D͏i͏-s͏p͏e͏n͏s͏a͏

D͏i͏-s͏t͏r͏i͏b͏u͏z͏i͏o͏n͏i͏ D͏i͏-g͏i͏t͏a͏l͏i͏ D͏i͏-v͏e͏r͏s͏i͏f͏i͏c͏a͏t͏i͏

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In questo momento, mi spaventa parlare e tanto più scrivere. Se dico che non voglio collaborare con i contagi e sto attenta a non andare in giro per non mettere a rischio gli altri ma anche me che sono vecchina e ho avuto varie polmoniti, mi abbaiano che però le persone devono lavorare, che chiudere i bar uccide chi ci lavora, che c’è chi vive di teatro, che i piccoli ristoranti … “Eh lo so”, rispondo timidamente a occhi bassi. Come se non lo sapessi … ma si sa che se dici una parola restano in disparte tutte le altre. Mi sento in colpa di essere delicatamente viva e di non uscire di scena per lasciare spazio a chi è forte e “il covid è solo un’influenza”.

Se dico che la vita non può più essere ‘normale’ e che la rinuncia non è un danno permanente e forse insegna anche qualcosa e fa salire tutto l’incompiuto che stava assopito in noi, sbraitano che gli adolescenti non possono più toccarsi e diventeranno tutti autistici. Se accenno genericamente ai bambini, inveiscono che ci sarà una generazione di ignoranti. Spavento.

Eppure, Marina Cvetaeva che ha vissuto sempre con la febbre a quaranta e a 200 all’ora, in un’epoca feroce, scriveva che tutta la sua poesia nasceva dalla Rinuncia. Con la erre maiuscola. Una forza vitale, sembrerebbe.

Va beh, sai cosa? Io sto zitta. Ma come sarà una scrittura zitta? E se scrivo dal mio minuscolo punto di vista, dal bosco e dalle foglie, mi sento di mettere in piazza, tra gli inferociti, la delicatezza di una vita che si preserva a stento.

Se parlo di come la meditazione mi insegna a non dividere il bene dal male e ad accogliere tutto così com’è con compassione e con il senso del non permanere delle condizioni, mi ammoniscono che no, bisogna trovare sempre il positivo e il significato profondo e agire. Oppure che un vero poeta ha solo la poesia e non si mette a fare il salvatore. Veramente io mi sento un ciarlatano.

Ci sono anche quelli che non dicono niente, ma spariscono, perché disapprovano, e non si accorgono che le opinioni sono i travestimenti dei nostri attaccamenti, giusti o sbagliati che siano, ma perché renderli delle prese di posizione anziché dire: “Non posso farne a meno”?  Ho già vissuto periodi in cui parlare era sempre un rischio, di colpo diventavi un nemico per una parola scorretta, non eri dalla parte giusta.

E poi c’è stata anche l’infanzia, un padre che ti lasciava scegliere di bere il caffelatte da qualunque tazza, tranne la sua. Solo che la sua cambiava. Senza preavviso. Non sbagliare era un vero azzardo. E dopo erano guai.

Insomma, lo smarrimento è sempre stata la mia Via, e finire dalla parte sbagliata anche. E tacere pure. Un silenzio non quieto né sereno, ma la bocca cucita perché qualsiasi cosa dici sbagli.

Il fatto è che le cose sono complesse e se vedi un lato ne manchi un altro e non ho parole rotonde.

Tutto sommato, credo che ascolterò e basta, lascerò dire a ognuno la sua e intanto respirerò. Certe volte, così facendo, qualcuno mi dice: “Grazie, mi fa bene parlare con te.” 

“A me invece fa bene respirare,” penso io, un po’ malinconicamente.

Chandra Livia Candiani #Difilosofia #Divita

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E così sta ricominciando. Abbiamo ricostruito per un po’ lo scenario di una vita ‘normale’ e ora si ricomincia con l’emergenza, con il non poter più fare come se. 

Sono fortunata, non ho mai avuto una vita normale. Sempre fatto tanta fatica in tutto. Quelli come me erano da schivare perché sono quelli scassati che ti ricordano la fragilità e l’andare a pezzi, quelli che vedono il re nudo.

Adesso che il re è evidentemente nudo non si può rivestirlo.

Da otto mesi vivo in campagna, ma non basta, ho deciso di non tornare. Perché man mano è salita la solitudine gigante in cui vivevo. Quanto mi faceva male passeggiare facendomi timidamente largo tra i corridori. Una volta una signora dietro di me si è messa a sbuffare e poi mi ha detto: “Ma lei non tiene la carreggiata, va di qui e poi di là!” “Ma sono a piedi!” le ho risposto io esterrefatta, pensando mi avesse scambiata per un mezzo di trasporto. Quale poi? Sono piccolissima. Un monociclo?

Ora vivo in un piccolo paese piemontese, un paese senza case di villeggiatura ma con parecchie case abbandonate. In questi mesi ho sentito e pensato tanto e non ho dimenticato niente. Certe volte vedo delle immagini di Milano, strade qualunque, slarghi trafficati, qualche chiesa, sono pezzi di me rimasti lì, momenti di consapevolezza che non sono partiti con me. Forse.

Qui c’è il bosco, il mio Maestro. Non ho più nessuna vita sociale, tanto non ne ero capace. Qualche amica e amico sì però, ci si scrive o ci si telefona. Anche qualche parente cattivo che non ha capito di aver perso il bersaglio: sono andata via!

Per un po’ mi hanno fatta sentire vile, una scampata, ma ora i pensieri degli altri non pesano più così tanto. Perché gli alberi mi parlano. E anche gli asini, più che altro gli asini mi corrono incontro e ci abbracciamo, soprattutto uno, Pippo Magique.

Non trascuriamo gli altri regni, ci sono gli alberi dovunque siamo, qualche animale c’è sempre ovunque, se non altro i cani salvavita delle città. Sono stanchi, un saluto gli fa bene.

Non trascuriamo il respiro, c’è ancora, non è garantito, fa bene ricordarlo, sentirlo, lasciarlo libero, prolungare un po’ l’espirazione, imparare a lasciare. Ogni respiro insegna a lasciare. Inspirare prende, ma sa farlo da sé, espirare invece lascia, esce nel mondo, insegna a mollare la presa.

Nel bosco porto sempre con me la mascherina, se incontro qualcuno (è raro, ma nei periodi in cui si può prendere qualcosa, castagne, funghi, spuntano gli umani) se li incrocio anche per pochissimo, mi infilo la mascherina e gli sorrido, un po’ come un tempo gli uomini che alzavano il cappello, un segno di rispetto, per la comune fragilità.

Imparare a salutarci, a onorarci perché stiamo passando.

Chandra Livia Candiani #Difilosofia #Divita

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Vi sconcerta non riuscire a vedere la gente della Valle?

– Beh, sì, – balbettò il Mago. – Finora sono sempre riuscito a vedere tutte le persone che ho incontrato.

I bambini vogliono essere tutti visti. Per questo parlano, si muovono, e per questo si nascondono e stanno in silenzio.

I bambini desiderano tantissimo essere invisibili. Certe volte solo l’invisibilità salva le cose sacre, come la nostra faccia che non vedendola possiamo sentirci abitanti di un paese invisibile e affacciarci alle finestre, gli occhi. Perdere la faccia davanti agli altri salva la faccia sulla porta dell’invisibile, apre una prospettiva nuova. Noi siamo nascosti dentro. Invisibili. E chi lo sa lancia occhiate agli altri. Ci si riconosce, nell’invisibilità.

Una volta un’amica filippina mi ha detto: “A me non lasciano il posto in metrò, Chandra, io sono invisibile.” E lo diceva come dire io sono inglese. Quindi c’è un’invisibilità che protegge e una che uccide.

Spesso gli invisibili sono invisibili agli intelligenti che poi magari scrivono tanti pensieri intelligenti sull’invisibile e anche sui suoi abitanti. Essere invisibili può fare molto male. Ma i cani vedono quasi sempre gli invisibili, i gatti assolutamente sempre. Come i morti, per esempio.

Nei libri considerati per l’infanzia, l’invisibile è abitabile anche quando non è nominato. Molte impossibilità sono probabili quando lo sfondo, l’amato sfondo degli invisibili dove fare quietamente tappezzeria, è l’accogliente spazio dell’invisibile. L’invisibile è casa. Perché i bambini sono arrivati da poco nel visibile e si ricordano molte cose di laggiù, lassù, là attorno.

Le ferite sono invisibili, soprattutto a scuola e soprattutto con gli adulti spaventati dal cuore. Il cuore è amico dell’invisibile, è attaccato per un filo al visibile, se tiri troppo si spezza e vola via e va a bussare alla foresta dell’invisibile dove si sono salvati tutti gli animali e ogni albero e tutte quante le ferite. Chi vede l’invisibile è impossibile che si dia arie. Speriamo solo che invisibile non sia una parola che sta diventando frequente per accaparrarsi una nuova esclusività, speriamo che non finisca come la luna, con una bandiera ficcata nel collo.

Chandra Livia Candiani #Difilosofia #Divita

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Ho letto una storia Sufi: “Un giorno l’asino di un contadino cadde in un pozzo. Non si era fatto male, ma non poteva piú uscirne. L’asino continuò a ragliare sonoramente per ore, mentre il proprietario pensava al da farsi. Infine, il contadino prese una decisione crudele: concluse che l’asino era ormai molto vecchio e che non serviva piú a nulla, che il pozzo era ormai secco e che in qualche modo bisognava chiuderlo. Non valeva pertanto la pena di sforzarsi per tirare fuori l’animale dal pozzo. Al contrario, chiamò i suoi vicini perché lo aiutassero a seppellire vivo l’asino. Ognuno di loro prese un badile e cominciò a buttare palate di terra dentro al pozzo. L’asino non tardò a rendersi conto di quello che stavano facendo e pianse disperatamente. Poi, con gran sorpresa di tutti, dopo un certo numero di palate di terra, l’asino rimase zitto. Il contadino allora si decise a guardare verso il fondo del pozzo e rimase sorpreso da quello che vide. A ogni palata di terra che gli cadeva addosso, l’asino se ne liberava, scrollandosela dalla groppa, facendola cadere e salendoci sopra. In questo modo, in poco tempo, l’asino riuscí ad arrivare fino all’imboccatura del pozzo, oltrepassare il bordo e uscirne trottando”.

Meditare non è cercare vie d’uscita, ma piuttosto vie d’entrata. È questo che fa l’asino. Entra nella sua situazione, sente la disperazione, grida, poi accoglie quello che sta succedendo, non ne resta sommerso, non è vittima della situazione, si scrolla di dosso la terra e quella stessa terra diventa la sua risorsa.

Chandra Livia Candiani da 'Il silenzio è cosa viva' #Dibuddismo #Divita

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Ci sono album che trascendono l’epoca in cui sono usciti e continuano a essere riscoperti dalle generazioni successive. Altri no e per varie ragioni. Per la produzione datata, per il mutato contesto sociale o per cause imperscrutabili, i dischi che troverete elencati di seguito sono stati amati da milioni di baby boomer. Eppure, a differenza di tutti i Dark side of the Moon e i London Calling del mondo, non hanno lasciato una particolare impronta se non tra gli ascoltatori a cui erano indirizzati quando sono usciti. Tornate a leggere questo pezzo fra qualche anno: magari le cose saranno cambiate.

“Slowhand” Eric Clapton (1977)

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Per essere un album da cui sono usciti alcuni dei più grandi successi di Clapton (Cocaine, Wonderful Tonight e Lay Down Sally è il terzetto di apertura), Slowhand non gode di grande reputazione, così come sottotono è il suo sound. Pur senza il fuoco strumentale delle band precedenti e senza le guest star (Bob Dylan, Ron Wood e buona parte di The Band) presenti nel suo LP del 1976 No Reason to Cry, il quinto album solista di Clapton beneficia della tranquilla atmosfera famigliare creata dalla sua backing band per i live e del tocco vellutato, in fase di produzione, di Glyn Johns. Tutto è incentrato sulla costruzione dei brani piuttosto che sul virtuosismo. È come se Clapton avesse smesso di preoccuparsi di scrivere hit per riuscirci, finalmente. Siccome il suo status di leggenda è principalmente dovuto alle parti chitarristiche, è comprensibile che i lavori più orientati sulla scrittura dei pezzi, come Slowhand appunto, passino sotto traccia.

“The Cars” The Cars (1978)

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L’album d’esordio del quintetto di Boston è una vera e propria parata di hit. Il 33 giri ha passato 139 settimane in classifica, arrivando al numero 18 e vendendo milioni di copie forte dei singoli My Best Friend’s Girl e Good Times Roll, ma anche di brani come You’re All I’ve Got Tonight, Bye Bye Love, All Mixed Up e Moving in Stereo (incluso nella scena della piscina del film Fuori di testa). Questo disco rappresenra il momento più alto della band e i Cars sono uno dei gruppi più influenti della new wave. Ric Ocasek in seguito ha prodotto album di Weezer, Guided by Voices, Hole, Nada Surf, No Doubt, Bad Brains.

“Rickie Lee Jones” Rickie Lee Jones (1979)

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Con Tom Waits a fare da capofila, alla fine degli anni ’70 nella California meridionale fioriva una curiosa e piccola scena neo beat. Rickie Lee Jones, con l’omonimo disco d’esordio del 1979 è stata l’artista più importante di quel panorama. L’album è giunto al numero 3 della Top 200 di  Billboard e il singolo Chuck E.’s in Love ha toccato il numero 4 della Hot 100. Sia Jones che Waits, intelligentemente, si sono poi allontanati dal tipo di estetica retromaniaca da “dritti” che contraddistingueva questo disco, peraltro ancora affascinante.

“Breakfast in America” Supertramp (1979)

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Escludendo The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd, Breakfast in America dei Supertramp è probabilmente l’album di art rock più popolare di sempre (con 20 milioni di copie vendute, certificate, in tutto il mondo), spinto dai singoli di successo The Logical Song, Goodbye Stranger e Take the Long Way Home. Da quando i Radiohead hanno abbandonato ogni ambizione di piacere alle masse, l’art rock non è praticamente stato rintracciabile nell’universo pop. Per quanto siano stimolanti, i Muse e i loro epigoni non riescono neppure ad avvicinarsi al gusto per le melodie pop dei due leader dei ‘Tramp (Rick Davies e Roger Hodgson), anche se Kevin Parker dei Tame Impala ha citato la band inglese come una sua influenza.

“Private Dancer” Tina Turner (1984)

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Tina Turner era già una star per via della sua partnership con Ike Turner, dal quale ha divorziato nel 1976 dopo anni di maltrattamenti subiti. Dopo anni passati a proporre e rifinire il suo spettacolo dal vivo come solista, ha ottenuto un contratto con la Capitol e ha inciso un pezzo di un certo successo, la cover di Let’s Stay Together di Al Green. Così, nel 1983, la sua etichetta le ha chiesto un album. Nato con l’aiuto di diversi produttori e autori, Private Dancer presenta diversi elementi di soul, pop, R&B, reggae e new wave, su cui svetta il suo cantato sexy di Tina. Il primo singolo, quello di traino, ovvero Better Be Good to Me, ha raggiunto il numero 5 della Hot 100, ma Turner ha toccato la vetta con What’s Love Got to Do with It?. Con questi due brani, nel complesso, ha ottenuto quattro Grammy. Ha poi sfiorato il primo posto con la title track, scritta da Mark Knopfler dei Dire Straits e con tanto di assolo di chitarra suonato da Jeff Beck. Con l’inclusione delle cover di Help dei Beatles e di 1984 di David Bowie, Private Dancer è uno dei più grandi album di sempre a segnare il ritorno di un’artista, anche se il sound troppo patinato non rappresenta al meglio il leggendario talento naturale della Turner.

“No Jacket Required” Phil Collins (1985)

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Ormai è più facile sentire qualcuno che scherza (e magari a ragione) su Sussudio che non qualcuno che la ascolti davvero, per cui potrebbe essere difficile ricordare che la canzone, nel 1985, era in cima alle classifiche statunitensi. E potrebbe essere arduo anche immaginare che un tizio inglese, sulla trentina abbondante e dalla calvizie incipiente, potesse essere una delle popstar più grandi al mondo. Ma Phil Collins lo era, specialmente dopo l’uscita del suo terzo disco solista. Grazie a hit a base di synth che ti si piantavano in testa come One More Night e Don’t Lose My Number, l’LP ha raggiunto il numero uno in diversi Paesi, diventando il più grande successo della carriera di Collins (più di 25 milioni di copie vendute). Dopo No Jacket Required, Collins ha pubblicato un duetto con Marilyn Martin che ha ottenuto una nomination all’Oscar (Separate Lives, dalla colonna sonora di Il sole a mezzanotte) e si è esibito con grande successo nell’edizione americana e in quella inglese del Live Aid, il 13 luglio del 1985.

“Brothers in Arms” Dire Straits (1985)

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L’esplosione dei video musicali è stata al contempo una benedizione e una maledizione per i Dire Straits. A inizio carriera, il gruppo di Mark Knopfler aveva evitato il nuovo media che stava nascendo, limitandosi a qualche clip con riprese dal vivo. Ma quando Knopfler ha scritto il grande successo tratto da Brothers in Arms, il singolo Money for Nothing (che raccontava l’atteggiamento sprezzante di un colletto blu nei confronti di MTV e gli eccessi degli anni ’80), il video che lo accompagnava, con un breve e memorabile cameo vocale di Sting, ha reso il pezzo un inno di MTV a dispetto del testo sarcastico. Divenuto un tormentone onnipresente, ha finito per mettere in ombra un album contraddistinto da brani tristi e dolci riflessioni. Peccato che così tanti ricordino soltanto quel riff.

“Bring the Family” John Hiatt (1987)

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L’ottavo album di Hiatt ha rischiato di essere il suo canto del cigno nell’industria discografica. Era stato scaricato da diverse etichette, in parte a causa del suo alcolismo, e stava facendo i conti coi tragici suicidi del fratello maggiore (avvenuto quando era bambino) e della sua seconda moglie, nel 1985. Fortunatamente l’inglese Demon Records gli ha concesso un piccolo budget e lui ha chiamato alcuni amici (il virtuoso della chitarra Ry Cooder, il cantautore Nick Lowe e il batterista Jim Keltner) per aiutarlo a incidere un album. Registrato in otto giorni, Bring the Family fondeva le meravigliose ballad tipiche di Hiatt (Have a Little Faith in Me e Lipstick Sunset) con il suo amore per la musica roots e i testi ironici, come in Your Dad Did e Thing Called Love, poi divenuta un grande hit di Bonnie Raitt. Bring the Family ha avuto un successo moderato, ma ha portato Hiatt per la prima volta in classifica, in un anno ricordato più che altro per Livin’ on a Prayer e I Wanna Dance with Somebody.

“Tracy Chapman” Tracy Chapman (1988)

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In un momento storico in cui Rick Astley e i Guns N’ Roses spadroneggiavano su MTV, la soffusa Fast Car di Tracy Chapman (brano che immortalava le difficoltà di una coppia di senzatetto) e Talkin’ Bout a Revolution, in cui dichiarava “la povera gente si solleverà e prenderà ciò che è suo”, sono inaspettatamente diventate hit pop. Accendendo la scintilla per una rivoluzione musicale tranquilla, Tracy Chapman ha venduto sei milioni di copie e per tutto l’arco degli anni ’90 ha continuato a pubblicare dischi che raggiungevano l’oro e il platino. Nonostante il successo di artiste che hanno seguito il cammino da lei tracciato, come India.Arie e in un certo senso Ani DiFranco, la produzione levigatissima e molto anni ’80 di Tracy Chapman lo ha reso datato alle orecchie di chi lo ascolta ora, nonostante una tracklist ancora fantastica ed emozionante.

“Nick of Time” Bonnie Raitt (1989)

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Come accaduto con Bring the Family di John Hiatt, Nick of Time rappresenta per Bonnie Raitt il primo album dopo essersi disintossicata e il suo più grande successo. Oltre alla cover del pezzo di Hiatt Thing Called Love, il disco conteneva brani nel suo tipico stile che mescola blues, country, soft rock, pop ballad e anche un pochino di reggae (in Have a Heart). Levigato, ma senza perdere una certa autenticità roots, Nick of Time ha portato a un’esplosione di fama per Raitt in una fase avanzata della sua carriera, finendo al numero uno nel 1990 e facendole vincere tre Grammy.

Fonte: https://www.rollingstone.it #Dimusica

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“Come spiego a mio figlio che il mondo sta finendo?“. Questa domanda declinata in diverse maniere, ma dettata comunque dall’urgenza di trovare, in tempi di pandemia e di guerra, una direzione da seguire me la sento rivolgere sempre più spesso. Forse perché durante i laboratori nelle scuole i bambini mi raccontano tanto, ed è proprio dalle loro parole che arrivano le risposte. O perché ormai è risaputo che ho poca voglia di interagire con gli adulti – salvo rare eccezioni – e soltanto i bambini riescono a tenermi ancorata alla Terra.

La soluzione credo risieda nel non pensare a salvare il proprio figlio dalla verità, perché non è un salvataggio, ma una condanna ad annaspare nella finzione. Se esiste un’unica regola, una soltanto, che sento di affermare con certezza riguardo ai bambini è quella di non nascondere mai nulla, non mentire di fronte a una catastrofe ambientale, a una guerra, a una relazione che non funziona, alle malattie. Intossica crescere in una vita che non esiste. La finzione genera danni terribili. A volte, ingenuamente, mi chiedo: “i mostri di oggi che bambini sono stati?“. (…)

Andando a scuola stamattina ho chiesto a mio figlio: “cosa ti fa paura?”. “Il suono assordante dell’allarme antincendio”. Avviene almeno una volta a settimana, sa bene che sono soltanto prove, esercitazioni, eppure non riesce a contenere la paura. Penso alle sirene dell’allarme bomba, ai bambini nelle cantine di Kiev. “E cosa ti fa stare meglio in quei momenti?”. “L’abbraccio della maestra”. Al sicuro, in guerra, in ospedale, i bambini hanno sempre gli stessi desideri.

Voglio ostinarmi a credere che i bambini di oggi svilupperanno anticorpi verso la guerra, verso lo sfruttamento indiscriminato delle risorse del pianeta, verso ogni forma di prevaricazione; come chi è stato piccolo nel 1986 avendo memoria indelebile del disastro di Černobyl’ dovrebbe aver maturato una naturale idiosincrasia al solo accennare alla parola nucleare.

Il mondo non sta ancora finendo, non se mettiamo immediatamente in atto un cambiamento. Sta di certo finendo il mondo che abbiamo conosciuto finora, una corsa apparente in avanti che ci ha sradicato dalla nostra vera natura, dalla Natura. L’ansia del consumo che ci ha portato fino a qui è diventata distruttiva. In questo momento di devastazione facciamo gli amanuensi, impegniamoci per un rinascimento dell’essere umano, creiamo legami di complicità, educhiamo i bambini alla condivisione e non alla competizione. Non possiamo insegnare nulla se non impariamo noi per primi, magari da Patch Adams: “L’essere clown è solo un espediente per avvicinare gli altri, perché sono convinto che se non cambiamo l’attuale potere del denaro e della prevaricazione sugli altri, non ci sono speranze di sopravvivenza per la nostra specie”.

Facciamo in modo che i figli godano di ogni istante della vita. Certo, studiare è importante, è vero, ma che non diventi l’ossessione delle giornate di un bambino, di un ragazzo. Ogni attimo è prezioso, e anche un giorno di sole rubato alla scuola per una complice avventura nella natura (basta un parco) è un regalo. E allora sì studiare, ma soprattutto respirare, rispettare, non stare in quello che sarà, ma in quello che è. Niente ossessione del primo della classe, trasmettiamo il valore dell’umiltà, dello svolgere il proprio dovere senza enfasi, “faccio soltanto quello che ogni medico dovrebbe fare” ripeteva Gino Strada che tanto, troppo, ci manca.

C’è stato un attimo meraviglioso e sospeso, prima che si scatenasse di nuovo il conflitto globale – tra poteri, carri armati, pro vax e no vax… – in cui sembrava che la nostra indole atavica più profonda, quella di essere solidali e tribù, che trova la massima espressione proprio di fronte alle catastrofi, stesse finalmente rifiorendo. Non è stato così. Eppure possiamo ancora mostrare ai nostri figli che anche nella devastazione resistono semi di speranza, che ripudiamo ogni forma di guerra, che è quasi primavera.

Facciamo in modo che i figli godano di ogni istante della vita. Certo, studiare è importante, è vero, ma che non diventi l’ossessione delle giornate di un bambino, di un ragazzo. Ogni attimo è prezioso, e anche un giorno di sole rubato alla scuola per una complice avventura nella natura (basta un parco) è un regalo. E allora sì studiare, ma soprattutto respirare, rispettare, non stare in quello che sarà, ma in quello che è. Niente ossessione del primo della classe, trasmettiamo il valore dell’umiltà, dello svolgere il proprio dovere senza enfasi, “faccio soltanto quello che ogni medico dovrebbe fare” ripeteva Gino Strada che tanto, troppo, ci manca.

di Federica Morrone #Disociale

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Se fosse tuo figlio riempiresti il mare di navi di qualsiasi bandiera.

Vorresti che tutte insieme a milioni facessero da ponte per farlo passare.

Premuroso, non lo lasceresti mai da solo faresti ombra per non far bruciare i suoi occhi, lo copriresti per non farlo bagnare dagli schizzi d'acqua salata.

Se fosse tuo figlio ti getteresti in mare, uccideresti il pescatore che non presta la barca, urleresti per chiedere aiuto, busseresti alle porte dei governi per rivendicarne la vita.

Se fosse tuo figlio oggi saresti a lutto, odieresti il mondo, odieresti i porti pieni di navi attraccate.

Odieresti chi le tiene ferme e lontane da chi, nel frattempo sostituisce le urla con acqua di mare.

Se fosse tuo figlio li chiameresti vigliacchi disumani, gli sputeresti addosso.

Dovrebbero fermarti, tenerti, bloccarti vorresti spaccargli la faccia, annegarli tutti nello stesso mare.

Ma stai tranquillo, nella tua tiepida casa non è tuo figlio, non è tuo figlio.

Puoi dormire tranquillo e sopratutto sicuro.

Non è tuo figlio.

È solo un figlio dell'umanitá perduta, dell'umanità sporca, che non fa rumore.

Non è tuo figlio, non è tuo figlio.

Dormi tranquillo, certamente non è il tuo.

Sergio Guttilla

#Disociale

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Nel 1859 il naturalista inglese Charles Darwin ha pubblicato il testo “L’origine della specie” e, in un’ottica laica e apertamente sfidante verso le convenzioni del tempo, ha cambiato inevitabilmente il nostro modo di vedere il mondo.

Tra le sue brillanti osservazioni ce n’è una, all’inizio del quarto capitolo del libro, che se riletta oggi potrebbe aiutarci nella lotta al cambiamento climatico, la più grande minaccia alle nostre foreste (oltre alla deforestazione), dal momento che sottopone gli alberi a enormi stress dovuti a siccità, ondate di calore, tempeste e incendi. Una riflessione riassumibile in modo molto semplice: tante specie diverse che convivono nello stesso territorio crescono in modo più sano di una singola specie piantata individualmente.

Vista la caratura del testo e del personaggio a cui ci stiamo riferendo potrebbe sembrare incredibile ma, negli oltre 150 anni successivi alla pubblicazione del libro, questo specifico passaggio non è stato applicato spesso, tanto che le attuali politiche di riforestazione tendono piuttosto a puntare su monocolture.

A indicare l’importanza di questo passaggio del biologo inglese è stata la rivista The Conversation, dove Rob MacKenzie, direttore e fondatore del Birmingham Institute for Forest Research e Christine Foyer, professoressa di biologia presso l’Università di Birmingham, hanno sottolineato come l’osservazione di Darwin possa essere un punto di partenza ideale per un cambio di paradigma necessario.

Secondo il loro punto di vista, infatti, nessuna tecnologia umana è  in grado di competere con il lavoro di una foresta per quanto riguarda l’assorbimento di anidride carbonica e il suo conseguente stoccaggio, e il suggerimento contenuto ne “L’origine della specie” potrebbe essere la chiave per affrontare il cambiamento climatico.

Le idee su cui si basa la teoria di Darwin

Le indicazioni di Darwin fornirebbero quindi una guida illuminata su come predisporre la piantumazione di alberi. “Senza ombra di dubbio avere dalla nostra parte foreste rigogliose rappresenta uno strumento estremamente potente per mitigare la crisi climatica , ma parliamo di macchine complesse, spesso formate da milioni di componenti” affermano Foyer e MacKenzie.

Le foreste che seguono il modello descritto nel libro di Darwin, e che quindi puntano sulla diversità della piantagione, ambiscono a crescere da due a quattro volte in più, massimizzando l’assorbimento dell’anidride carbonica nell’aria e dimostrando maggiore resilienza alle epidemie, ai cambiamenti climatici e alle condizioni metereologiche estreme.

Darwin spiega le differenze di condizione tra le foreste monospecie e quelle multispecie, sostenendo che in queste ultime ogni varietà di pianta accede a diverse fonti di nutrienti rispetto alle altre, rendendo la competizione per le risorse decisamente meno pressante. Ciò si traduce in piante più forti, dagli steli e i tronchi più alti, e quindi a maggior spazio per immagazzinare CO2.

Le foreste miste inoltre sono più resistenti alle malattie, e meno vulnerabili agli attacchi di batteri e parassiti, dal momento che ogni patogeno prende di mira un bersaglio privilegiato. Avendo una rosa più nutrita di piante da poter colpire quest’ultimo agirà con minore aggressività, con una percentuale di rischio di provocare danni irreversibili decisamente ridotta.

Il caso studio dell’effetto Darwin

Proprio per discutere le considerazioni di Charles Darwin, un gruppo di esperti impegnati nella lotta al cambiamento climatico provenienti da Australia, Canada, Germania, Italia, Nigeria, Pakistan, Svizzera, Regno Unito e Stati Uniti si è recentemente riunito per studiare un nuovo modo di dar vita a foreste che assorbano il carbonio in modo più efficiente.  L’evento è frutto di una collaborazione tra la Association of Applied Biologist e il Birmingham Institute of Forest Research ed è parte fondamentale del programma istituito dal Regno Unito per raggiungere l’obiettivo delle zero emissioni entro il 2050. All’incontro hanno partecipato anche MacKenzie e Foyer.

“Questo meeting è un passo fondamentale nel percorso verso il net zero, perché abbiamo ancora delle domande vitali a cui rispondere a proposito di quali alberi dovremmo piantare, dove piantarli e cosa fare con loro una volta cresciuti”.

Per net zero si intende il punto d’incontro tra la percentuale di carbonio emessa nell’atmosfera e quella rimossa. Gli esperti hanno discusso inoltre il caso studio della tenuta di Norbury Park, in Inghilterra, dove sfruttando il cosiddetto “effetto Darwin” si è riusciti a catturare oltre 5.000 tonnellate di CO2 in un anno. Un record che l’ha reso il territorio più carbon-negative -ovvero in grado di creare un vantaggio ambientale eliminando più carbonio di quello che viene emesso- di tutto il Regno Unito.

Sempre MacKenzie e Foyer, continuano: “Oggi sappiamo che è impossibile piantare direttamente una foresta, ma possiamo progettare grandi piantagioni che nel corso degli anni fioriranno in boschi rigogliosi per le future generazioni”.

Darwin ci ha mostrato la strada più di un secolo e mezzo fa, a noi non resta che seguirla e immaginare una risposta pratica alle crisi climatiche e che ci permetta anche di preservare la biodiversità del nostro pianeta.

Fonte: bnpparibas

Home#Diambiente

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Ci avevano raccontato che la globalizzazione ci avrebbe preservato dalle guerre. Al contrario, il mondo in cui viviamo è sempre più insicuro. Dobbiamo chiederci come rifondare l’economia per poter vivere un tempo più pacifico e più sostenibile. Cinque grandi cambiamenti da attuare secondo Francesco Gesualdi

Ci avevano raccontato che la globalizzazione ci avrebbe preservato dalle guerre. L’adagio era che permettendo alle imprese di poter collocare i propri prodotti ovunque nel mondo, di poter spostare la produzione dove appariva più conveniente, di poter trasferire i capitali dove erano garantiti maggiori vantaggi, avremmo creato un mondo più interdipendente e quindi più interessato a mantenere la pace. Ma le crescenti tensioni tra Stati Uniti e Cina e soprattutto la guerra in Ucraina, che assomiglia sempre di più a uno scontro fra Russia e Occidente, mostrano che la maggior internazionalizzazione degli affari non è sufficiente a sopire gli istinti nazionalistici che evidentemente fanno parte integrante di ogni forma di capitalismo. E mentre rimane forte l’impegno di ogni governo ad aprire la strada commerciale alle multinazionali battenti la propria bandiera, le tensioni si fanno sempre più accese per il controllo delle risorse e il dominio delle tecnologie. La conclusione è che il mondo in cui viviamo è sempre più insicuro, per cui dobbiamo chiederci come rifondare l’economia per poter vivere in un mondo al tempo stesso più pacifico e più sostenibile. Penso che per riuscirci dovremmo introdurre cinque grandi cambiamenti che a mio avviso ogni popolo farebbe bene a valutare ed attuare, anche unilateralmente.

Il primo passo da compiere è la messa al bando delle industrie di armamenti. Il Sipri valuta che nel 2020 le prime 100 imprese mondiali di armi hanno avuto un fatturato complessivo di 531 miliardi di dollari, una cifra superiore al prodotto interno lordo del Belgio. Finché produrremo armi avremo guerre perché rappresentano l’occasione di consumo di materiale bellico. E come le imprese di imbottigliamento hanno bisogno di chi beve acqua in bottiglia, allo stesso modo le imprese di armi hanno bisogno di guerre. Non a caso i produttori di armi mantengono rapporti continui con i ministeri della Difesa e spendono fiumi di denaro per ottenere dai governi scelte a vantaggio delle proprie attività. Secondo l’organizzazione Open Secrets, nei soli Stati Uniti negli ultimi 20 anni le industrie belliche hanno speso 285 milioni di dollari per contributi alle campagne elettorali e ben 2,5 miliardi per spingere le istituzioni statunitensi a compiere scelte politiche e finanziarie favorevoli ai propri interessi. Quanto all’Unione europea, i numeri ufficiali, risalenti al 2016, dicono che le prime 10 imprese di armi spendono oltre cinque milioni di euro all’anno e dispongono di 33 lobbisti a libro paga per esercitare pressione sulle istituzioni di Bruxelles.

La seconda grande scelta da compiere è l’abbandono del consumismo a favore della sobrietà. Il consumismo è una bestia insaziabile che ha bisogno di quantità crescenti di risorse ed energia. Un’impostazione che spinge inevitabilmente alla sopraffazione per aggiudicarsi le risorse a buon mercato presenti nei territori altrui. Lo testimonia non solo il colonialismo, ma anche il neocolonialismo che oggi si presenta col volto dello scambio ineguale, del land grabbing, dello strangolamento finanziario. Fino a ieri la lotta era per il carbone, il petrolio, i minerali ferrosi, oggi è per le terre agricole, i minerali rari, la biodiversità, l’acqua. L’unico modo per interrompere le guerre di accaparramento è ripensare il nostro concetto di benessere, riportandolo nel perimetro di ciò che ci serve senza sconfinare nell’inutile e nel superfluo. Un compito non semplice perché si scontra con le nostre pulsioni più profonde, ma con possibilità di successo se torniamo a dare il giusto valore alla sfera affettiva, sociale, spirituale e più in generale agli aspetti relazionali che la logica materialista tende a mettere in ombra.   Il terzo passaggio è la capacità di orientarci totalmente verso le energie rinnovabili perché affidandoci al sole, al vento e alle altre forme di energia naturale, rompiamo la nostra dipendenza dalle risorse altrui. Un’indipendenza che ci rende al tempo stesso meno angosciati, e quindi meno aggressivi, e più propensi alla collaborazione internazionale. Ricordandoci che la transizione energetica sarà tanto più possibile quanto più sapremo orientarci verso la sobrietà perché meno consumiamo, meno energia dobbiamo produrre.

Il quarto intervento è la capacità di potenziare l’economia pubblica, precisando che pubblico non è sinonimo di Stato, ma di comunità. L’economia pubblica è l’economia della comunità che diventa imprenditrice di se stessa per garantire a tutti, in maniera solidaristica e gratuita, tutto ciò che risponde a bisogni irrinunciabili come acqua, alloggio, sanità, istruzione e in generale tutto ciò che definiamo diritto. Beni e servizi determinanti per la dignità umana che non possono essere variabili dipendenti dalla disponibilità di denaro, bensì certezze da garantire a tutti tramite la solidarietà collettiva. Se riuscissimo a liberarci dai condizionamenti ideologici capiremmo che il rafforzamento dell’economia pubblica è non solo elemento di progresso umano e sociale, ma anche di pace, perché l’economia pubblica, a differenza dell’economia di mercato, non ha bisogno di espansione. Poiché non vende, bensì distribuisce, non ha la preoccupazione di procurarsi nuovi clienti. Il suo obiettivo è produrre quanto basta per soddisfare i bisogni dei propri cittadini, dopo di che è ben lieta di fermarsi. Non così per le imprese commerciali in lotta perenne fra loro per la conquista di nuovi mercati, se necessario con l’assistenza dei propri governi che magari non usano armi, ma ricatti e altri strumenti di pressione non meno insidiosi perché capaci di suscitare rancori dagli esiti imprevedibili.

E per finire la capacità di improntare i rapporti internazionali a spirito di cooperazione ed equità. Equità per garantire la giusta remunerazione ai produttori e cooperazione per sostenersi reciprocamente e colmare gli squilibri creati da cinque secoli di economia di rapina. Tutto ciò, però, è possibile solo con un cambio di paradigma culturale. In economia bisogna passare dai principi di guadagno, crescita, concorrenza, a quelli di equità, sostenibilità, cooperazione. In ambito sociale bisogna passare dai principi di forza, vittoria, successo a quelli di mitezza, rispetto, sostegno. Perché solo predisponendoci diversamente verso l’altro potremo passare da una cultura della guerra a una cultura della pace.

di Francesco Gesualdi – via | https://altreconomia.it -

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Negli ultimi dieci-vent’anni la nostra lingua si è arricchita di una gran quantità di neologismi e anglicismi che descrivono l’esperienza dei social media.

Da “bannare” a “triggerare”, da “boomer” a “shitstorm”, ecco un ripasso generale di questo nuovo lessico.

Se avete meno di trent’anni forse le conoscete tutte, ma messe in fila fanno comunque impressione. E non sono nemmeno tutte.

Sei un boomer? In questo caso, è probabile che tu non conosca il significato di molte parole che si sono diffuse negli ultimi dieci/vent’anni. È anche possibile che tu non conosca la parola “boomer” e che ti chieda perché ti sto dando del tu, come se ci conoscessimo. Beh caro mio benvenuto a Internet, e in entrambi i casi il seguente lessico essenziale potrà tornarti utile per non sfigurare quest’estate.

Hai meno di trent’anni? Probabilmente le conosci tutte, e persino di più. Ma lette in fila fanno comunque impressione. In molti casi queste parole – alcune derivanti dall’epoca delle bacheche elettroniche – potrebbero finire nell'elenco di “parole orrende” che da un decennio il poeta Vincenzo Ostuni raccoglie; e tuttavia sono la lingua della nostra epoca. Quindi attenzione, il cringe è sempre dietro l’angolo.

Bannare

Un tempo le persone che si erano macchiate di qualche disonore venivano bandite dalle città, oggi sui social si può ricevere un ban - e quindi, traducendo male in italiano, essere “bannati” – se si infrangono le policy della piattaforma o le regole della comunità.

Nel primo caso si viene bannati (provvisoriamente oppure definitivamente) da Facebook o da Twitter, magari per effetto di una procedura automatizzata; nel secondo semplicemente dal gruppo al quale si era iscritti, per decisione di una persona o di un gruppo di persone.

Basato

Il termine indica ironicamente qualcuno che la sa lunga – lunghissima se oltre a essere basato è pure “redpillato”. Gli strati d’ironia (v. layer) sono in realtà molteplici, a partire dalla traduzione maccheronica di un termine inglese, “based”, a sua volta privo di senso.

Inoltre si tratta di espressioni originariamente tipiche dell’alt-right americana. Redpillato fa riferimento alla famosa “pillola rossa” del film Matrix, che apre gli occhi del protagonista Neo sulla verità.

Bloccare

Sui social network ogni utente può decidere di bloccare un altro utente per non mostrargli i propri contenuti e per non vedere i suoi. Esempio: “Se non la smetti di infastidirmi ti blocco”.

Boomer

Contrazione di “baby boomer”, termine che i demografi già usavano per indicare i nati durante il periodo particolarmente fecondo successivo alla seconda guerra mondiale (Baby Boom), ha iniziato a essere utilizzato massicciamente dagli under-40 a partire dal 2019 nell’espressione strafottente “Ok boomer”. Potremmo tradurla con: “hai ragione tu, vecchio”.

La parola boomer è restata e indica genericamente qualcuno che è rimasto indietro, cosicché per diabolico contrappasso i trenta-quarantenni che l’avevano diffusa se la sentono oggi rivolgere dagli adolescenti.

Bot

Contrazione di “robot”, indica tutti gli interlocutori non-umani con i quali possiamo avere a che fare, anche inconsapevolmente, in rete. Non solo i “bot di assistenza” di qualche sito, che rispondono alle nostre domande secondo moduli prestabiliti dandoci l’illusione di una conversazione o di una intelligenza artificiale, ma anche taluni profili fake sui social dietro ai quali sembra esserci un generatore automatico di contenuti.

Esempio: “I suoi follower su Instagram? Sono tutti dei bot.” Accusare qualcuno di essere un bot può anche essere un modo di ironizzare sulla sua mancanza di originalità.

Cancellare

Da parte di una piattaforma, che si tratti di un social network o di un distributore di contenuti, la cosiddetta cancellazione di una persona si ottiene rimuovendone il profilo o le singole opere per ragioni politiche o morali.

La cancellazione è un effetto del “deplatforming”. In senso più esteso si parla di cancellazione per indicare l’ostracizzazione di una persona. Esempio: “Mi stupisco di non essere ancora stato cancellato dopo la pubblicazione del mio primo libro”.

Copypasta

Blocco di testo che viene copiato-incollato (copy-paste) diffondendosi in modo virale (caso particolare sono le leggende metropolitane horror, i cosiddetti creepypasta).

Chad/Virgin

Questa coppia di termini, teorizzata nella cultura memetica dell’alt-right americana, contrappone ironicamente un polo attrattivo – il termine inglese Chad indica il maschio alfa – e un polo poco attrattivo – con le fattezze di un verginello magrolino. Il Chad è ovviamente basato e redpillato. 

Challenge

Periodicamente sui social network vengono lanciate delle sfide, che sia per puro divertimento oppure in nome di qualche causa umanitaria. Queste consistono spesso nel ballare al suono di una canzone o nel fare una cosa particolarmente stupida ed eventualmente pericolosa.

Tra le più celebri challenge virali del passato si ricordano la Harlem Shake del 2013 e l’Ice Bucket Challenge dell’anno successivo, che consisteva nel filmarsi mentre ci si rovesciava un secchio di acqua ghiacciata in testa per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla sclerosi laterale amiotrofica e alla quale parteciparono (incredibile ma vero) nomi come Bill Gates e l’allora premier Matteo Renzi. Talvolta la stampa si allarma per qualche “challenge mortale” – in principio fu la famigerata Blue Whale – che si rivela poi essere esagerata.

Clickbaiting

Strategia editoriale che consiste nel concepire i titoli e le anteprime dei contenuti digitali (ad esempio gli articoli) sotto forma di esche (bait) per ottenere dei click, senza sincerarsi che il titolo corrispondano realmente al contenuto.

Community

Ogni gruppo di persone caratterizzate da una lingua, una storia o degli interessi in comune può essere definito una comunità, sulla base della condivisione di un tratto culturale trasversale.

Le piattaforme digitali permettono di moltiplicare le opportunità di condivisione e di appartenere a un grande numero di community sulla base di ognuno dei nostri interessi: “Fan della musica balcanica”, “Sei di Gubbio solo se…”, “Noi che discendiamo dagli etruschi”, “No agli schiamazzi dopo mezzanotte”, eccetera.

Conversazione

Tutto quello che accade in rete appartiene, da una certo punto di vista, a una grande conversazione collettiva. Questa conversazione fa evolvere, nel bene o nel male, la reputazione di ogni persona o brand.

Cringe

Imbarazzante. Esempio: “Ma che è sta boomerata? Cringe”.

Cuore

L’emoji del cuoricino – o l’emoticon equivalente <3 – indica generico affetto, senza implicazioni romantiche o sottotesti erotici e omoerotici (comunque sempre latenti).

Debunking

Confutazione di bufale e fake news da parte di una fonte autorevole. Poiché il giudizio su cosa sia una fonte autorevole è diventato sempre più soggettivo, talvolta il “debunker” viene considerato come qualcuno che opera la censura di un contenuto scomodo. Esempio: “Questa notizia è già stata ampiamente debunkata da Paolo Attivissimo”.

DM

Direct message, messaggio diretto, opzione prevista nella maggior parte dei social network, dove i messaggi sono più spesso pubblici. Esempio: “Scrivimi in DM”.

Edgelord

Polemista semi-professionale che capitalizza su posizionamenti provocatori e taglienti (“edgy”).

Edit war

Conflitto legato alle modifiche di un contenuto aperto, come ad es. una pagina di Wikipedia. Tutti possono intervenire ma possono esserci divergenze anche radicali sul modo corretto di “editare” quel contenuto.

Emoji

Icone che esprimono sentimenti e possono eventualmente sostituire il linguaggio alfabetico. Hanno preso il posto delle vecchie emoticon realizzate con i caratteri tipografici, che oggi appaiono irrimediabilmente boomer.

Possono avere usi ironici, come l’icona della faccina che ride per schernire un contenuto postato seriamente. In origine di colore giallo, sono oggi disponibili in varie pigmentazioni della pelle per venire incontro alle diverse minoranze.

Engagement

Tra le tante misure della performance di un contenuto digitale, uno dei più rilevanti per gli specialisti di marketing è l’engagement ovvero la quantità e la qualità delle interazioni generate: like, commenti, condivisioni. In un contesto in cui siamo bombardati dai contenuti, non basta più soltanto essere visti: bisogna anche assicurarsi che il contenuto faccia discutere, perché le piattaforme premiano in visibilità chi ha un maggiore engagement. Questo ha incentivato negli ultimi anni la circolazione di contenuti divisivi, capaci di generare maggiore traffico.

Fake

Con gli strumenti informatici tutti possono facilmente produrre contenuti falsificati come fotomontaggi o finti screenshot di conversazioni. Si parla in questo caso di fake, falso, o semplicemente di bufala. In caso di video fake particolarmente realistico, ottenuto con l’intelligenza artificiale, si parla di deepfake. 

Flame

Discussione molto accesa, solitamente all’interno dei commenti di un contenuto digitale.

Follower

Letteralmente seguace, conserva la medesima connotazione religiosa per indicare chi segue un influencer. 

Freebooting

Plagio o furto di un contenuto da una pagina per essere pubblicato su un'altra. Esempio: “Mi hanno freeboottato il meme”.

Ghosting

Ignorare qualcuno, non rispondendo ai suoi messaggi, spesso nel contesto di una relazione romantica. Esempio: “Sono uscito con lei e ora mi sta ghostando”.

Godwin (legge di)

Secondo l’avvocato americano da cui la legge prende il nome, “A mano a mano che una discussione online si allunga, la probabilità di un paragone riguardante i nazisti o Hitler tende ad 1”.

Si definisce punto Godwin il momento in cui effettivamente nella conversazione si evoca il nazismo – si parla anche di “Reductio ad Hitlerum” – e quindi molto probabilmente diventa poco proficuo proseguire.

Hacker

Sebbene esista una distinzione tra “hacker” e “cracker”, cioè tra smanettoni e pirati informatici, si tende a parlare di hacker proprio per definire questi ultimi o ancor più spesso per indicare il fantomatico capro espiatorio per qualche disservizio digitale. Esempio: “Si è bloccato tutto, sono stati gli hacker russi”.

Hashtag

Parola chiave, introdotta da un cancelletto, con cui viene indicato il tema di un post o di un tweet. Esempio: “Appena arrivato a Ibiza #vacanze #mare

Humblebrag

Il termine indica l’abitudine, spesso inconsapevole, di scrivere sui social per lamentarsi di qualcosa che invece attira l’attenzione su quanto siamo fortunati o speciali. Ad esempio sarebbe sicuramente un humblebrag, cioè una “vanteria umile”, se io scrivessi: che noia scrivere dei libri uno più bello dell’altro! In italiano esiste la parola “cleuasmo” per indicare la figura retorica che consiste nello sminuirsi in modo autoironico per attrarre il favore di chi ascolta.

Influencer

Persona molto seguita sui social. Oltre una certa soglia di visibilità è possibile monetizzare in modo diretto (pubblicità) o indiretto (collaborazioni) il proprio status.

IRL

In Real Life, nel mondo fuori da Internet. Anche se non esiste più nulla fuori da Internet.

Like

I like di Facebook, il cuore di Twitter, ma anche le stelline sui siti di e-commerce hanno tutti la medesima funzione: attribuire a ogni singolo contenuto o prodotto un certo peso in termini di apprezzamento da parte della community.

Spesso questi like sono pubblici e permettono agli altri utenti di valutare quell’elemento in base alla quantità di apprezzamenti che ha ottenuto.

Layer

Nel linguaggio della memetica, il numero di layer indica (spesso ironicamente) gli strati d’ironia di un certo contenuto. Esempio: “Non ho capito il meme, forse mi sono perso un layer”. Ad esempio questo stesso lessico ha esattamente otto layer e mezzo, ma è difficile per chi lo legge andare oltre al settimo.

Meme

Si tratta delle immagini virali (disegni, fotografie o fotomontaggi spesso accompagnati da un testo ironico) che circolano in rete. Una vera e propria cultura dei meme è sorta nell’ultimo decennio, facendo di questa pratica apparentemente leggera una forma d’espressione a pieno titolo. Esempio: “Hai visto l’ultimo meme di Trash Bin?” Chi realizza i meme è detto memer.

Millennial (generazione Y)

Secondo la classificazione dei demografi anglosassoni, indica approssimativamente i nati tra il 1981 e il 1996, diventati maggiorenni all’inizio del nuovo millennio.

MILF

Questa è solo una delle numerose parole che dal gergo del porno sono entrate nell’uso comune, prima in rete, poi nel lessico giovanile. In principio la MILF è la Mother I'd Like to Fuck, ovvero una madre di famiglia giudicata sessualmente appetibile da persone più giovani.

Usata nel suo senso più esteso di donna attraente tra i 30 e i 50 anni – questo dipende dal POV, cioè dal punto di vista – quest’espressione non perde la sua connotazione inevitabilmente volgare e potenzialmente offensiva.

Normie o normalone

Utente poco aggiornato sulle più recenti tendenze e terminologie, estraneo alla comunità dei memer.

Post

Forma in cui vengono pubblicati i contenuti sulle piattaforme digitali e sui social media. Uno status particolarmente lungo, assimilabile a un articolo, può essere definito post.

Phishing

Truffa online attraverso la quale un malintenzionato sottrae informazioni sensibili fingendo di appartenere a un'organizzazione.

Revenge porn

Condivisione di contenuti pornografici a carattere privato senza il consenso delle parti coinvolte, reato perseguito dalla legge in Italia.

Sealioning

Forma di trolling caratterizzata dal manifestarsi in modo ricorrente nei commenti di una pagina come un leone marino.

Stalking

In riferimento al reato di stalking ma anche in forma più lieve, attenzione eccessiva, fastidiosa o inquietante rivolta a un altro utente. Esempio: “La smetti di stalkerarmi?”

Selfie

Tutti dovrebbero ormai sapere cos’è un selfie, parola dell’anno del 2013 secondo l’Oxford Dictionary, eppure essa viene ancora impropriamente usata per definire, invece che un autoscatto, un più comune ritratto fotografico. 

Sexting

Scambio privato di messaggi a sfondo sessuale.

Sharing

I contenuti pubblicati sui social network possono essere condivisi o “sharati”, raggiungendo così un contesto di ricezione diverso da quello per il quale erano stati pensati.

Shadowban

Forme di ban algoritmico di cui l'utente non è a conoscenza, ma che penalizzano la diffusione dei suoi contenuti.

Shitstorm

Polemica digitale. Esempio: “Ho fatto una semplice battuta ed è venuto giù uno shitstorm”.

Spam

Oltre alle più note mail di pubblicità non richiesta, oggi più rare che un decennio fa grazie a filtri più efficaci, possono essere considerate come forme di spam anche certi commenti autopromozionali o richieste di iscrizione a pagine Facebook. Esempio: “Mi chiedi l’amicizia e già mi spammi?”

Status

Post breve che serve a indicare il proprio stato d’animo.

Stories

Contenuti effimeri postati sui social.

Streisand (effetto)

La prima regola dell’Internet è che se non si vuole dare ulteriore visibilità a un contenuto spesso è meglio ignorarlo invece di farsi in quattro per stigmatizzarlo e farlo rimuovere, col rischio di amplificarlo.

Questa regola è associata al caso della cantante Barbra Streisand che nel fare causa nel 2003 a un fotografo per avere reso pubblica la foto della sua villa a Malibu ebbe invece l’effetto imprevisto di moltiplicare l’attenzione della rete su quella foto.

Tag

Sui principali social network è possibile taggare una o più persone, ma anche marche o luoghi, per farli apparire nel nostro contenuto e coinvolgerli. Esempio: “Ti ho taggato nella mia foto”. 

Triggerare

Il trigger (grilletto) è l’evento, il contenuto o il comportamento che scatena una reazione di malessere o di rabbia. Esempio: “Ma cos’è che ti ha triggerato così tanto?”

Troll

Tutti sanno cos’è un troll in teoria, ovvero un provocatore seriale, ma nessuno sarebbe disposto ad ammettere di esserlo. Esempio: “Lascialo stare, quello è solo un troll”.

Zoomer (generazione Z)

Sempre secondo i demografi, si tratta dei nati tra il 1997 e il 2012, insomma la prima generazione di nativi digitali, che non hanno conosciuto il mondo prima di Internet e degli smartphone.

Fonte: https://www.editorialedomani.it/

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