Messosi alla ricerca del fondamento, della ragione, dell'essenza, l'essere non trova che la sua identità con il non essere. Il divenire stesso è illusorio: nulla diviene, e non perché esista un essere parmenideo, inalterabile ed eterno, ma perché nulla esiste, nulla accade — nessuno degli enti è ente, nessuna delle cose è cosa, e lo sguardo stesso è cieco.
La logica hegeliana è la versione occidentale del paṭicca samuppāda. Il circolo vizioso dell'ignoranza, senza alcuna speranza di un risveglio qualsiasi, perché ogni dialettica è frutto dell'ignoranza.
Uno. Il mondo così come lo vediamo non è che illusione. O meglio: una interpretazione dovuta alla imperfezione dei nostri sensi. Le cose non esistono. La materia è fatta per lo più di vuoto.
Due. Il nostro io non è nulla di sostanziale. Ciò con cui ci identifichiamo non è che un modo particolare di funzionare del nostro cervello. Ne esistono altri, che si manifestano sia durante il giorno che, in modo prevalente, durante la notte.
Tre. La nostra posizione nell'universo non è affatto diversa da quella di un acaro o di un batterio.
Quattro. Non esiste nessuno, tra i nostri simili, che possa davvero comprenderci.
Cinque. Perché in fondo nemmeno noi stessi possiamo comprenderci. Il cammino di comprensione di sé è un eterno smarrirsi in infiniti labirinti, fino a quando si acquista la consapevolezza che noi stessi siamo labirinto.
La filosofia ha compiuto tutto ciò che era da compiere tra il Cinquecento e il Settecento. Si trattava di rovesciare la visione del senso comune. Di abbattere teoreticamente tre convinzioni: l'esistenza della cosa, l'esistenza di Dio, l'esistenza del soggetto. Queste tre dissoluzioni sono già complete a fine Settecento; e Nietzsche e Sartre non sono che epigoni. Tutto ciò che nel pensiero contemporaneo va nella direzione della ricostituzione del triangolo del senso comune – appunto Dio, soggetto, cosa – non è che antifilosofia.
Queste tre dissoluzioni sono ora affare della scienza. Non Dio – che è morto e sepolto da tempo, e la cui confutazione non è più necessaria – , ma la sostanza e il soggetto. La prima spetta alla fisica, la seconda alle neuroscienze.
Che resta della filosofia dopo la morte della filosofia? Interrogarsi sul senso di un mondo senza cose e senza soggetti.
Siamo su una lastra di vetro. Su di noi un'altra lastra. Lontana. Che pian piano si avvicina. E sappiamo che verrà il momento in cui ci schiaccerà. Giorno dopo giorno osserviamo la lastra avvicinarsi sempre più. Inesorabilmente.
Questa immagine, in Solenoide di Mircea Cărtărescu, riconduce meglio di qualsiasi altra la condizione umana alla sua nudità. La lastra su cui siamo è quotidianamente popolata di mille cose, che ci tolgono la vista della lastra superiore e del suo abbassarsi implacabile; ma, appena la distrazione cede — al mattino, ad esempio, in quell'attimo che precede il risveglio pieno — la tragicità della nostra condizione è evidente e disperante esattamente come in quella immagine.
Su una lastra, esposti allo schiacciamento, che faremo? Impazzire è la cosa più probabile. E infatti, per lo più impazziamo. Trasformiamo completamente il mondo con le nostre allucinazioni. Ci inventiamo Dio, l'anima, la vita eterna. E mille altre assurdità, che fanno pullulare di immagini la semplice lastra su cui siamo. E mentre la lastra ci schiaccia, abbiamo la mente tutta volta a quelle allucinazioni. Moriamo invocando quelle care immagini, sempre più lontane, sempre più sbiadite.
Oppure. Oppure possiamo celebrare la sensazione. Qualsiasi. Il respiro qui ed ora. Il mal di testa qui ed ora. L'angoscia qui ed ora. Lo scricchiolio delle vertebre schiacciate dalla lastra che casca su di noi. Ogni singola sensazione, liberata dalla distinzione tra piacere e dolore, celebrata come unica divinità. La voluttà del dolore non è minore della voluttà del piacere. E la voluttà maggiore, come sappiamo bene — lo sappiamo ogni volta che ci addormentiamo — è quella di passare dal mondo delle sensazioni al non mondo dell'incoscienza.
Il mondo ci sta intorno come una sabbia mobile. Ci tocca, ci stringe. Ci inghiotte, inesorabilmente. Non ci lascia respirare. In ogni istante qualcosa ci tira, ci esige, ci spinge presso sé, lontano da noi stessi. O: ci colpisce. Uno, due, tre. E ancora, ancora, ancora. Cerchi di proteggerti come puoi. E se ci fosse — pensi — qualcosa dentro di me di inattingibile? Se ci fosse un me profondo, che questa sabbia mobile non può toccare? Ed allora ti scindi da te stesso: e nasce l'anima. Il tuo me al riparo dall'offesa della vita.
Ma pensi, pure: e se ci fosse oltre la sabbia mobile un altro che nulla tocca, stringe, inghiotte? Se ci fosse oltre la nebbia e il buio un chiarore inattingibile? Se ci fosse un respiro oltre la soglia dell'orrore? Decidi che dev'esserci. Ed è allora che nasce dio. L'altro al riparo dall'offesa della vita.
L'assurdo che siamo è nell'essere circondati da ogni lato dal nulla. Dal nulla veniamo, nel nulla andiamo. Il vuoto ci tiene in un abbraccio costante. E ne abbiamo orrore. Abbiamo orrore del nostro essere gettati, per dirla con Heidegger. A farci orrore è la morte, e lo sappiamo. Ma a farci orrore è anche la nascita. Il vuoto che era prima di noi. In non essere da cui proveniamo, non sappiamo come, non sappiamo perché.
Per colmare questo vuoto creiamo Dio. Che è eterno: non ha un nulla da cui proviene, non c'è un nulla in cui finisce. Ma Dio, non diversamente da noi, non sa perché esiste. E', semplicemente, esattamente come siamo noi. La differenza è che lo stupore doloroso che ci attraversa in lui è da sempre e sarà per sempre. Dio è l'essere assolutamente irredimibile, il punto di domanda eterno. Per alleviare di poco la nostra infelicità, creiamo un ente infinitamente infelice.
Il mio cuore è il nulla.
Non sono quello che sono stato, non sarò quello che sono. Il non mi costituisce. Non è esatto dire che mi nego. Non c'è nessuna volontà: la negazione piuttosto mi costituisce. Non posso essere che negandomi. Uccidendo di continuo quello che sono. Non essendo di continuo quello che sono. E illudendomi di poter essere altro da quella negazione.
Il mio cuore è il nulla. Cos'altro, altrimenti? C'è qualcosa, in me, che possa dire io? C'è un centro, un punto, un'essenza che possa identificare con me – con il mio me più proprio, intimo, certo? Qualsiasi viaggio alla ricerca di me stesso conduce ad una fuga all'indietro infinita. Ad un infinito togliere. Non c'è nessun volto dietro la maschera. Eripitur persona ac manet nihil.
Il mio cuore è nulla. La consapevolezza di questo nulla suscita orrore nel senso più autentico: un brivido ci percorre. Ma l'orrore può essere attraversato, e questo attraversamento è gioia.
Come tutte le religioni, il cristianesimo ha in sé tanto i semi della violenza quanto quelli della nonviolenza. A far la differenza è il modo in cui si concepisce la figura del Diavolo. Che è, come si legge nel Vangelo di Giovanni, il “principe di questo mondo” (ὁ τοῦ κόσμου τούτου ἄρχων) (Giovanni, 14, 30). La lectio facilior di questo ed altri testi è che il Diavolo governa effettivamente il mondo, la realtà secolare, sicché tutti i governanti non ne sono che espressione. La stessa morte di Cristo si concilia con un simile interpretazione: Dio sacrifica il Figlio mettendolo nelle mani del suo Nemico, e in concreto dei poteri terreni che lo condannano. Ed è una interpretazione che era confermata, per i primi cristiani, dalle persecuzioni subite dal potere romano. Ma con una simile interpretazione il cristianesimo non avrebbe fatto molta strada. Una religione si diffonde solo se intercetta il potere e viene a patti con esso. Il cristianesimo è passato dalla condizione di religione perseguitata a quella di religione perseguitante – e perseguitante con una ferocia devastante – grazie ad una serie di accomodamenti di cui si è incaricato Paolo di Tarso. I poteri sono stabiliti da Dio, e ognuno è tenuto a sottomettervisi. “Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite.
Durante la nostra giornata attraversiamo spazi pubblici e luoghi privati. E' spazio pubblico la strada, è pubblico il parco, sono pubbliche le piazze. Sono spazi privati quelli che richiedono un biglietto d'accesso, o una tessera, o l'appartenenza a un gruppo o un atto di proprietà.
Diamo per scontato che la nostra vita quotidiana debba avvenire anche in spazi privati. Nessuno pretende di entrare al cinema senza pagare il biglietto. Il problema però è l'equilibrio tra spazi pubblici, comuni, e spazi privati. Gli spazi comuni sono, in quanto tali, spazi che non generano ricchezza privata. Nessuno trae guadagno dalla frequentazione di una piazza o dall'occupazione di una panchina. In quanto tale, lo spazio pubblico e comune, in mancanza di una adeguata azione di resistenza, è destinato ad essere residuale. La logica stessa del capitalismo, che è quella della mercificazione totale dell'esistente, lo esige. Ed accade così che la semplice occupazione di una piazza, di una scalinata, di una panchina vengano combattute, apparentemente in mode della lotta al degrado. Di fatto, si trasformano le piazze e le strade da luoghi pubblici in spazi privati e commerciali, che è possibile fruire solo se si acquista qualcosa (sia pure solo un aperitivo al bar che ha i tavolini nella piazza).
Se io mettessi una pietra sull'altra, un giorno dopo l'altro, avrei dieci pietre, e poi venti, e poi cento, e poi una piccola montagna, o un muro, davanti a me: a dirmi che ho messo pietre.
Ma io non ho pietre. I giorni passano e non ho pietre da sistemare l'una sull'altra. Cosa mi dice che ieri ho vissuto? Dove sono le pietre di ieri?
Sono i ricordi, credo. Le persone mettono un ricordo sull'altro per sapere che hanno vissuto, per riconoscere e segnare il cammino che hanno fatto. Ma io non so ricordare. Non so sistemare i ricordi-pietra. Mi sfuggono di mano. Non so dove finiscono: non so dove finisco io.
Credo che per molti conti anche quella che chiamano posizione. Qualcosa che dà loro il senso di essere giunti da qualche parte. Il lavoro, il matrimonio, i figli. Lo status, il denaro. Ma tutto questo mi è estraneo. Mi scivola addosso, non fa presa su di me. Sono spettatore partecipante, ma pur sempre spettatore.
Cos'è, che ho vissuto? Quando sono nato? Quanti anni ho? Che ho fatto? Quale è il mio cammino? Non lo so. Procedo staccandomi di continuo da me stesso, e sono sempre l'ultimo pezzo di me, appena nato: e così stupito, apprendo di dover già morire: o quasi.