi del C.D.A. andavamo a costruire di nascosto in mezzo alle sterpaglie. Per quanto tu abbia pochi soldi, anche duecento lire, ci esce sempre una dignitosa manciata di chiodi. Una manciata di chiodi e una pietra sono sufficienti per costruire una baracca.

La pietra serve per piantare i chiodi. Era il Minecraft del mondo reale, costruivamo spazi che prima non esistevano, modificavamo lo spazio. Entravo dalla Bruna, la salutavo e lei mi chiedeva se volevo dei chiodi e io – quella volta – dicevo di no, le spiegavo che mi serviva dello stucco per vetri. “Ti si è rotto un vetro?” mi chiedeva lei, e io le rispondevo che no, mi serviva per una cosa mia. “Ah” faceva lei, prendeva un pacco, lo apriva e dentro c'era lo stucco, grigiastro/marroncino, umido. La Bruna me lo vendeva a fette, come il gorgonzola. “Quanto ne vuoi?” mi chiedeva e io le rispondevo che me ne serviva un po' perché dovevo farci i robot cattivi.

La meraviglia dello stucco per vetri è scoprire che esiste un composto che costa molto meno del Pongo, è meno rassicurante, puzza, ogni tanto ci trovo dentro come dei capelli un po' sospetti, ma è malleabile quanto il Pongo e che posso averne tanto.

Pagavo il dovuto e tornavo felice a casa con il mio panino di stucco per vetri, andavo nella mia camera, mi sedevo nella mia piccola scrivania, spostavo il binocolo e i libri sulle esplorazioni spaziali, e sfasciavo tutto lo stucco. Restavo davanti al pacchetto aperto e poi ci finilavo dentro le mani, iniziavo a costruire i robot cattivi.

I robot cattivi sono gli antagonisti dei robot veri, quelli di plastica e metallo che mi sono comprato, visti in TV™, come Gundam o Trider G7 o altri robot imitazione giapponese. Quelli cattivi che mi costruivo io non avevano le forme di quelli della TV, erano robot che mi inventavo io, con le braccia, le armi, il coraggio. Tagliavo lo stucco a pezzettini e poi li sfregavo contro il banchetti per fare dei cilindri oblunghi, delle specie di vermi, che poi diventavano le braccia e le gambe dei robot cattivi. Poi con un pezzo più piccolo facevo una sfera, che era la testa, e poi il torso, tozzo.

Quando avevo fatto il mio piccolo esercito di robot cattivi di stucco per vetri, tiravo fuori i robot ™, quelli comprati nei negozi, quelli visti alla tv. Li mettevo vicino a quelli di stucco per vetri e iniziavo la battaglia.

Era, in genere, un massacro.

Le armi a molla dei robot ™ si infilavano nella carne/stucco di quelli cattivi, creavano fori disumani, si staccavano le membra, i relitti si agitavano ancora mutilati e combattevano fino allo stremo la loro inutile battaglia, senza testa, tronconi poggiati per terra che subiscono il sadico attacco degli eroi tv. Niente rimane vivo. I miei robot di stucco per vetri erano votati al martirio e alla morte, il loro unico scopo era far risaltare ancora di più il coraggio omologato dei robottoni nippo.

Alla fine raccoglievo tutti i cadaveri, le carogne aliene rimaste sulla mia scrivania e le impastavo, facevo una grossa palla appiccicaticcia da cui poi iniziavo di nuovo a staccare e creare membra, sta nascendo una nuova legione, altri orrori stanno per attaccare la terra, una nuova armata di guerrieri di stucco per vetri sepolta assieme al suo imperatore sta per invadere il nostro pianeta difeso ancora dai marchi registrati delle tv locali. E continuaVO ancora, nuove battaglie seguono, nuove sconfitte finché mia madre non mi dice che è l'ora, che tra poco alla TV inizia Danguard, inizia Daitarn III, inizia Atlas Ufo Robot, inizia Mazinga. E io scattavo, come una molla, verso questi automi vuoti che mi attendevano nell'ombra del tinello.

Erano arrivati all'improvviso, tutti quelli della mia età avevano iniziato a parlarne. Un cartone animato che era diverso da tutti gli altri cartoni animati per bambini, un cartone animato che fa a pezzi Barbapapà, che distrugge gatto Silvestro, che divora quel coglione di Scooby Doo. È la storia di un ragazzo che guida un robot alto metri, difende il mondo da alieni verdi, ambigui e deformi: è Actarus, è Goldrake, è Trider G7, Starzinger, Mazinga Z, il Grande Mazinga, Daitarn III, Jeeg robot d'acciaio e ancora una truppa di irresistibili ragazzine complessate ma coraggiose Candy Candy, Anna dai capelli rossi, Charlotte, Ransie la strega. Mimì Ayuhara.

Era arrivato tutto un immaginario estraneo, una nuova forma di mitologia, di sofferenza, di speranza. Una nuova iconografia che prende spazio nei miei giochi, che entrava in casa mia in forma di robot, giornalini, mitologie. Una estetica che in quel piccolo paesino di provincia era lontana anni luce, lontana dai campi coltivati, dalla tradizione, dalla mentalità contadina del dopoguerra. Io aveva la tessera “amici di Goldrake”. Io ero amico di Goldrake, lo sognavo mentre camminavo nei campi.

La mia armata di cattivi fatti con lo stucco per vetri era la versione non commerciale di questo mondo, quello che ogni ragazzino creava di suo. Sporcavo me stesso con quello che sognavo, con le mie ansie e le mie fragili gioie senza nome, modificavo e sporcavo quel prodotto di mercato così perfetto e dopo un po' ne creavo uno mio. Un mio universo, una mia confederazione, una mia patria da difendere, i miei eroi. Disegnavo astronavi, robot che combattevano.

Il mio robot si chiama Velocikid. Non so perché, lo ho creato un giorno e poi ho continuato a farlo per mesi, anni, riga dopo riga lo disegno su un foglio e poi metto vicino a lui i cattivi. Poi Velocikid entra in azione e fa partire delle righe dal suo corpo che colpiscono i nemici e io con la penna disegno tutte le esplosioni, tutto il dolore inflitto. Anche Velocikid soffre, perde gambe, arti ma non muore mai, la testa si salva sempre. La testa è un astronave.

Disegnai Velocikid centinaia di volte, durante tutte le elementari e buona parte delle scuola medie, lo disegnavo a casa, di nascosto sotto al banco, lo facevo vedere a Marco piccolo, ai pochi che potevano capire. Ancora adesso che sono qua che trascrivo tutto quello che ho inciso dentro di me, ancora ora posso prendere un foglio e tracciare la sagoma di Velocikid su un foglio, l'ho appena fatto mentre scrivevo. È ancora lì, goffo, sgraziato, sembra uscito dagli schizzi che faccio con determinazione alla fine degli anni settanta, ora, in questo momento che ti sto raccontando.

In questo momento sono sul banchetto in camera mia, ho messo via la mia palla di stucco per vetri e preso il foglio e disegnata la testa di Velocikid, l'antenna che gli spunta tra le due punte che ha in testa, il corpo ellittico, le armi sul petto e quella specie di foro-vagina altezza pube da cui lancia un raggio mortale. Velocikid è la mia versione del Giappone, è una cosa vergognosa che avrei dovuto dimenticare e che invece mi è entrata dentro ed è restata lì nella stanza vuota enorme che ho dentro e che non si riempie mai e non si riempirà mai più a questo punto.

[da PÈCMÉN, Blonk Editore, 2020]

Il problema amico è che io non so chi sono e non sto parlando della mia vita, discorsi tipo esistenziale, il mio futuro eccetera, io proprio non so chi sono nel gioco di Cave Story, il gioco inizia che c’è un uomo dai capelli verdi che sta scrivendo a un terminale e cerca Sue, sta cercando Sue e le racconta che è in questa stanza con solo un terminale e che la sta cercando e può solo scrivere a questo terminale e nessuno gli risponde, Sue non c’è e tu questo tipo lo vedi di spalle, non vedi neppure che faccia ha, leggi solo quello che scrive e subito dopo ci sei tu, cioè io, in questa caverna piena di pipistrelli e strani mostri a forma tondica, e io all’inizio pensavo di essere Sue, cioè che la mia missione fosse di riunirmi a quel tipo che stavo cercando e allora giocavo tranquillo e poi trovavo una pistola spaziale e iniziavo a fare una carneficina e poi cambia tutto, la scena si apre in un villaggio di coniglietti antropomorfi, non sono proprio coniglietti, sono cose tipo coniglietti, roba nippo, e tra due coniglietti c’è una storia pesa perché King, che è il coniglietto capo, vuole una chiave che ha un coniglietto tenero tenero che si chiama Totoko, o tonoro una cosa di questo tipo, roba nippo, e Tonoko o Totono o come si chiama non vuole dargliela questa chiave che permetterebbe a King di andare nella casa dove c’è Sue, perché King non ama Sue, dice che non è come loro, Sue è diversa, e in quel momento io, cioè tu, cadi dal cielo e finisci nel mezzo di questi due che fuggono perché credono che tu sia uno mandato dal ‘dottore’, hanno tutti questa para del ‘dottore’ che ogni tanto viene e se ne prende uno e lo ammazza, e – amico – io ti sto scrivendo tutte queste cose perché Elettra ha lasciato le luci della macchina accese e se ne è andata e quindi sono bloccato con l’auto con la batteria scarica di fronte al D'Oria, non posso fare un cazzo, mio figlio numero due sta sfogliando dei cd, probabilmente li sta distruggendo, tanto sono copie e io non posso fare nulla, non posso neppure collegarmi a internet e vedere se quelli di Devonthink mi hanno risposto, o se qualcuno ha commentato da qualche parte le cose che ho scritto, sono fuori dalla rete globale e sono troppo solo per stare nella rete locale, dove per locale intendo il mio stomaco, il pancreas, sai cosa mi ha detto ieri Gregorio, eh mi ha detto che sta aspettando il turno per l’operazione e io gli ho detto che operazione vetz?, e lui mi ha detto che in pratica gli aprono la pancia e gli tolgono un pezzo di intestino o stomaco non ricordo, una parte del corpo lunga che serve a prendere vitamine e energie dagli zuccheri composti e loro gliela tagliano e in pratica gli collegano la bocca più vicina al culo, in modo che quello che mangia, la roba unta e piena di grassi e di zuccheri del cazzo che Gregorio mangia, questa roba non venga assimilata e finisca veloce nella parte di corpo destinata a creare merda, e io l’ho guardato e gli ho detto ma Grega che cazzo stai facendo e lui ha detto, ma scherzi, dopo potrò mangiare quello che cazzo voglio che non ingrasso, e io gli dico sì ma cazzo il corpo non ti assimila più un cazzo e infatti lui si è fatto serio e ha detto eh lo so devo stare attento perché poi rischio di avere danni anche gravi al fisico e io gli ho detto e ci credo cazzo ti fai tagliare via un pezzo di pancia e lui ha riposto, oh, ma guarda che io mica lo faccio per la linea, e io ho detto eh, e lui mi ha detto, eh io lo faccio per il diabete, e io ho detto ma Grega ne vale la pena e lui ha alzato le spalle e non ha detto niente e io ho pensato vabbé sono un po’ cazzi suoi, però in quel momento mi è sembrato anche un po’ più simpatico credo la sofferenza ci renda tutti un po' più simpatici, più vicini e quindi mi metto a scrivere questa cosa, tu sai che io scrivo tutto, se hai in mano questa cosa ch stai leggendo vuol dire che lo sai, io scrivo tutto e lo scrivo per te, pensando a te ma anche a me, per togliemi tutte le cose che ho in testa e penso che se quando vado in giro non pensassi così tanto a io che divento un grande scrittore eccetera, che scrivo cose incomprensibili come il mio Rekiem e poi tra anni la gente lo ipervaluta e dicono che sono un genio, cose così del tutto irrealizzabili e campate in aria, ecco se non pensassi queste cose mentre porto fuori il cane la sera penso che dovrei pensare ad altre cose tipo a io che scopo, un altro pensiero che mi viene spesso infatti è io che scopo e mi chiedo se anche tutti gli altri maschi quando portano fuori il cane pensano a loro stessi che diventano grandi scrittori o che scopano un numero spropositato di donne senza volto costante nelle maniere più strane tipo stasera pensavo a io che mostro gli appartamenti per venderli e viene questa donna che in realtà guarda un po' l'appartamento e poi si mette a guardare il panorama dalla finestra e si piega e io sono dietro e andrei anche avanti ma in fondo è un mio fottuto sogno erotico fatto mentre porto fuori il cane quindi sono un po' cazzi miei, comunque questi miei sogni sono rotti dal fatto che non riesco a togliere dai sogni erotici delle cose di cui parler più tardi, prima di andare avanti volevo scrivere questa altra cosa che mi rompe i coglioni quando porto fuori il cane, io esco con Tobbia, e mi prendo una mela così – mi dico – mentre porto fuori il cane mi mangio una mela, non credo che ci sia niente di male e usciamo e io tiro due morsi alla mela e Tobbia annusa per terra e si ferma e gira vorticosamente e caga, così io guardo la mela morsicata che tengo in mano, poi guardo la cacca di Tobbia che lascia il suo fumo serale e – ora – io non sono il tipo di persona che abbandona le merde del cane in giro, le prendo mettendo la mia mano dentro i sacchettini verdi per la cacca dei cani e poi con la mano prendo la cacca e con un gesto che ormai potrei insegnarlo di fronte ad ampio uditorio, rivolto il sacchetto e lo chiudo e poi tengo la mano sempre come se fosse una cosa morta lontana dal mio corpo perché i sacchetti verdi sono sempre integri però chissà mai che non ci siano dei microfori della plastichetta verde? eh? chi lo sa? e quindi sulla mia mano ci potrebbero essere dei micron di cacca di tobbia e io magari mi passo una mano tra i capelli e i micron di cacca di tobbia restano tra capello e capello e poi vado a dormire e i micron finiscono sul cuscino e poi tutto può succedere, tutto. Ma prima volevo scriverti questa cosa che mi sono preso tutta la serie di “Zaffiro e Acciaio” in dvd e nella terza missione, “Zaffiro e Acciaio” era una serie inglese degli anni '60 o '70 non ricordo, che io quando ero piccolo avevo visto la prima e la seconda missione ero un bambinetto e ero presissimo da questo serie, una paura del cazzo, ero incollato di fronte al tv in bianco e nero a Sant'Olcese e ora l'ho visto da grande, a colori, in dvd e devo dire che con tre soldi e con effetti speciali da niente, tipo un effetto speciale è una luce fatta con la torcia sul muro, davvero, una luce che si muove sul muro, imbarazzante, ma la serie è stupenda e nella terza missione, nella quale peraltro Zaffiro sul tetto è meravigliosa, sembra un video alternativo di una band anni '00, comunque nella terza serie ci sono questi cuscini che si muovono da soli per soffocare le persone e i cuscini si trasformano in cigni, pensa cosa potrebbero fare con i micron di cacca di cane, ho capito perché scrivo certa roba, non è che sono un surrealista è che da piccolo ho visto “Zaffiro e Acciaio”, peraltro da piccolo leggevo anche Poe, Edgar Allan, e dopo averlo letto disegnavo delle cose tipo – parlo della seconda media – cadaveri smembrati e raggi di luce che superando la conoscenza arrivavano da un essere metà demone e metà angelo, il fatto che superasse la conoscenza era graficamente reso dalla scritta CONOSCENZA e da un raggio che partiva dal cadavere smembrato per salire in alto attraversando la scritta CONOSCENZA e le maestre all'epoca chiamarono i miei genitori per chiedermi se facevo parte di qualche setta, e mia madre disse alla maestra di sì, ma solo io, e in effetti avevo creato un club all'epoca il CDA ovvero Club degli aquilotti, giuro, e uno che viveva a Monza e veniva a Sant'Olcese d'estate, lo scopo del CDA era avere una baracca e una gerarchia e un linguaggio segreto, comunque questo ragazzo di Monza voleva entrare nel CDA e noi non lo volevamo allora lui disse che suo padre lavorava nella Fininvest e che la Fininvest avrebbe fatto da sponsor al CDA facendoci avere dei giubbotti con il simbolo di Canale 5 e questo in effetti dava ampie prospettive al CDA, anche se in cambio noi dovevamo cambiare il nome del CDA in CDA5 per motivi di sponsorizzazione, quello di Monza e altri due ragazzini una volta si erano messi in un prato con una ragazzina sdraiata e le dicevano che da quel giorno loro la avrebbero protetta e poi uno a uno salivano sopra la ragazzina e limonavano, a turno, e io guardavo da lontano perché ero escluso, ero anche più grande di loro e facevo il palo perché nessuno li vedesse e ricordo che quello di Monza cercava di alzarle la gonna ma lei la ritirava giù, solo quello di Monza ci aveva provato, gli altri due limonavano soltanto, non avevano grandi pretese, quello di Monza aveva anche la pelle più scura di noi, è venuto per qualche anno poi non l'ho più visto, i giubbotti di canale cinque non si sono mai visti a sant'olcese, ma di questo non parlo più perché l'ho già scritto in un altro mio romanzo chiamato PÈCMÉN, preferisco parlare di adesso, del mio corpo ora e del tuo, amico, dove mi stai leggendo, per strada, sul letto, su una sedia, dove cazzo sei amico, perché io sono qua, sarà che domani mi sposo ma questa sera ero nel letto di figlio numero due con figlio numero uno sulle gambe che faceva le fusa ed è arrivato di corsa figlio numero due con il suo sguardo da iena killer in allenamento e ci ha guardati e poi ha mandato uno dei suoi urli subumani e si è lanciato contro di noi e io mi sono trovato sommerso da queste due bestioline che un po’ somigliano a me e un po’ somigliano a Elettra, e che ridono e che mi cercano e che sono capaci di stare a piangere per ore urlando il mio nome e mi sono visto in questa dimensione dell’infanzia, in questo mondo parallelo di cui mi rimangono impressioni improvvise che non so neppure da che parte sopravvissuta del cervello mi arrivino, un mondo in cui ogni cosa appariva contemporaneamente semplice e complicatissima, una ragnatela di corridoi e di entrate e di passaggi, e io bambino ero in quella stanza a Sant’Olcese assieme a figlio numero uno bambino e figlio numero due bambino e fuori c’erano mostri che combattevano dentro ai muri, scene di combattimento infinito, finestre che non mostravano mondi ma reticoli luminosi che si intersecavano e parole che arrivavano dall’alto e che non avevano nessun significato particolare, è esistito un mondo in cui una casetta dal nastro rallentato mandava dal registratore suoni di voci del pianeta Nettuno, e io stavo ore ad ascoltarla e figlio numero due non esisteva, non era nulla di nulla come figlio numeri uno, figurati figlia numero tre, eppure erano lì vicino a me e io bambino diventavo un adolescente sudato e poi con cambiamenti di capelli e di unghie e cadute di denti e un circolo continuo di questo sangue che tra cuore, arterie, vene e di nuovo cuore e arterie e vene, non vede mai la luce del sole se non per feritoie improvvise e liberatorie, arrivavo a essere questo Fabrizio che sono adesso, questa roba che ti sta scrivendo, un integrato con gli occhi strani e i denti rotti e i miei figli uscivano fuori da quella meraviglia di Elettra e urlavano ciechi e si attaccavano ai capezzoli bevevano come dei matti e poi si giravano verso di me e mi riabbracciavano di nuovo dopo tanto tempo.

[da “19 merged documents”, work in progress]

La ragazza ha come delle efelidi sul volto che si staccano e poi prendono il volo. “Sono un mutante” le dico. Lei mi guarda appena. “Chi non lo è” risponde e mi mostra che, aprendo la spaccatura dei pantaloni, si vede il cielo. “È in fiamme” e intendo il cielo, suo, interno. La ragazza intanto ha già mutato forma, adesso è la stereofonia. Echeggia per tutto l'albergo. “Sono già stato qua” le dico, guardandomi attorno. “Mi ero spaccato un braccio”. È un grosso centro antibalbuzie. Riconosco la grossa vetrata del salone. Uno dei miei compagni balbuzienti una volta aveva attraversato la vetrata con il corpo. Tutto era andato in frantumi. La ragazza sta mutando forma, ma non ci riesce. È rimasta metà suono e metà ricordo. Intanto è arrivata mia madre, avevamo un appuntamento. il corpo di mia madre. “Ciao mamma” le dico. “Cosa ti è venuto in mente di partorirmi?” le chiedo. Mia madre mi sorride e mi risponde che nel 1970 era tutto un casino, lei non ci capiva niente. “Ma sono contenta di come è andata” mi dice e mi guarda con affetto. “Non lo so” dico io. “Forse è per questo che tutto mi sbalordisce”. Mia madre sta guardando la ragazza mutante che ora sta diventando un pezzo del corpo del centro antibalbuzie. “Ma perché scrivi sempre questa roba?” mi chiede mamma indicando la mutante. Alzo le spalle. “Per me è normale. Nella mia testa è tutto così”. Poi ci penso. “Anche nella tua, in quella di tutti è così”. Nel cielo è apparsa la seconda stella, viola e grossa come un pugno femminile. “Un tempo scrivevo bene mamma. Ci ho messo vent'anni per riuscire a togliermela di dosso la bella scrittura” le spiego, ma lei non mi ascolta, sta cercando qualcosa nella sua borsetta. “Ti avevo portato una cosa da dare a tua moglie” mi dice e cerca ancora nella borsetta. Intanto continuo a guardare il centro antibalbuzie. È incredibile che sia ancora dentro di me: le stanzette per le discussioni di gruppo, le camerate con i letti, le casse appese al muro con dentro i pezzi di musica classica che bruciano come incensiere. È tutto dentro di me. Mia madre ha tirato fuori dalla borsa un maglione tutto sfilacciato e mangiato dalle tarme. “Ecco, questo” dice. “Dille che se non le serve può usarlo come cibo, ti do anche la ricetta”. Lo guardo. Penso sia il caso fare un monologo. “Mamma da ragazzo sono stato Lara Croft, e anche Konoko. Ho attraversato tu non sai quanti pericoli. Sono stato una spugna. Un piccolo pixel. Sono esploso migliaia di volte. Sono invecchiato migliaia di giorni. Cazzo, migliaia di giorni. Siamo sui diciottomila giorni. Sono stato in questo cazzo di posto diciottomila giorni” le dico e cerco con gli occhi la ragazza mutante. La ragazza ha ripreso il suo aspetto abituale, solo ora ha gli occhi neri e le orecchie. Mi sta vicina e mi fa un sorriso cattivo. Non è cattivo. Non mi capisce nemmeno lei. Cerca di capirmi come capisce le altre cose che capisce, e non mi capisce. Così pensa che sia colpa mia, il fatto di non capirmi, dico. “Grazie” dico a mia madre, e prendo il maglione che va in brandelli. La ragazza mutante mi mostra nel cielo lo splendore delle due supernova al massimo del loro bagliore.

In realtà non c'è niente di male a guardare il festival, come a guardare i campionati di calcio, a parlarne, è umano. Quello che – dall'altra parte – mi ha sempre colpito e – in un certo senso – spaventato, è la capacità di una massa di persone nel trovare da un momento all'altro, una comunicazione comune. Totalizzante.

Per me che non ho visto il festival, che non guardo i campionati di calcio, il mondo cambia nel giro di un secondo. Persone insospettabili, che non si conoscono, che vivono a centinaia di chilometri di distanza, tutti iniziano a parlare della stessa cosa e – peggio – dicendo le stesse identiche cose, facendo le stesse considerazioni.

Vista dall'esterno la cosa sembra una specie di realtà distopica. Esiste un mondo in cui tutte le persone che conosco devono rassicurarsi l'un l'altra che hanno visto un cantante prendere a calci dei fiori. La cosa che mi fa impressione, è che negli anni novanta non mi sarei aspettato, è che questo avvenga qua.

Il vecchio obsoleto mass media top-down, fuori dalla rete, abbaglia gli sciami e ne conduce comunque gli spostamenti in massa, impatta le condivisioni, le indirizza in una direzione rispetto ad un altra. E gli algoritmi e le bolle, sapendo che questo conviene perché genera traffico, metadati e quindi soldi, favoriscono questo meccanismo.

Ieri ero su Mastodon, ho aperto le preferenze, ho chiesto di filtrare tutti i contenuti che avessero come tag sanremo e ho potuto creare una zona protetta. Su Facebook è impossibile, se non forzandolo con plug-in esterni che non sempre funzionano. La questione qua non è il festival, ma la scelta di fare parte o meno di un meccanismo di propagazione sociale. Anche qua, nella rete, i grossi player tendono a impedirmi o rendermi difficoltosa la personalizzazione dei contenuti che voglio o non voglio vedere.

Quello che spaventa qualcuno nell'avere le IA come motore di ricerca non è tanto l'IA di per sé, ma la sostituzione di uno strumento già di per sé molto condizionato, con un altro che potrebbe essere ancora più condizionato e in maniera molto meno esplicita. Il fatto che questa comunicazione di massa, per essere di massa, debba essere facilitata è falso nel momento in cui viene sottratto il complesso di default. Quando a un affiancamento viene operata invece una sostituzione.

[le serie tv tratte dai videgiochi]

«Oh cazzo venerandi bene che sei venuto» mi dice Carlo e mi rendo conto che è completamente nudo e dipinto di giallo. Il corpo nudo e scheletrico di Carlo è tutto dipinto di giallo, integralmente. «Uh» dico e non entro, nonostante lui mi faccia -a gesti- evidenti inviti a seguirlo. Nel piccolo corridoio dietro a Carlo vedo passare un fantasma con il pube al vento, una donna con un lenzuolo che le arriva fino all'ombelico, due buchi altezza testa, il fantasma si gira verso di me e sento da sotto la voce malata di patrizia che mi dice oh ciao venerandi, cazzo meno male che sei venuto, ci serve uno che ci tenga la telecamera. «Non mi fermo, volevo solo sapere se stavate bene. Purtroppo no, vedo, ma me ne farò una ragione» dico ma prima che possa girarmi e correre verso l'ascensore carlo mi ha afferrato per un polso e mi ha tirato dentro. «Dai venerandi non fare il cazzone, sto facendo un film sperimentale» mi dice. «Vieni in cucina che ti spiego tutto, tanto facciamo una pausa». L'odore all'interno della casa è qualcosa che ha a che fare con la chimica. «Che film?» faccio seguendolo verso la cucina. Il culo nudo di Carlo è di una magrezza inaspettata e pieno di segni scuri, come piccoli ematomi. Carlo entra in cucina, mi fa segno di sedermi e poi si appoggia sul bordo del lavandino accendendosi una sigaretta. Il pene del mio ex-amico è dipinto anche lui di giallo, solo che -scappellato- rivela la sua rossastra natura umana. Con la coda dell'occhio noto sul tavolo un numero imprecisato di pastiglie e alcune scatole di medicinali aperte. Carlo tira due boccate, si schiarisce la voce e inizia un lungo discorso. «Hai presente che adesso il mercato fa i film tratti dai videogiochi. Hai presente no, i videogiochi, adesso il mercato americano ci fa sopra dei film di azione, tratti dai videogiochi. Tipo tomb raider, tipo alone in the dark, tipo mario bros, tipo silent hill, cazzo ce ne sono quanti ne vuoi , resident evil, tutta merda, cioé il videogioco è narrativamente piatto e tu fai un film basato su questa banalizzazione, si tratta di una cinematografia che bidimensionalizza, impara il mio spelling, bidimensionalizza tutto l'apparato fotocopiandolo su una serie di meccaniche di gioco che non sono più narrative, ma semplici immagini, ritmi puri che rispondono al ritmo del mercato. E non si tratta di un passaggio da un media ad un altro, come avviene nei film tratti da un romanzo, no, il videogioco è già una piccola cinematografia, si passa da una povera cinematografia del personale a una cinematografia spettacolare per la massa, la piccola lara croft che tenevi tra le dita sul tuo personal computer adesso è l'eroina dei consumatori raccolti al cinema per la grande cerimonia» «Resident evil è quello con quella fica di milla jovovich?» Carlo sbuffa, fa una nuvola di fumo. «Non è milla jovovich in realtà, è una icona, in quel film nessuno recita, ma tutti impersonano una icona da doppiocliccare, milla jovovich è una semplice icona nelle mani del mercato. Anyway, ecco la mia grande idea. Scendiamo nello stesso territorio, non opponiamoci a questa tecnica aberrante, ho detto aberrante?» «Uh, sì.» «E sia, aberrante. Non opponiamoci, ma scaviamo in questa bidimensionalità per trovare il volume di questo ridursi a semplice icone. Tu sai cosa voglio dire. Troviamo la terza dimensione che renda evidente che anche queste icone conoscono il tormento. La caduta. L'estasi» «Quindi milla jov...» «Lascia perdere milla jovovich, cazzo venerandi mi sembri vittima degli ormoni. Pensa al concetto. Ecco, prendiamo un videogioco e portiamolo nella vera cinematografia, portiamolo in quella sporca, nei garage, nella macchina a mano, portiamolo voglio dire nel palazzo rozzo del sensibile e mettiamolo a nudo, scomponiamolo. Ecco quello che io e patrizia stiamo facendo. Abbiamo preso un videogioco e lo stiamo dissezionando, lo stiamo facendo godere, lo stiamo mandando in putrefazione vediamo uscire i suoi umori, i suoi posti oscuri e marci» «Che videogioco?» «Pac man» «Pac man» «Quello della pallina gialla che mangia i pallini» «Conosco. Ecco, io...» «Stammi a sentire venerandi, è da mesi che ci lavoriamo. Guarda in prospettiva, cazzo, guarda in prospettiva: cosa è pac man? È un pallina, cioè il nulla, la cosa senza identità se non quella di mangiare di fagocitare, pac man è un essere il cui unico scopo è fagocitare, un enorme bocca che chiede solo cibo cibo cibo, auacca auacca auacca, e quale è il suo cibo? Pasticche, dei fottuti allucinogeni che il pac man mangia, fuggendo dai suoi stessi fantasmi che lo inseguono in un labirinto che è poi la vita, e quando trova quella giusta, ah cazzo, cosa succede quando trova la pastiglia giusta? Ehi patrizia, cosa cazzo succede quando trova quella giusta?» Dal corridoio arriva la voce di patrizia che dice diventa grosso. «Ecco cazzo cosa succede, diventa grosso» «Non ricordo che pac man diventasse grosso» «Dentro venerandi, diventa grosso dentro, e i fantasmi della vita fuggono da lui, scappano perché adesso la voracità di pac man è contro di loro, fino a un momento prima sono loro a inseguirlo per morderlo, per inghiottirlo, per riportarlo a quel niente da cui è venuto, e adesso lui è grande e mangia i fantasmi, li ingloba, come certe tribù fanno con i cadaveri dei nemici vinti. Ecco la storia, ecco perché vivo in questa casa inseguendo il mio fantasma, mangiando le mie pastiglie e lei insegue me, dico il fantasma, e quando mi trova mi mangia, si getta su di me e inizia a mordermi, sono pieno di lividi venerandi, mi morde sopra di me mentre io urlo e mi dibatto e poi mi scopa venerandi, mi rende un niente, un puro pezzo di carne morta, edibile e fottuta. È questa la vera storia del pac man. E poi si ricomincia, io mangio le mie pastiglie, fuggo per la casa, sto nascosto nell'ombra a cercare le pastiglie, il fantasma le ha nascoste per me, e quando trovo quella giusta, ah quando trovo la pastiglia giusta vado in cerca del mio fantasma e la butto per terra e la mordo, le strappo i capelli e adesso è il suo turno di urlare, la metto sotto e la svuoto e la riempio, le tolgo il telo e vedo la sua assordante nudità» Resto immobile senza dire nulla, vorrei dire che il pac man nel gioco non scopava mai, ma poi mi ricordo che esisteva anche miss pac man e poi anche pac man junior e quindi forse anche pac man scopava, poveraccio, magari una sveltina nei bonus level.
Intanto nella cucina entra il fantasma e si prende una pastiglia dal tavolo. Alza il telo e vedo la figura magra di Patrizia, anche lei nuda, piena di lividi e con gli occhi a mezz'asta. Inghiotte la pastiglia e poi invece di bere per mandarla giù, prende dalle mani di carlo la sigaretta e tira due boccate. Carlo non è accorto di niente, continua a tenere le dita come se avesse ancora la sigaretta in mano. «Oh venerandi» fa Patrizia come se mi avesse visto solo in quel momento. «Come mai passavi di qua?» «Avevo dei problemi con un romanzo, incontro i personaggi che mi escono dal libro, ma ora che ho visto voi mi rendo conto che sono gocce nel mare» Carlo si accorge di non avere più la sigaretta in mano ed è perplesso, poi mi vede, mi mette a fuoco e riprende a parlare. «Ci dovresti tenere la telecamera per una scena, dovresti vedere il girato fin ora, cazzo venerandi è un capolavoro. È il nostro capolavoro. Devi vedere che bianchi e neri che abbiamo fatto, abbiamo girato tutto in bianco e nero e c'è questo nero che è come la morte e poi appaiono i nostri corpi, che spezzano...» «Hai girato tutto in bianco e nero» «Un favoloso bianco e nero» «Ma allora perché ti sei dipinto di giallo? Tanto il pubblico mica lo vede che sei giallo» Carlo mi guarda con un espressione indecifrabile. Da un lato sembra spaventato da una parola che ho appena pronunciato, 'pubblico', dall'altra sembra essersi posto di fronte ad un problema che non riesce a circoscrivere. Ma poi si rilassa e mi sorride. «Ma cazzo venerandi, il giallo serve a me. Per entrare nel personaggio» «Capisco» «Cioé pac man è giallo e io...» «Capisco, davvero»

Un quarto d'ora dopo sto inquadrando Carlo con una telecamera, è sopra patrizia e schiacciandola urla auacca auacca mentre lei geme e grida di piacere. Quando capisco che i due sono andati troppo oltre nella loro cinematografia per badare a me, poso la telecamera per terra e esco.

[da “Il mio prossimo romanzo”, Tombolini Editore, 2017]