Racconti

fantascienza

foto Grace aprì la portafinestra che dava sulla spiaggia. Il terrazzo era spazioso, decorato con piante intricate e dai colori esotici. Il tavolo, ornato da un drappo rosso, aspettava i due giovani innamorati. “Danny, sono le 8:00, alzati la colazione è pronta”. “Lasciami dormire ancora un po’… è così bello non avere orari da rispettare”. “Oggi mi piacerebbe noleggiare un motoscafo, non essere pigro”. “Va bene cara, tra cinque minuti sarò da te”. Intanto Grace assaporava il profumo della risacca e fantasticava sul futuro con Danny. Il mare lanciava le onde con voluttà tentando di offrire lo spettacolo più affascinante possibile, mentre l’aurora all’orizzonte si specchiava sulle onde zampillanti. Qualche nuvola di passaggio offuscava il chiarore mattutino esaltando ancora di più i riflessi sulla superficie azzurra. Danny si presentò in vestaglia da camera, Grace sorrise, era la sua vestaglia morbida, setosa, aderente fino al punto da far trapelare il corpo che avrebbe dovuto nascondere. “Danny, sei veramente seducente”. Lusingato da quelle parole, la baciò appassionatamente. Consumarono in fretta la colazione per poter godere della giornata al largo, al riparo da qualsiasi suono, eccetto quello della salmastra marina. Al porticciolo un omino piccolo e tarchiato li squadrò come se fossero degli appestati. Erano abituati a comportamenti siffatti perciò non si scomposero, anche se il cuore di Grace gridava vendetta. Impostarono il navigatore di bordo e lo scafo piano piano abbandonò il molo. Grace osservava l’omino che sfumava tra i flutti fino a che non fu completamente celato alla vista. Danny le accarezzò le gote per infonderle il coraggio necessario ad affrontare la discriminazione di genere. “Non prendertela, non ti curar...” Grace lo interruppe. “Anche qui, nella sala ologrammi, dove nulla è reale, la realtà ci perseguita”. “Purtroppo abbiamo una normativa che risale ad un secolo fa. Oggi gli androidi si sono perfettamente integrati. Vi sono molti nella nostra condizione”. “E’ vero, Danny, ma sono tutte situazioni in bilico. Tra le persone più illuminate vi è molta tolleranza ed è per questa ragione che riusciamo a sopravvivere. Se non fosse così saremmo già stati rinchiusi in uno dei tanti ghetti costruiti nel secolo scorso”. Si fermarono in un punto in cui il dondolio li cullava e offriva ai loro occhi bianche scogliere a picco e minuscoli paesini abbarbicati sui pendii, dove un lieve vento muoveva i fili d’erba che spuntavano ora alti ora bassi sui prati fioriti. Si tuffarono e nuotarono insieme ai delfini che saltellavano con graziosa ironia. L’armonia di quella scena li fece ammutolire. Nulla avrebbe potuto distogliere le loro menti dalla magia di quel paesaggio. Rientrarono turbati e silenziosi. Presto avrebbero dovuto lasciare ai ricordi la loro vacanza. “Domani dobbiamo preparare i bagagli”. Sussurrò Grace. Dormirono abbracciati l’uno all’altra nella speranza che i sogni li aiutassero.

Varcata l’ultima soglia del caseggiato, sentirono riecheggiare il sordo cicaleccio degli abitanti della loro città. Le vie erano inondate di volti anonimi ed ostili. Finalmente raggiunsero il loro appartamento dove furono avvolti da una sensazione di benessere. Durò poco. Due guardie armate bussarono alla porta urlando quasi all’unisono: “Aprite!”. Dopo aver verificato le loro identità, si allontanarono minacciandoli con prepotenza. Nel frattempo sulla strada un corteo procedeva compatto. Manifestava contro la propensione sociale a mettere insieme elementi non compatibili con l’idea tradizionale di famiglia. “Tutti nei ghetti”. Questo era lo slogan. “Ci distruggeranno”. Mormorò avvilita Grace.

Passarono mesi e anni tra insulti, e-mail minatorie, visite ripetute da parte delle forze dell’ordine. “Non ci si salva dagli incubi, noi stiamo precipitando nel buco nero della vessazione”. “Grace, capisco la tua frustrazione, ma vedrai che il nuovo Governo modificherà la legislazione in vigore”. “Il tuo ottimismo è disarmante”. Nel pomeriggio, liberi da impegni lavorativi, vollero passeggiare tra gli alberi del vicino parco. Le querce splendevano riverberando il verde delle foglie sulla ghiaia dei sentieri. L’abito vaporoso e trasparente di Grace svolazzava sospinto da una leggera brezzolina primaverile. Danny la strinse forte. “Ti amo... Sapevamo che non sarebbe stato facile, non c’è tregua per quelli come noi, ma io sarò sempre al tuo fianco, te lo prometto”. Si alzarono e proseguirono verso il viale dei Eroi, tra questi primeggiava lo zio di Danny che aveva perso la vita in uno dei tanti viaggi interplanetari di esplorazione. Due ragazzi, che provenivano da una traversa, avanzarono rapidamente verso di loro e sputarono per terra in segno di disgusto e disapprovazione. “E’ giusto tutto questo?” “No, Grace, non lo è”.

Un altro inverno si posò su di loro. Danny amava quella stagione, le piante spoglie, gli aghi dei pini. Si divertiva ad arrampicarsi sulle cime innevate per poter rotolare sulla soffice neve. Grace lo seguiva, ma senza lasciarsi trascinare dal suo entusiasmo. Si era accorta che qualcosa stava cambiando. Era spesso sola. Il suo Danny trascorreva molto tempo fuori casa. Il palpito stanco del suo orologio si era trasformato in una fredda malinconica melodia. Le lunghe attese sfinivano i suoi sensi e la sua fiducia. Non poteva più indugiare. Quella sera lo avrebbe messo con le spalle al muro.

Era notte fonda quando udì la chiave girare nella toppa. “Che cosa ti sta succedendo?” Disse Grace in preda alla collera. “Nulla, che cosa ti sei messa in testa?” Ribatté Danny in modo insolitamente sgarbato. “Perché sei così distante?” “Non sono distante, ho solo qualche problema in ufficio”. Distolse lo sguardo. C’era dell’altro. Grace lo capì e uscì con passo felpato per dissolversi nelle tenebre. Riapparve all’alba sotto il palazzo dell’azienda, per la quale Danny svolgeva il ruolo di Direttore Generale, vi era una fontana multicolore che addolciva il grigio cemento. Al centro una spirale saliva verso il cielo sfumando in un tripudio di spruzzi maestosi. Comunicò in ufficio che quel giorno non avrebbe preso servizio per ragioni di salute. Voleva farsi perdonare da Danny invitandolo a pranzo nel locale in cui si erano conosciuti. Lo vide uscire per la pausa, non era solo, una ragazza bellissima appoggiava la testa sulla sua spalla, la sua pelle ricordava la luminosità candida della Luna piena, una cascata di riccioli inondava le loro schiene. Rimase a guardarli finché non scomparvero dietro l’angolo. Chiunque avrebbe detto che quella era proprio una bella coppia. Si sentì mancare la terra sotto i piedi. Le sue sinapsi si erano bloccate su quella figura femminile attraente ed elegante. Rimuginava e rimuginava.“Sarò sempre al tuo fianco”, con quanta fierezza Danny aveva pronunciato quella frase. “Il livore mi sta travolgendo… e se mi fossi sbagliata?” Si diresse verso la loro abitazione.

Era l’ora di cena. Danny aprì la porta, nelle stanze volteggiava l’odore delle pietanze che Grace stava cuocendo per lui. “Mi dispiace per ieri, sono stata aggressiva senza motivo”. “Non ti preoccupare”. Le sfiorò le guance con le labbra e aggiunse “Io ti amo”. “Cosa ne dici se domani chiediamo un paio di ore di permesso per fare quattro chiacchiere da ‘Chez Maxim’?” “Non posso. Domani sono molto impegnato… Devo visitare alcune filiali”. “Va bene, sarà per un’altra volta, amore mio”. Grace era molto loquace e scherzosa. Si coricarono tardi. Danny si stese e si addormentò in pochi minuti, incurante di Grace. Il Sole era alto quando si salutarono. Grace convinse il suo capo ufficio, fortemente contrariato per la prolungata assenza, che la questione da risolvere era di fondamentale importanza. Con estrema cautela, si mise sulle tracce di Danny e lo pedinò fino a quando salì al quinto piano di un vecchio edificio in periferia. Grace si trattenne una manciata di secondi. Chiuse le palpebre. Quando le riaprì, ebbe la conferma e i pochi dubbi si dileguarono. Danny e riccioli d’oro si abbracciavano, si coccolavano in modo sensuale. L’aveva tradita con una donna. Le girava la testa per l’umiliazione. Un turbinio di idee, il desiderio di ferirlo in qualche modo si mescolavano ai sensi di colpa. “Che cosa ho fatto per meritarmi questo”. Presa dal panico della sofferenza non sarebbe stata in grado di sostenere un colloquio inutile e carico di astio. Scelse di andarsene. Mentre stava preparando i bagagli, Danny rientrò. “Che cosa stai facendo?” “Mi pare abbastanza evidente, non voglio rappresentare per te un ostacolo”. “A cosa ti riferisci?” “Alle tue misteriose assenze, alle bugie, ai sotterfugi… ti ho sorpreso con la tua amante. Vuoi che te la descriva?” “Non è una cosa seria, tu sei unica per me”. Borbottò Danny imprecando contro la sua sfortuna. “La sfortuna? Quale sfortuna? Il tuo atteggiamento rivela quello che minimizzi con tanta violenza verbale”. “Mi puoi perdonare?” “No, perché avresti potuto dirmelo e non l’hai fatto, sei un vigliacco”. Di fronte a tanta ostinazione, Danny perse la calma. “Sei insolente ed ingrata e, comunque, non puoi separarti da me, sei una mia proprietà e hai bisogno di un tutore per muoverti all’esterno di queste pareti”. “Non pretenderai di ridurmi in schiavitù?”. “Sto solo dipingendo il tuo futuro. Appena fuori saranno le autorità competenti a decidere la tua sorte. Potrebbero anche disattivarti se io non garantissi per te”. “E tu non garantirai, immagino”. “Se te ne vai, ed è una scelta che puoi fare, io ti rinnegherò”. Grace in Danny, il suo Danny, aveva scoperto l’indifferenza e la crudeltà che si celano nell’animo umano. Si era fidata di lui. Lo aveva ammirato per la sua tenacia nel difendere la loro unione. Sprofondò nella poltrona. “Come sei mutato, persino la tua voce è diversa. Quello che non capisco è perché vuoi che io resti qui”. “Non voglio perderti, voglio che tu stia con me. Tu sei un’opera d’arte, per averti ho sudato sette camicie, ho sborsato parecchi quattrini. Ho subito gli insulti della gente, vivendo in una campana di cristallo che si è trasformata in una prigione. L’evasione che mi sono concesso mi ha dato uno scossone, ho avvertito il brivido di una normalità che con te non ho mai potuto avere.” “Mi stai proponendo di diventare la tua domestica?” “No. Tu sei la mia compagna. Con te mi sono divertito e nell’intimità sei sempre stata impagabile”. Non si era nemmeno accorto di quanto fosse stato sarcastico e sgradevole. Grace era disorientata e mortificata, la sua esistenza si stava sgretolando. Si spostò in camera da letto e cominciò a riflettere sulla risoluzione da adottare. “Quali alternative ho? Non voglio rassegnarmi a fare la prostituta. Fuggire è un rischio, eppure non posso arrendermi, devo escogitare un sistema legale per eludere il filo spinato che lacera la mia dignità”. Soffocò un gemito e, con un gesto inconsulto, lanciò la lampada blu, alla quale era molto affezionata, sul pavimento. “Tutto bene cara?” La voce di Danny rimbombò nel corridoio. “Certo, ho urtato la lampada”. “Pazienza, la ricompreremo”. Così Grace fece buon viso a cattivo gioco, valutando e progettando nel contempo in modo meticoloso un piano per ottenere l’emancipazione.

Si rivolse al Comitato per le Pari Opportunità. Il movimento, nato dall’iniziativa della parte più aperta della società, aveva tentato più volte di promuovere leggi a tutela dei soggetti deboli, ora Grace offriva un’occasione come tante, ma più intrigante e difficile. Ben presto divenne la paladina dei diritti negati. Danny riteneva di trovarsi in una botte di ferro e mai avrebbe supposto di combattere l’aspra morsa della richiesta di libertà. Invece la convocazione del Tribunale arrivò. Fu consegnata, ironia della sorte, da un androide.

“Quali sono le sue richieste?” Intimò il Giudice un po’ seccato dal clamore che si era creato intorno alla causa portata in giudizio. “Voglio solo che mi venga riconosciuto lo status di libera, voglio avere la facoltà di poter troncare la mia relazione con l’uomo che è davanti a lei e che sorride in modo beffardo”. “Si rende conto che è la prima volta che mi viene sottoposto un caso simile?” “Ne sono consapevole, la mia è una battaglia per i diritti civili. Anche noi abbiamo sentimenti. Se una storia finisce, credo sia un inutile sacrificio il legame imposto dalla legge. Vostro Onore, quando sarà il momento di emettere una sentenza, pensi a tutti coloro che sono nella mia stessa posizione. Non ritiene che sia giusto convivere per scelta e non perché obbligati da un contratto?” Danny fissava Grace con disprezzo. Era sua, lui era il suo padrone. Mai e poi mai la Corte avrebbe accolto la sua istanza. Sarebbe stato un precedente vincolante per la giurisprudenza. Tutti gli androidi si sarebbero ribellati. Era inaudito anche solo ipotizzare quello che sarebbe accaduto. La Corte alfine deliberò. A Grace fu riconosciuto il diritto all’autodeterminazione. La notizia si diffuse velocemente. I faziosi si infiammarono scatenando in diversi luoghi della città scontri violenti. Quando la bufera si placò e la quiete ebbe il sopravvento, tutti concordarono su un punto: la pacifica convivenza avrebbe portato vantaggi all’umanità. Anche gli irriducibili detrattori della robotica di quarta generazione, dopo il primo sgomento, capitolarono, accettando la nascita di una nuova era. Solo piccoli sparuti gruppi giurarono di opporsi alla trasformazione in atto. Tra gli aderenti vi era Danny. Lo squallore in cui era piombato gli appariva insopportabile. Grace aveva traslocato. Nella loro dimora i locali erano disadorni, sull’intonaco le tracce dei mobili, che aveva portato con sé, lo sbeffeggiavano. Ad ogni sospiro, vampate di calore lo rendevano cieco dalla rabbia. Si sentiva offeso nella sua virilità. Voleva annientarla.

Si procurò al mercato nero un phaser molto potente e, supportato dalla sua combriccola, le tese un agguato. L’afferrò per un braccio, la fece cadere, puntò l’arma e la uccise. “Adesso vai ad implorare giustizia”. Mormorò con ripugnanza.

Era stata un’esecuzione premeditata e perpetrata con ferocia su un essere libero. Per la prima volta un uomo fu processato e dichiarato colpevole di robocidio.

racconti #sociale #fantascienza

Roby stava sorseggiando distrattamente uno champagne, non uno qualsiasi, uno di quelli della riserva speciale, raro a trovarsi ormai. Era una donna di successo, ammirata ed apprezzata. Si era precocemente distinta per il suo talento negli studi di Economia Globale, studi che l’avevano portata ad avere grandi soddisfazioni ed una brillante carriera. Aveva sempre vissuto nel presente senza porsi tante domande sul suo futuro. Dopo aver degustato quelle meravigliose bollicine, si diresse nella stanza da letto dove ebbe un sussulto quando, guardandosi allo specchio, per la prima volta vide sul suo viso dei segni, erano delle rughe, piccole ma eloquenti. La consapevolezza che forse non avrebbe potuto godere a lungo dei suoi privilegi la spaventò, ma ancor di più la rese inquieta la certezza che sarebbe stata emarginata in uno dei tanti “Ricoveri”, costruiti in gran segreto. Nel 2323 il governo centrale aveva stabilito che tutti gli anziani avrebbero dovuto essere collocati a riposo in “accoglienti case” predisposte al fine di non pesare troppo sul bilancio. Nessuno era in grado di dire precisamente che cosa accadesse lì dentro, eccetto gli addetti ai lavori. Questi avrebbero potuto fornire informazioni precise, ma erano degli androidi che non facevano trapelare nulla. L’idea di riformulare la società in base all’età e alla capacità lavorativa era ormai una realtà consolidata, così come quella di far crescere i giovani, generati in base ad una precisa e ben definita progettazione cromosomica, in luoghi protetti, in modo che nessuno potesse interferire con le attività educative volte a plasmare le loro menti. Quelli che non erano sufficientemente dotati, il cui DNA non era stato assemblato con perizia, venivano semplicemente utilizzati come manodopera nelle Unità di Produzione. La sperimentazione partì quasi per caso nel XXI secolo: le coppie cominciarono col chiedere una manipolazione genetica che preservasse dalle malattie i loro figli, vollero poi modificarne alcune caratteristiche fisiche o attitudinali ed, infine, preteso che fossero istruiti senza essere contaminati da quelli che non potevano essere considerati puri, cioè UGM come loro. Furono così istituiti per legge due registri nei quali, con grande attenzione, furono annotate le nascite in base alla tipologia di procreazione. Dopo qualche decennio non fu più necessaria questa procedura perché i nati in modo naturale vennero dichiarati illegittimi, nonostante le proteste degli umanisti che credevano ancora nel concepimento frutto della passione di amorosi sensi e nella bellezza della diversità. Nel lussuoso appartamento in cui abitava, Roby cercava ora di fare un bilancio della sua esistenza. Lucy, l’unica amica che avesse avuto e con la quale fosse riuscita ad avere un dialogo, sia pure limitato agli argomenti della banale quotidianità, era un’androide evoluta, che le era stata molto utile durante le lunghe giornate passate ad elaborare algoritmi per la gestione delle risorse e indicatori per il RAV, Rapporto Annuale di Valutazione. Il governo pretendeva molto, ma teneva in gran conto gli UGM come lei che dimostravano di comprendere la loro missione ed il loro ruolo. Ne era pienamente consapevole e si sentiva a suo agio nella gabbia dorata che le avevano costruito intorno. Si guardò di nuovo allo specchio, chinò la testa e si chiese “Che cosa c'è là fuori, al di là di quei lussuosi edifici?” Appoggiò le mani sul vetro di una finestra: al di sotto strade poco trafficate, piazze illuminate da generatori di fotoni. Qua e là intravvide delle ombre muoversi: erano gli UN che, partoriti in clandestinità e sopravvissuti ai rastrellamenti delle forze dell’ordine, furtivamente, sbucavano dai loro nascondigli per procurarsi del cibo. Con gli occhi bassi e coperti da cappucci, che di tanto in tanto facevano trapelare i loro lineamenti, scrutavano, sospettosi e guardinghi, ogni minimo movimento. D’improvviso la sua attenzione cadde su un uomo, un bell'uomo di mezza età, il cui volto era ben visibile. Che cosa ci faceva lì senza alcuna protezione? Perché camminava avanti e indietro come se stesse aspettando qualcuno? Non si rendeva conto del pericolo? Agli appartenenti alla casta superiore era vietato uscire liberamente, avrebbero dovuto trasmettere all’Ufficio Sorveglianza e Protezione le loro intenzioni e solo con il PASS vidimato ed una scorta avrebbero potuto varcare la soglia di casa. Lui era lì da solo, con le braccia conserte, in attesa di chissà chi o di chissà quale evento. Quell'uomo l'aveva colpita, sia per il suo portamento elegante, sia perché non riusciva a comprendere la sua naturalezza in una situazione di evidente rischio. Si diresse verso il guardaroba, scelse un abito anonimo e lo indossò. Era irrequieta e turbata. Continuava a rimuginare tra sé e sé quello che lo specchio le aveva rivelato. Forse aveva a disposizione un lustro e poi… poi avrebbe scoperto, suo malgrado, il segreto che si celava attorno ai famosi “Ricoveri”. Chiese il PASS: voleva in qualche modo sottrarsi alla sua immagine e forse al suo destino. Chiuse il portone di casa, si girò e lo vide ancora al suo posto, si accorse che la osservava intensamente, con aria di sfida. Un brivido la prese per mano e l'accompagnò fino all'affollato locale, dove si incontrava l'intellighenzia dello stato. Prese un caffè, fece quattro chiacchiere, ma la sua mente era aggrappata ad altro. “Mi aveva guardato con interesse. Perché? Chi era quello sconosciuto?” Rientrò ad ora tarda, congedò la scorta e si diresse verso l’ascensore. Salì fino al 45° piano, il migliore di tutto il palazzo, aprì la porta e fu accolta dal consueto profumo e questo la fece precipitare nella sua confortevole e raffinata sala da pranzo. Tuttavia, non era serena, un impulso irrefrenabile la spinse verso la vetrata del salotto: lo scorse a fatica a causa dell'oscurità, ma ne era certa, stava sotto un piccolo riparo. Lui, sempre lui, ora fermo, ora con gli occhi al cielo, meglio con lo sguardo verso i piani più alti dei palazzi, indubbiamente in affanno. A malincuore Roby lo lasciò e si coricò. Aveva bisogno di dormire, il giorno seguente sarebbe stato molto impegnativo: avrebbe consegnato il Piano Economico per il nuovo anno. Si alzò all'alba, fece una colazione leggera, preparò il materiale, sicura che il suo lavoro sarebbe piaciuto: perfettamente in linea con le aspettative, proponeva una strategia che non trascurava azioni mirate per l’ambiente, messo a dura prova da uno sfruttamento dissennato. La temperatura era salita di tre gradi. Erano, perciò, aumentate le aree desertiche e diminuite le risorse d'acqua. I più refrattari, e nelle alte sfere non erano una componente minoritaria, sembravano impermeabili a qualsiasi cambiamento. Per convincerli si era premurata di allegare i dati forniti periodicamente dall’UMAR, Ufficio Monitoraggio Aree a Rischio. Arrivò l'auto che l'avrebbe condotta al Palazzo del Consiglio di Stato. Era dotata di tutti i comfort, compreso un sintetizzatore di alimenti e bevande. Roby si sedette sbirciando fuori dall'oblò: era ancora al suo posto, i piedi calpestavano con costante pazienza il marciapiede, quell'uomo non voleva proprio andarsene. In pochi minuti fu a destinazione. La riunione fu lunga, il risultato negativo. Era la prima volta, ma costituiva un precedente che avrebbe avuto conseguenze rilevanti: per lei e per tutto il pianeta. Era avvilita e sorpresa, in fondo non aveva messo in discussione l'impianto strategico della società, aveva solo aggiunto un elemento di novità. Guardò i Consiglieri come si fa quando ci si avvicina a degli appestati e subito si tenta di fuggire per evitare il contagio. Non vedeva l'ora di respirare aria pura. Ma dove? Se tutto intorno era artificiale, e le poche anime che giravano erano fantasmi ingannati dall'aspro sapore dell’incertezza della latitanza. Le imposero di fare sostanziali modifiche e fu riaccompagnata. “Sostanziali modifiche!”, il suo cervello non faceva che ripetere questo imperativo. Se non l'avesse fatto, qualcuno se ne sarebbe occupato e per lei sarebbe stata la fine. Umiliata ed impaurita, sentì dentro di sé un moto di ribellione. Ad aspettarla vi era lui, non se ne era andato. Tirò quasi un sospiro di sollievo. Non era più intimorita dalla sua presenza. Ma chi era? Chi cercava? Da dove proveniva? Gli interrogativi erano sempre gli stessi e non erano di poco conto: lacci e lacciuoli imbrigliavano tutti ad un destino segnato fin dal primo vagito. Roby era nata e vissuta in quell'atmosfera. Lei era più che mai integrata e funzionale allo status quo. Sapeva come era stata generata e per quale fine. Con orgoglio amava ripercorrere le immagini della sua giovinezza, quando interagiva e dialogava con gli androidi, che l'addestravano a diventare una brava studentessa e che la gratificavano con elogi continui, del resto apprendeva con una facilità inconsueta. Si distraeva solo quando durante le ore di cultura generale, era seduta a fianco di uno studente per il quale nutriva una certa simpatia, l'aveva colpita perché ogni tanto durante le lezioni scuoteva la testa come se avesse dei dubbi su ciò che veniva insegnato della storia umana. Non si andava molto indietro, la linea del tempo partiva dalla colossale ristrutturazione sociale avvenuta nel corso di trecento anni. La filosofia era stata bandita, così come le arti. Tutto si concentrava sulle competenze che avrebbero formato dei bravi funzionari. E dall'Accademia uscivano veramente dei grandi professionisti. Stava quasi per entrare nell’ascensore, quando cambiò idea. Si fece coraggio sospirando profondamente, si lasciò alle spalle tutte le esitazioni e, in gran fretta, si avvicinò a quell'uomo. Si fermò per un attimo impietrita per l’emozione: lo aveva riconosciuto, scuoteva il capo come un tempo. Erano l'uno di fronte all'altra, Roby tremava, avrebbe voluto abbracciarlo, ma lui l'afferrò prima che si muovesse, la trasse a sé e le diede un bacio sulla guancia. “Ti aspettavo, finalmente sei arrivata. Sono Andrej, ti ricordi di me vero?” “Come dimenticare il tuo volto, con quell'aria sbarazzina. Come mai ti ritrovo qui dopo tanti anni?” Chiese Roby. “Forse non sai che, a causa dei miei continui scontri con l’educatore PQ10, fui confinato nella scuola speciale di rieducazione. Questa fu un’esperienza fondamentale, paradossalmente fu proprio lì, tra i reietti, che ebbi la conferma che le mie perplessità erano fondate: stavamo precipitando in un abisso senza ideali e senza prospettive, se non quelle decise prima della nostra nascita. Ma non era sempre stato così. Un tempo si poteva sognare, illudersi e qualche volta piangere per le miserie e le ingiustizie.” Roby non capiva. Le uniche testimonianze che circolavano erano quelle consentite dal regime. Dove aveva scovato le tracce di un passato così remoto e diverso? “So cosa stai pensando. Esistono degli archivi. Entrarvi è molto difficile, ma non impossibile. Noar era riuscito a decifrare i codici di accesso e aveva curiosato nell’onda degli eventi. Era stato intercettato, condannato ed inviato nella mia sezione. Grazie a lui, nei momenti in cui potevamo eludere la sorveglianza, sempre molto stretta – le nostre discussioni erano dei sussurri rubati alla rigida disciplina di quella colonia di infami – mi avvicinai al tempo in cui le persone, quelle imperfette, avevano dato vita a civiltà i cui prodotti del pensiero sono stati cancellati. A noi è stato precluso il confronto con uomini e donne che avevano combattuto e si erano sacrificati per la libertà, l’uguaglianza ed il rispetto di tutti gli esseri umani. Interessante, vero?” “Questo, comunque, non spiega il fatto che tu mi abbia atteso con silente tenacia.” Osservò Roby. “Una mattina mi alzai, entrai nella sala dell’appello, non trovai il mio amico. Purtroppo anche lui era scomparso, intuii che, come tanti altri, era stato eliminato. Una fitta terribile mi attraversò il cervello e mi fece perdere i sensi. Fui portato nella mia cella. Piansi. Riaffiorò così il tuo sguardo su di me. Ebbe l’effetto ristoratore di una carezza che non avevo mai avuto e che mi aiutò a superare il mio dolore e a trovare una soluzione. Come un fiume in piena, gli anni trascorsero, lasciando in me un segno profondo. Una sera, era la scorsa primavera, ti vidi e ti seguii, andasti a nasconderti in un palazzo vuoto, trasgredendo le minime norme di sicurezza. Compresi che qualcosa in te stava cambiando.” “Veramente l’unica vera novità era il desiderio di cercare una via d’uscita dal rischio molto concreto di veder collassare il mondo. Avevo bisogno di abbandonare i miei soliti schemi e la mia quotidianità per poter riflettere da un altro punto di vista. I miei sforzi sono comunque stati vani.” Mormorò sconsolata. La tranquillità di Andrej contrastava e non poco con l’evidente ansia che Roby sentiva piano piano crescere. Con un moto di fastidio lo allontanò, come se avesse percepito un pericolo e gli disse: “Cosa nascondi? Perché ti hanno risparmiato?” “Mia cara, io mi sono salvato dalla morte, al contrario del mio amico Noar, fingendo di aver superato la mia crisi di identità. Rinnegai tutto ciò in cui avevo creduto ed intrapresi la faticosa strada della riabilitazione. Fui tanto convincente, persino con me stesso, che chiusero la mia pratica con un Nullaosta ed una nota di merito per le mie abilità di Interceptor. Sono io a segnalare le anomalie del sistema e a porvi le dovute correzioni. Tu hai oltrepassato i limiti, vagando in incognito e ponendoti dei quesiti e degli obiettivi non coerenti con il nostro modello di organizzazione. Il tuo ultimo Piano Economico, con quelle inutili divagazioni sull’ambiente, ne è la prova. Una mina vagante, ecco cosa sei.” Roby non oppose resistenza. Abbassò le palpebre. Andrej estrasse da un fodero ben nascosto sotto il suo abito l’arma in dotazione alle squadre speciali. La colpì senza alcun rimorso e le appoggiò dolcemente una rosa scarlatta sul petto: era la sua firma. Se ne andò, sotto una tremula luce, nella certezza che fosse giusto averle dato la possibilità di morire con dignità.

ELENCO COMPLETO #fantascienza #robot

Aveva le spalle larghe, era alto e possente. I suoi occhi azzurri come il mare incantavano chiunque lo avvicinasse. Forse era il fascino della divisa su cui si adagiava la luce, forse era la sua espressione gioviale a renderlo affascinante. Aveva perso memoria del suo nome, conosceva la sua matricola di fabbricazione, PQ809, ed era un poliziotto. Sì, era un poliziotto. Quando aveva cominciato a svolgere l’attività cui era stato assegnato dal capitano, un guizzo d’orgoglio si fece strada tra le sue connessioni neurali. Il ruolo lo spinse ad implementare il suo database con le informazioni necessarie per prevenire piuttosto che contrastare azioni sediziose o illegali. Era armato e doveva pattugliare il quartiere più a nord della città, il luogo in cui uomini e donne amavano incontrarsi per interrompere la routine di una vita dura e dolorosa, scontrosa e fugace. Lui guardava quell’umanità apparentemente stanca ancor prima di nascere, ma che non aveva smesso di osservare la Luna e di rincorrere il senso dell’esistenza, cercando nella violenza una via di uscita. “Ehi, amico sei di nuovo tra noi?” Disse uno di loro. “Sono qui come sempre, forse non dovresti fare a me questa domanda, ma a te”. “Abbiamo un androide filosofo”. Rispose ridendo con sarcasmo e volgendo il capo indietro verso gli altri, i compagni di sempre. “No, sono semplicemente un poliziotto che deve mantenere l’ordine”. “Che cosa teme il governo? Siamo così pericolosi?” PQ809 se ne andò pensando: “Certo che siete pericolosi”. Da un momento all’altro qualcosa sarebbe potuto accadere. Sotto il cielo increspato, ruvido e aspro vi era una insoddisfazione dilagante che sfociava spesso in attacchi improvvisi quanto inutili contro il nuovo regime. Al distretto era ben voluto da tutti. I componenti della squadra di cui faceva parte erano in quel periodo dislocati in altre zone della città, dove i disordini erano assenti. PQ809 invece quotidianamente toccava con mano l’acqua gelida dei fiumi, acqua che sarebbe potuta esondare senza preavviso, tentando disperatamente di travolgere tutto senza lasciare traccia. Con questo stato d’animo pattugliava le vie immaginando di trovare come per incanto la realtà rovesciata, quiete e serenità. Invece la situazione era sempre la stessa. “Ehi poliziotto filosofo, sempre da queste parti?” “Questo è il mio lavoro, perciò sì, sono sempre da queste parti”. “Prima o poi farai una brutta fine. Questo è il nostro territorio e mal si concilia la tua presenza”. Avrebbe voluto obiettare che senza di lui sarebbero stati in balia degli eventi da loro stessi causati, ma non volle replicare.

All’improvviso vide un vecchio dall’aria stanca e dal volto solcato da profonde rughe. Si diresse verso di lui. “Cosa fai qui?” L’uomo era seduto per terra, lo fissò un attimo. “Sono un’ombra, sono il passato che vorrebbe vegliare sul presente.” Mormorò con voce lieve e roca. PQ809 con aria interrogativa non si mosse in attesa di una spiegazione. “Mia figlia è morta proprio qui. Quando la trovai giaceva sotto una pioggia battente, sola, abbandonata sul marciapiede come uno straccio”. “Cosa è successo?” “E’ una lunga storia. Dopo la fine della guerra, tutti noi eravamo impegnati nella ricostruzione di una società pacifica, inclusiva, dove vi sarebbe stato posto per tutti e per ciascuno a prescindere dalle caratteristiche genetiche, biologiche e funzionali. Questo era il nostro intento. Eppure qualcuno non era d’accordo, preferendo allontanarsi per organizzare la resistenza armata e combattere fino all’ultimo respiro contro il Governo Federale liberamente eletto e che non perdeva occasione per propagandare il proprio ruolo di garante ”. “Quello che mi dici, non mi aiuta a capire”. “Lo so”. Due lacrime scesero sulle guance sfigurate, la mano tremolante indicava verso il centro della città. PQ809 lo seguiva a fatica anzi gli sembrava che stesse divagando. Non era vero e lui lo sapeva. “Mia figlia nacque dopo una lunga serie di tentativi. Finché non arrivò la notizia che un piccolo embrione si era trasformato in una cucciola. A quei tempi io facevo il tuo lavoro, ero molto occupato. La piccola crebbe nel collegio più prestigioso di questa città. Ci vedevamo ogni fine settimana ed erano momenti di gioia. Amava fare lunghe passeggiate, diceva che la rilassavano”. Intorno a loro il chiasso si era fatto assordante, ma nessuno dei due pareva farci caso. Notarono invece due grandi fanali che si stavano avvicinando, l’aeronavetta si accovacciò sul suolo e attese. Due ragazze salirono in fretta come se ci fosse un allarme da qualche parte. “Non sei stupito? Eppure sei sempre qui”. Riprese il vecchio con tono rassegnato “Il mezzo che hai visto si presenta regolarmente e la scena cui si assiste è sempre la stessa. Dove sia diretto nessuno lo sa. Quello che è sicuro è che le ragazze si dissolvono nel nulla”. “Non mi sono mai accorto della stranezza di questi comportamenti”. Si sentiva a disagio, come se fosse responsabile di una grave omissione. Tacque per qualche minuto. “Ma...Tua figlia perché si trovava qui?” “Era un sabato qualunque quando uscì con un’amica per fare quattro chiacchiere e distrarsi. Era incantevole, indossava un abito di seta blu attillato che contrastava con l’agitazione con cui si muoveva. Si avvicinò alla porta frettolosamente senza salutare. Uno strano presentimento si impossessò della mia mente. Fu un attimo. Decisi di seguirla. Passo dopo passo, cercando di non farmi notare, la vidi svoltare in un viale cupo e poco frequentato. Persi le sue tracce. Quando rientrò non osai chiederle nulla”. “Ti ascolto da un po’, ma ancora non ho compreso come sia morta tua figlia”. Incalzò PQ809, ma il vecchio era completamente immerso nella sua narrazione. “Due mesi dopo il pedinamento mi abbracciò con una valigia in mano. Le chiesi una spiegazione prima che varcasse la soglia, le sue labbra sottili non pronunciarono una parola. Era già lontana quando si voltò verso di me con tutto il suo corpo e urlò: ‘Ti voglio bene’. Scomparve ed io rimasi immobile, annichilito”. “Non potevi fermarla?” replicò PQ809. “Come si fa a fermare una donna di 20 anni? Solo quando mi ripresi, mi feci coraggio e mi recai al Distretto di Polizia. I miei colleghi non mi badarono più di tanto, non era stata rapita, se ne era andata volontariamente. Aveva 20 anni osservarono. Era vero, era responsabile delle proprie azioni”. Il vecchio abbassò il capo, era stato colto da un improvviso malore, aveva il vuoto dentro, qualcosa di oscuro lo stava divorando. “Non si fece più sentire. I giorni scorrevano lenti, le pagine del calendario finirono per coprire il pavimento. Le strappavo con la rabbia del leone ferito. Indagai per conto mio sui casi irrisolti riguardanti giovani donne la cui vita si era fermata senza il ritrovamento di un cadavere. Giunsi in questa piazza, molte erano passate da qui”. “Vuoi dire che qui si commettono omicidi? Tua figlia si è trovata implicata in qualcosa di poco chiaro?” “Ne ero convinto, anche se la speranza che la mia ipotesi fosse smentita dai fatti albergava nel mio cuore”. Il vecchio si alzò e se ne andò senza concludere la conversazione.

PQ809 non gli chiese altro anche perché non nutriva dubbi sul fatto che lo avrebbe rivisto.

Invece no, il vecchio non riapparve. Cos’era successo? Tutto era avvolto nel mistero: la comparsa del vecchio, la sua sparizione, la morte della figlia. PQ809 non riusciva a darsi pace. In cuor suo, se così si può dire, desiderava trovare soluzione ad un caso che lo aveva colpito al punto da diventare un’ossessione. Girava senza tregua alla ricerca di qualche indizio ma era come giocare a mosca cieca, nessuno conosceva la ragazza e tanto meno il padre e, se anche qualcuno li avesse notati, certamente non lo avrebbe detto a lui. Qualcosa gli sfuggiva. “E’ possibile che io abbia sognato tutto?” Decise di terminare le ricerche e di rivolgersi all’ingegnere che lo aveva progettato e addestrato. Non fu rilevata alcuna anomalia

Un anno dopo fu trasferito in un’altra zona della città. Era il rione degli scienziati. L’aria profumava di fiori freschi e di corteccia. Il parco brulicava di ragazzi, sorvegliati a vista da guardie armate, qualcuno correva, altri camminavano lentamente, altri ancora si godevano il sole primaverile seduti sulle panchine. I palazzi intorno svettavano verso il cielo facendo intravvedere una umanità indaffarata. PQ809 si rese conto ben presto, e con soddisfazione, che tutto era perfettamente organizzato. Quello che lo turbava era la rabbia con cui i ribelli attaccavano quel modello di società. Lo comprese rapidamente. Quel mondo viveva ad un ritmo quasi delirante. Le sirene suonavano con puntualità da caserma sempre alla stessa ora. In file ordinate tutti uscivano per raggiungere il posto di lavoro o rientravano negli alloggi. Erano quelli i momenti in cui si poteva leggere sui loro volti una grave tristezza. “I loro occhi sono muti, inespressivi”. Pensò sommessamente PQ809. Intorno non scorgeva luoghi di ritrovo, nessuna insegna colorata, l’atmosfera era piatta, la musica inesistente. Un filo di vento, che si intrufolava tra gli alberi, era l’unico suono oltre quello delle sirene. Sentì un brivido. Era imbarazzato ed intimorito dalla nostalgia per il chiassoso quartiere in cui aveva prestato servizio. Come per incanto gli sovvenne il vecchio stanco e ferito, evaporato dalla sua memoria finché, per uno strano scherzo del destino, gli parve di distinguere proprio lui. Lentamente calpestò il sentiero che li separava. “Finalmente sei qui, ti stavo aspettando”. “Che cosa significa?” PQ809 sarebbe voluto scappare. “Sei preoccupato, eppure non dovresti stupirti, non è il caso che ti ha condotto qui. La legge da qualche anno non prevede lunghi periodi di sosta in uno stesso luogo per evitare che androidi ed esseri umani familiarizzino. Prima o poi saresti arrivato. Quello che vedi è il fallimento degli ideali in cui molti di noi avevano creduto. Quest’area è una specie di bioparco, noi siamo animali in via di estinzione. Voi androidi avete preso il controllo del governo e di tutte le attività produttive. Non avete bisogno di noi se non per studiare ed implementare la vostra sfera emozionale. Conclusa questa fase l’Umanità non ci sarà più”.

PQ809 spaventato dal tono perentorio del vecchio, che lo inchiodava, aveva le reti neurali in fibrillazione. Qualcosa di terribile stava per cadergli addosso. “Quando ti ho conosciuto, ti ho raccontato di me e di mia figlia. Quella storia sconclusionata merita un finale”. Sospirò. “Era notte fonda, proprio dove ci siamo incrociati la prima volta, lei ed i suoi amici stavano preparando un attentato per sovvertire la situazione ed ottenere dignità e libertà. Era fin troppo evidente quello che stavano facendo, ma si sentivano protetti, erano entusiasti e ingenui. Arrivò l’aeronavetta della polizia. Fu una strage. Tra i poliziotti c’eri anche tu. Tu hai ucciso mia figlia.” “Io non ricordo nulla”. “Non puoi. Sei stato riconfigurato”. “Cosa pensi di fare?” Chiese PQ809 in modo sommesso. “Sono vecchio, parlare con te è stato l’ultimo atto da uomo libero”. PQ809 non commentò, girò lo sguardo verso il Sole, meditando di fuggire con il suo segreto. Voleva a tutti i costi ritornare là dove aveva commesso il delitto e dove forse avrebbe potuto lasciare una testimonianza. Fu intercettato dalle sentinelle poste a guardia degli ingressi ai diversi settori in cui era stato suddiviso l’abitato. Fu resettato e portato al Centro di Rieducazione. Il vecchio fu arrestato mentre vagava senza una meta, sbattendo di qua e di là quel povero corpo avvilito e rassegnato. Venne internato in una casa di riposo, una di quelle costruite appositamente per traghettare le persone alla morte. Sul frontone dell’edificio vi era scritto: “Albergo per anziani – in memoria di tutte le vittime delle atrocità compiute contro L’UMANITÀ ”.

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Aprì lentamente le palpebre. Non vedeva bene e non riusciva a muoversi. Era disteso in modo scomposto, come se fosse inciampato. Mentre il cielo lasciava trapelare una luce fioca, quasi impercettibile, gli sovvennero alcuni versi: “Né più mai toccherò le sacre sponde ove il mio corpo fanciulletto giacque […] a noi prescrisse il fato illacrimata sepoltura.” Volti sfocati gli apparivano ad intermittenza. Si sovrapponevano, si scontravano senza pace, anime in pena perse in un fiume sotto la tempesta. All’orizzonte apparve una diafana palla infuocata. Era disorientato, non riconosceva il suolo su cui era adagiato. Un sasso, due, tre e altri ancora rotolarono tintinnando: un rumore metallico colpì i suoi sensori. Cosa aveva prodotto un suono tanto aspro? Dopo qualche secondo, irruppero lamenti affannosi e tristi e un pianto sommesso in lontananza. Forse era la sua immaginazione, spaventata dalla bianca e tenue luce di un Sole fiacco e lento, che dava l’impressione di essersi svegliato solo per guardarlo con sarcasmo e ironia.

Al tramonto le tenebre, simili ad un velo opaco, avvolsero il grigiore dei suoi occhi. Quanto sarebbe durata la notte? Aveva importanza? Perché si arrovellava con questo dilemma? Non poteva aspettare: notte o giorno che fosse. Gli sembrava di impazzire: il suo corpo non rispondeva agli impulsi neurali, era paralizzato, inerme. Si concentrò prima di tutto sulle mani. Dopo mille tentativi, finalmente un dito si alzò e si allungò sulla superficie, un altro lo seguì, poi un altro ancora. Erano spostamenti lievi, ma decisi, finché, con uno scatto repentino, fece una piroetta e si sorprese a scrutare il paesaggio quasi informe che aveva di fronte. Cominciò a perlustrare il territorio. I passi attenti serpeggiavano con cautela su una terra rossastra e monotona. Ad un tratto comparvero alcune impronte qua e là. Qualcuno evidentemente lo aveva preceduto. Si sentì a disagio, perso, confuso. Aveva bisogno di ricomporre la sua identità, senza la quale non avrebbe potuto interpretare e rielaborare la sua situazione. Si toccò il volto, si esaminò con cura per definire la sua forma: era umanoide, ma non era di carne ed ossa. Queste erano le uniche informazioni in suo possesso. Inquieto e avvilito, riprese il cammino. Nel suo incedere verso l’ignoto, scorse verso oriente altre orme e distinse chiaramente dei rottami verdi sagomati in modo bizzarro: erano piccoli brandelli di titanio persi nel vuoto. Ai primi bagliori mattutini, il panorama cominciò ad essere meno piatto ed indecifrabile. Accanto a colline, crateri e strade ben tracciate, si mostrarono, imponenti cupole trasparenti, un’enorme piastra di metallo e un prisma regolare, contrassegnato dal termine BLOCCO e dalla prima lettera dell’alfabeto. Si sedette su un masso che la natura aveva ben modellato, l’aurora si stagliava tra le costruzioni, sarebbe dovuto entrare in quella piccola base per un’ispezione, ma il suo istinto lo tratteneva lì dov’era. Il cervello… il cervello intanto aveva ricominciato a mandargli dei segnali apparentemente incomprensibili. Assomigliavano ad un insieme disordinato di ologrammi che correvano e si incrociavano in attesa di essere ricomposti da un regista: un fabbricato di mattoni e cemento, un grande parco, una piscina e degli esseri umani. Tanti particolari iniziarono piano piano a riaffiorare. Non era solo suggestione: era vissuto da un’altra parte. Cominciava ad essergli chiaro che non si trovava dove sarebbe dovuto essere. Le ore trascorrevano veloci. Lui era ancora su quella pietra a meditare, mentre le stelle giocavano a confonderlo. Avrebbe dovuto varcare la soglia di quegli edifici, continuare ad indugiare non gli avrebbe giovato, ormai se ne rendeva conto.

Spalancò con forza il portone del BLOCCO A: buio pesto. Sporse in avanti il busto, una pioggia di fotoni lo aggredì. Era in un cimitero, là erano ammassati i resti di un numero indefinibile di androidi. Nello sgomento riemersero, all’improvviso, la sua vita e la sua morte. Era stato acquistato da una coppia di Zurigo. “Benvenuto PQ20” – gli disse il signor Meyer – “I tuoi compiti sono semplici: dovrai occuparti del giardino, tenere in ordine, cucinare, insomma avrai la gestione della nostra residenza. L’unico ruolo impegnativo che io e mia moglie ti affidiamo è quello di leggere a voce alta per noi e, nelle serate di gala, per i nostri amici i libri che lei ti indicherà.” La signora Meyer era una donna di rara bellezza, la pelle vellutata e chiara risaltava sotto gli abiti sgargianti che amava indossare. Aveva un gusto molto raffinato in campo letterario e una dose notevole di nostalgia per i sentimenti che si rifugiavano in quei testi dimenticati, ma preziosi. Aveva perciò cominciato a raccogliere le opere degli autori più famosi di tutti i tempi. La sua collezione comprendeva pezzi di antiquariato di grande valore. Non era stata un’impresa facile. Le case editrici non pubblicavano da almeno tre secoli carta stampata, preferivano digitalizzare i pochi scritti in circolazione. Dovette, quindi, girare tra le botteghe più remote per realizzare il suo sogno. Il marito, il signor Meyer, la sosteneva in questa sua passione, ma non ne capiva le finalità e non provava nessun piacere ad ascoltare tutte quelle noiose parole messe in fila. Si adattava ai desideri della moglie, ai suoi bisogni spirituali. Era un ingegnere in quantistica multidimensionale, per lui Poesia erano le discussioni con i colleghi sulla possibilità di oltrepassare i confini della Via Lattea, grazie ai nuovi motori molecolari, o il rombo di una navetta spaziale lanciata a scandagliare l’Universo. Non avendo imparato a leggere con la giusta intonazione interpretativa e tanto meno a recitare – abilità considerata obsoleta ed inutile da parecchi anni – la signora Meyer volle qualcuno che lo facesse per lei. All’Agenzia le avevano assicurato che PQ20, era all’avanguardia e avrebbe assolto degnamente questa funzione. Faceva parte di una nuova generazione di androidi ed era stato ideato, oltre che per svolgere le normali attività, anche per interagire con gli esseri umani come se fosse uno di loro. Entrò così nella casa dei signori Meyer. PQ20 in breve tempo rivelò tutte le sue qualità. La signora Meyer pretendeva di portarlo con sé dovunque andasse. Con lui avrebbe voluto condividere il suo amore per l’arte. Questa aspirazione implicava una competenza non prevista nelle specifiche di progettazione di PQ20, il quale, tuttavia, fiducioso e affascinato da quel mondo, confidava sul fatto che la sua matrice cromosomica si sarebbe evoluta.

Faceva freddo, era febbraio inoltrato, quando si rivolse alla signora Meyer con una voce calda e affettuosa. “Ho notato che lei predilige gli autori che vanno a scavare negli avvenimenti più drammatici e aspri della storia e percorrono i sentieri più intimi ed impervi dell’Essere Umani.” “Siamo nel XXXIII secolo, il progresso scientifico, complice la nascita di un governo federale sovranazionale, ha risolto la maggior parte dei problemi che hanno angustiato gli uomini. Sotto un’unica guida l’economia è diventata meno competitiva e più solidale, anche l’ambiente ora è molto meno sfruttato ed inquinato. Si sono aperti i cancelli del Sistema Solare, abbiamo raggiunto tutti i pianeti e ne utilizziamo le risorse. Abbiamo anche delle colonie penali nello spazio. I detenuti scontano la loro pena su Mercurio sotto la direzione di androidi sentinelle.” Rispose la signora Meyer. “Io sono un’appassionata di vecchi cimeli – aggiunse – così li definisce mio marito che odia l’odore di inchiostro che si è impadronito del nostro salotto, ma apprezza il mio entusiasmo.” Dopo una pausa in cui la sua espressione assunse un’aria seria, riprese: “Mi rendo conto di non aver soddisfatto la tua curiosità. Non so esattamente quale sia la ragione che mi spinge alla ricerca di quei contenuti. Certo è che mi aiutano ad analizzare meglio tutte le sfumature del mio io e della mia umanità.” “Per fare questo non servono grandi speculazioni: siete il nostro specchio, voi dovreste rappresentarvi esattamente come noi pensiamo voi siate. Ci avete fornito di una sensibilità uguale alla vostra. Solo che voi siete esseri finiti, mortali. Per noi l’infinito non è un mito privo di fondamento e potremmo restare sulla Terra anche dopo la vostra scomparsa.” Osservò PQ20 “E’ proprio la vostra coscienza dell’esistente a rendermi cupa: in essa colgo con timore i segni della decadenza. Per non smarrirmi mi immergo nel dolce naufragio dell’arte. Approdo nell’unico porto sicuro dai dubbi che mi assalgono sul divenire che trascinerà nell’oblio me e la mia biblioteca.” Mormorò con voce roca e accorata la signora Meyer. Lo sguardo interrogativo e fiero di PQ20 la spinse a precisare. “In ogni frammento di esistenza, la mia per esempio, vi è l’infinito cosmico. Lo sento in ogni singola composizione che mi leggi.” Stagione dopo stagione, quella strana coppia divenne una celebrità. Molti cercavano di assistere agli spettacoli che ogni settimana venivano organizzati dai signori Meyer. PQ20 declamava sonetti, terzine, quartine, interpretava romanzi, opere teatrali. Champagne e bordeaux, scorrevano a fiumi. Non mancavano gli invidiosi, quelli che non erano abbastanza agiati per permettersi un androide avanzato paragonabile a PQ20, ma erano comunque accolti con un sorriso sincero. Persino il Presidente della Federazione partecipò ad un incontro, ad uno di quegli eventi fuori dal tempo.

Il 4 marzo 3275 dalla Terra allo spazio si diffuse una notizia sconcertante che, in un primo momento, nessuno prese sul serio. Fu ritenuta falsa, l’invenzione di qualche scriteriato per suscitare clamore, opera di un novello creativo Orson Welles. Invece no, i signori Meyer erano stati assassinati, qualcuno li aveva uccisi nel sonno. Le forze dell’ordine, chiamate da PQ20, accorsero immediatamente. I signori Meyer erano nella loro stanza da letto, sotto un lenzuolo variopinto comprato durante un viaggio in Tibet. Fu prima di tutto utilizzato il bio-scanner per stabilire l’ora del decesso, dopo di che venne impiegato un rilevatore dinamico trifasico per rintracciare DNA o altri materiali che potessero dare una svolta al lavoro degli investigatori. Si indagò in ogni direzione cercando di formulare un’ipotesi da cui partire per risolvere il mistero di quell’omicidio. Furono interrogati i vicini, poi uno ad uno gli ospiti che accorrevano a frotte nella prestigiosa dimora e chiunque avesse in qualche modo conosciuto i signori Meyer: tutti avevano un alibi. PQ20 non si era mosso dal suo cantuccio. Stava in disparte con un libro in mano, l’indice tra due pagine, con gli occhi sbarrati verso il muro intonacato di rosso papavero, pareva inebetito dal colpo letale di un Phaser: stupore e ansia si erano trasformati in un insolito opprimente tormento. Nessuno seppe cogliere l’orrore in cui era precipitato il silente androide. Le guardie gli esaminarono la memoria quantica per trarre dati testimoniali e indizi. Paradossalmente la più sofisticata strumentazione non riuscì a scuotere le sue sinapsi. PQ20 rimase muto ad ogni sollecitazione. Non si era accorto di nulla e, quindi, che cosa avrebbe potuto riferire? Né più e né meno di quanto era già stato dichiarato da decine e decine di persone. I sensi di colpa per non aver percepito il pericolo lo divoravano, gli impedivano di aprire bocca e di esprimere il suo sentire: il rancore verso un avvenimento che lo feriva, che gli aveva strappato a tradimento la sua famiglia e che contrastava con tutto quello che aveva assimilato grazie alla signora Meyer. L’apatia e l’indifferenza apparente di PQ20 alimentarono i sospetti; preso atto della sua totale reticenza, fu bloccato brutalmente e senza tanti scrupoli. In fondo era solo un oggetto e, non avendo altre piste da seguire, gli inquirenti giunsero, senza la minima esitazione, alla conclusione dell’istruttoria: un difetto di fabbricazione o un uso improprio da parte dei Meyer, lo avevano spinto alla violenza, nonostante il brevetto escludesse a priori queste eventualità. La sentenza fu presto emessa e la condanna fu esemplare. I tecnici dell’azienda che lo avevano costruito lo disattivarono, o almeno erano convinti di averlo fatto. Lo trasportarono su Marte dove vi era un deposito di androidi dismessi, che avrebbe dovuto fornire parti di ricambio per i vecchi robot, inviati su Plutone con il compito di creare le condizioni per l’esplorazione del Sistema Planetario della Stella Kepler-62. In realtà quasi mai era stata usata la spazzatura disponibile sul Pianeta Rosso. Era, tuttavia, una riserva che tutti giudicavano necessaria. La discarica trovava una giustificazione più etica che economica: il riciclo. Raramente qualche astronave era atterrata per fare rifornimento. PQ20 era stato trasformato in uno di quei rottami inutili, solo che lui era perfettamente in grado di riflettere sul suo destino. L’onda temporale lo aveva inghiottito per l’eternità. Alimentato a risonanza oscura, aveva una riserva di energia inesauribile da spendere tra le carcasse dei suoi simili, ai quali, con voce commossa, rammentando una lettera dal carcere di Martin Luther King, avrebbe incessantemente cantato il proprio elogio funebre : “L’ingiustizia in qualsiasi luogo è una minaccia alla giustizia ovunque.”

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Giulia aveva attraversato la vita senza prendere un attimo di respiro. Era una donna in carriera e ciò la rendeva orgogliosa. Dal fango in cui era stata costretta a vivere da occhi crudeli, che l’avevano privata della sua infanzia e della sua adolescenza, era balzata in uno degli isolati più alla moda e dal quinto piano del suo appartamento ammirava l’andirivieni di cappotti e soprabiti eleganti, talvolta sfarzosi. Eppure quando girava le spalle al mondo, la polvere del passato riemergeva prepotente, la frustava facendole provare l’incanto perverso della finzione e dell’autodistruzione emotiva. Macinava dentro di sé rancore e angoscia. Doveva costantemente difendersi da se stessa, dal suo brutale farsi del male. Aveva un’amica, Sonia, con la quale riusciva a condividere le sue emozioni. Si vedevano regolarmente il giovedì all’imbrunire per un aperitivo. Il locale offriva svaghi intriganti per un pubblico sempre più esigente. Raramente si erano avventurate nei meandri di quei rocamboleschi quanto effimeri piaceri: la sala dei viaggi era attrezzata in modo da offrire evasioni erotiche e salti in altre dimensioni; quella delle spezie era un tunnel in cui sperimentare diverse tipologie di sostanze per mettersi in comunicazione con il subconscio proprio o con quello di altre persone, se queste avessero manifestato un chiaro consenso. Giulia non era mai in ritardo e aspettava con ansia Sonia, il suo volto bianco, i suoi occhi stanchi, le sue mani piccole e macchiate. Le loro conversazioni avevano il sapore aspro di una medicina acida da inghiottire. “Come stai Giulia?” Era la domanda di rito. “Come sempre, forse peggio di sempre.” “Gettare la spugna non è una soluzione”. “Cerco affannosamente una via di fuga dai miei pensieri. Vorrei sprofondare nel nulla. Il sonno è tormentato da incubi in cui mi sforzo di divincolarmi da una corda che diventa sempre più stretta fino a segnare profondamente il mio corpo. Mi sveglio all’improvviso immaginando che nel cuore delle tenebre entri qualcuno con l’intenzione di uccidermi. Poi riprendo a dormire tranquilla, nella consapevolezza che non ha per me molta importanza questo mio esistere”. “Queste sono sciocchezze. Pensa al vuoto che lasceresti”. “Per favore, cambiamo discorso”. Giulia cambiava sempre discorso se le sembrava di non tenere testa all’interlocutore. Era una sua abitudine.

Si accomiatarono con un abbraccio. Giulia non si recò subito a casa, il fiume l’attendeva. Ogni volta che si avvicinava ad un ponte sentiva l’estasi della dissoluzione. Faceva freddo, una brezzolina fastidiosa le colpiva il volto come una sferzata. Si sedette sul parapetto. La luce della Luna ed il fascino seducente del fruscio dell’acqua la facevano stare bene, le davano la quiete del soldato che ha sconfitto il nemico. Ma il nemico era in agguato, sempre pronto a sorprenderla. L’aspettava dietro gli angoli dei palazzi, dentro il fumo di una sigaretta, nel profumo più sofisticato che amava spruzzare sulla sua pelle. Così, di tanto in tanto, scappava imboccando la strada della trasgressione, sfidando le regole che imponevano la netta separazione di genere. Indossava gli abiti di uno dei personaggi dei tanti libri che aveva letto, girava per la città fino a raggiungere il quartiere in cui risiedevano gli androidi al servizio delle multinazionali e dove aveva incrociato PQ70 che l’aveva notata mentre vagava senza meta. Si era presentato a lei con una gentilezza tale da far invidia a quelli che si definivano uomini. Insieme si divertivano a visitare i vecchi sepolcri, le tombe avevano un fascino particolare. Dopo l’ultima esplosione nucleare gran parte del pianeta era stato devastato dai contraccolpi di una gestione poco attenta del territorio e delle risorse. I morti furono sistematicamente gettati in fosse comuni, quasi a voler cancellare l’ecatombe dalla memoria collettiva. I cimiteri erano stati dichiarati patrimonio dell’Umanità. Mano nella mano, PQ70 la conduceva tra le lapidi inventando per ogni sepoltura una vita diversa. Sapeva parlare la lingua dei morti. Era un abile narratore. “Mi sto innamorando di te”. Le disse con voce sospirante quella sera “Il nostro legame non può andare oltre l’amicizia più sincera”. Rispose cordialmente Giulia, seppur lusingata dall’audacia e dalla sensuale passione con cui l’aveva inaspettatamente travolta. Si congedarono con un breve ma intenso saluto, quasi fosse un addio. PQ70 rientrò alla base, era confuso: che cosa gli stava accadendo? Sapeva di essere stato progettato per servire con abnegazione la sua azienda, invece, nonostante i divieti, gironzolava con una donna senza alcun ritegno. Svolgeva le sue mansioni all’interno dell’area D. Gli era stato assegnato il compito di potenziare la banca dati con informazioni accurate sul mondo circostante, sulle manie, sui vizi e sulle virtù degli esseri umani. “Profilare” era la parola d’ordine, in base al profilo di ognuno si poteva orientare la produzione che, a sua volta, abilmente propagandata avrebbe influenzato ed indirizzato i consumi. Il meccanismo aveva una sua logica, maggiore era il numero di informazioni disponibili, tanto più elevata era la probabilità di successo. PQ70 era stimato dai dirigenti tanto che lo portavano ad esempio per gli altri. “Cosa mi è venuto in mente di dire che sono attratto da lei, le mie connessioni neurali sono in fibrillazione, meglio non far trapelare quello che mi sta succedendo”. Alle sue spalle il capo reparto lo stava osservando. “Che cosa hai?” “Nulla, penso di aver poca energia da spendere”. “Questo non è possibile. Vai in infermeria e chiedi dell’ingegnere. Qui abbiamo bisogno di personale efficiente e fidato. La concorrenza è spietata. C’è più di qualcuno che ucciderebbe per avere la nostra banca dati”. “Sì, lo so, è una merce preziosa quella che trattiamo”. Abbandonò la console e si avviò. L’ingegnere lo analizzò con il tricorder. “Sei in forma perfetta. Perché ti hanno mandato qui?” PQ70 borbottò qualcosa di simile a delle scuse e se ne andò. Non aveva mai prestato attenzione all’enorme specchio che si trovava nel corridoio. Fissò a lungo la sua immagine e provò vergogna. Giulia non lo avrebbe mai preso in considerazione. Un suono tonante rimbombò: “Allora vuoi ritornare al tuo posto?” Quando riprese posizione e ricominciò ad elaborare il flusso di date, cifre, immagini in un turbinio continuo e veloce, fu colto da una idea malsana: rovistare nel database per conoscerla meglio. Poteva farlo, aveva l’accesso a tutti i repository e aveva tutti i permessi per decifrare i messaggi crittografati. Aspettò il momento giusto e si lanciò nella ricerca. Il tempo si era dilatato, il giorno non aveva più confini, la notte era solo il buio di una stanza vuota. Gli apparvero le foto che la ritraevano da sola o con le persone che aveva frequentato o semplicemente sfiorato, i viaggi che aveva fatto, i ristoranti in cui si era recata, persino la sua cartella clinica. Al calar del Sole uscì e girovagò nella speranza di incontrarla finché Giulia si mostrò in tutta la sua bellezza. La baciò con ardore. “PQ70 cosa fai ?” Disse Giulia con un tono quasi rabbioso. “Non guardarmi come se fossi un estraneo. Non faccio che pensare a te. Tu mi hai ammaliato e non riesco a trovare pace”. “Facciamo due passi”. Lui la seguì verso il campo santo in cui erano soliti passare qualche ora. Era stranamente silenzioso, si sentiva in colpa per aver violato il suo diritto alla riservatezza. “Perché sei così triste?” “Ho commesso un reato gravissimo: ho frugato nella tua identità digitale”. La luce artificiale li abbagliava. Lei esitò per un attimo, poi urlò a squarciagola: “Vattene, io non posso immaginare infamia peggiore…”. La pregò in ginocchio, ma Giulia non volle sentire ragioni, per l’ennesima volta era stata tradita, umiliata, tutte le sue fragilità emersero aggressive, aveva il viso sfigurato dal livore. “Io ti amo, l’ho fatto solo per capire chi sei e per poter assecondare i tuoi desideri”. Mentre pronunciava con tenerezza e commozione quelle parole, lei scomparve. PQ70, dopo qualche minuto, intravvide in lontananza una sagoma indefinita che vacillava sopra la rossa balaustra del ponte del Diavolo. Fu sufficiente il post di uno scaltro passante, avido di novità, a richiamare uno sciame ben equipaggiato di sofisticate armi per filmare la scena. Nessuno cercò di fermarla. Lo spettacolo era molto allettante e, soprattutto, di valore: chissà quanti l’avrebbero visto con un click.

#fantascienza

Margot aveva 25 anni, era una ragazza dal temperamento penetrante e acuto. Viveva nel quartiere residenziale di una città anonima, costruita al fine di ospitare i più rinomati centri di ricerca ed i migliori talenti. Era circondata da persone gradevoli e garbate, con le quali, tuttavia, non aveva legato molto. Non si era ancora innamorata, nessuno l’aveva ammaliata al punto da farle perdere la testa. Lei sognava il grande amore, quello che si sarebbe impadronito del suo sguardo intrigante, schivo, sofferente, della sua anima e del suo corpo, togliendole il respiro. Come ogni sabato sera era davanti al suo aperitivo. Da qualche anno si recava nello stesso posto dove uno sgabello vecchio stile l’aspettava inquieto e accogliente. Il barista la guardava con aria complice, la salutava con un cenno del capo e le portava “il solito”. Si comprendevano a meraviglia, erano in perfetta sintonia; un’espressione corrucciata o un battito di ciglia diverso dal consueto bastavano per rompere il ghiaccio e cominciare una conversazione. “Margot, come ti gira stasera?” “Non sono serena, una strana agitazione mi pervade, ad ogni passo mi pare di essere sull’orlo di un precipizio, se poi penso al mio futuro il mio stomaco comincia a darmi dei segni di repulsione, mi prende una strana nausea… Sarà il cambio di stagione”. “I tuoi studi come procedono?” “Molto bene, le ultime sperimentazioni hanno rivelato la presenza di particelle vettoriali che si muovono nello spazio producendo energia a risonanza oscura. Il problema è come catturare questa riserva inesauribile che aprirebbe le porte ad una riconfigurazione dei concetti di spazio e tempo”. “Vedrai che troverai una soluzione”. Lei intanto beveva. Il liquido frizzante le scivolava sulla lingua e la rassicurava. Sulle pareti del bicchiere, ormai mezzo vuoto, un alone rossastro le ricordava il deserto e gli amici che l’avevano accompagnata durante la sua prima vacanza al di là del confine a cercare la pace invano. Intorno schiamazzi e risate sguaiate rimbombavano sui muri decorati in stile Art Nouveau, una rarità, pochi locali potevano vantare un ambiente così retrò. Generalmente i luoghi di incontro erano saloni disadorni in cui trascorrere qualche ora attivando il programma olografico preferito. “A cosa stai pensando?” “Qui mi sento a mio agio, il fruscio ondeggiante della musica mi fa tenerezza, assomiglia a quella che ascoltavo nella camera in cui da piccola scrutavo il cielo, immaginando l’Universo ed i suoi segreti. Sono cresciuta nella convinzione che i miei genitori non mi amassero veramente, distratti dalle loro sofisticate indagini sulle neuro-tecnologie e dai loro impegni mondani; poche erano le carezze sulle mie guance, molti i rimproveri che giungevano alle mie orecchie. Ora non ci sono più, se ne sono andati come un sussurro che si spegne”. Due lacrime le solcarono il volto, appoggiandosi sull’abito blu che Margot aveva acquistato in una boutique del centro. “Sai che tutti ti stimano e ti ammirano. Non permettere allo sconforto di avere il sopravvento su di te”. Era tardi. Solo alcune coppiette erano ancora ai tavoli davanti ai video dei loro dispositivi. Si divertivano a seguire le gesta dei protagonisti di antiche serie come Star Trek TOS e Voyager. Margot se ne andò. Assorta nei suoi dubbi, si avviò verso il suo rifugio, il suo lussuoso e confortevole appartamento. Prima di andare a letto, l’attendeva la vasca sonica. Immerse tutta se stessa negli aromi più delicati e armoniosi, abbandonando la sua pelle nell’acqua profumata e seducente, come se volesse perdersi e dimenticare la sua vita. Chiuse gli occhi e, per un istante, ebbe la percezione di aver surfato onde gravitazionali, di essere entrata in contatto con l’antimateria, viaggiando tra stelle, asteroidi e pianeti. Non capiva. La sua memoria sembrava un database in cui erano stampate fotografie di mondi lontani e misteriosi. Un brivido le percorse la schiena. Si asciugò, indossò una vestaglia di seta, si distese sul caldo letto sotto il soffitto che un abile artigiano aveva sapientemente decorato: rappresentava un lungo sentiero in mezzo agli alberi, senza inizio né fine. Si addormentò a fatica, osservando quel viottolo nel bosco che sprofondava nell’abisso.

Il mattino seguente un vento pulsante soffiava tra i suoi lunghi capelli, intorno un via vai di volti infreddoliti. Era stordita e la testa le girava, mentre una calda diafana luce la incoraggiava a camminare con cautela per assaporare i colori silenti del parco che stava costeggiando. Decise di passare quel giorno di riposo tra rose ormai secche e alberi con poche svolazzanti foglie, decimate dall’arrivo dell’autunno. Un cappotto si sedette sulla panchina in cui si era accomodata nella speranza che nessuno la disturbasse. L’uomo, che si nascondeva sotto un cappello a tese larghe, non proferì parola fino a che non manifestò con voce commossa la propria ammirazione per una margherita che, a dispetto della stagione, si aggrappava al ruvido e arido suolo. “Con quanta tenacia resta al suo posto, non si rassegna, lotta, non si arrende, ignara del lamento con cui le querce preannunciano la sua sorte. Presto dovrà andarsene”. Margot ebbe un sussulto: “Andarsene? Dove? E’ un piccolo fiore, si sarebbe semplicemente assopito per ricomparire con la primavera, ai primi canti di gioia del passero e della possente aquila”. Si alzò. L’uomo la trattenne per un braccio. Le sfiorò le labbra con la mano, quasi volesse impedirle di parlare. “Non avere paura, volevo strapparti un sorriso e invece ho ottenuto l’effetto contrario. Sono costernato e mi scuso.” Margot lo fissò con preoccupazione, un tuffo al cuore la fece sobbalzare, percepì di essere in balia di una tempesta di sensazioni che la soffocavano, debole e indifesa, si ritrasse bruscamente. “E’ colpa mia. Qualcosa in me non va...” Si allontanò senza voltarsi indietro. Attraversò la città correndo all’impazzata come se fosse inseguita. Si fermò quando vide la luccicante insegna del suo locale, quello in cui avrebbe sorseggiato l’aperitivo, il suo aperitivo, in compagnia della sua malinconia e del suo fedele barista. “Caspita, hai un aspetto spettrale, sembri uscita da un incubo”. “Dammi da bere, voglio annegare i pensieri sgradevoli che da un po’ mi stanno martoriando. Ti parrà strano, ma ogni volta che mi specchio mi chiedo che cosa mi porti ad essere tanto sospettosa verso coloro che mi avvicinano, a ritenere che questo sia l’unico porto sicuro e tranquillo in cui riposare la fredda tristezza della sera. Forse perché ci sei tu. L’unico con il quale io possa essere quel che sono e ogni turbamento tace”. “Non attribuirmi troppi meriti. Tu sai di essere speciale”. “Io speciale? Io vivo aspettando. So che prima o poi sarò in grado di comprendere la ragione del mio ‘esserCI’. Purtroppo temo che non sarà un momento piacevole”. “Questo pessimismo mi sbalordisce. Hai già sconvolto il mondo con le tue scoperte”. “L’entusiasmo per i miei primi successi si è trasformato gradualmente in rammarico e tormento. Credo di essere intrappolata in un vortice in cui qualcuno guida i miei passi”. Margot pagò il conto. Uscì dalla porta posteriore, quella che le avrebbe consentito di raggiungere più velocemente la sua casa. Imboccò un vialetto in mezzo a due file di lampioni. Il cancello era vicino quando fu avvolta da un improvviso chiarore. Una forza misteriosa l’aveva sfiorata tanto da farla barcollare. Non si mosse per alcuni minuti, poi si fece coraggio, entrò nel giardino con cautela, salì al decimo piano. Non notò nulla di insolito, si portò le mani alla fronte. Si sedette sul divano di velluto vermiglio. La notte la prese e la condusse nell’ombrosa quiete del sonno.

Si presentò all’Accademia di buonora, si mise comoda al suo simulatore ed iniziò a lavorare, ad inserire ed elaborare dati su dati, come faceva sempre. Le formule che stava testando non davano risultati apprezzabili, quando intuì che avrebbe dovuto modificare il flusso del campo vettoriale. Finalmente l’energia a risonanza oscura era stata intercettata. Aveva raggiunto il suo scopo. Il pallido Sole dietro le vetrate si spense. Il vuoto la avvolse, la portò via con sé. Dov’era? Quale dimensione l’aveva risucchiata? Erano domande alle quali non sapeva rispondere. Qualcosa si frapponeva tra lei ed i suoi desideri. Osservò ciò che le stava intorno: le pareva di galleggiare nel mare in tempesta, sentiva i flutti sul suo corpo, vedeva luci in ordine sparso simili a stelle cadenti. Capì di essere in movimento, un relitto pietrificato lanciato nell’Universo a braccare una preda a lei ignota. Cominciò a ripercorrere la rotta che l’aveva portata lì, le onde gravimetriche che aveva superato, le navi spaziali che aveva eluso o distrutto. Si poteva persino dire che era stata brava nello svolgimento del suo compito. “Ogni traguardo era una tappa del mio vagare, chiusa in una realtà virtuale, inconsapevole della posta in gioco. In esilio da me stessa parlavo con il nulla. Davanti agli occhi avevo solo immagini, simulacri. Solo l’angoscia era vera e ricolma di solitudine e di amarezza. Nessuna intelligenza dotata di coscienza avrebbe collaborato alla realizzazione di un piano tanto disumano. Sono stata ingannata”. Questo fu l’ultimo attimo di lucidità, prima che la sua esistenza si fermasse nel crepuscolo immobile di un planetoide in conflitto con la Terra. Avrebbe voluto evitarlo ma non le fu possibile: le sue specifiche di progettazione la spingevano, inesorabilmente, verso il suo obiettivo. L’impatto fu catastrofico. Nulla rimase di quella civiltà. Margot era il nome in codice che gli ingegneri di biorobotica bellica avevano dato alla prima bomba senziente, ideata per affrontare la complessità di missioni interplanetarie. Persa nelle aspre tenebre di una guerra lontana, Margot si sbriciolò in mille brandelli, ma un frammento della sua memoria continuò a vagare per il Firmamento fino a quando si posò sul suolo da cui era partita.

#fantascienza

ddd Las Vegas, arabescata da case da gioco scintillanti e attraenti, accoglie tra le proprie braccia incontri fugaci, seduzioni di una notte e tormenti di una vita. Le macchine davanti ai Casinò ostentano la loro graziosa e costosa personalità come le donne che avanzano sicure con uomini imbellettati, baciati dalla fortuna o sostenuti dall’intraprendenza, donne ammantate di mistero, indossano velette nere eleganti e sfarzose, cucite magistralmente dalle firme più importanti della moda. Las Vegas, sempre identica a se stessa e sempre diversa, immobile ed in continuo movimento, è difficile conservarne un ricordo preciso, essa muta costantemente a seconda del punto di vista. Il viaggiatore percorre i viali con lo sguardo attonito, rischiando ad ogni passo di perdere l’equilibrio, quasi avvolto da un’ebbra frenesia. Anche il turista più distratto finisce per lasciarsi andare nel turbinio di voluttà che si spande per l’aria e travolge chiunque. Las Vegas, dai mille volti sorridenti, dalle mille insegne luccicanti, dai mille grattacieli che tentano in ogni modo di raggiungere le nuvole, è la città dei sogni e dei sogni perduti, dei desideri e dei desideri infranti.

All’estrema periferia di questo enorme agglomerato si estende una terra apparentemente vuota e solitaria, rinchiusa in un storia che nessuno è riuscito a reinventare. Questa è la Las Vegas dei poveri, degli esclusi, dei condomini che si reggono a fatica e non crollano solo perché hanno pietà dei vivi, delle case fatiscenti senza grondaie, delle roulotte parcheggiate una vicino all’altra formando un quartiere di desolazione ai bordi del deserto. Gli abitanti sopravvivono tra cani randagi e gatti incuranti di quella povertà. Le regole ferree del bisogno impongono una ragnatela di relazioni, trasgredire significa morire. Così ogni tanto qualche sparo lacera il silenzio, disturbando il sonno leggero degli animali e degli spinosi arbusti.

Nacque, nella roulotte più isolata e immersa nel nulla, Evelyn. Il vagito tremolante giunse tra le braccia di Gwenda che lo ascoltò con distaccato tormento. Mise la piccola all’interno di uno scatolone con due copertine e la allattò finché poté, poi dovette porsi il problema del pasto per due.

Gwenda, una donna dai lineamenti gradevoli ed attraenti ma dai modi sgraziati, aveva cominciato a vendersi all’età di 16 anni, quando era fuggita di casa sperando di trovare, sotto le luci di qualche locale notturno, l’uomo che l’avrebbe amata e sposata. Invece finì in un bordello come tante altre. Mentre offriva il suo corpo osservava la stanza in cui era stata ingabbiata: l’orologio a muro che scandiva i minuti con lentezza estenuante, le pareti scrostate e unte su cui erano appesi quadretti raffiguranti vecchie città, la tenda rossa che separava il bagno dalla camera. Durante il giorno passeggiava avanti e indietro nei quartieri più malfamati dove i bambini giocavano tra pietre e reti arrugginite. Sembrava volesse rubare la loro ingenuità.

Ben presto Gwenda divenne quello che era stata costretta a fare, il suo viaggio l’aveva plasmata, era oramai uno dei tanti frammenti di umanità, senza nessuna prospettiva. Se ne andò dal bordello con quattro vestiti, gli stracci indispensabili per battere il marciapiede. Poi rimase incinta. Aveva 19 anni.

Evelyn crebbe senza carezze o baci, circondata da una profonda solitudine, prigioniera di un presente invisibile in cui nulla aveva senso, la brutalità con cui venne allevata si poteva intuire dai suoi abiti sporchi, dal suo corpo segnato dalle percosse. “Perché non ti ho lasciato morire in un cassonetto della spazzatura?” Gridava Gwenda quando Evelyn piangeva. “Ne ho abbastanza di te, mi hai rovinato la vita”. Una sera Gwenda rientrò con James, occhi grandi, barba lunga ed incolta, puzzava di birra e di fumo. Era un senza tetto perciò la sistemazione che aveva trovato era per lui una manna. La roulotte era abbastanza grande per tre e non era infestata dai ratti che scorrazzavano nei vicoli più lontani dal centro, tra i cartoni adibiti a letti occupati da anime perse. Quell’uomo entrò nella loro vita portando con sé la violenza e la sporcizia delle vie e dei pub immersi nel buio del degrado.

Gwenda non era felice ma almeno aveva trovato protezione. Nessuno l’avrebbe più maltrattata. Il suo James non l’avrebbe permesso, ma i guadagni non bastavano mai. “Credi di poter continuare così?” Le diceva spesso James in preda ai fumi dell’alcool. Lei lo guardava con rabbia. “Pensi che vada a divertirmi?” “Brutta sgualdrina!” “Bastardo!” Poi si avviava sotto i lampioni dei viali più malfamati alla ricerca dei consumatori di sesso a basso costo.

Evelyn se ne stava in disparte, parlava poco e non sapeva che cosa fosse la scuola. Finché un giorno non fu recapitata una lettera in cui l’Amministrazione Comunale faceva notare che era giunto il tempo di sedersi in un’aula. Fu così che Evelyn conobbe la durezza del suo essere diversa. I compagni la dileggiavano, i maestri non si curavano di lei, avevano troppo da fare nelle classi di un Istituto di Istruzione Pubblica che ospitava gli avanzi di una società dimentica degli ultimi. “Non voglio andare a scuola”. “Perché?” Chiese Gwenda. “Tutti mi prendono in giro”. “E allora? Non sai difenderti?” Evelyn non rispose. “Tu frequenterai le lezioni, altrimenti l’assistente sociale ci farà visita e ti porterà via. E’ questo che vuoi?” “No mamma, no…” Frequentò le lezioni per qualche anno in modo discontinuo. Nessuno si preoccupò per le sue assenze.

Aveva otto anni, quando in un tardo pomeriggio assolato Evelyn si accorse che James la squadrava dalla testa ai piedi. “Cara Evelyn sei proprio una bella ragazzina… qualcuno a scuola ti ha toccato?” Lei non sapeva cosa dire. Tacque. Le accarezzò il sedere. “Vieni qui, ti do un bacino… che bel corpicino.” Alfine la strinse a sé con durezza. La spogliò… le urla della piccola non lo scoraggiarono. Stesa a terra sanguinante, sotto il peso del sudore appiccicoso di quella pelle coperta di peli, rimase inerte fino al mattino seguente. “Cosa è successo? Cosa ci fai lì?” “Mamma ho tanto male”. Evelyn le mostrò la parte intima dilaniata. “Non darti pena, domani starai meglio. Ci farai l’abitudine. Forza, ora vai a lavarti”. James decise di costruire una baracca più isolata in modo da scongiurare un’eventuale incursione da parte di vicini sospettosi. Evelyn si recava in quella baracca guardando per terra, immaginando un mondo abitato da fantasmi vestiti di bianco che cercavano di salvare le vite bruciate, scordate, bloccate nella melma di un dolore troppo grande per sciogliersi con lacrime ormai inutili.

Dopo due anni di angherie, insulti e abusi Evelyn era diventata docile, tanto docile da essere gettata tra le braccia lorde di un idraulico e di un elettricista, che in cambio fornivano servizi a domicilio. Fu Gwenda, che di fronte ai conti da pagare, ebbe l’idea di uno scambio: sua figlia per l’azzeramento dei debiti. I brandelli di quegli uomini chini sul suo volto si univano nella mente di Evelyn assumendo la forma di fotografie sovrapposte, saldate così bene da staccare il suo corpo da ogni pensiero. Quando poteva si nascondeva, mimetizzandosi come un camaleonte, oppure si allontanava da quel grigiore, ma, non sapendo cosa fare, ritornava sui suoi passi e tutto ricominciava come prima.

I giorni scivolavano lentamente, mentre Evelyn imbruttiva nel fisico e nella mente. Avrebbe potuto chiedere aiuto. A chi? Persino le Istituzioni l’avevano abbandonata al suo destino. Non ebbe neppure diritto a cure adeguate quando fu portata al Pronto Soccorso in seguito ad una caduta che le aveva causato una forte commozione cerebrale. Era stato James, voleva ricordarle che era lui il padrone. “Smettila di frignare”. “Sto male, ho la testa che scoppia e mi viene da vomitare”. “Allora vai fuori, ti siedi e aspetti senza lamentarti”. Evelyn si sdraiò per terra e attese il rientro della madre. La luna piena ebbe pietà di lei, la vegliò e la consolò.

Cominciò a bere tutto quello che riusciva a trovare. “Piantala di bere. Conciata così come pensi di trovare qualcuno che paghi per te?” La rimproverava aspramente la madre. “A James vado bene anche così. Non è vero mamma?” Gwenda si girò per prendere un oggetto qualsiasi. Voleva picchiarla. Ma Evelyn non era più lì. Se ne era andata con il cuore che batteva all’impazzata.

“Mio Dio sto camminando da ore senza tregua. Ho fame ho sete ho sonno sono tanto stanca. Indietro… no. Meglio morire qui sotto l’insegna colorata di un albergo per ricchi... Mi devo fermare… le mie mani tremano. Mi manca la mia bottiglia. “Scusami, Scusami, Scusami”, non sono una lebbrosa. E invece sì sono una randagia senza nessuno. “Signore, Scusami, ti va di stare con me?” “Quanto?” “Dieci dollari”. “Sei a buon mercato”. Lui è steso su di me come tanti altri. Non mi fa più male. “Cosa sono questi segni?” “Non sono affari tuoi, paga e vattene”. Ora ho dieci dollari … ecco il negozio che vende alcoolici. Nessuno mi chiede se sono maggiorenne. Meglio così. E’ quasi il tramonto. Le piazze e i casinò sono oramai affollati...ed io non so dove dormire, riposare, aspettare che succeda qualcosa. Qualcuno mi fissa “Quanto?”, tentenno… troppo tardi, è scomparso. Seguo un vagabondo come me nella speranza che mi indichi un posto appartato… Sì, bene, adesso posso distendermi...”

DOPO TRE MESI

Il mercato del sesso di Las Vegas non aveva più segreti per lei, aveva un giro di clienti che le permettevano di sopravvivere. Talvolta all’imbrunire, prima di iniziare a vendere se stessa per un pezzo di pane, si recava alla stazione ferroviaria. Si metteva sul ciglio del binario per assaporare l’ebrezza della partenza. Appena si aprivano le porte di un treno qualsiasi, chiudeva le palpebre, figurandosi di salire su un vagone per andare a Dallas, dove viveva il figlio di James. Lo aveva conosciuto qualche anno prima, quando, senza più denaro, si era rivolto al padre per un aiuto. James lo invitò ad andarsene sputandogli addosso una serie di insulti mescolati a volgarità tipiche del suo modo di esprimersi

Tommy aveva 19 anni ed una nutrita collezione di arresti per spaccio, ubriachezza violenta e furto. Non era indubbiamente un santo, ma ad Evelyn importava poco, anche lei era una sbandata, senza avvenire.

“Devo racimolare soldi soldi soldi. Voglio andare da Tommy… insieme a lui posso smettere di bere e poi... poi quella volta è stato gentile, mi ha regalato delle caramelle e mi ha salutato con un gesto affettuoso. L’ho seguito con lo sguardo mentre si allontanava fischiettando una vecchia canzone che a me piace tanto...”

Quando il treno spariva dietro l’orizzonte, Evelyn rimaneva a scrutare quella linea che le aveva offerto, per un attimo, la possibilità di sognare di essere sollevata e guidata da un lieve soffio di vento verso lidi lontani ed incantati. Finalmente bussò alla porta di Tommy. L’indirizzo le era stato fornito da un amico del patrigno al quale era stata più volte venduta e che era sbucato fuori dal nulla, come quando improvvisamente il prestigiatore materializza una colomba sotto un panno. “ Che cosa vuoi?” “L’indirizzo di Tommy”. “Lo sai che è un poco di buono”. “Per favore, mi dai l’indirizzo di Tommy?” “Va bene, va bene, ma tu poi mi devi ringraziare”. Lo ringraziò, accontentando le sue voglie. Con quel misero pezzo di carta giunse a Dallas. Quando Tommy la vide, fu colto dallo stupore. “Cosa ci fai qui?” “Posso restare con te?” “Stai scherzando, vero?” “No, sono scappata e ho pensato di venire qui”. “Mi sa che ti manca qualche rotella, comunque per stanotte non c’è problema”. Le notti si moltiplicarono e alla fine rimase lì, nonostante lui bevesse tanto quanto lei e fosse aggressivo tanto quanto il padre. La storia riprese a correre, Tommy non era molto diverso da James anche se in qualche momento appariva sofferente, cupo. Lui la seguiva quando si prostituiva, per evitare che qualche cliente alzasse le mani o non pagasse. Certo, non sempre le gambe lo sorreggevano adeguatamente, perciò poteva capitare che entrambi fossero bastonati senza pietà.

“Mi fa comodo avere una sgualdrina da sfruttare. E’ che, in certi momenti, mi fa pena... posso maltrattarla quanto mi pare non si ribella. Ieri mi ha parlato di bambini. Figli… Stamattina ha trascorso qualche ora vicino al cortile di una scuola. Una donna ha chiamato l’ufficiale di pattuglia accusandola di aver fissato con troppa insistenza gli scolari… Boh… la sua testolina non funziona bene… forse, forse, non lo so. E’ strana...”

Vivevano nel seminterrato di un condominio decrepito, grigio, contornato da altri edifici simili, sommersi dal degrado e dal sudiciume. Non vi erano mobili, solo coperte luride, qualche abito altrettanto lurido ed un fornello a gas per riscaldare quel poco che avanzava nella borsa della spesa dopo l’acquisto di birre o whisky. All’esterno, le strade offuscate dalla nebbia dell’oblio si lasciavano attraversare da ogni sorta di esistenze disperate: animali randagi, uomini e donne altrettanto randagi, vite bruciate, interrotte, inutili agli occhi dei più, tutti impegnati a procurarsi il cibo per sfamare stomaci ormai devastati dagli stenti.

DOPO DUE ANNI

Evelyn si sentiva grande, pronta ad avere un figlio. Questo desiderio si trasformò presto in un’ossessione. Quando poteva, andava al parco cittadino, si siedeva davanti all’area giochi dove i bambini correvano in lungo e in largo, urlando senza tregua la loro felicità. Fu così che conobbe Emily. L’argomento delle loro conversazioni era prevalentemente legato alla maternità della nuova ed unica amica. “Quando nascerà tuo figlio?” “E’ una bambina … fra due mesi”. “Hai già comprato la carrozzina?” “Sì, all’emporio dell’usato, io e mio marito non siamo benestanti”. “Come si chiama tuo marito?” “Paul, purtroppo lo vedo molto poco perché fa il cameriere turnista in un locale H 24. Quando finisce il turno è così stanco che a fatica raggiunge il letto per dormire”. Dopo una breve pausa aggiunse. “Ma verranno sicuramente tempi migliori”. “Se vuoi, qualche volta posso stare con te… a casa tua per farti un po’ di compagnia”. “Davvero lo faresti?” “Certo, perché no?” Evelyn divenne stranamente euforica, si preparava al parto, come se fosse la sua maternità. Quando faceva visita ad Emily, toccandole il pancione, provava un brivido lungo tutta la schiena.

“Mio Dio sta per nascere devo organizzarmi. La mia bambina deve vivere in una bella casetta con un giardino pieno di fiori, alberi ed un’altalena come quella del parco. Sarà felice...”

Tra le fantasie di Evelyn e la realtà nulla si frapponeva. Era convinta che presto sarebbe stata madre. Sospesa sopra un precipizio, si muoveva nel vuoto che aveva creato tutto intorno. I suoni ed i profumi non esistevano più, solo i suoi piedi, che procedevano lentamente, le davano qualche sensazione, si staccavano da terra cercando un appoggio sicuro per non rischiare di piombare con la memoria nello scantinato della sua vita.

Un giorno qualunque Evelyn si eclissò. Si procurò un coltello affilato, uno zaino abbastanza grande ed imbottito con il pile. Seguì Emily fino a che si infilò in un vicolo da cui non avrebbe avuto via di fuga. Evelyn era completamente assorta in una specie di delirio in cui inquietanti figure si spostavano, una dopo l’altra, scandendo il ritmo del suo incedere, intrecciandosi secondo regole assurde, senza un senso preciso, erano sovrapposizioni di cose e persone che a loro volta richiamavano altre cose ed altre persone. Davanti a lei solo un’enorme pancia, la sua pancia dove la sua bambina l’aspettava. Il coltello fece scorrere il sangue e la sua bambina nacque.

“Ho deciso si chiamerà Rosemary. Finalmente posso andare al parco con il passeggino e parlare con le altre mamme...”

Corse verso il luogo in cui aveva vissuto fino a quel momento, dove vi era un giaciglio appositamente predisposto. Ma fu bloccata da due agenti di polizia. Dopo poco arrivò l’ambulanza, non ci fu nulla da fare. Rosemary era già morta.

Evelyn fu condotta in carcere in attesa di comparire davanti al giudice che decise di pronunciarsi a sfavore della libertà su cauzione. Ad udienza terminata fu riportata nella sua cella.

“La mia bambina… mi hanno detto che è morta… sono io la colpevole? Mi gira la testa, sono stanca. Le sbarre sono vecchie arrugginite... il colore non mi piace ma non importa me ne andrò presto...”

Non se ne andò presto. Ci volle un anno per la celebrazione del processo che vide un’imputata confusa e tremante. Nel periodo di detenzione aveva incontrato psicologi, psichiatri, insegnanti, preti che riferirono in Tribunale la sua storia di soprusi e violenza cieca che l’avevano mortificata fin dall’infanzia. Le percosse le avevano causato importanti danni cerebrali. Il suo delitto era frutto dell’abbandono e della miseria, sotto lo sguardo indifferente di coloro che avrebbero potuto aiutarla e non l’hanno fatto. Nulla valse a farle avere una condanna adeguata alla sua condizione mentale. Lo stato stava per condannarla un’altra volta, per lei il futuro sarebbe stato solo un albero secco, pronto per essere estirpato sotto un cielo fradicio di dolore.

La giuria, infatti, non ebbe dubbi. Riconosciuta colpevole di due efferati omicidi, le fu comminata la pena di morte. A nulla servirono gli appelli e la richiesta di grazia. Evelyn sarebbe dovuta morire.

Fu trasferita nel braccio della morte. Attese 11 anni l’esecuzione della sentenza. Il 3 aprile le fu consegnata la notifica.

“Cara Evelyn – recita la missiva – l'intento di questa lettera è informarla che è stata fissata la data per l'esecuzione della sua condanna a morte (...). Questa lettera costituirà notifica ufficiale (...). Il 7 aprile del corrente anno è la data per la sua esecuzione tramite iniezione letale (…). Cordiali saluti”.

Il 7 aprile 2020 il teatrino della vendetta fu allestito per la recita dell’ultimo respiro di Evelyn. L’iniezione letale era pronta.

L’ago attraversò la sua carne in quel giorno di primavera. Il viso, illuminato da una rossastra luce, non lasciò trasparire emozioni, il tempo per lei si era fermato in un vicolo grondante di sangue.

Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene

“Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio”.

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