La vita in famiglia è bellissima

Frammenti quotidiani di vita familiare

Questa notte ho sognato tre appartamenti della mia vita in cui non sono mai stato se non in sogno. All'inizio del sogno pensavo di stare per cambiare casa e mi veniva in mente che però, stavo per cambiare casa, ma io avevo ancora i vecchi appartamenti del centro storico, di quando ero ragazzo, che non ci avevo più pensato. Saranno ancora lì, mi chiedevo o quello che mi li aveva affittati li avrà dati ad altre persone? E allora partivo e iniziavo a girare per il centro storico di questa citta, che non è Genova, in cui sono già stato altre volte nei miei sogni, per vedere se ritrovavo i tre appartamenti.

Il primo appartamento era brutto, costruito con materiali moderni ma di bassissimo costo che poggiavano su una struttura fatiscente. Era in pratica un box, la cui porta dava direttamente sul vano delle scale. Era sempre umido e malsano.

Il secondo appartamento era in cima a una scala che saliva in un palazzo, ogni piano c'erano diversi appartamenti, tutti malridotti e più si saliva più lo stato degli arredi era pessimo. Le scale in cemento armato che perdevano pezzi, gente appoggiata ai muri del vano scale o nascoste nei corridoi, spazzatura e residui. Il mio appartamento era nella parte in alto, una porta tra tantissime altre, tutto dipinto di giallo.

Il terzo appartamento dove – a un certo punto – nel sogno di stanotte riuscivo ad entrare, era un appartamento che avevo ristrutturato io, anche qua con materiali nuovi di basso costo applicati su una struttura di legno marcio e pericolante. La particolarità di questo appartamento è che una porta conduceva a un secondo appartamento, già arredato, ma non da me, con mobili fuori moda, anni cinquanta, molto grande, diverse stanze che nel sogno non usavo quasi mai perché l'arredamento era scomodo e le stanze lontane dal centro della casa. In più, arrivando nell'ultima stanza, si poteva uscire da un secondo ingresso che però non era più nel centro storico di questa non-Genova, ma una zona in campagna, con piante verde scuro.

In tutte e tre gli appartamenti ero già stato in sogno decenni fa, sono posti in cui ogni tanto mi capita di ritornare in sogno. Questa volta portavo alcuni amici senza volto fuori dal secondo ingresso e li invitavo a controllare con il loro geolocalizzatore il fatto che – uscendo dal secondo ingresso – eravamo finiti fuori Genova. E loro controllavano ed erano effettivamente stupiti.

Alla fine, quando mi sono risvegliato, ho provato una specie di strana malinconia: come spesso accade nei sogni il materiale che vedevo e in cui vivevo era impregnato di sensazioni non intelleggibili che poi mi sono rimaste attaccate addosso uscito dal sogno. Anche adesso che sto scrivendo arrivano – per analogia – le sensazioni che ho provato in luoghi dell'onirico simili: un albergo infinito in cui ero stato con i miei figli, un negozio di remainder nel centro storico della non-Genova, i vicoli ripidissimi di questa città inclinata verso un mare che non si vede mai, io che scopro che tra Genova e le altre città del litoriale ci sono zone costiere con scogliere ripidissime alla cui base sono nascoste piccolissime spiaggie disabitate coperte di alghe di un verde brillante, dove si può fare il bagno e che non conosce nessuno.

Ecco: nel corso degli anni, ho accumulato una geografia di mondi paralleli al mio in cui è passata una parte importante della mia vita, frammenti che talvolta esondano nel mio quotidiano come scorie di un'esistenza alterata che ho vissuto con una intensità fortissima.

Ho iniziato a leggere un libro in inglese, un ebook a dire la verità. Mi costa fatica, mi piace ma mi costa fatica. Il fatto è che al liceo l'inglese si faceva solo nel biennio e farmi fare corsi di inglese, non era nella mentalità dei miei genitori all'epoca. Era già molto vedere una cosa uscita dalla loro pancia andare al liceo classico. Conoscevo un po' di inglese solo perché usavo gli home computer, prima, e la connessione in rete dopo. Ma già all'epoca per me giocare a Zork III era un incubo.

Non ho mai fatto corsi di inglese ma col passare degli anni ho letto moltissima documentazione informatica in quella lingua, seguito corsi online di storia e filosofia, letto articoli di giornali, visto film con sottotitoli, ma ecco, letture piene di parole come i romanzi proprio pochi. Credo che questo sia il terzo libro in assoluto che provo a leggere in inglese. E lo faccio perché in digitale ci sono i dizionari integrati che mi aiutano a capire tutti quei benedetti lemmi che gli inglesi immagino usino una sola volta nella vita perché non li ho mai sentiti. Wit. Ceps. Clutter.

I primi due libri che ho letto in inglese erano molto semplici, il primo era un libro per ragazzine. Si intitolava Alex, e parlava di una nuotatrice neozelandese. L'avevo scelto perché avevo visto il film e mi ero preso una cotta per la protagonista, per il personaggio intendo. Così mi ero comprato il libro e lo avevo letto tutto, usava un linguaggio semplice e in più conoscevo già la storia. Il film l'avevo visto nel letto, sdraiato con la febbre, negli anni prima di internet e dello streaming. Mi ero comprato poi anche il libro con il seguito, Alex In Winter, ma l'avevo lasciato dopo il primo capitolo e basta.

Il secondo libro che ho letto in inglese, molti anni dopo, era già in ebook. Si intitolava The Martian, e parlava di un astronauta che rimaneva bloccato su Marte. Anche in questo caso c'era un film molto popolare e mio figlio in mezzo. Forse l'ebook l'avevo preso per lui e poi me lo ero letto anche io per curiosità. Avevo anche visto il film con mio figlio. Mi sa che non se lo ricorderà più. Avevo avuto da ridire, tanto per cambiare, ma avevo cercato di fargli capire che mi era piaciuto. A lui era piaciuto.

Nel frattempo che scrivevo questa frase un termometro è stato spezzato.

Il terzo libro che ho iniziato a leggere e che penso finirò, l'ho comprato oggi dopo aver letto l'inizio di una recensione sul New York Times. È di uno scrittore molto famoso di cui credo di aver letto una volta un libro, decenni fa. Ian McEwan. Sì, sì lo so, sei sbalordito che io abbia letto un solo suo libro e nemmeno ricordi quale. Capita a tutti quando cito uno scrittore. Poi passa. Il libro che ho comperato oggi si intitola What We Can Know. È stata una scelta irrazionale, la sera mi sono comprato l'ultimo album di Peter Gabriel, la mattina l'ultimo romanzo di McEwan. Mi sembra avere un senso.

L'ho sfogliato prima di comprarlo e mi è sembrato abbordabile. Più avanti diventa più complesso, ma è scritto – per ora – per farsi leggere. Probabilmente se fosse in italiano non ne avrei apprezzato lo stile. Ma è in inglese bontà sua, devo faticare per ogni singola pagina. Per ora ho capito alcune cose. Siamo nel futuro, un tipo sta cercando un poema che sembra essere stato perso. Il primo capitolo è in pratica la presentazione del diario della moglie del poeta che aveva scritto il poema. L'idea mi piace. Ci sono alcuni passaggi ricchi. I personaggi, gli bastano dieci righe e sono già caratterizzati come se li conoscessi. Ho provato un po' di invidia. Io fatico con i personaggi, ultimamente poi. Il fatto è che me ne basterebbe uno, caratterizzare anche tutti gli altri, che fatica. Comunque, funziona.

Per motivi legati a pigrizia e DRM lo sto leggendo con l'applicazione Kobo che fa pena. Ma è un romanzo, e poi ha il dizionario online che è sfidante perché non mi dà la traduzione, ma la voce del vocabolario in inglese. Che fatica. Forse inutile. Tra non molto parleremo ognuno nella propria lingua e qualcosa tra di noi convertirà al volo. Parleremo una lingua universale e quella lingua universale sarà un software, algoritmi probabilsitici. Ma nel frattempo fatichiamo. Wit. Non sapevo nemmeno esistesse Wit. He leaned over my partition. Partire dal presupposto che qua le partizioni dell'ssd non c'entrano. Lean pensavo volesse dire affittare.

Nel frattempo ho trovato un secondo termometro. Spero terzogenita non rompa anche questo. Stacco. Mi preparo per domani. L'idea di tenere un diario tutti i giorni, come la moglie del poeta, mi devasterebbe. In questo periodo preferisco cancellare e dimenticare. Tutto il tempo perso dietro a cose che non hanno costrutto. Tutta la vita, vista da una certa prospettiva.

Via la gatta da qua, via, lontano dalla mia tastiera.

[cosa ho fatto oggi]

Quindi sono fuori a strappare erba, tagliare rami, estirpare biodiversità per rendere quello che avevo attorno più umano, nel senso meno naturale del termine. C'è una soddisfazione materiale nello stare per ore a grattare via la parte di muschio finita alla base del muro a secco, scopare via le foglie secche, raccogliere con il rastrello le piante tagliate via dal decespugliatore, rimuovere quelle infestanti dai vasi e vedere piano piano l'ambiente attorno trasformarsi. Penso che quei gesti che sto facendo siano millenari, mi ritrovo ad un certo punto nella posizione di kung-fu del cavaliere e ricordo che molte di quelle posizioni di armi marziali derivavano da quelle che i contadini tenevano sui campi di lavoro.

Più tardi sono con terzogenita a Feltrinelli. Liberi tutti, le dico e lei corre da qualche parte a cercare i suoi libri. Io cammino con tutte le più buone intenzioni di comprarmi un libro, è da tantissimo che non mi compero un libro, tanti ne ho in casa. Guardo i nuovi libri di vecchi scrittori che compravo quando ero ragazzino, le riedizioni di vecchie collane, il nuovo romanzo della Allende, il nuovo saggio sulla musica di Baricco, giro tra altri banconi, ogni tanto prendo un romanzo, lo apro e vedo tutta quella selva di “lei disse”, “Jack rispose”, “il sole scendeva lentamente verso la parte più occidentale”, “l'uomo stava arrivando di corsa”, “è questo che pensi, Annie?”. Lo richiudo.

La cosa si ripete per un po' di libri. È come se le immagini che sono in copertina, soprattutto quelle con grafica d'avanguardia e arte contemporanea, fossero più interessanti del contenuto. Dentro, penso sfogliandoli in maniera sempre più rapida e nervosa, dentro sono sempre gli stessi. Passo alle riviste, ai libri d'arte, ai fumetti. Niente, ho capito che non compererò niente. Una rivista d'arte mi attira, ci sono delle foto molto belle di una performance, ma è l'unica cosa che mi interessa. Nel resto del numero ci sono interviste, riflessioni sulla provincialità dell'arte in Italia, sfoglio e capisco che resterei appeso fuori. Anche i libri d'arte messi in esposizione non sono libri d'arte, ma libri che parlano di qualcosa che è artistico, ma che non è lì dentro al libro, è altrove.

Una serie di libri riproduce stampe giaponesi, hanno avuto questa idea di non rilegare le pagine, ma di attaccarle tra di loro, come a creare – alla fine – un lungo banner. Non è nemmeno un libro. Forse, penso. Lo sfoglio ancora un attimo. Lo rimetto a posto.

I fumetti, beh ci sono grandi cose. Giro un po' guardo i prezzi, cerco qualcosa e non la trovo. Ma non mi innamoro di niente, si vede che non è giornata. Intanto torna terzogenita, ha già scelto il suo libro, un romanzo in inglese. È stufa, vuole tornare a casa, è stanca. Certo, le dico, quello che dovevo prendere l'ho preso. La guardo con il suo libro in inglese, i suoi tredici anni, la voglia di essere se stessa e le battaglie che fa contro tutto il resto del mondo per esserlo, le alleanze che trova con cose lontanissime da me, scrittori americani, youtuber statunitensi che le parlano dei loro problemi e della loro arte. Disegnatrici. “Mi dai la paghetta?” mi chiede mentre siamo in coda alle casse. “Per pagarti il libro?” le chiedo e lei sbarra gli occhi. “Per comprarmi le cuffie e sentire la musica – mi spiega – e poterti restituire le tue”. Non esiste che i libri non siano un regalo, sembra voler aggiungere.

Le mie cuffie sono ormai da anni preda di secondogenito e terzogenita. Le usano a turno fino a romperle. Poi a natale me ne ricomperano un modello nuovo che non userò mai, perché appena le accendo la prima volta, come avvoltoi, si lanciano e le strappano via.

Mentre torniamo a casa con lo scooter elettrico passiamo davanti a una piazza in una zona periferica di Genova, ci sono genitori e bambini, persone in carrozzina, penso sia una qualche manifestazione, ma non molto estesa, la piazza è molto piccola. Lì la vediamo. È una ragazzina, avrà l'età di terzogenita, è nel centro di piccolo gruppo di persone, sta ballando sull'asfalto della piazza seguendo la musica di Ravel. Ha una grazia e una energia inaspettate, sorride a qualcuno che non sappiamo chi sia e si butta a terra, inarca il corpo, fa capriole lì, su quell'asfalto dozzinale, segue la musica. “Ma hai visto?” dico a terzogenita che sta dietro di me. “Sì” mi dice. “Vuoi che ci fermiamo a guardare?” le chiedo.

Così dopo pochi secondi siamo con il casco in mano, anche noi in cerchio, a vedere la ragazzina che danza il Bolero, lì, nell'indifferenza del cemento armato, della gente che passa con i cani, dello standard del canone della domenica pomeriggio. Alla fine – applaudiamo – assieme al resto delle persone, mentre lei sorride e lascia la scena ad altri tre ragazzini più piccoli. “È una scuola di ballo” dice terzogenita e io annuisco. Ma che miracolo, penso.

Alla fine, di sera, mi compro su Bandcamp i/o, l'ultimo album di Peter Gabriel. Ero restato per mesi indeciso perché non mi piaceva, lo trovavo poco ispirato e anche un po' meccanico. Finché non mi sono trovato così, dopo una giornata come questa, a sentire il disco come se fosse la prima volta, messo nel verso giusto perché le cose che mi doveva dire arrivassero a comunicarmi qualcosa.

Il fatto è che sopra di me ci sono diversi strati di fragilità, come tante forme che mi danno forza e mi colpiscono come non mai, sanno prendermi e farmi stare bene, per un piccolo momento, e affossarmi e distruggermi, farmi fischiare le orecchie fare impazzire la testa. Vado in giro per la strada pensando alle cose che ho fatto e a volte sono una specie di dio confuso, a volte un piccolo fallito. Dipende dallo strato. Spesso ho bisogno di stare in uno strato di fragilità maggiore per sentire la preziosità delle cose che ho attorno, altre volte devo essere insensibile per sopravviverne.

Scrivo tutto questo con la tastiera nuova, ma faccio un sacco di errori. Mi devo correggere continuamente e non so se sia colpa della tastiera, della stanchezza o che – più probabile – non ci sia nessuna colpa.

Mia figlia intanto dice delle cose, ha paura, si ferisce, fa finta di niente, subisce la tensione come qualcosa di elettrico, ride, cambia espressione, va a chiudersi in camera sua. La chiamo. Aspetto. Salgo di sopra. Arrivo fino alla porta chiusa; come in un film americano busso, chiedo qualcosa.

— terzogenita — eh — ho scoperto questa cosa — ok — posso raccontartela mentre cucini? — vai — a proposito, ma cosa stai cucinando? — non lo so — ... — è nella mia testa — oook — sto creando — ok — racconta la tua cosa — in pratica, hai presente le formiche? — sì — ce ne sono tante razze diverse e — in pratica — capita che le regine di una razza facciano sesso con i fuchi maschi di un altra razza — oddio papà non essere cringe — stiamo parlando di sesso formichesco — ok — è scienza, non cringe — ok — comunque, fanno questa cosa perché così nascono degli schiavi, ibridi di due razze, che sono più forti e lavorano per il formicaio, sono ibridi di due razze, sterili, non possono fare figli, solo lavorare e poi muoiono — ok — questa cosa per le formiche è normale. Fin qui non c'è niente di strano — ok — solo che è successa questa cosa strana: in un formicaio della razza pinco pallo, trovano dei fuchi maschio della razza panco pillo, che come ti ho detto generano degli schiavi ibridi. Panco pillo e pinco pallo non sono i veri nomi scientifici, sono due mie semplificazioni — l'avrei capito da sola —ok, dove è la cosa strana? che gli scienziati sono stupiti perché di formicai della razza panco pillo non ce ne sono attorno a quello della razza pinco pallo. Per centinaia e centinaia di chilometri solo formicai della razza pinco pallo; da dove cavolo viene fuori quel fuco della razza panco pillo? — non potrebbe essere stato fatto dalla regina usando uno degli schiavi ibridi? — eh no, gli ibridi sono sterili, ti ricordi? — ah vero — ecco il bello: gli scienziati scoprono che la formica pinco pallo, quando fa le uova, fa uova che contengono fuchi maschio della razza pinco pallo e fuchi maschio della razza panco pillo! Una regina che può figliare esseri di due razze diverse. Per farti capire, è come se un essere umano facesse... — ho capito — no, dico, è come se un umano facesse... — ti dico che ho capito! — va bene. Quindi abbiamo una regina femmina di una razza, che fa le uova da cui nascono maschi di un altra razza con cui poi fa sesso, formichesco eh, per avere degli schiavi ibridi da far lavorare nel suo formicaio. Non si è mai vista una cosa del genere. Mai. — ... — tutto questo per raccontarti che è così, piccola, che sei nata tu — ...

[robot, Nanaki, Benni, Busi e la schiena che fa malissimo]

Elettra ha comprato questo robot che gira per le stanze e fa da aspirapolvere e lavaggio, scansisce tutto, crea una mappa della casa, parla (anche se non capisco bene quello che dice) quando ha finito va nella sua basetta e si autoricarica e noi – tecnologici ma ormai adulti – la prima volta abbiamo fatto partire il robot e poi siamo usciti per farci un giro e tornare con la casa pulita ah ah ah, certo, credeteci, la verità è che lo abbiamo fatto partire e siamo stati appollaiati come scimmie sui divani, sugli scalini, sul tavolo a vedere robot che per un'ora si è messo lì a pulire tutto, eravamo come sempre curiosissimi e feroci, hai visto amore ora sta lavando, ma è incredibile amore, si è allineato da solo con la basetta di autoricarica, manco Matt Damon in Interstellar ce l'aveva fatta uguale, guarda ora sta facendo la seconda passata, amore qua sul cellulare sta creando la mappa di casa nostra in tempo reale, insomma, meglio del cinema, anche se non avesse pulito niente saremmo stati soddisfatti, specie quando è arrivata la gatta.

La nostra gatta è la gatta di secondogenito, è piccola, fisicamente intendo, si chiama Nanaki e mi è parzialmente simpatica, cioè, mi è simpatica ma mi ha pisciato sulla tastiera meccanica, il che ha creato come una frattura fra di noi, nel mio personale nirvana, anzi nella mia personale cosmologia di dei e esseri immondi il gatto, lovecraftivamente, è piuttosto in alto, ma molto molto più in basso di una tastiera meccanica, anche con meccanica brown che non è la mia preferita, voi dovete sapere che io passo molto del mio tempo libero, preferisco non dirvi quanto, ad ascoltare su youtube ragazze (o ragazzi con unghie molto strane, non si vedono mai in volto) che battono su tastiere meccaniche creamy, creamy significa che hanno un suono molto biscottoso, paffutello e intimo, questo per dire come il solo fatto che un gatto pisci sopra una tastiera meccanica per me fa perdere un sacco di punti karma al gatto in questione che domani – btw – porterò dal meccanico dei gatti.

Il punto è che Nanaki mi è simpatica perché ha carattere, quando le parlo mi risponde con atteggiamento di sfida, quando le dico di fare qualcosa – in genere – mi ringhia contro come se fosse un cane, però poi la fa – molto diverso dai figli che non ringhiano e dicono 'un attimo' e poi non la fanno, che temo sia qualcosa che hanno preso dal padre, lo stronzo – il fatto che ringhi mi fa ridere e anche il fatto che mi risponda quando le parlo, comunque: il primo incontro tra Nanaki e il robot sembrava un film, poteva tranquillamente finire in qualche raccolta di “memes I found on reddit” o “vines I watch when I'm sad”, con tutto il rispetto signore, il gatto seguiva il robot, poi il robot seguiva il gatto, ho avuto più volte il terrore che Nanaki poi pisciasse su Robot mentre questo era in ricarica ma per ora no, solo scarpe, sacche di tela e tastiere meccaniche logitech fanno parte della sua lettiera distribuita.

Tutto questo lo sto scrivendo con il mio portatilino e-ink a colori e la sua tastierina non-meccanica tutta ploccosa che – ok è una merdetta – ma non mi dispiace affatto scriverci, e lo schermo che non manda luce – ragazzi – oggi ho acceso il desktop per cercare un file per il notaio e pensavo ma come ho potuto, ma come ho potuto usare per anni e anni uno schermo che manda luce, è sempre così, quando passi a una tecnologia migliore poi diventi un maledetto estremista della bellezza tecnologica, comunque, sto scrivendo queste cose perché oggi è morto Benni e io sono rimasto un po' così, non lo leggevo da anni, ho un ricordo anche dell'ultimo libro che ho letto di Benni, in pratica ero andato nella casa di uno che conoscevo appena, della Genova bene, per motivi diciamo così, sentimentali, entro in questa casa che puzzava di soldi e il tipo ci fa entrare nella camera dove ci sono già gli altri, gli amici, e in pratica sono tutti sfracellati su sedie e divani che dormono, questo in pieno pomeriggio e io intuisco che sono sfatti di canne e quindi io passo un intero pomeriggio in questa casa piena di figli di papà che dormono e prendo da un tavolinetto La compagnia dei celestini, che tanto volevo leggerlo, e in pratica me ne faccio fuori metà mentre dentro di me ruggisco, non tanto perché non mi hanno offerto la canna, perché l'avrei rifiutata, non perché io sia contro le droghe eh, ma perché sono già fuori di testa standard, sono come Obelix, sono caduto da piccolo nel pentolone dell'irrazionale e quindi la cannabis ha sempre avuto pochissimo appeal nella mia testa, ma perché

Sto divagando. La compagnia dei celestini è l'ultimo romanzo di Benni che ho letto perché ricordo che la prima metà mi era piaciuta tantissimo, dicevo, cazzo come è bravo, cazzo, e la seconda metà mi aveva completamente deluso, dicevo, ma che cazzo, hai rovinato tutto, ma come hai potuto, sono passati tantissimi anni, non so se davvero fosse così male, ma lo è stato per me a quell'epoca che ero un ragazzino che usciva con la ragazzina sbagliata bwt, e poi Benni è invecchiato e le cose che scriveva non le ho lette, entravo da Feltrinelli, sfogliavo il romanzo nuovo e non scattava la scintilla, non si può leggere tutto, Benni è invecchiato ma mi ha lasciato dentro una scheggia della sua scrittura, comunque, scrivere dopo una certa età il problema è la schiena, non dico Benni, ma io qua che sto scrivendo questo post, ho la schiena a pezzi, a pezzi, non avete idea e manco mi pagano per questo post, infatti lo scrivo un po' come mi pare, comunque

comunque la prima cosa che ho pensato quando ho letto che Benni era morto è stata, chissà come sta Busi (toccati Busi) (no, non intendevo lì) perché – sempre nell'adolescenza – che poi, adolescenza, in realtà andavo già all'università, per Busi dico, Benni prima, al liceo, una che conoscevo mi aveva detto, ho letto il tuo racconto, ma sai che scrivi come Benni? e io avevo pensato, ma chi cazzo è questo Benni e quindi mi ero comprato Baol, che mi aveva colpito molto e mi aveva anche rassicurato perché non scrivevo per niente come Benni, per sua fortuna, comunque Busi anche un altro che in un certo momento sembrava essere tutto, come la pietra, c'è stato questo periodo in cui gli scrittori sembravano un po' come delle popstar, si parlavano anche male dietro, Busi diceva cose terribili su Benni e su chiunque non fosse Busi in genere, poi Pennac, la Allende, Garcia Marquez, c'erano questi nomi che sfavillavano sulla patinata e la F di Feltrinelli che era un attimo pensare a Cuore, alle sue pagine verdi, e che avremmo avuto un futuro pieno di sensibilità, romanticismo, comunismo e passione.

Bastardi.

L'enshittification è arrivata prima della tecnologia, prima del digitale, è arrivata nel nostro immaginario. Anni e anni a guardare la sinistra della Dandini per quei programmi scuri e bui dove ti strizzavano l'occhio con la promessa che si stava cambiando il mondo, tutti assieme, si stava facendo resistenza e guarda adesso, girati dai, stacca gli occhi dal quel cellulare, dal portatile, staccati e girati e guardati attorno, li hai visti, sono tutti lì, tutti connessi a muovere le dita come me e te, tutti a fare prodotto, a spingere la pala circolare del consumo, la schiena, che dolore la schiena, ci rammaricheremo, ecco cosa pensavo oggi, ci rammaricheremo della nostra umanità in fondo, di non aver saputo appassionarci, io almeno, voi che ne so in effetti, mi rammaricherò, l'ho già fatto, di essere sempre stato pieno di etichette adesive, sui vestiti sulla faccia sull'addome con tutti i miei bei distinguo, ecco, mi rammaricherò di non aver amato con più passione le cose che avevo attorno, di non aver speso del tempo, di non essermi poi in definitiva mai e mai e mai appassionato a niente, interessato, curioso, anche a livello anatomico, ad aprire le cose per vedere come erano fatte, ma appassionato proprio mai per niente, così, mi rammaricherò per quanto? – facciamo due minuti, due minuti e mezzo – poi spegnerò la mia sigaretta (è solo un cliché, non fumo), guarderò la skyline della città, la notte che ha preso spazio nell'atmosfera e osserverò l'enorme ologramma azzurro della Meloni che mi dice, amami ma prima versa il tuo otto per mille a questo partito che ci ho pure messo sei/sette secondo a ricordarmi come si chiamava.

Stiamo tornando dalla Francia all'Italia quando facciamo una deviazione, una strada mai presa che si rivela poi uno sterrato che la nostra Nemo affronta con candida incoscienza. Lo sterrato sembra non finire mai, lambisce strapiombi che terrorizzano i figli, con grazia, sale a capofitto fino al cielo e ci troviamo alla fine in questo posto dove posteggiamo l'auto esausta per guardarci attorno.

Ci sono alcune strutture sciistiche chiuse, un albergo abbandonato con le finestre spezzate, un bar con scritto “open”, chiuso. Due o tre case isolate con cani che abbaiano e segni di divieto. Grossi prati di un verde abbagliante, montagne, alberi sempreverdi che emergono qua e là, come residui di una modellazione ambiente. Non c'è praticamente nessuno. L'unica strada che viene e che va, quella sterrata. Ogni tanto, rara, passa lentamente un auto sbalordita come noi, qualche moto ruggente, qualche bicicletta. Camminiamo, valutiamo i sentieri che partono per una passeggiata, ma anche le nuvole gonfie e nere che si raddensano e svaporano sopra di noi.

Alla fine, è ora di pranzo, Elettra propone di mangiare lì le cose che abbiamo in auto prese dalla casa francese che abbiamo abbandonato. Non c'è molto e buona parte delle cose sono immangiabili, wusterl freddi e nuggets di pollo surgelati. C'è una zona, delle panche in legno con al centro quello che sembra uno spazio per fare fuochi, più in basso, che raggiungiamo. “Ci penso io” dice terzogenita e inizia a raccogliere legna e va in auto a prendere un suo sketchbook di disegni.

Poi si mette vicino all'area fuoco, strappa via dallo sketchbook i suoi disegni peggiori, li appallottola e ci mette sopra dei rametti, si fa dare l'accendino da Elettra e inizia a provare ad accendere il fuoco. “L'ho già fatto” dice con sicurezza, ma il fuoco non prende, la legna è umida per le piogge dei giorni precedenti. “È legale accendere un fuoco?” chiede intanto secondogenito più preoccupato degli aspetti legali della cosa rispetto a quelli fisici. “No – dico io – ci arresteranno”.

Elettra si affiancherà a terzogenita per provare lei ad accendere il fuoco, poi secondogenito e poi anche l'io narrante, tutti ad usare la propria tecnica segreta per accendere il fuoco, fallendo, finché, mentre sto provando io, si affianca secondogenita, poi Elettra e – per farla breve – come in un film per famiglie, alla fine, collaborando, lentamente, con incertezza il fuoco effettivamente prende. Ci ritroviamo quindi nel mezzo di queste montagne con il fuoco che guizza, fuma, ci impesta del suo odore infernale e noi restiamo a debita distanza a riscaldarci e vederlo crescere e fiammeggiare.

E – niente – ancora oggi nel 2025 vedere sbucare dal niente un fuoco gestito dall'uomo ha un che di estraneo e magico, pensare che mentre si gira per il mondo si possa accendere un fuoco per farne qualcosa, come se fosse una cosa naturale, mostra tutto il suo essere innaturale, un passaggio determinante che abbiamo fatto chissà quando per diventare quello che siamo, l'essere più innaturale della terra, ed ora è lì in mezzo a noi che saltella e si alza verso il cielo e poi scema e sembra morire, tanto che continuiamo ad alimentarlo, scegliere rami, buttarli dentro, vederli lambiti trasformarsi.

È lì che terzogenita e secondogenito, come se fosse la cosa più naturale del mondo, si cercano due rametti, infilzano i wusterl e i nuggets surgelati, e si mettono attorno al fuoco per scaldarsi il cibo. Scherzano, ridono, rischiano che prenda fuoco anche il rametto che regge la carne, cercano tecniche per fissare i rametti sopra al fuoco, scappano quando il vento li investe con il fumo, morsicano timorosi e felici il risultato della loro caccia. Hanno creato qualcosa che prima non c'era, hanno trasformato un momento standard del nostro viaggio in Europa in qualcosa di memorabile.

Io – vegetariano ai margini – sgranocchio la mia carota e addento la mia mozzarella gusto industriale, e mi godo lo spettacolo, guardo per un attimo Elettra che li sta fissando da ogni parte.

Un tempo non è che le vacanze durassero più a lungo, o anche se lo facevano non era quello il problema, un tempo quando eri in vacanza eri sganciato da tutto. Oggi i social ti braccano, le chat lampeggiano, le mail ti inseguono, per quanto tu possa correre veloce c'è sempre un roaming pronto a tenerti con la testa nei casini del mondo reale, sai tutto quello che accade nel mondo e sai anche cosa la gente ne pensa di quello che succede, in genere cose imbarazzanti, e hai per le mani strumenti che ti permettono di continuare a produrre materiali di consumo per la rete, è dura sganciarsi da tutto, ho questo ricordo di quando ero ragazzino che quando qualcuno riceveva, faccio un passo indietro:

l'ho anche scritto in un libro, quando ero adolescente per molti anni di seguito i miei genitori portavano me e mio fratello in un camping sulla costa ligure, in un bungalow, per circa un mese. Luglio. Un tempo lunghissimo. In quel momento ero sganciato da tutto, tutti erano sganciati da tutti, niente cellulari, niente internet, niente di niente. Anche Paper Soft non arrivava nelle edicole. Solo i cabinati mostravano le loro luci sfavillanti e qualche coraggioso ragazzino milanese che si era portato il Commodore 64 con i joystick. Arrivo al punto: quando qualcuno riceveva una telefonata, si accendevano i microfoni di tutto il camping e la voce della gestrice o del figlio echeggiava per le tende e i bungalow per annunciare a tutti che c'era una telefonata per la famiglia Venerandi, quello era il collegamento con la realtà, altro che WhatsApp, mio padre che correva imbarazzato per andare a rispondere all'unico telefono del campeggio.

Così oggi staccare è il vero miracolo, nella testa, riuscire a sganciarsi dal reale, che poi, il reale non esiste, lo dice anche il libro che sto leggendo, il reale è una specie di impasto di visioni del mondo, interpretazioni, ideologie, tutto mescolato e che un retaggio illuminista ci fa credere che quello che pensiamo essere il mondo, quello sia reale. Da questo punto di vista una cosa che mi rilassa, malata, è pensare di essere all'interno di un ambiente, l'ho già scritto da qualche parte. Essere in un ambiente, tipo realtà virtuale, e pensare che tutto quello che posso fare è comunque confinato a questa realtà che vivo. Che è pochissima cosa se ci fai caso. È tutto confinato a questa piccola realtà che vivo.

Così oggi ero seduto con i figli ed Elettra e mio figlio ordina una crepe. Non ricordo il nome, era il nome di una montagna qua vicino, anzi il nome lo ricordo ma non voglio farvi sapere dove sono, diciamo crepe Monte Bianco. Con prosciutto, formaggi vari, eccetera. Aspettiamo, portano a me una crepe ai quattro formaggi, che avevo ordinato, e a mio figlio, al posto di quella con prosciutto e formaggi, una crepe con panna, cioccolato, e gelato. Attoniti. Siccome ci sono già un po' di cose che mi avevano innervosito, in pratica degli operai, non certo per colpa loro, hanno iniziato a trivellare a fianco del mio tavolino per cercare – immagino – del petrolio visto il rumore e la quantità di polvere sollevata, prima di incazzarmi controllo che non abbiamo sbagliato noi. Prendo il menu.

E scopro che il gestore del ristorante, oltre a sfoggiare un cartello scritto a mano con scritto “no bc!” che significa che si paga solo in contanti, il gestore ha avuto la geniale idea di avere una crepe salata con prosciutto e formaggio chiamata Monte Bianco, e una crepe dolce con cioccolata, panna e gelato chiamata Monte Bianco. Lo stesso identificatore unico, poi uno si chiede perché in HTML se la prendono malissimo se usi due id uguali.

Piccolo inciso. Non così il Lisa, il Lisa era una linea Apple che veniva dopo l'Apple II ma prima del Macintosh. Era un computer amichevole come il Macintosh ma terribilmente più lento e costoso, benché più sofisticato. Io ne ho usato uno una volta, al museo Apple, e – per farla breve – il Lisa potevi creare più file nella stessa cartella con lo stesso nome. Non ricordo come facesse a sapere se volevi poi quella salata o quella dolce, ma così era. Fine inciso.

Comunque qualche giorno fa mi sono messo a camminare per una valle, da solo. Non c'era campo. Ho lasciato tutti e ho iniziato a camminare in avanti in questa valle, e più andavo avanti più la valle sembrava che si terraformasse davanti ai miei occhi, alberi, cascate, prati, gruppi di persone, rami del fiume, arbusti, ponti, più andavo avanti più mi sentivo dentro una sandbox che sarebbe potuta andare avanti all'infinito per mostrarmi sempre nuovi rilievi e microvariazioni della natura. Alte sui lati si alzavano le montagne, come background di un mondo che avevo nella testa e mentre camminavo pensavo, e mescolavo stronzate a immaginazioni, progetti a stronzate di nessun peso e così sono andato avanti per quasi un'ora, al che mi sono reso conto che dovevo anche tornare poi indietro, e che c'era il resto della famiglia che, dopo quasi due ore avrebbe pensato che ero morto – sicuro – ucciso da una delle mucche che pascolavano enormi al margine del fiume.

Quindi torno indietro a passo veloce e quando arrivo trovo Elettra senza scarpe, che ride con i figli mentre fanno una gara di zattere autocostruite nel mezzo del fiume, le stringhe delle scarpe sono servite per legare i tronchetti e i calzini per fare la vela, e stanno sfidandosi mentre le zattere si impigliano per le rocce e le sterpaglie ai lati del fiume e io resto così a fissarli come un miracolo, penso quanta energia e quanta bellezza, mentre reggo con una mano un bicchierino di plastica con dentro un caffè macchiato che mi sta colando su tutta la mano e la carta alluminia che frulla metallica scossa dal vento.

Io e secondogenito siamo seduti a tavola a rinforzare il nostro rapporto familiare, nel senso che lui è al cellulare che chatta e io anche e di tanto in tanto, a intermittenza, sorridiamo per quello che scriviamo e leggiamo con persone che sono così tanto lontane da noi che chissà se esistono davvero.

Comunque, arriva Elettra che si siede al tavolo e dice “ragazzi, ho avuto una idea per fare dei soldi”. Fa il muso furbo. “Però – aggiunge – è un progetto che dobbiamo fare a tre”.

Secondogenito si tira istintivamente indietro con il corpo. “A tre, intendi il formato del foglio?” dice. E poi fa il suo sorriso da gatto, nascosto dietro alle labbra.

Elettra digrigna i denti, ma con affetto. “No – risponde – 'a tre' nel senso che dobbiamo farlo noi tre. Io dirigo e voi lavorate”.

Secondogenito alza le sopracciglia, “dobbiamo – chiede – svaligiare una banca?”. No, no, fa Elettra e spiega il suo piano commerciale, che qua per esigenze legate a un NDA (non disclosure agreement) sconsideratamente firmato anni fa non posso riportare.

Io e secondogenito ascoltiamo tutto con attenzione. Alla fine secondogenito si schiarisce la voce. “Tutto sommato preferisco l'idea della rapina in banca. È più etica”. Elettra digrigna i denti, adesso con meno affetto di prima. “Non mi aiutate quindi?” chiede. Io guardo secondogenito che guarda me.

“Allora, aggiunge Elettra, se non mi aiutate dovete darmi millecinquecento euro a testa” “Uh – faccio allora io – perché?”. Elettra si sporge verso di noi e ci fissa negli occhi. “Per mancato guadagno”. “Ah” faccio io. Secondogenito mi fissa e riappare il suo sorriso da gatto mentre Elettra spiega che lei ha previsto un guadagno iniziale di tremila euro, se non la aiutiamo la stiamo danneggiando e dobbiamo ripagarla per mancato guadagno.

E io resto lì seduto a fissarli tutti e due e a pensare a quanti di questi frammenti, queste schegge di quello che siamo, nascono e vibrano nella nostra vista per poi sparire rapidamente sottopelle, come fragili miracoli della nostra intelligenza e del nostro amore.

vedo mia figlia nel cellulare è una funzione, si muove per le strade che conosco di Genova, vedo i suoi spostamenti lenti mi immagino i passi che sta facendo la sua testa che scorrazza nella sua immaginazione

vedo la mappa che scorre il suo cursore che attraversa il mondo; mia figlia è geolocalizzata

d'improvviso parte lo scatto e vedo che vola per Genova, attraversa furiosamente il lungobisagno e capisco che è salita sull'autobus – me la immagino che si tiene agli appositi sostegni verticali, scatta chilometri di distanza da me che sono qua seduto che guardo lo schermo del mio cellulare e penso a quante cose potrebbero farle del male ora che lei è là nel mondo

e io qua nel cellulare che studio i suoi percorsi

; poi vedo che si ferma in un punto di Genova tra diverse vie e non si muove – tocco, tappo, niente – non si muove, cerco di capire dalla mappa cosa ci sia lì, cosa possa esserle successo, trasporto il mondo materiale che ho nella mia memoria, lo proietto su quella mappa vettoriale per visualizzare quel cursore nella forma di mia figlia in quel posto come un posto che esiste ed è fatto di cose che conosco

e poi realizzo:

lì c'è un'altalena ~

quel cursore immobile nella mappa digitalizzata, quella geolocalizzazione che sembra immobile, in realtà vibra, avanti e indietro, in alto e in basso e mentre vibra (questo la funzione non me lo dice)

quella vibrazione sogna

  • terzogenita, ti sei fatta la doccia?
  • non sapevo che dovessi farla
  • te l'ho detto prima!
  • non me lo hai detto
  • sono venuto da te, ti ho abbracciato e ti ho detto “ricordati che devi fare la doccia”
  • sì, ma io pensavo in generale
  • ...
  • in generale devo farmi la doccia, lo so, non pensavo intendessi oggi!
  • ...