Racconti

Una mattina di novembre grigia e nebbiosa fu ritrovato, poco distante dai casolari abitati da braccianti stagionali e operai, il cadavere di una giovane donna, sepolto e avviluppato da un sacco della spazzatura, nero come la pece, logoro e strappato. La pelle ormai a brandelli rendeva ancora più raccapricciante lo stato in cui si trovava quel corpo dilaniato dalle ingiurie degli uomini e dalla decomposizione che aveva risparmiato i lineamenti vaghi di quel volto sfigurato e qualche lembo di un abito dal colore rosso intenso. Quella donna si chiamava Jasmyn Hussain.

Gli Hussain erano scappati dal Pakistan in cerca di fortuna e tranquillità, come tutti i migranti. Jasmyn era stata l’ultima ad arrivare in Italia, nella terra promessa, nella terra in cui molti connazionali avevano stabilito la loro residenza. Jasmyn aveva appena sette anni e, come recita la legge italiana, fu iscritta alla Scuola Primaria. “Buongiorno bambini, Jasmyn è una nuova compagna di classe”. “Vai a sederti cara”. Aggiunse la maestra.

“Che cosa dice, non capisco. Che bella questa scuola, ci sono tante bambine. Perché mi guardano così? E adesso cosa faccio?”

La maestra, elegante ed energica, la accompagnò al banco, le diede un quaderno, una penna ed una matita.

“Che bello! Posso imparare a leggere e a scrivere, così mio fratello non mi prenderà più in giro...”

La scuola si trovava poco distante dalla piazza del paese. Per raggiungerla Jasmyn percorreva una piccola strada alberata ricoperta di ghiaia grigio perla. Durante l’anno scolastico, uno strato sottile di brina copriva la campagna deserta fino alla linea dell’orizzonte, il Sole alto e opaco abbracciava la Terra per qualche ora, riscaldandola lievemente fino all’arrivo della bella stagione, quando un turbinio di colori sarebbe esploso e le vacanze sarebbero presto arrivate.

Il padre aveva trovato lavoro in una fabbrica di serramenti. Non fu difficile far assumere anche il figlio, vista la fame di manodopera delle aziende di quella regione. La famiglia Hussain era ben voluta da tutti gli abitanti del piccolo paese in cui risiedevano, almeno fino a quando non si accorsero che Jasmyn era spesso obbligata a dormire sul marciapiede. In silenzio si accucciava, attendendo l’aurora luminosa di un altro giorno, passato ad ascoltare il paesaggio invisibile della sua anima frantumata dalla violenza di un mondo che lei non poteva più capire. Ben presto infatti il Pakistan si tramutò in un fantasma dal quale sarebbe voluta correre lontano, invece il Pakistan viveva con lei, ben radicato tra le mura domestiche con le sue regole e i suoi riti assurdi per una ragazzina che, come lei, stava incominciando ad assaporare l’ombra di una nuova libertà, appena nata, sfiorata con timore.

Concluso il Primo Ciclo di Istruzione con un esame brillante, avrebbe voluto frequentare la scuola superiore, ma i genitori le impedirono di iscriversi, sebbene non avesse l’età per abbandonare legalmente il percorso scolastico. Le istituzioni non si mossero. Lei pagò quella indifferenza, scivolando nella trappola di un ambiente poco incline ai cambiamenti e ostile anche a causa del suo atteggiamento via via sempre più ribelle, scontroso. “Voglio uscire con le mie amiche”. “Tu non sei come loro, tu sei musulmana, devi accettare questo fatto. Tu non sarai mai come loro”

Jasmyn conobbe Marco una sera d’estate, il caldo era soffocante, non vi era un filo di vento, l’umidità dell’aria lasciava spazio ad un unico desiderio, quello di rintanarsi in un locale fresco. Sotto la pergola della gelateria si respirava un po’ meglio e fu proprio lì che si incontrarono. Fu il calore di un momento. “Dove sei stata? Chi hai visto? Perché sei rientrata così tardi?” “Sono le nove di sera, papà, non è tardi”. “Non rispondermi in questo modo. Ricordati che hai 17 anni, sono io a decidere quello che puoi o non puoi fare. Vattene fuori. Resterai incollata al marciapiede e domani mattina rientrerai senza lamentarti”. Le disse il padre in collera che non l’aveva picchiata duramente solo perché non voleva sfigurarla. Ancora un po’ di pazienza, presto l’avrebbe costretta a ritornare in Pakistan per sposare il cugino Akim.

“Perché? Perché? Perché non vuoi capire che non puoi trattarmi così... accidenti...”

E mentre piangeva, scrutava quella linea invisibile che separava il dentro dal fuori, vagheggiando mondi lontani in cui rifugiarsi e perdersi. Il futuro le appariva tetro, si paragonava ad un albero malato da divellere per essere usato come legna da ardere. L’estraneità di quel dentro, a cui non apparteneva più, si era consolidata, scoprendo giorno dopo giorno, anno dopo anno ciò che le stavano negando.

Nei mesi seguenti riuscì a vedere il suo Marco in gran segreto. Jasmyn non portava il velo quando era con lui. I suoi occhi erano marroni, caldi, in qualche momento sfuggenti, intriganti; le sue labbra rosse, parevano essere state disegnate da un pittore nel tentativo di risvegliare tutti insieme i sogni più nascosti, avvolti da un pudore quasi infantile. “Ti amo…” La frase rimase sospesa mentre la baciava. “Ho paura … Mio padre non mi lascia in pace, mio fratello e mia madre mi minacciano. Ogni volta che rientro… non so se mi faranno dormire all’aperto o se mi chiuderanno per sempre in cantina”. “Deve esserci una soluzione, chiediamo consiglio alle associazioni antiviolenza”. Proprio in quel tardo pomeriggio, un amico del padre lo informò che Jasmyn si comportava come una sgualdrina. Il risultato di questa delazione: il pestaggio cui fu sottoposta. La picchiò finché non vide il suo sangue scorrere dalle ferite. I lamenti di dolore arrivarono fino ai caseggiati circostanti. Quella volta i vicini, preoccupati più che mai, non potevano restare insensibili a quei singhiozzi strozzati. Chiamarono le forze dell’ordine che trovarono Jasmyn seduta sul pavimento, muta, aveva le guance gonfie e la schiena, che si intravvedeva tra le pieghe del vestito strappato, riportava i segni di quel che era accaduto. Fu ricoverata, rimase in Ospedale per due settimane. Il padre fu denunciato e processato per direttissima, ma la condanna non lo tenne distante dalla figlia, attraverso la madre ed il fratello la insultava senza pietà. “Sei una donnaccia, una svergognata. Hai mandato dietro le sbarre nostro padre. Ci hai messo in cattiva luce anche in Pakistan. Abbiamo dovuto mettere da parte l’idea di darti in moglie ad Akim. Ricordati che noi ti abbiamo mantenuto e che si trattava di dimostrare gratitudine sposando tuo cugino”. “Ti sei dimenticato che Mio padre mi ha obbligato a dormire sul marciapiede e mi ha massacrato di botte?”

Jasmyn fu isolata dal mondo esterno. Marco, appena poteva, si recava sotto la finestra della sua camera in gran segreto per pianificare la fuga. “Non farti travolgere dal dolore e dalla paura, domani verrò a prenderti, costi quel che costi. Ho trovato un posto sicuro dove sarai al riparo dalla furia dei tuoi”. Un rumore cupo la fece sobbalzare. Erano i piedi scalzi della madre che producevano uno strano fruscio sulle scale. “Con chi stavi parlando? Non negare. Ti ho sentito”. La sua voce rimbombò nella camera. Prese Jasmyn per un braccio, facendola inginocchiare. Il pianto disperato di Jasmyn riempì l’aria avvilita, stanca di ascoltare la sua sofferenza e le sue lacrime.

“Perchè? Perché? Perché? Non ce la faccio più...”

In quel preciso istante, nonostante fosse al primo piano, scavalcò la finestra e con un salto finì per terra. Tutta dolorante scomparve inghiottita dalla foschia del primo mattino che la protesse mentre camminava in mezzo ai prati ancora brulli, incerti di fronte ad una primavera che non voleva arrivare. La madre diede l’allarme, furono immediatamente attivate le ricerche, ma di Jasmyn nessuna traccia, era stata inghiottita dal nulla. “Brutta bastarda, figlia ingrata, te la farò pagare”. Disse al figlio che tremava dalla rabbia. “Mamma, dobbiamo fare qualcosa, oramai tutti ridono di noi”.

UN ANNO DOPO

Marco e Jasmyn continuarono a vedersi, seppur con mille precauzioni. Il rifugio che l’aveva accolta era una casa famiglia per donne disperate, umiliate, maltrattate da uomini incapaci di vivere una relazione, gelosi o semplicemente stupidi. “Oggi è il tuo compleanno, ho un piccolo regalo per te”. Jasmyn aveva le lacrime agli occhi di fronte ad un mazzo di rose rosse ed una scatolina contenente un profumo, non uno qualsiasi, l’essenza era quella del gelsomino, Jasmyn portava il nome di quel magnifico fiore. “Quanto ti amo... grazie, io non so cosa dire…” “Non dire nulla, abbracciami”. E mentre la stringeva forte, sussurrò: “Dobbiamo andarcene, non ha senso restare qui, ora sei maggiorenne”. “Il problema sono i documenti. Mia madre li ha nascosti in camera sua”. “Andremo a prenderli insieme, andare da sola è troppo pericoloso”. “So che è pericoloso, ma non ho altra scelta. Se ti vedessero con me, tu saresti il primo bersaglio ed io il secondo… Non c’è speranza... Io li conosco”. “Ma Jasmyn...” “Facciamo così… io vado da loro questa sera verso le 20.30. Se non sono qui per le 22.30...”. Si interruppe.

La brezza leggera sembrava voler incoraggiare Jasmyn.

“… cosa farò quando mi troverò di fronte mia madre e mio fratello… non so… non so...”

Man mano che i passi sempre più incerti la conducevano verso il suo destino ed il mormorio dei suoi sentimenti risuonava in tutto il suo corpo, percepiva il sapore di una sofferenza amara che le impastava la bocca. Aprì la porta senza bussare, la madre ed il fratello stavano pregando. Volsero lo sguardo verso di lei, il rancore cieco si trasformò in odio, deformando i loro lineamenti già segnati dalla lunga attesa di una vendetta. “Che cosa sei venuta a fare?” “Sono qui per prendere i miei documenti”: “No, tu non ci lascerai di nuovo. Scordatelo!” Nel frattempo il fratello aveva chiuso la porta a chiave.

Jasmyn si girò verso le scale. “Cosa fai?” “Vado a prendere i miei documenti”. Fu un attimo. Madre e figlio con un cenno firmarono la sua condanna a morte. Fu scaraventata sulle piastrelle del salotto. Mentre cercava di rialzarsi, sentì intorno al collo qualcosa che le impediva di respirare. La sua vita finiva quella sera. Quel corpo martoriato era oramai incurante del mondo.

Marco, quando non vide arrivare Jasmyn all’ora concordata, si recò dai Carabinieri. Tremava e singhiozzava senza tregua mentre raccontava tutta la storia della sua amata. Squadre, formate anche da volontari, setacciarono tutte le zone in cui sarebbe stato possibile rinvenire indizi. Passarono le settimane, una dopo l’altra, senza fare progressi. Si era dileguata. Poi una pioggia torrenziale fece emergere quel sudario di plastica sepolto non lontano dall’abitazione degli Hussain. La madre ed il fratello nel frattempo erano fuggiti in Pakistan e nessuno li vide più.

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Il mare ostentava tutta la sua serenità. Era piatto, quasi uniforme. Al largo le vele facevano fatica a spingere vigorose imbarcazioni su cui erano adagiati pensieri annoiati dal susseguirsi di giornate sempre uguali a se stesse ed in cerca di esperienze estreme. Il vento non voleva accontentarli, non era prevista nessuna tempesta. Sulla riva un pullulare di costumi screziati, allegri, mescolati ai venditori ambulanti di varie nazionalità, ricoprivano ogni angolo. La spiaggia aveva tutto l’aspetto di un formicaio profumato di crema solare. Risate fragorose di donne un po’ abbondanti si sovrapponevano ai pianti di bambini capricciosi, figli di genitori assenti e perennemente bruciati dai sensi di colpa. In lontananza, ma non troppo, un bar offriva ristoro nelle ore più calde e lanciava musica senza tregua, così da rinfrancare lo spirito dei bagnanti. Gli uomini erano spesso indaffarati in attività che prendevano molto sul serio: in primo luogo il gioco delle bocce. Al tramonto inevitabilmente entravano in farmacia rossi come peperoni per aver sostato troppo sotto il Sole, la canicola del primo pomeriggio non perdona. In quel disordine ordinato da regole che si erano sedimentate di stagione in stagione, vi erano momenti in cui tutto evaporava per lasciare posto a sguardi furtivi e languidi. Marco era seduto sul bordo del muretto che delimitava il confine con la strada. La vide mentre si spalmava con molta cura un unguento per proteggere la pelle: prima le gambe, poi le braccia, il collo ed il seno, che si mostrava con discrezione e faceva risvegliare tutte le fantasie più sensuali, una alla volta, senza lasciare via di scampo. Marco prese l’iniziativa, non poteva sottrarsi all’attrazione che sentiva. Si mosse come fa il gatto quando cerca di acchiappare il topo. Girando un po’ intorno con passo leggero, le sue impronte sulla sabbia indicavano un percorso incerto, titubante. Giunse, dopo mille giravolte, poco distante dal suo ombrellone. “Bravo, e adesso cosa le dico?” Pensò. “Non sono certo uno spavaldo”. Ma era altrettanto certo che se non avesse fatto qualcosa sarebbe arrivata l’ora di cena e lei avrebbe abbandonato il lettino su cui aveva disteso la sua bellezza leggermente ambrata. “Ciao” “Che banale! Del resto cosa dire ad una sconosciuta, si comincia dall’inizio e l’inizio è un saluto”. “Ciao” Rispose Giulia. Marco si accorse che intorno a lui non c’era più nulla, in quel nulla si conobbero. La invitò in un locale in cui la musica rendeva vana ogni parola. Ma per loro non aveva molta importanza. Si salutarono con la promessa che si sarebbero rivisti.

Marco e Giulia passarono una settimana indimenticabile tra mare, aperitivi e nottate trascorse sotto lenzuola fradice d’amore dove non vi erano più persone ma figure evocanti mondi lontani. “Dobbiamo rientrare”. Disse Marco, stringendola fino a toglierle il respiro. Giulia ebbe un attimo di esitazione… “Ti amo”. Sussurrò, quasi intimorita dal forte sentimento che la stava travolgendo fino a restare immobile, sgomenta davanti all’auto che l’avrebbe ricondotta tra le colline della sua terra. I loro paesi si trovavano in pedemontana, a non più di cento chilometri l’uno dall’altro. Continuare a frequentarsi non sarebbe stata un’ impresa titanica. Giulia gestiva un negozio ben avviato all’interno di un centro commerciale situato vicino alla grande città, che era anche capoluogo di provincia. Da tre anni viveva da sola. Era figlia unica, i genitori erano perennemente in apprensione, nell’ottica del “stai attenta, non si sa mai”.

Giulia e Marco trascorrevano ogni attimo insieme, a parte quando Marco, direttore della più importante agenzia assicurativa della zona, doveva assentarsi per raggiungere la sede centrale a Milano. “Posso venire con te qualche volta?” “Sono noiose riunioni di lavoro con noiosi consulenti e operatori del settore. Ho i minuti contati. Magari potremmo organizzare una vacanza. Milano è indubbiamente attraente, non lo nego”. “Mi pare una buona idea”. Si baciarono intensamente. Si rintanarono in discoteca e poi a casa di Giulia. Marco abitava ancora nella casa paterna per indolenza, un’indolenza che nascondeva opportunismo. Disprezzava quelle quattro mura che lo avevano visto nascere.

DUE ANNI DOPO

Decisero di sposarsi e di avere finalmente la possibilità di condividere gioie e dolori. Marco era molto premuroso e attento, ma le sue continue assenze inquietavano Giulia che passava ore ed ore a meditare ed a costruire fantasmi. L’invisibile condizionava la sua comprensione del visibile, lo rendeva più faticoso e pesante. “Non è più lo stesso, non capisco… non capisco”. La nascita di un figlio la distrasse per un po’ dalla tristezza amara costruita sul filo di una menzogna, intuita e rifiutata, nascosta nella nebbia che confonde linee e colori.

Era un venerdì di dicembre inoltrato, le foglie secche sparse sui marciapiedi si erano arrese di fronte al vento gelido dell’inverno. Marco rincasò tardi, aveva vagato a lungo prima di calpestare il viottolo del giardino. Giulia non c’era. Diede un pugno alla porta, ferendosi lievemente. Si versò del vino rosso e bevve, perso nella fuliggine che nel caminetto componeva profili inconsueti, privi di una logica. La magia di quella scena non fu sufficiente a diminuire l’irritazione provocata dal suono ossessivo del ticchettio che scandiva i minuti, uno dopo l’altro senza tregua. Il corridoio si illuminò interrompendo il brusio del fuoco. “Dove sei stata oggi?” “Come sempre al lavoro poi con Mauro sono andata dai miei genitori”. “Tua madre e tuo padre non sono una compagnia adatta a nostro figlio che deve crescere in un ambiente in cui non si parli una lingua ‘sporca’”. “Che cosa stai dicendo?” Le rispose con uno schiaffo. Il giorno dopo si presentò con un mazzo di rose rosse. Si inginocchiò con un gesto da operetta melodrammatica e glieli porse scusandosi. Le chiese comunque di diradare le visite ai suoceri. Lei accettò a malincuore. I suoi genitori l’avevano spesso messa in guardia fin da quando si erano fidanzati ufficialmente, non tollerando quell’aria di superiorità che lui vestiva in ogni occasione.

QUATTRO ANNI DOPO

“Esco con gli amici, andiamo in birreria”. “A che ora ritorni?” “Presto, non ti preoccupare”. Non era preoccupata, a qualche ora sarebbe ricomparso, nonostante non avesse più interesse per lei ed il suo desiderio fosse svanito in una bolla di fugaci penetrazioni che non le portavano alcun piacere. Al terzo rintocco del campanile, Marco varcò la soglia, era molto eccitato. La vide sotto un lenzuolo morbido, setoso. Senza dire una parola le aprì le gambe e la costrinse brutalmente ad avere un rapporto sessuale. Giulia urlava, piangeva. “Ti prego, smettila, mi fai male”. Si alzò al mattino con l’affanno di specchiarsi e di non riconoscersi.

Dopo aver lasciato Mauro all’asilo fece visita ai suoi genitori per avere conforto. Era sfigurata. “Mio Dio, cosa ti ha fatto questa volta?” Esclamò la madre. “Sta passando un brutto periodo. Capita a tutti”. “Certo, ma non tutti seviziano la propria moglie. Devi denunciarlo”. “Ora vado, altrimenti i clienti crederanno che sia morta”. Il tono era tra l’ironico e il disperato.

L’oscurità velata del vespro annunciò la chiusura delle serrande. Giulia salì in macchina, lesse i messaggi, uno era di Marco “Sono andato a prendere Mauro. Sorpresa”. La casa traboccava di fiori e di candele. Marco era ai fornelli e Mauro gli stava intorno con i suoi giocattoli. Le offrì un aperitivo, non uno qualsiasi, quello che lei preferiva tra tutti. Le prese le mani, si piegò davanti a lei. Piangeva come un bambino. Si scusò e le promise che quello che aveva fatto non sarebbe successo mai più. “Ti amo, ti amo, non scordarlo. Io non posso vivere senza di te”.

Mauro osservava quel mondo di violenze e di scuse continue senza comprenderne il significato. All’asilo era silenzioso, non partecipava alle attività come gli altri, spesso scappava rifugiandosi dalla maestra. “Signora, ha notato che suo figlio ha qualche problema, fa fatica a stare con gli altri bambini”. “Sì, è taciturno, poco incline alla gioia”. Giulia se ne andò con le lacrime agli occhi. Dalle finestre della sua casa poteva ammirare un parco giochi, dove i ragazzini, accompagnati dai genitori, cantavano allegramente le loro filastrocche, ogni tanto qualcuno cadeva dallo scivolo o da un altro attrezzo, con le ginocchia sbucciate ripartiva e ricominciava con le capriole. Amaramente rifletteva sulla sua malinconica esistenza. La paura e la solitudine la stavano consumando lentamente. Malediva la sua ignavia, la sua stupida speranza, rendendosi conto che stava camminando lungo il margine di un vuoto incolmabile. Eppure nel suo intimo, qualcosa era cambiato: ciò che aveva ritenuto impossibile si stava tramutando nella ricerca di una forza che era davanti a lei, in un altrove di cui non aveva avuto consapevolezza fino a quel momento.

Voleva uscire dalla trappola di quel matrimonio, ma non senza scoprire gli inganni in cui era vissuta. “Perché non posso seguirti quando vai in trasferta a Milano?” “Cosa dici, Mauro a chi lo lasci? Ed il negozio? Lo chiudi?” “Potrei portare Mauro dai miei e prendermi una pausa dal lavoro”. “Non se ne parla proprio, figuriamoci Mauro dai tuoi”. Concluse con una risata sarcastica. Giulia non proferì parola, ormai la sua rassegnazione si era dileguata nella visione di un futuro impossibile. Si rivolse ad un detective per farlo seguire. L’investigatore fece un’indagine meticolosa e gettò sulla sua scrivania le immagini che ritraevano Marco e la sua amante. La cruda realtà le fu posta innanzi con il tono sereno di chi è abituato alla sofferenza altrui, al punto da non farci più caso. Si incamminò verso il parcheggio. Una incantevole e calda luce faceva capolino sul viale principale della città, gli alberi si ergevano come se fossero i padroni della strada, una strada che sembrava correre veloce verso l’infinito. Era abbagliata dai rumori fragorosi dei mezzi che davanti ad un semaforo si erano magicamente fermati ad ascoltare il cuore di Giulia. Una donna si accorse di quel viso lacerato da un antico dolore. “Signora, ha bisogno d’aiuto?” Quella voce così tranquilla la rasserenò per un attimo. “No, grazie… sto bene… sono solo un po’ stanca”. “Vuole che l’accompagni da qualche parte?” “La ringrazio, non serve...”. Scomparve lasciando dietro di sé una delicata fragranza ed un pezzo della sua anima. Arrivò al parcheggio, prese l’auto e si recò all’asilo. La rete verde a maglie larghe la separava dal suo piccino. Rimase lì, aggrappata, vedeva Mauro, da solo, stava in disparte come fanno i cani randagi quando non vogliono essere toccati da nessuno e che nessuno tocca perché sono randagi. Suonò la campanella. Le insegnanti, come al solito, accompagnarono i bambini al cancello. Mauro corse verso Giulia sganciandosi dalla fila guidata dalla sorvegliante di turno. “Mamma, sei triste?” “No tesoro, sono solo stanca”. “Perché piangi?” “Piango di gioia, perché posso cullarti come quando eri in fasce”. “Perché papà non c’è?” “Sai che viene sempre la mamma a prenderti. Che cosa hai imparato oggi?” “Niente” “Come niente?” “La maestra mi ha messo in castigo perché non volevo fare il disegno della mia mamma e del mio papà”. “Perché non ci hai disegnato?” “Non sapevo cosa disegnare. Mamma, non voglio più andare a scuola. Sono tutti cattivi”. “Non è vero, cerca di stare con loro vedrai che tutto passerà”. Mauro scoppiò a piangere. “Non mi piacciono, non voglio rivederli. Voglio stare con te”.

Cenarono da soli, Marco era in ritardo. Giulia portò Mauro nel lettone, aveva bisogno di calore umano. Il suo sorriso l’aiutava a raccontare le fiabe per farlo addormentare, ma lui non riusciva ad abbassare le palpebre. “Un’altra mamma, ti prego”. “C’era una volta un gatto che aveva due baffoni enormi, si chiamava…” Si assopirono insieme, quasi nello stesso istante. I passi decisi e rumorosi di Marco la fecero sobbalzare, strinse al petto Mauro fingendo di dormire. La porta si aprì facendo trapelare un filo di luce coperto da una possente sagoma maschile. Sarebbe voluta precipitare nel pozzo profondo in cui si rifugiano le anime dannate in terra. Il pigiama che indossava era più grande di una taglia, glielo aveva regalato la sua amica di sempre per un compleanno qualsiasi prima che il matrimonio se la portasse via, lontano, lontano dai contatti di un tempo, dalle risate al bar di Gianni che preparava ogni sabato un buffet a sorpresa.

Lui la prese per i capelli, strattonandola e trascinandola. “Credi di essere furba? Oggi sono passato in negozio. Era chiuso. Dove sei andata?” Lei taceva e più taceva e più la colpiva senza pietà. Il suo pianto disperato si mescolava a quello di Mauro. Cadde a terra senza un lamento, sopra le gocce di sangue che sgorgavano dal naso e dalla bocca e, mentre attendeva il colpo di grazia, vide Marco allontanarsi, le sue scarpe, lucide, pulite, si spostarono verso la sedia sulla quale aveva lasciato gli abiti. Appoggiò le sue mani imbrattate sopra lo schienale. La osservò. “Ti amo, tu lo sai vero?” Fu distratto da una voce infantile. “Papà perché hai picchiato la mamma?” “Perché è stata cattiva. Mi ha detto una bugia”. “Io sono cattivo?” “No, tu sei buono”. “Allora non mi picchierai, vero?” “No, tu fai sempre quello che dico io”. Portò Giulia in bagno, la lavò, la mise a letto e scese in salotto dove un comodo divano lo accolse fino al risveglio.

Un’altra Luna si era adagiata sul suo volto tumefatto. All’alba la testa era frastornata, intorpidita, non riusciva a muoversi, le sembrava di avere sopra di sé un peso tale da impedirle di respirare, di pensare, di esistere. Il cuscino madido emanava un odore acre. Si toccava la fronte come quando da piccola faceva qualche marachella e non aveva il coraggio di dirlo. Telefonò ai suoi genitori per informarli che era esausta. Aveva bisogno di andare al pronto soccorso. “Chiama il 112, a Mauro baderemo noi…Per favore denuncialo”. I medici ed i paramedici quando l’esaminarono ebbero un attimo di scoramento. “Signora, lei deve fare denuncia”. “No, mi ucciderà, ne sono sicura”. Quando giunsero le forze dell’ordine, Giulia si rifiutò di parlare. “Signora, se fa così non possiamo aiutarla, dobbiamo comunque convocare suo marito in centrale”.

Giulia rientrò a casa, avrebbe voluto spiegare… spiegare cosa? Aveva paura di lui, delle sue mani, della sua ombra. Voleva la separazione e questo era tutto. Una poltrona l’avvolse tentando di consolarla. Nel buio la chiave girò nella toppa. Si avvicinò a lei senza svegliarla: “Non mi lascerai vero? Non puoi farlo”.

I Poliziotti lo avevano ascoltato e ammonito, poi lo aveano rispedito là, dove abitavano la sua rabbia ed il suo tormento. Non fece parola con Giulia di quella conversazione.

UN MESE DOPO

Giulia si recò da un avvocato per avviare la procedura di separazione. La lettera formale con la richiesta fu consegnata a Marco che la lesse con aria sprezzante. Ma quando la vide indaffarata ad impacchettare gli indumenti di Mauro, capì che avrebbe dovuto prendere sul serio la situazione. Attese le prime ore del mattino, si premurò di verificare che Mauro dormisse, prese un coltello e lo conficcò una, dieci, cento volte nel corpo di Giulia, sferrando ogni colpo con sempre maggiore efferatezza, guardandola dritto negli occhi e più la guardava più sentiva il bisogno di infierire “Non te ne andrai”. Invece se ne andò, senza valigie… all’obitorio.

Il funerale si svolse alla presenza di tutti coloro che l’avevano conosciuta e di tutti coloro che avrebbero voluto dimostrarle solidarietà.

Vicino all’angolo estremo del cimitero vi erano Mauro e la nonna. “Nonna, la mamma dov’è? E’ in castigo perché ha disubbidito?”

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Era notte fonda, la città dormiva, anche i ladri ed i truffatori avevano lasciato la strada per ritirarsi a sonnecchiare qualche ora. I viali ed i parchi erano vuoti, deserti gli ultimi locali notturni, le finestre ed i balconi separavano e proteggevano gli abitanti in attesa dell’aurora. Alla periferia di quella quiete una musica assordante attraversava le pareti di una casa che indugiava tra fiumi di birra, vino e super alcolici scolati da giovani in cerca di emozioni forti, che sbeffeggiavano la triste vita dei loro coetanei già a letto. Valeria, che aveva esagerato con l’alcol e aveva fumato, sprofondò su un divano. La testa non era più lì, vagava per altri lidi, in un sogno stranamente lucido. Vedeva intorno a sé altri sballati come lei, solo più annoiati, viziati da genitori sempre meno presenti.

“Guarda la sbruffona come è conciata”. Disse uno di loro.

Valeria non era una sbruffona. Era giunta in Italia dalla Colombia quand’era ancora in fasce. Aveva frequentato la scuola fino a 19 anni, quando affrontò l’esame di maturità e si diplomò. Il padre e la madre facevano gli operai nello stabilimento più importante della zona, erano miti, discreti e sapevano di avere una figlia speciale: affettuosa, rispettosa e studiosa. Vivevano tutti insieme in un appartamento in centro, piccolo ma confortevole e poi dalla finestra del salotto si poteva ammirare il Duomo con le sue guglie e le sue vetrate variopinte. Vi era anche un grande balcone pieno di piante e fiori che la madre curava in modo quasi maniacale, per dimenticare la fatica della fabbrica, le dieci ore consecutive di lavoro. Il suo volto esprimeva comunque felicità che distribuiva a piene mani. La domenica era sacra, era l’unico momento in cui potevano ritrovarsi tutti insieme.

Valeria non era una sbruffona. Era una ragazza come tante altre che amava la vita, mai e poi mai avrebbe immaginato quello che le sarebbe successo, si fidava di tutte le persone che la circondavano, pensando che non ci fosse alcun motivo per farle del male. Passava la maggior parte del tempo libero con gli amici. Il ritrovo era il bar “Portorico” dove si degustavano gli aperitivi più raffinati della zona, accompagnati da tartine e pizzette favolose. Da lì poi, il sabato, partivano alla volta della discoteca.

Valeria non era una sbruffona. Faceva volontariato in una cooperativa in cui erano ospitati i bambini soli che avevano solcato il mare in cerca di una vita migliore. E intanto cercava lavoro.

Fu proprio durante quella ricerca che conobbe Mattia, un bel tipo dagli occhi cerulei che lo rendevano seducente e misterioso nello stesso tempo. Aveva il fascino maledetto degli scapestrati, quelli che non si fanno tanti scrupoli e che sono convinti che tutto ciò che vogliono spetti loro di diritto. Era benestante, il padre medico e la madre insegnante lo accontentavano in tutto. Se avesse messo da parte tutte le paghette ricevute, avrebbe potuto comprare un appartamento, magari non grande ma sicuramente decoroso. Si insinuò nella vita di Valeria senza far rumore, con la discrezione di una foglia che si stacca dall’albero e fa mille giri prima di adagiarsi sul prato. Era dolce, parlava poco di sé, ma compensava questa reticenza con fiori e piccoli regalini che lei accettava sorridendo: “Grazie non avresti dovuto”. “Sei la donna più bella che io abbia mai conosciuto, non posso evitare di essere riconoscente al fato”. “Non dire così o mi farai arrossire”.

Era dicembre inoltrato, gli alberi spogli guardavano un Sole pallido, infreddolito che non vedeva l’ora di coricarsi. Mattia e Valeria passeggiavano tra i negozi che si erano trasformati in un carosello di colori e offerte speciali. “Cosa farai a Natale?” Lei non rispose subito, era assorta nei suoi pensieri. “Pranzo con i miei genitori”. “E sì, anch’io… per Capodanno hai qualche progetto?” “Non ancora, forse uscirò con le mie amiche che mi hanno proposto di attendere la mezzanotte in Piazza”. “Farò anch’io così, non ho voglia di chiudermi in qualche locale affollato… Domani sera un amico organizza una festa privata, ci verresti?” “Non conosco nessuno, mi sentirei in imbarazzo”. “Non ti preoccupare ci sono io”. Valeria, seppur con qualche dubbio, accettò.

La villa dell’amico era circondata da un parco principesco in cui prevalevano pini e abeti, le siepi guidavano i vialetti che, durante la bella stagione, si illuminavano insieme ai cespugli fioriti, che contornavano gli alberi, mostrando la loro presuntuosa bellezza a chiunque osasse entrare durante la canicola. L’ingresso dell’abitazione era costituito da tre gradini in marmo sopra i quali un portone decorato in stile Liberty permetteva l’acceso al salone principale. L’accoglienza fu garbata e i complimenti per il suo abito rosso porpora, trasparente solo fino alle ginocchia, misero Valeria a proprio agio. “Sono gentili i tuoi amici”. “Sì, è gente altolocata che sa come comportarsi in società”. Nel frattempo si era avvicinato Marco. “Posso rubarti la fanciulla?” “Certo”. Rispose Mattia Si avvicinarono al buffet. “Raccontami qualcosa di te”. “Cosa vuoi sapere? La vita fino ad oggi non mi ha riservato grandi sorprese. E’ stata tranquilla, senza salti nel vuoto. Insomma, c’è ben poco da dire”. Intanto lui riempiva il bicchiere con del whisky e lei beveva, beveva senza rendersi conto della quantità di alcol che aveva in corpo. Mattia la raggiunse. “Non bere così tanto”. “Non sono ubriaca, se è questo che pensi”. Non voleva apparire come un’ochetta senza esperienza. “Dai prendi una sigaretta”. Le disse un volto dall’aria baldanzosa. “Io non fumo”. Rispose timidamente. “Provala questa è speciale”. “Figuriamoci, perché dovrebbe essere speciale? Una sigaretta è una sigaretta”. “Va bene se non vuoi provare, non farlo… non sai cosa ti perdi”. Un pizzico di orgoglio la spinse ad adeguarsi. All’inizio fumava con un po’ di difficoltà poi, siccome le sembrava di non sentire nulla, aumentò il ritmo delle inspirazioni. Senza accorgersene cadde sul divano.

Erano le tre del mattino, in quella villa erano rimasti il proprietario con un gruppo di amici e lei, Valeria. Tutti gli altri se ne erano andati. Mattia, un po’ intontito, si allontanò da loro. “Che ne dite se provassimo a spogliarla?” Uno sguardo di intesa scivolò tra di loro e li trasformò in un branco pronto a colpire la preda. “Ma ve lo immaginate se spuntiamo nel telegiornale?” Iniziò così una violenza che si protrasse per più di un’ora. Uno dopo l’altro martoriarono Valeria. Quando Mattia si svegliò e si rese conto di quello che stava succedendo, ebbe un momento di smarrimento. Poi anche lui la stuprò. “Lo fanno tutti, non sarà la fine del mondo”. Pensava, mentre abusava di lei. A turno filmarono con grande soddisfazione tutto quello che stava accadendo. Avrebbero postato la loro bravata per darla in pasto ad internet e catturare migliaia di like. Alla fine dovettero decidere cosa fare di quel corpo, tenerlo in casa non si poteva ovviamente. Lo caricarono in auto e lo gettarono in una zona in cui vi era un complesso edilizio in costruzione.

I video divennero virali e Valeria dovette sopportare la tragedia di un altro stupro. Molti commenti la dileggiavano, la ritenevano responsabile perché non se ne era andata e aveva avuto comportamenti provocatori. Uno di quei commenti recita: “Ti sta bene cara Valeria, è questo quello capita alle donne che, come te, vogliono scimmiottare gli uomini, bevendo e fumando”.

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Teresa viveva a ridosso della montagna, in un minuscolo paesino dove era ancora possibile ammirare in primavera le rondini che in stormo disegnavano spirali rasenti il campanile. Era un po’ scorbutica, amava il profumo del tramonto e l’aria autunnale che pareva volesse portarsela via, lontano. Lontano da dove? Lontano da quello spazio vuoto in cui era precipitata da quando veniva affidata ai nonni materni per periodi più o meno lunghi, rinchiudendola in una realtà in cui una sottile violenza la faceva strisciare tra le braccia sudate dello zio. Visse così la sua infanzia, appesa ad un filo, accumulando rancore nei confronti di una famiglia che la lasciava in balia degli eventi. La casa era circondata da un vigneto e da un grande orto. Nonna Margherita seminava, piantava e raccoglieva. Ogni tanto andavano insieme a mangiare il gelato al di là del ponte. Il fiume avanzava lento, separando il grumo di abitazioni desolate dal luccichio dei palazzi e dei viali illuminati. Era una festa di colori e di desideri inespressi. “Nonna, quando hai conosciuto il nonno?” “Tanti anni fa, ad una sagra. Non mi piaceva, ma i nostri genitori avevano in mente un altro progetto. Così mi ritrovai sposata con lui”. Un’ombra velò il sorriso di Margherita. “All’inizio fu molto difficile, poi l’abitudine ebbe il sopravvento”.

Al rientro Teresa, con il sapore del gelato ancora sulle labbra, seguiva il silenzio tetro della strada che l’avrebbe ricondotta tra le mani di un aspro destino. “Dai Teresina andiamo a giocare”. Quando le sue esili mani aprivano la porta di quella stanza, i sensi di colpa l’avvolgevano, riteneva di essere lei la causa di tutto perché stava zitta e non si ribellava. Dio l’avrebbe punita facendole scontare il suo peccato tra le fiamme dell’inferno. Il prete in Chiesa era stato chiaro e aveva spiegato molto bene cos’erano gli atti impuri. La prima confessione fu per lei un martirio, non potendo dire quello che le stava accadendo perché sicuramente non avrebbe avuto l’assoluzione. Una corazza finì per chiuderla in un mondo tutto suo. Quando poteva, andava sull’argine del fiume, che procedeva dolcemente verso il mare per ascoltare il suo perenne canto. Non aveva mai visto il mare, ne aveva sentito parlare in casa. Le immagini erano il frutto di descrizioni sgrammaticate di emigranti che avevano solcato in un interminabile viaggio le onde fino alla terra promessa. Nei loro racconti regnava la penombra, il silenzio, l’orrore del naufragio e della morte.

Aveva 14 anni quando si aprirono per Teresa le porte del cotonificio. Si svegliava alle quattro, beveva una tazza di latte. Poi si incamminava verso il sentiero in cui avrebbe incontrato tante come lei, forse più stanche di lei, forse più ferite, ognuna con la propria maschera, sotto la quale si potevano intravvedere le rughe profonde di una umanità dimenticata. L’edificio imponente, che le stava aspettando, rendeva tutto il resto insignificante, rumori spaventosi rimbombavano per 15 ore al giorno. Quelle che avevano più esperienza erano deformi a furia di piegarsi sul telaio ed immergere le mani nel liquido bollente utilizzato per districare i bozzoli del baco da seta.

La sirena segnava l’entrata al cotonificio: una fila ordinata raggiungeva le postazioni che sarebbero state abbandonate quando le tenebre avrebbero offuscato il cammino. Teresa non aveva timore, sembrava piuttosto spavalda. Invece era solo contenta di allontanarsi dal gorgoglio della roggia che fluiva borbottando come fa la polenta fumante nel paiolo.

Nel giorno del suo ventesimo compleanno i genitori le comunicarono che si sarebbe dovuta sposare presto. Avevano scelto per lei il figlio maggiore dei Pascal, Guido, che aveva una discreta autonomia finanziaria: era proprietario di 15 ettari di terreno. Le due famiglie si misero attorno ad un tavolo per discutere delle questioni finanziarie. Le donne stavano in disparte, non erano ammesse alla trattativa. “Mia figlia è un po’ selvatica, ma è una grande lavoratrice ed è in grado di leggere libri interi”. Precisò suo padre. “So che al Cotonificio si è distinta: non si è mai lagnata dell’orario o della fatica”. Rispose il futuro marito, interessato all’aspetto pratico e non certo a quello culturale. “Veniamo alla dote”. Incalzò un po’ ruvido il padre di Guido. “Su questo foglio ho elencato tutto quello che sarà vostro dopo il matrimonio”. Teresa osservava quella scena con l’animo frantumato, le spalle curve rassegnate la rendevano ancora indifesa. La madre, con un gesto affettuoso che non le era consueto, l’abbracciò. Lei sapeva quanto fosse dura essere povere in quegli anni. La sua storia, non scritta, si poteva leggere sul bastone appeso alla parete sopra la credenza. “Mamma, ti prego non lasciarmi andare”. “Non posso fare nulla. E’ tuo padre che decide”.

Il giorno del matrimonio la sposa indossava un abito bianco, cucito da lei stessa. Era come se le avessero scavato la fossa e lei ci avesse messo intorno i fiori per rendere meno aspro quel momento della sua vita. Sarebbe voluta fuggire dentro uno dei suoi libri, in in cui le parole rendono i rimorsi ed i rimpianti vani, inutili e fanno sprofondare le anime in un grazioso parco fatto per consolare e alleviare le pene.

Il corteo nuziale partì alle 10.00 di mattina e si diresse in Chiesa. Era un sabato di settembre. Fu accompagnata all’altare e consegnata come si fa con i pacchi davanti alla soglia delle abitazioni, nella speranza che vengano aperti e non ci siano reclami. Teresa si inginocchiò, abbassò le palpebre, pianse. Tutto da quel momento sarebbe cambiato.

Nella modesta camera riservata agli sposi dal suocero convivente, vi era un grande letto o almeno lei ebbe questa impressione. Guido si spogliò e si mosse verso Teresa che aveva ancora il velo, sotto il quale si potevano scorgere gli occhi intimoriti e le labbra tremanti. Le loro mani si toccarono. Teresa ebbe un sussulto. Il passato, le ingiurie subite si fecero spazio nella sua mente, rivide lo zio, il sudiciume, la vergogna e la paura di essere martoriata. Uscì e si precipitò dentro un armadio disperata perché ora era diverso, un uomo autorizzato dal matrimonio l’aveva rubata e rinchiusa in una prigione. Guido era furioso, gli venne il sangue alla testa, le sue vene si gonfiarono al punto da rendere il collo un insieme di rigagnoli neri. La prese per un braccio e la tirò fuori. La spinse bruscamente. Teresa urlava come se fosse al mattatoio. Si divincolava, ma la sua forza non fu sufficiente a respingere quella valanga che stava sopra di lei. All’alba, con l’abito da sposa sporco, si mosse verso lo specchio limpido e freddo, il volto era tumefatto.

Guido, come sempre, si recò nei campi di buonora. Le mucche trainavano faticosamente il carro su cui erano appoggiati gli attrezzi necessari per la raccolta dell’uva. Il vigneto distava un chilometro dal paese e copriva tutto il versante di una collina morenica, un regalo della natura. Ai lati dei filari le siepi si inerpicavano senza una regola: una ragnatela di pioppi, castagni, larici intrecciati in un groviglio che tentava di assumere una forma che ancora non c’era. Di fronte a tanta bellezza sarebbe stato impossibile non commuoversi, non per Guido che era concentrato sulla vendemmia di una distesa di grappoli rosso rubino. La cantina si sarebbe presto riempita di botti e poi di bottiglie ansimanti dalla brama di essere riempite e di spargere l’aroma fruttato nei bar e nelle locande della zona. Verso il vespro, il campanile assolveva con precisione il compito di scandire il ritmo millenario che tutti i contadini attendevano con la testa abbassata, arsi dal caldo e dalla falce e bruciati dal freddo. Guido da lontano scrutava con orgoglio la casa, la sua casa, quella che aveva edificato mattone su mattone e dove sarebbero cresciuti i suoi figli. Una collera improvvisa e prepotente verso Teresa lo fece sbottare. “Doveva capitare a me una stupida, stupida, stupida! Ma non l’avrà vinta!”

Teresa rimase incinta e cominciò a gonfiarsi, illudendosi di poter trovare una briciola di felicità. Nacque una bambina, un batuffolo che le diede la forza di accettare tutto, persino le nerbate, all’ombra di un sole per lei pallido inverno ed estate. Le sussurrava all’orecchio: “Gioia mia, non seguirai le mie orme, tu avrai un passo diverso e nessuno ti potrà fermare”. Invece non la vide crescere né sbocciare. Morì all’età di due anni, sotto i colpi di una polmonite fulminante. Al funerale poche persone, quelle poche che erano in grado di capire un sentimento così profondo come dover sganciare le corde della bara in cui avrebbe riposato per sempre l’innocenza. “Vorrei incontrare un venditore di libertà che mi aiuti a scivolare via”. Bisbigliò Teresa. “Non c’è, non esiste. Noi siamo state condannate senza appello. Sai cosa ti succederà? Sarai umiliata e pestata ogni santo giorno. Cerca di avere altri figli, forse loro ti salveranno”. Era la sua vicina, un’anziana signora, dolce e comprensiva che si muoveva dondolando come fanno gli storpi. “Anche tua suocera è venuta a mancare molto giovane”. “Nessuno in casa parla di lei e della sua morte”. “Fu recuperata dai Carabinieri in un fosso, respirava ancora, ma il suo era un sospiro insieme ad un lamento. Il suo spirito non era più ancorato alla terra, stava salendo verso il cielo al cospetto di Dio. Aveva rinunciato a combattere, perdendosi nei meandri dello sconforto e dell’amarezza”. Guido percorse velocemente la distanza tra lui e Teresa. “Hai chiacchierato abbastanza, muoviti”. “Vorrei restare ancora un po’ qui con la mia creatura”. “Non fare tante storie. Se è morta è a causa tua”. “Mia? Cosa avrei fatto?” “Il problema è che cosa non hai fatto”. Guido Aveva il cuore straziato perciò era stato ingiusto, ma con chi poteva prendersela? Teresa era lì, in quel cimitero, pieno di rimpianti e dispiaceri, tra gente che si è conosciuta e che è morta.

Per un po’ Guido la lasciò in pace, non perché avesse compassione per lei, ma perché era sconvolto da quello che era accaduto. Teresa passò le settimane seguenti in lacrime, mentre tutto scorreva monotono e ripetitivo. Era sfinita dalla spietata consapevolezza di essere ormai in fondo al pozzo.

Un sera si recò nella piazza del paese. Affascinata dal fruscio, ora calmo ora vivace, dei rami secchi sbatacchiati sulla strada dalla brezza novembrina che annunciava la pioggia, non si rese conto che aveva fatto tardi, troppo tardi. “Dove sei stata sgualdrina”. “Ho fatto una passeggiata”. “Le mogli per bene non escono da sole”. Guido si tolse la cinghia dei pantaloni e le diede una lezione esemplare. Si fermò solo quando la pelle si trasformò in ferite sanguinolente. Non servì a nulla, Teresa continuò ad uscire.

La neve, che aveva coperto la campagna, e gli alberi spogli e ghiacciati dipingevano un paesaggio fiabesco in cui cantare e brindare al nuovo anno. Quello sarebbe stato l’ultimo inverno dai Pascal. Erano trascorsi quattro anni dal matrimonio. Un martedì di febbraio fu condotta dal medico di famiglia, interpellato da Guido per una visita. La sentenza fu presto emessa, visti i comportamenti non consoni al ruolo di moglie, il manicomio avrebbe curato le sue devianze.

Si presentò a marzo, i bucaneve avevano invaso i campi che si stavano tingendo di verde. Aveva con sé un misero bagaglio. Lo psichiatra ebbe con lei una breve conversazione. Fu sufficiente per fargli scrivere la diagnosi: “Donna particolarmente silenziosa con atteggiamento ribelle”. Gli assistenti di turno la scortarono lungo un interminabile corridoio. “Dove mi portate?” “Prima di tutto ti dobbiamo lavare e rasare i capelli, poi andremo nella camerata dove resterai fino a che non ti sarà consentito passeggiare in giardino”. La lavarono con uno spruzzo che le avrebbe segnato la pelle, un’altra degente le tagliò i capelli. Non le lasciarono nulla, nemmeno l’anello nuziale. Tutti i suoi oggetti furono depositati in uno stanzone lurido pieno di valigie, abiti, occhiali. Era entrata nella discarica degli esseri umani. Vite inutili, ripudiate. Si sedette sopra un materasso sfondato nella parte centrale. I muri scrostati gridavano lo strazio e la sofferenza. “Sei arrivata oggi?” Si girò lentamente. Vide una ragazza che indossava un camicione stretto al punto da non potersi alzare. “Sì”. “Perché sei qui?” “Di preciso non lo so. Probabilmente perché non sono stata una brava moglie. E tu?” “Ho tradito mio marito”. “Hai figli?” “Sì due, un maschio e una femmina. E tu?” “Mia figlia è morta a due anni”.

Non avevano la forza per raccontare altro. Alle 20:00 la ragazza fu trasferita, mentre un carrello sudicio trasportava le pastiglie da somministrare con una puntualità da clessidra.

Teresa, dopo 60 giorni di terapia, era così intontita da non essere in grado di distinguere il giorno dalla notte. Spesso cadeva o si accasciava, e faceva i bisogni dove dormiva. L’infermiera per punizione la legava al letto sopra i suoi escrementi, ripetendole un ritornello minaccioso: “Stai attenta, prima o poi finirai nel reparto Inquiete”. Quando Teresa avvertiva l’odore acre del tabacco del direttore, aveva la sensazione di essere pungolata da duri stiletti mentre i brividi le scuotevano la schiena. Era il momento del rimprovero. Inesorabilmente veniva apostrofata con un tono perentorio: “Mi riferiscono che non ti comporti bene. Vedrai che quando smetterai, tutto andrà meglio”. Poi le scarpe nere si dirigevano, come al solito, verso le infermiere, alle quali dava istruzioni.

“Noi dobbiamo combattere per la sopravvivenza, fare tutto quello che ci chiedono, tacere e obbedire”. Accanto a lei, una magra e pallida figura, ricoverata da vent’anni, le mise una mano sulla fronte. Teresa tacque. Quel silenzio fu interrotto da un singhiozzo che le soffocò un urlo. “Se finisci nel reparto Inquiete difficilmente rivedrai il Sole”. “Che cosa succede lì dentro?” “Quel reparto è di fatto l’anticamera per l’elettroshock. Si tratta di uno stanzone in cui siamo nude e dove non ci sono servizi igienici, dobbiamo fare tutto lì dentro. Spesso, in preda ad una sorta di raptus improvviso, qualcuna diventa aggressiva e morsica le altre”. “Ci sei stata anche tu?”. “Sì, ma io sono stata fortunata perché sono ritornata indietro in fretta. Lo psichiatra ha preteso che avessi rapporti sessuali con lui. Questo è il prezzo che ho pagato”. Teresa deglutì la poca saliva che le era rimasta in bocca. “Hai mai tentato la fuga?” “Sì, per questo sono finita tra le inquiete”. “Come hanno fatto a prenderti?” “Delle persone molto zelanti mi hanno catturata e riconsegnata come un oggetto di nessuna importanza. Anzi sarebbe meglio dire che mi hanno trattato al pari di un arnese da riporre nel posto assegnato. Il manicomio è un buco nero che nasconde una umanità anomala, indecifrabile, che incute paura”.

DUE ANNI DOPO

Il manicomio era sempre lo stesso, affollato di esistenze invocanti pietà, colpevoli di essere nate. Teresa ebbe finalmente il permesso di uscire in cortile. Questo era un privilegio per chi si sottometteva alle regole di una istituzione sanitaria il cui compito era quello di creare una barriera invalicabile tra dentro e fuori, annientando identità fragili e disagiate, e dove la memoria diventava dimenticanza e le ricoverate erano inerti ed inermi di fronte ad infermieri e medici che abusavano di loro in mille maniere. Il cortile dava sulla strada principale dove macchine variopinte sfrecciavano verso l’orizzonte incuranti di quell’ospedale diroccato, difeso da una rete molto robusta su cui era intrecciato del filo spinato. Il terreno metteva in mostra tutta la sua trascuratezza: chiazze d’erba qua e là tra i sassolini consumati dal continuo calpestio. Intorno all’unico albero dalla folta chioma il solco si faceva più evidente. Qualcuna vi girava intorno. Era un modo per far passare il tempo in una struttura in cui il tempo non esisteva. Anche Teresa si trovò dietro le altre, cantando “Ninna nanna ninna oh, questa bimba a chi la do…”, tentando così di rievocare il suo vissuto, ma la nebbia, che si era impadronita di lei, la confondeva.

DIECI ANNI DOPO

Teresa aveva familiarizzato con una giovane ragazza, Maria, che trattava come se fosse sua figlia e che era stata internata dal padre dopo che si era tagliata le vene. “Perché lo hai fatto?” “Ero stanca di farmi massacrare di botte”. Dopo il primo tentativo di fuga fu sottoposta al mezzo di correzione denominato Benda. Le posero un pezzo di stoffa sulla testa e la faccia, lo strinsero, le tirarono addosso acqua ghiacciata. Maria non si scoraggiò. Elaborò un piano rocambolesco, ma che avrebbe avuto qualche possibilità di riuscita. Fu tradita da una paziente per un pezzo di carne. Così fu curata con l’elettroshock. La riportarono nella camerata in coma. Teresa le baciò una guancia. “Signore del cielo, cosa le hanno fatto?” Maria rimase in quello stato per ore. Quando si svegliò, era confusa, aveva perso il senso dell’orientamento e la memoria. Le avevano bruciato il cervello. Ora Teresa avrebbe dovuto essere forte per due. “Dio vi maledica!”

VENT’ANNI DOPO

Teresa fu convocata dal Direttore del manicomio. “Questa è la tua lettera di dimissione. Domani te ne potrai andare”. “Dove? Da chi? E poi chi si prenderà cura di Maria. Chi?” Pensò. “Dovresti essere felice, invece mi pare di scorgere delusione”. “Mi scusi, è che sono stupita”. Un infermiere le diede una pacca sulla spalla per incoraggiarla. Nel corridoio che collegava l’ufficio al padiglione femminile vi era una vetrata. D’impulso si bloccò davanti alla sua figura riflessa e si guardò. Non riconobbe se stessa. Aveva i capelli secchi ed increspati, era imbruttita, sporca, il cencio che indossava era diventato grigio scuro. Teresa assomigliava ai lupi spelacchiati al termine del loro viaggio su questa terra.

“Povera Maria, vogliono che me ne vada. Ma io senza di te non andrò da nessuna parte”. Dopo la mezzanotte annodò delle strisce di tela ricavate dagli stracci da cui erano coperte. Trascinò Maria, ormai senza una parvenza di vita se non vegetale, nei bagni. Posizionò con attenzione le due rudimentali corde. Le trovarono appese. Oscillavano sotto il Sole che faceva trapelare i suoi raggi dalla finestrella. Pareva che le volesse accarezzare.

GIORNALE LOCALE

Trafiletto di cronaca a pagina venti

“Tragedia al manicomio”: due pazienti impiccate. Le dichiarazioni del Direttore e la dinamica dell’accaduto, ricostruita dalle forze dell’ordine, hanno dimostrato che è stata la pazza crudeltà di una delle due a spingerla al gesto estremo di uccidere e di uccidersi. Nessuno ha reclamato i loro corpi. Le spoglie delle due donne sono state sepolte fuori dal cimitero.

premio ELENCO COMPLETO #sociale

PQm era lì da così tanto tempo che non ne aveva più memoria. Improvvisamente un Sole straniero lo ferì, ebbe coscienza che la meta era vicina e si spaventò al pensiero di poter comunicare con degli esseri viventi non umani. Quando era partito? Del resto che importanza poteva avere? Sì ne aveva, ne aveva per lui, forse non per coloro che lo avevano visto andare, salire su quell’astronave, ma per lui sì. Una sorta di turbamento lo sfiorò, avrebbe voluto un altro destino. Si sentiva così inquieto perché aveva nostalgia, una grande nostalgia della colonia marziana, si stava convincendo che non avrebbe più rivisto Marte, il Pianeta Rosso, dove tutto era organizzato fin nei minimi particolari, dove ognuno svolgeva i propri compiti con attenzione e sollecitudine e, soprattutto, dove aveva lasciato un sogno, un progetto a cui stava lavorando e che avrebbe sicuramente modificato l’essenza della sua esistenza. Invece si trovava nella galassia EGS-zs8-1. Da lì erano giunti segnali inquietanti. Su Marte, veramente, tutto poteva sembrare inquietante, eppure questa volta era certo. Qualcuno si era fatto vivo: non erano soli. I voli dei terrestri verso Marte erano iniziati quando furono perfezionati i processori di energia. La prima conquista fu l'esplorazione dei pianeti del Sistema Solare. Superata la nube di Oort, fu la volta delle galassie confinanti e poi via verso lo spazio infinito. Infinito? Questo non era chiaro. Era, invece, fin da subito parso evidente che Marte avrebbe potuto ospitare una base permanente di androidi evoluti, capaci di affrontare in autonomia viaggi interstellari e di sopportare, per un periodo di tempo quasi illimitato, la gravità e le radiazioni di questo pianeta. Parsec su parsec furono così percorsi. Questo errare tra pianeti, stelle e buchi neri, subì una battuta d’arresto quando alcune navicelle con il loro equipaggio non fecero ritorno. Incredibile, sembravano svanite! Nessuna richiesta di aiuto era giunta, nessuna comunicazione che facesse pensare a qualche difficoltà: erano semplicemente scomparse nel nulla. A bordo di una di queste astronavi vi era PQe, addestrato perfettamente e in grado di adattarsi a campi gravitazionali superiori. Anche lui si perse nello spazio. PQm provò un grande dolore quando capì che non avrebbe più rivisto il suo amico, il suo compagno d'avventure fin dal giorno in cui vide la luce. Fisici quantistici e ingegneri meccatronici raddoppiarono gli sforzi per progettare una cosmonave che potesse oltrepassare i limiti rappresentati dal cono degli eventi, surfando le onde gravitazionali. Fu, inoltre, potenziata la base su Marte con l’invio di altri androidi. Capo di quest’ultima spedizione venne nominato PQz, la cui caratteristica fondamentale era quella di saper affrontare e risolvere le situazioni di natura relazionale. Per questa ragione aveva sempre ricoperto ruoli organizzativi. Dopo il suo arrivo, numerosi furono i tentativi nella direzione dello spazio esplorato durante le fallimentari missioni precedenti, ma nessun cosmonauta fece ritorno, non fu recuperata neppure una parte infinitesimale delle astronavi, in modo da analizzare, sia pure in modo approssimato, il mistero che le avvolgeva. Spiegare concretamente quello che stava accadendo assunse contorni oscuri e intriganti: calcoli su calcoli, formule su formule, e ancora analisi e osservazioni, nel tentativo di trovare una soluzione! Non fu, comunque, difficile capire che oltre il limite segnato dall'orizzonte cosmico qualcosa inghiottiva il tempo. Anzi tempo e spazio si confondevano. Dopo due anni dariani dal suo arrivo, Pqz ebbe l'ingrato compito di chiedere agli altri androidi di interrompere le loro attività, compresa quella riguardante il miglioramento delle prestazioni dei sensori astrometrici, per comunicare a tutti i membri della colonia che la Terra aveva fatto perdere le proprie tracce. Per quello che ne sapevano, la colonia marziana era l'unica depositaria della storia terrestre, della tecnologia, delle immagini di quel mondo scomparso. Erano loro i sopravvissuti, programmati per irrompere nel cosmo e navigare alla scoperta di altre forme di vita. Cosa avrebbero dovuto fare? Era giunto il momento di prendere delle decisioni. La prima conclusione fu che avrebbero potuto sfruttare le loro potenzialità per costruire un mondo non umano. La seconda ipotesi fu quella di non andare contro natura: si erano salvati da una possibile catastrofe, eppure non per questo erano liberi, erano dei liberti, metà coscienti, metà incastrati nei loro cervelli quantistici. Perciò, senza ombra di dubbio, decisero di continuare con le esplorazioni, ma anche di impegnarsi nella ricerca della loro identità. Per fare questo era necessario ricostruire il passato per cogliere quanto di umano vi fosse in loro. Si aprirono al divenire degli eventi, quelli su cui riflettevano i terrestri quando sentivano di essere vicini ad un conflitto imminente, ad un danno irreparabile per ritrovare quella parte del “sé” in cui risiedeva la ragionevolezza del dialogo. Rovistarono nella storia più remota, custodita in un grande archivio che si trovava nel blocco C. Scoprirono atrocità senza limite, indubbiamente nel DNA degli uomini non era scritta la parola rispetto, non erano stati ideati per non farsi del male. Eppure, se da un lato morte, distruzione, genocidi si erano susseguiti, dall’altro l’umanità aveva lasciato opere immortali, dalle quali era stata accompagnata e superata. Quando agli androidi fu svelato questo enorme patrimonio, uno strano sgomento li scosse. Il concetto di bello era un’astrazione che non faceva parte dei loro parametri genetici: ritennero, quindi, che fosse inutile continuare, rivendicando una orgogliosa diversità. Per PQm, invece, divenne quasi un’esigenza progredire in questo senso, ma senza la creatività umana sarebbe stata un’impresa se non del tutto vana, molto, ma molto difficile. Passò al setaccio tutto quello che era stato raccolto. Chissà perché i terrestri avevano deciso di dotare Marte di tali testimonianze? Forse la loro finitezza ambiva all’eternità e, temendo di non sopravvivere o di non riuscire di far sopravvivere la Terra, si erano premurati di lasciare una parte di se stessi all’Universo. Più si addentrava nella sfera della conoscenza artistica, più PQm si rendeva conto che la sua capacità di rielaborazione aveva dei limiti notevoli. Era stato creato dagli uomini a loro immagine e somiglianza. Provava sentimenti come amicizia, dolore, felicità, ma, per quanto si sforzasse, la gioia di amare l’arte, di comprenderla a fondo, disorientava le sue sinapsi artificiali. Avrebbe voluto essere in classe con gli studenti del millennio precedente, i quali, di fronte a dubbi o curiosità, si rivolgevano ai loro insegnanti. “Che cos’è l’Arte?” Era una delle domande più frequenti. I professori con molta pazienza davano risposte illuminanti, perché loro l’Arte la vivevano, l’amavano, ne sentivano la forte attrazione. In quelle opere rintracciavano il più intimo “essere uomini”. Nonostante questa consapevolezza, PQm si dedicò allo studio di quel materiale, la cui analisi gli appariva fondamentale per riconoscersi come entità frutto di un pensiero complesso, da cui aveva ereditato la sua intelligenza artificiale e, nello stesso tempo, umana: così immagini, parole, suoni, che volteggiavano in quell’oscuro ambiente solitario, piano piano divennero la colonna sonora di quella realtà fatta di nuove emozioni. Pqz, che come tutti gli altri aveva abbandonato PQm al suo fervore cognitivo, preferiva lavorare con il gruppo alla realizzazione di navigazioni intergalattiche. I progressi compiuti permisero di battere le rotte consuete, di raggiungere gli approdi già sperimentati con maggiore sicurezza. Ma, se i velivoli marziani tentavano di oltrepassare le Colonne d’Ercole, erano ancora insuccessi su insuccessi, una nebulosa oscura sembrava risucchiarli. PQz non si scoraggiava, superare le barriere della struttura spaziale, in fondo, era il suo compito, o meglio era ciò che i terrestri avrebbero voluto da lui. Quando fu intercettata una richiesta di aiuto, non ebbe esitazioni: scelse PQm per affrontare, in un luogo lontano ed ignoto, la complicata operazione di soccorso. Lo aveva visto brancolare, sia pure attonito e disorientato, nel blocco C. Era, ai suoi occhi, il più attento osservatore degli esseri che erano vissuti sulla Terra e, quindi, anche il più competente nella gestione di un incontro con eventuali forme di vita. PQm partì a malincuore, non aveva ancora concluso il suo percorso di apprendimento. Tuttavia, la prima direttiva era quella di non disubbidire ad un ordine e la seconda era che non si poteva negare assistenza a chiunque ne avesse bisogno, sia che si trovasse nel sistema Solare, sia in qualche altra recondita parte dell’Universo. Il viaggio all’inseguimento di quel segnale fu incredibilmente lungo e faticoso, finché non gli apparve quel Sole. Cercò disperatamente di inviare messaggi alla colonia marziana, ma fu attratto da una forza che lo fece sobbalzare più volte, perse il controllo della sua astronave e, in un baleno, atterrò di schianto su un pianeta che gli era stranamente familiare. Andò in perlustrazione. Si rese presto conto che… era la Terra! O almeno quel che restava di essa, dopo l’ultima catastrofe ambientale che ne aveva determinato l'espulsione dal Sistema Solare. “...SOS... SOS... SOS...” era il lamento dell’unico dispositivo esistente su quella superficie deserta.

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Il rumore del chiavistello annunciò quel giorno ai reclusi che al piano superiore del carcere di massima sicurezza un detenuto stava per abbandonare la sua cella. Danny scese le scale con cautela, temeva di cadere. La scrivania intarsiata e lucida del Direttore era ancora lontana. Gli ambienti emanavano un odore di stantio, per terra i mozziconi di sigaretta lasciati cadere dalle guardie, incuranti delle regole e dei richiami costanti dei colleghi androidi, ricordavano ad ogni passo dove aveva trascorso vent’anni della propria vita. Mano a mano che procedeva si aprivano, una dopo l’altra, le porte che conducevano verso il blocco A: Sezione Amministrativa. Aveva con sé ben poco: un abito, un pigiama logoro, alcuni libri sudici, impregnati di grasso e sporchi di polvere. Convinto di essere stato vittima di un’ingiustizia, aveva atteso invano un atto di clemenza nei suoi confronti. “Ha ritirato i suoi effetti personali?” Gli chiese il Direttore. “Sì, ho tutto quello che ho consegnato”. “Prego si sieda. Dal suo fascicolo mi risulta che si sia rifiutato di frequentare i corsi organizzati per coloro che stanno concludendo il periodo di detenzione. Il mondo è cambiato e potrebbe trovarsi in difficoltà”. “Signor Direttore, ritiene veramente che fuori da queste mura ci sia una realtà peggiore di quella del carcere?” “Mi creda non sarà facile per lei. Vent’anni sono tanti”. Seduto su una sedia, che di tanto in tanto scricchiolava, ripercorreva le lunghe infinite giornate scandite da un rituale sempre uguale. Le guardie, spesso sgarbate, controllavano minuziosamente ogni angolo e perquisivano, fino allo sfinimento ed in qualsiasi momento, gli uomini che da dietro le sbarre contavano i minuti che li separavano dalla libertà. Erano tutti omicidi o pluriomicidi e molti lo sarebbero stati anche dopo aver scontato la pena. Alzò gli occhi verso il Direttore. “Vent’anni sono tanti. Ha ragione”. Si salutarono ognuno con i propri pensieri. Il Direttore temeva che non ce l’avrebbe fatta e che si sarebbero presto rivisti. Danny salì sull’aeronavetta che lo portò velocemente in città. Ad attenderlo vi era l’assistente sociale che lo avrebbe accompagnato nella fase di reinserimento. L’ufficio era situato al piano terra di un enorme palazzo, circondato da un prato verde su cui campeggiavano oleandri, castagni e betulle. Compilò una montagna di moduli. Conclusa la procedura di registrazione, l’assistente gli diede un po’ di denaro. “Stasera potrai dormire nella Casa di Accoglienza Statale. Troverai un pasto caldo. Cerca di riposare. Domani sarà una giornata dura: le opportunità di lavoro sono molto limitate per un pregiudicato”. Pronunciò quelle parole come se fossero le battute di un copione sempre uguale. Danny annuì. Era stanco e non aveva voglia di rinchiudersi in un ricovero. Si infilò in un bar e spese quasi tutto quello che aveva appena ricevuto. Ubriaco fradicio, dormì su una panchina del Parco delle Rose, sotto un cielo limpido e luminoso. “Ehi cialtrone... alzati!” Era il suo assistente. “Perché non hai seguito le mie istruzioni?” Danny era irritato per il tono insolente: “Non sono in carcere, potrò decidere dove dormire e poi come hai fatto a rintracciarmi così presto?”. “Il microchip che ti hanno innestato sotto cute mi consente di averti sempre sotto controllo. Comunque, sappi che non puoi fare quello che ti passa per la testa… andiamo in ufficio. Dobbiamo interrogare il sistema per conoscere il tuo futuro”. L’economia e la società erano progredite, le multinazionali avevano razionalizzato il mondo produttivo ed educativo. Le Accademie sfornavano i quadri dirigenti tenendo conto della normativa in atto che proibiva qualsiasi discriminazione di genere. Per gli esseri umani competere con gli androidi era difficile ma non proibitivo. La maggior parte dei Consigli di Amministrazione era equamente composto. Le mansioni meno gratificanti erano svolte grazie ad una meccanizzazione così sofisticata da richiedere competenze ingegneristiche. Cosa avrebbe potuto fare Danny in una realtà che non riconosceva e che a sua volta non lo riconosceva? “Chi sono io? Una nullità che non è più in grado di utilizzare neppure un database.” Questa improvvisa consapevolezza cominciò ad inquietarlo. Guardò fisso l’assistente il quale, senza indugio, gli disse che la sua destinazione sarebbe stata quella di offrire il suo corpo alla sperimentazione. Nella Clinica in cui sarebbe stato confinato, avrebbe contribuito ad implementare le potenzialità progettate per gli androidi. “Quanti come me sono finiti in quella Clinica?” “Quasi tutti. Progredire significa anche fare dei sacrifici”. “Stai parlando... di sacrifici umani?” “In quella Clinica non è ancora morto nessuno, se è questo che intendi. Certo non sarà una vita semplice, ma sarai ben pagato”. Capì ed ebbe un mancamento. Intorno a lui avrebbe avuto solo il vuoto di morti viventi. La sua esistenza sarebbe terminata nel letto di un ospedale. Cosa poteva farsene dei soldi? Pianse, non lo aveva mai fatto, neppure quando era stato incarcerato. “La ricerca di un posto per me era solo un inganno, il mio destino era segnato fin dal momento del rilascio”. Sussurrò mentre una bruciante nostalgia travolse la sua mente. Gli apparvero le immagini della sua celletta piccola e maleodorante, ma sicura, con le sbarre in acciaio che lasciavano trapelare il Sole fin dalle prime ore del mattino; di notte, quando la Luna era piena, vagava e vagava, sognando la concessione della grazia. Aveva uno scopo e sopportava tutto in silenzio. L’assistente sociale lo guardò stupito: “Quest’uomo forse non si è reso conto della gravità del suo reato. Con crudeltà inaudita, aveva ucciso la sua compagna di vita, l’androide alla quale aveva giurato amore eterno. Che cosa pretendeva?”

Danny desiderava in ogni modo allontanarsi da quel posto, dove stava per essere condannato per la seconda volta. “È mezzogiorno. Potremmo andare a mangiare?”. “Non ho fame e poi devo accompagnarti in Clinica entro stasera”. Rispose l’assistente, incurante dell’angoscia e della rabbia che ammorbavano l’aria. Era fin troppo chiaro che qualcosa sarebbe successo. Danny si sedette, osservando uno scarafaggio che si era intrufolato furtivamente. Lo pestò con brutalità, meditando di fare altrettanto con il suo nuovo carceriere. Aveva notato nell’armadietto un’arma. Si mosse con determinazione, come accade a chi si è rassegnato ad un tragico destino, e, con uno scatto repentino, ruppe il vetro. Il fragore rimbombò in tutta la stanza. Danny sparò dritto in fronte all’assistente e poi ancora ed ancora, non riusciva a contenere la sua ira. Quando riprese il controllo di sé, gettò il phaser per terra, raccolse tutto quello che aveva e si diresse verso il carcere, sperava che la sua cella non fosse stata occupata da qualcun altro. Chiese del Direttore al quale, senza battere ciglio, confessò il delitto. Il Processo si svolse alla presenza di una giuria mista. La sentenza fu presto emessa: gli furono comminati altri vent’anni di galera. Per fortuna il suo giaciglio era ancora libero, pronto ad accoglierlo.

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Erano rinchiusi da trenta giorni, da quando le sirene avevano suonato l’allarme generale e la desolazione aveva cominciato ad impadronirsi delle strade, delle case, delle anime. Il tempo aveva perso significato: giorno e notte si avvicendavano con lentezza estenuante, anche Deimos e Fobos sembravano immobili. Era proibito affacciarsi alle finestre, ognuno nel proprio silenzio sperava che tutto si concludesse in tempi brevi. Le uniche informazioni, diffuse nel cloud dall’Ufficio Stampa governativo, erano per lo più rassicuranti deliri sui provvedimenti presi per sbloccare la situazione. Quale situazione? Nel verde edificio dove abitavano Ester e Davies gli alloggi muti aprivano gli usci solo all’ora della consegna del cibo, razionato, come succede sempre nelle situazioni di emergenza. La distribuzione veniva effettuata dagli androidi di una azienda specializzata in approvvigionamenti per le truppe di terra, di mare e di cielo. “Davies! – urlò Ester – È tutto marcio”. “Non esagerare, un errore può sempre capitare. Ora controlliamo insieme e scegliamo ciò che è ancora commestibile”. Ester non capiva la calma con cui il marito girava per casa, mangiava, si coricava come se ci fosse un domani. Lei no, lei voleva comprendere, riprendere la sua vita, e, soprattutto, rivedere i suoi amici nel locale dove erano soliti sorseggiare un delicato aperitivo. Si sedette per un attimo sulla poltrona, meditando ed imprecando a voce alta. Non si dava pace. Improvvisamente sentì passi pesanti provenire dal lato ovest del condominio. Forse era l’esercito che pattugliava le strade o forse era la stanchezza che la confondeva e la spingeva ad udire quello che non c’era. “Davies, cosa fai?” “Riposo, che altro potrei fare?” “Non è possibile che tu non abbia la minima percezione di una catastrofe imminente”. “Hai qualche idea per porre termine a questa agonia?” Ovviamente non ne aveva. Un tonfo fece sobbalzare Ester. “Che cosa succede?” Nonostante il divieto, non fu in grado di resistere alla tentazione di avvicinarsi alla portafinestra per guardare all’esterno. Un uomo era volato fuori dal balcone. Due androidi dall’aria indifferente lo presero e lo caricarono su un enorme veicolo militare che conteneva altri cadaveri. Fu un attimo. Poi la quiete coprì nuovamente la città. “Hai visto quello che è successo?” “No”. “Fuori la gente muore”. “Cosa dici, hai le allucinazioni”. Rispose contrariato Davies. “Centinaia di salme erano ammassate su un mezzo corazzato. Ci stanno uccidendo”. “Stai calma, fra poco tutto finirà”. “È questo a preoccuparmi: cosa finirà?” Intanto i giorni passavano finché smisero di contarli. Ester si muoveva da una stanza all’altra in modo frenetico. Era dimagrita, le guance erano quasi scomparse, sotto gli occhi un lieve colorito scuro accentuava ancor di più la sofferenza che la stava travolgendo. I nervi stavano cedendo. Voleva uscire a tutti i costi. “Non puoi, non puoi e non puoi. E adesso basta”. La rimproverò seccato Davies. Un altro tonfo ed un altro carro strapieno di cadaveri. Quella scena pareva costruita di proposito per spaventare e costringere le persone a non tentare la fuga. Del resto quelli erano suicidi o omicidi? “Come mai oggi i rifornimenti sono in ritardo? Muoio di fame”. “Stai calma, il rancio arriverà come al solito”. Il rancio arrivò. Si accorsero che nel portavivande c’era ben poco ed erano avanzi. Ester era inorridita: “Ma da dove viene questa roba?” Davies intanto preparava la tavola come se fosse un pranzo qualunque. “Sei insopportabile quando ti comporti così. Siamo su una china che sta diventando sempre più scivolosa”. “Hai qualcosa da proporre?” Le chiese per l’ennesima volta oltremodo infastidito. “Io comunque oggi non mangio”. “Va bene, mangerai domani”. Il giorno seguente stessa storia: due piccole porzioni smangiucchiate. “Resterai ancora a digiuno?” “Odio il tuo tono ironico”. Lo sguardo si posò sulla finestra e ancora un tonfo e poi un altro. Il rumore di un motore a propulsione più intenso di quelli precedenti ruppe l’aria come un fendente. Il dolore attraversò tutta la via ed entrò nelle tetre dimore. Il vento alzò la polvere che si era depositata sul selciato, oscurando il Sole. Da quel preciso momento di un imprecisato mese nessuno si presentò più alla porta. Non avevano più notizie, seppur vaghe, da quando anche l’emittente ufficiale aveva smesso di trasmettere. Erano soli? I soli sopravvissuti di una guerra a loro sconosciuta? “Dammi la console voglio provare a connettermi attraverso un altro canale”. Per un attimo Davies si collegò. L’unica parola che riuscì a distinguere fu “Rivoluzione”. “Ester dobbiamo abbandonare questo posto”. Mormorò quasi piangendo. “Te lo avevo detto che c’era qualcosa di strano in questa quarantena”. “Ascolta c’è qualcuno, delle persone stanno parlando. Che siano qui per salvarci?” Non erano persone, erano androidi armati che stavano bloccando tutti gli accessi. “Ci stanno murando vivi, non sanno che qui ci siamo noi?”

I cadaveri di Ester e Davies furono ritrovati due secoli dopo, quando il nuovo Governo della colonia stanziata su Marte, guidato da un androide illuminato, decise di rendere pubblico il genocidio commesso contro esseri umani, sacrificati in nome di un ideale superiore.

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La guardava da ore. Giaceva su un fianco. L’abito di seta azzurro, morbido e struggente con un’ampia scollatura, faceva risaltare il seno delicato e intrigante. Le braccia nude, bianche e setose, illuminavano la stanza, intorno solo silenzio.

Si era presentato da lei infiocchettato, in giacca e cravatta. Voleva colpirla alla vecchia maniera, aveva anche comprato un anello per suggellare quel momento. Era arrivato in anticipo rispetto al solito. Pioveva. Sotto un ombrello macilento camminava avanti e indietro dinanzi al cancello della sua abitazione, l’edificio, immerso nel verde degli alberi e nel rosso degli oleandri, svettava disinvolto verso il cielo, in una specie di terra di nessuno. I minuti trascorrevano lenti, nel frattempo cominciava a sentire l’affanno della pioggia dalla testa ai piedi. Non voleva presentarsi bagnato fradicio, decise quindi di cercare un riparo. Trovò una tettoia dove rintanarsi. Da lì poteva vedere la finestra della sua camera: tutto era confuso, come visto da occhi irritati da granelli di sabbia. Abbassò il capo e osservò le stringhe delle scarpe che si stavano allentando. Voleva sistemarle, così si piegò fino a raggiungere con le mani le estremità dei lacci. Notò una coppietta che stava attraversando la strada accompagnata da un androide attento a proteggere i due malcapitati in fuga dalle intemperie. “Se ne avessi uno anch’io, forse sarebbe diverso.” Nei suoi sogni sempre uguali inseguiva questa idea, avrebbe voluto aprire uno spazio ed un tempo in cui muoversi liberamente. Invece era bloccato, costretto ad arrendersi davanti ad un muro. Fin dagli albori della robotica evoluta era stata promulgata una legge molto ferrea che riguardava i biotecnologi, gli informatici e gli sviluppatori. Il governo aveva deciso di impedire il possesso di androidi a coloro che ne preparavano i cervelli positronico-quantistici. Il pericolo da evitare era che qualcuno potesse rimuovere i blocchi etici, elaborati da un’apposita commissione, al fine di scongiurare comportamenti delittuosi o crimini contro l’umanità. I trasgressori sarebbero stati puniti con severità. David era un brillante ricercatore del Dipartimento di Ingegneria Quantomolecolare ed era vissuto lontano dal sapore acre dei rapporti sociali in una realtà che riteneva polverosa e rigida. Seguiva la sua missione. Questo era tutto. Non aveva amici e non si era mai innamorato. Finché una mattina Elisabeth lo travolse come un fiume che esonda e gorgoglia il suo canto distruttivo. Se ne stava su una panchina vicino al suo laboratorio. Era una donna dallo sguardo penetrante, magra, elegante, vestita di rosso; dalla gonna un po’ corta trapelavano le gambe che ogni tanto incrociava con un fascino inconsapevole. Quando si alzò per andarsene, David provò uno strano smarrimento. Riprese a lavorare. Stava perfezionando una nuova forma di intelligenza artificiale, non un semplice dispositivo programmabile e controllabile, ma un essere dotato di sensibilità, libero arbitrio e capace di apprendere e progredire. Dalla nascita in poi avrebbe avuto un’educazione basata sui principi fondamentali di libertà, rispetto e tutela dei diritti inalienabili, sanciti dalla Costituzione e dai Trattati Internazionali. Nonostante le difficoltà di un progetto così ambizioso, David, tenace e testardo, in breve aveva scritto il codice base e alcuni prototipi erano già in circolazione. Il giorno seguente Elisabeth, sotto un sole offuscato da una leggera nebbiolina, ricomparve, gli alberi sembravano in festa, tutto intorno un’insolita melodia si spandeva per l’aria. David comprese che non poteva rinunciare ai suoi occhi, alle sue labbra tinte di amaranto, al fascino frizzante di quell’esile corpo che si muoveva sotto il soprabito. Voleva conoscerla. Scese le scale in fretta e furia e la raggiunse. Si fermò davanti a lei. Elisabeth, incuriosita da quell’uomo, accennò un sorriso. David si fece coraggio e si sedette al suo fianco. Aveva alle dita due diamanti. Mille congetture gli balenarono per la mente. Avrebbe voluto dirle qualcosa, invece ansimava e aveva i brividi sulla schiena. Elisabeth si allontanò, percorse un breve tratto, rallentò leggermente, come colta da un dubbio, si girò verso David, poi si dissolse nella nebbia. Le ore eterne di quel pomeriggio passarono scivolando con lentezza estenuante e finalmente il tramonto giunse a consolare una pallida luna. Era stanco, ma non voleva rientrare nel suo disadorno alloggio. Senza tentennare si recò in un locale dove avrebbe potuto sorseggiare qualche goccia di champagne in compagnia della solitudine. Entrò, si accomodò su uno sgabello, appoggiò le braccia sul bancone e fece un cenno al cameriere. Si sforzava di cancellare dalla memoria l’incontro con quella femminilità che aveva turbato il suo peregrinare attraverso la vita. Il fruscio lieve di una mano sul collo lo fece sobbalzare dallo spavento. Era lei. Elisabeth ruppe il ghiaccio con un semplice “Ciao”. Aveva una voce tremendamente sensuale. Passarono una serata indimenticabile. Lei gli versava nel calice i liquori più rari e soavi come se volesse togliergli la forza di scappare. David, confuso dall’eccitazione e dall’alcol, precipitò in una dimensione quasi surreale. Non aveva più la capacità di dominare le sue emozioni. Quando le luci soffuse si spensero, mano nella mano si rifugiarono nel soffice letto di una camera d’albergo. Al risveglio David era solo. Non capiva. Aveva bevuto troppo e forse si era immaginato tutto. Eppure il profumo intorno non mentiva, fluttuava rompendo l’incertezza di una notte che probabilmente non avrebbe avuto futuro. Si vestì, si presentò al laboratorio e si immerse negli algoritmi come sempre, con la stessa serietà, con lo stesso impegno. Ma non era abbastanza concentrato. Vagava con la mente tra le lenzuola evanescenti, complici nel fargli provare uno sgomento tale da scombinare il niente che gli impastava la bocca e l’esistenza da anni senza averne avvertito le note aspre. Una corda invisibile lo legava a lei e, mentre ascoltava il groviglio confuso dei suoni stonati che lo circondavano, percepì intorno a sé una cupa atmosfera da romanzo gotico: spalle curve, teste chine e abiti sgualciti. “Ho anch’io questo aspetto deprimente.” Pensò, guardando la propria immagine riflessa su una delle innumerevoli vetrate che catturavano la luce solare. Elisabeth apparve sulla panchina quasi d’improvviso. Si girò verso il laboratorio. David non voleva mostrarsi. Si raggomitolò fino a toccare il pavimento. Gli altri notarono questo strano atteggiamento. “Sei fuori di senno?” Disse un collega. Non rispose. Sarebbe ritornato nello stesso locale dove l’aveva incontrata. Aspettò fino all’una, poi Elisabeth si materializzò. Con un gesto delle mani ammiccante e malizioso si rivolse a lui. “Mi stavi aspettando. Lo so. Facciamo due passi.” Era buio fitto e le montagne erano coperte di nubi che correvano all’impazzata sotto l’impeto di un minaccioso temporale. Lei lo invitò a salire nel suo lussuoso appartamento. Si baciarono con voluttà e si abbandonarono nell’immensità dei sensi. Con lei era un altro uomo, per nulla preoccupato da una relazione sfuggente, discontinua e controversa. Avrebbe voluto coprirla di domande, ne aveva tante, ma Elisabeth sapeva eludere abilmente ogni tentativo di invadere la propria intimità, il proprio vissuto. Era indubbiamente una donna misteriosa e lui un uomo cieco dalla passione. Dopo qualche mese le confessò il suo desiderio di condividere ogni attimo. L’amava con la stessa ingenuità di un adolescente senza esperienza. Elisabeth, evasiva come sempre, gli fece un gran sorriso.

Era ancora sotto quella pensilina. La pioggia lo sfidava, da due ore il cielo non dava tregua. La città aveva perso le sue sembianze per lasciare il posto a rivoli tortuosi di acqua. Elisabeth scese e, ignorandolo, calpestò la sua ombra. Lo sconforto si impadronì della sua pelle, lasciò cadere l’ombrello, la rincorse, scivolò, cadde. Quando David si alzò, lei era scomparsa. Non sapeva dove fosse, con chi fosse. Indugiò, non capiva il suo modo di agire. Provò una fitta lancinante allo stomaco e alle tempie. Mai si era sentito più ridicolo. Si incamminò lungo il viale, pozzanghere enormi trasformavano ogni movimento in un’agonia. I suoi abiti erano ormai un mucchio di cenci. Il mondo intorno, plumbeo e opaco, tacque per un momento. Aveva il cervello in fibrillazione. Attonito e sospeso in una specie di limbo, si infilò in un chiassoso bar. Con il bicchiere ricolmo di un whisky dall’aroma speziato, cercò di mettere in ordine i suoi sentimenti. “Non so nulla di lei. Questo è il punto.” Si accorse che alcuni clienti avevano smesso di fare confusione e lo indicavano con velata insistenza. Erano incuriositi. Ridevano di lui. Ne era sicuro. Avrebbe voluto ricambiare in qualche modo quell’ironia invece continuò a bere. Erano le tre del mattino. Un assillo ingrato e crudele lo tormentava. Aveva bisogno di una spiegazione. Si diresse verso l’albergo in cui Elisabeth lo aveva portato e di cui ricordava ogni minimo particolare. Si sorprese a scrutare il balcone della stanza in cui si erano amati. Due figure dai contorni sfumati si spostavano dietro una tenda bianca. “E’ lei, la mia Elisabeth… con un altro.” Mormorò mentre le lacrime gli solcavano il volto. Si convinse che l’unico modo per non affondare nell’abisso infinito fosse salire. Il portiere stava dietro un enorme bancone finemente intarsiato. “Desidera?” “Vorrei parlare con Elisabeth.” “Quale Elisabeth?” “Stanza 220.” “Ho capito. La signorina è impegnata e non vuole essere disturbata.” Amareggiato, sprofondò in una poltrona nella hall. “Posso attendere qui?” “Certo.” Appeso ad una parete, color avorio e decorata con una greca multicolore, vi era un orologio. Sentiva distintamente il ticchettio delle lancette che giravano. L’aurora cominciava a farsi spazio, ancora un’ora e poi sarebbe dovuto correre al laboratorio. Improvvisamente ebbe un sussulto, di fronte a lui, sul tavolino, un biglietto da visita attirò la sua attenzione: era di Elisabeth. Uscì barcollando, con una mano si toccava il viso madido di sudore, con l’altra stringeva forte quel biglietto. Colei che lo aveva rapito era alle dipendenze di una multinazionale molto nota che si serviva di escodroidi per coprire un mercato in piena espansione: il mercato del sesso. David perse il controllo, tutte le sue fragilità emersero prepotenti. Era stato imbrogliato, offeso e umiliato da una sua creatura. Proprio lui, lui che era considerato il migliore nel suo campo, che credeva fortemente nella nuova frontiera aperta dagli androidi di nuova generazione. Il sole era alto all’orizzonte, chiamò un aerotaxi, il pilota automatico lo portò a destinazione, vicino alla soglia che aveva varcato tante volte. L’attese. Elisabeth spuntò come per incanto. “Ma tu chi sei?” Urlò David appena le fu accanto, sventolando il biglietto da visita che aveva conservato. Lei lo fissò per un attimo, poi esplose in una risata fredda e tagliente. “Mi pare ovvio. Io offro piacevoli momenti a chiunque paghi. Questa attività mi ha permesso di imparare come funziona il vostro mondo. So che cosa sono la fatica dell’essere e la gioia dell’avere. Non ti ho chiesto del denaro per le mie prestazioni perché tu sei stato un’evasione dalla routine, svago e divertimento. Non sei il primo e non sarai l’ultimo.” David era impietrito. Elisabeth era cosciente di ciò che gli aveva fatto, era capace di rielaborare sensazioni, di simulare e fingere. Avrebbe potuto farla finita in quell’istante, sapeva bene come fare. Invece volle ristabilire la calma necessaria e con lucidità le chiese un ultimo appuntamento. “Se ti va bene, io sono disponibile la prossima settimana, giovedì o venerdì, naturalmente dopo aver congedato i miei clienti.” “Venerdì sarò da te.” Rispose David con voce ferma e risoluta. Era guidato dalla disperazione e da un intollerabile senso di vertigine quando si avvicinò a casa sua e, come se avesse un peso di cui disfarsi in fretta, salì all’ultimo piano senza esitazione. Le corse incontro per non darle la possibilità di reagire, le accarezzò la nuca e, con la rabbia di un lupo ferito, disattivò le sue reti neurali.

Era immobile, insensibile, aveva le palpebre serrate, eppure era bella e seducente. David sentì intorno a sé la pace della vendetta che placa gli animi dei più deboli. Tremava, non riusciva a staccarsi da lei. Infine si mosse e, passo dopo passo, superò la gora, volse gli occhi alla città, si tolse la giacca, l’appoggiò con cura sul prato ancora umido. Di lui non si seppe più nulla.

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Il velivolo che l’aveva portata nello spazio per il suo primo volo era allunato in perfetto orario. Da qualche anno le agenzie turistiche facevano a gara per accaparrarsi clienti facoltosi, pronti a spendere una fortuna per provare l’ebbrezza di passeggiare sulla grigia argilla fino a raggiungere, con guide esperte, il Mare Tranquillitatis ed il mitico cratere Apollo. Qualcuno avrebbe voluto concludere la propria vita lì, nella illusoria aspirazione di allontanare la beffarda sorte, altri, romanticamente, pensavano di poter ritrovare il senno perduto nella corsa affannosa verso il successo e la fama, inseguendo amori impossibili, finiti davanti ad un portone finemente decorato o in un parco desolato. Selene era stata spinta dal desiderio di evadere da un’esistenza senza pace, sempre uguale a se stessa, avvolta nell’oscurità di una cupa malinconia. Non riusciva ad accettare la perdita della sua unica figlia, vinta da una grave e lenta malattia. Sconvolta, in collera con se stessa, martoriata dal rimorso, era sprofondata nel precipizio di una grave depressione. Fu, perciò, ricoverata in un Istituto di Riabilitazione per riacquistare l’equilibrio, l’autocontrollo e la grinta, la sua grinta, quella che l’aveva distinta in ogni progetto, piccolo o grande. Non sapeva neppure lei quanto fosse durata la terapia, a quante sedute di psicoanalisi si fosse sottoposta per rielaborare o per fingere, in modo convincente, di aver rielaborato il lutto che l’aveva sfigurata. Si rimproverava di aver concepito sua figlia in modo naturale, di aver aderito al movimento Nuovo Umanesimo che avversava le manipolazioni genetiche a fini selettivi. Era stato Jury, il bioingegnere di cui si era innamorata, a trascinarla nella crociata per fermare la tracotanza di coloro che avevano scelto di procreare in modo artificiale pur di ottenere un risultato in linea con le loro aspettative. All’Accademia, dove studiavano e si riunivano gli Umanisti, le discussioni erano vivaci, cariche di passione e avevano il fascino discreto dei Caffè Settecenteschi, dove circolavano idee e proposte innovative che esaltavano ed infervoravano. Selene fu ammaliata da quel seducente attivista, dal suo spirito combattivo, dalla sua certezza che trasformare il corso della Storia sarebbe stato possibile.

Era primavera, una strana primavera, un caldo afoso aveva reso irrespirabile l’aria, quando le porte scorrevoli dell’Ospedale Psichiatrico si aprirono. Selene con l’animo sulle spalle e con la sua valigetta nera riprese la sua routine, le solite frequentazioni, il suo lavoro di Amministratore Delegato di una nota ed affermata Multinazionale. Una sera, in un locale prestigioso, sola davanti al monitor del suo PC, fu colpita dalla pubblicità di un’Agenzia Turistica Aerospaziale. “Viaggi indimenticabili sulla Luna vi faranno scoprire tutte le amenità del nostro satellite”. Guardò il video ed il bicchiere ricolmo di un liquore dolce e confortante, mentre le sue mani si attorcigliavano, provate da una insostenibile agitazione. “Perché no?” Si chiese. Se lo poteva permettere e forse un balzo così estremo le avrebbe consentito di dimenticare l’angoscia da cui era torturata, di interrompere l’incessante ripetere a se stessa “Avrei dovuto... avrei potuto… avrei voluto...” Contattò l’agenzia e partì. Il periodo di preparazione non fu lungo e neppure troppo impegnativo. Del resto aveva firmato un plico di più di 100 pagine, con le quali si assumeva ogni responsabilità per eventuali imprevisti, compresa la possibilità di non sostenere lo stress dovuto alla diversa gravità. Quando mise piede sul suolo lunare ebbe la sensazione di aver già sperimentato qualcosa di simile. Ma quando e dove? Non se lo ricordava. Era triste, gran parte del suo mondo era lontano, immerso in una fitta e fredda nebbia, come lo era la Terra in quel momento. Il fruscio di quella solitudine la spinse ad abbracciare quasi con nostalgia il suo tormento. Questa riflessione la distrasse per un attimo dall’ascolto delle istruzioni impartite dall’astronauta che l’avrebbe accompagnata verso luoghi suggestivi ed intriganti. Rischiò di cadere dopo qualche passo: era più complicato del previsto muoversi dall’altra parte del cielo. Fu condotta al suo alloggio dove trovò un comodo letto su cui riposare e cibo in abbondanza. Poteva camminare come a casa sua, un campo di forza artificiale le restituì il peso del suo corpo e la riportò al profumo del glicine che aveva piantato suo padre per festeggiare la nascita di Gaia. Quel glicine sopravvisse alle avverse condizioni climatiche e all’oblio che si impossessò della spensieratezza, dell’entusiasmo e della gioia per quel lieto avvenimento. Selene si avvicinò alla grande vetrata che la circondava: all’orizzonte la Terra stava sorgendo, era uno splendore. Il blu degli oceani si intravvedeva chiaramente, un alone ardesia faceva trapelare qualche sfumatura più tenue che contrastava con lo spazio ovattato e aspro della Luna.

Quando si rese conto di aver indugiato troppo ad ammirare quel panorama, ebbe un sussulto, le escursioni stavano per incominciare. Il Direttore della Base, con poche cerimonie, aveva raccomandato: “Massima puntualità.” Fu inserita nel gruppo n. 7. Attorno a lei vi erano tante altre ombre ricoperte da una tuta come la sua. Sembrava di essere di fronte ad una fotografia del XX secolo in cui vi era l’Everest, offeso da carovane di improvvisati scalatori che cercavano di arrivare in cima. Molti morivano. Gli altri proseguivano. Avendo sborsato molto denaro per quella impresa, non c’era ragione per fermarsi a prestare soccorso a coloro che cadevano umiliati dalla loro stolta arroganza. Le marce, cui erano costretti i nuovi pionieri per godere a pieno dell’incantevole paesaggio lunare, erano paragonabili a soffici salti su un tappeto imbottito di gomma piuma. Alcuni si spingevano, un po’ per gioco un po’ per eccitazione, e finivano per rotolare, indifferenti ai perentori richiami della guida: “E’ pericoloso. Non c’è atmosfera! Mettetevelo in mente: se succede qualcosa sarà molto difficile rimediare, ognuno di voi ha una scorta di ossigeno assegnata. Tutti vedrete tutto, compresa l’altra faccia della Luna con i suoi misteri.” Fu un’esperienza intensa, a tratti sorprendente, come le avevano assicurato alla stipula del contratto.

Selene, dopo due settimane, fu riportata sulla Terra dove un Sole intenso illuminava il profumo dolce di fiori e piante, eppure intorno vi era solo il cemento della sconfinata pista di atterraggio, degli hangar, degli edifici direzionali, delle torri. Si avviò verso l’uscita dove alcuni aerotaxi erano in attesa. Ne scorse uno dai colori vivaci, aveva un aspetto familiare e quasi rassicurante. Salì, digitò le sue credenziali, programmò la destinazione, attese qualche secondo e poi via. Il sottofondo musicale, che aveva selezionato, fu interrotto bruscamente da una voce. “Ciao Selene, come ti senti ora?” Selene fu colta da una strana inquietudine. “Non capisco, che cosa sta succedendo? Chi sta parlando?” Il cuore cominciò ad aumentare il ritmo. Istintivamente avrebbe voluto scendere, invece rimase al suo posto. “Allora Selene, come va?” “Cosa vuoi dire?” “Lo sai, porti su di te i segni delle lacrime che hanno scolpito il tuo volto.” Selene si irrigidì. Cosa ne sapeva un dispositivo del suo calvario? “Tua figlia, Gaia, ti ha lasciato e tu non hai avuto il coraggio di vivere con lei gli ultimi istanti, quando il vascello del tempo l’ha travolta e l’ha portata sull’altra riva. Non hai voluto partecipare al rito funebre, hai condannato tuo marito ad occuparsi di tutto, come se fosse l’unico responsabile della vostra disgrazia, del vostro crudele destino.” “Come puoi dare giudizi sui miei sentimenti?” Replicò con sdegno impetuoso Selene. “Lo sfinimento dell’agonia ha fatto crollare la tua innata dolcezza e la tua compassione, facendo germogliare il rancore per una sofferenza che avresti potuto alleviare se solo ti fossi girata a guardare gli occhi di Jury. Egli ora è al Centro di Ricerche Sociali dove si è rinchiuso e dal quale non esce mai. Continua con caparbietà e tenacia la sua missione: si dedica, come in passato, all’opera di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sui rischi che possono derivare dalla costruzione di una società in cui le persone, impaurite dal sapore urticante dell’incertezza, scelgano la strada della tecnologia del DNA ricombinante.” Le parole pronunciate colpirono Selene come un dardo scagliato contro un muro: “Il solito egoista! Pensa solo a sé e ai suoi principi!” “Non è vero Selene, è stato padre, genitore lui stesso, anche lui ha sopportato l’inferno e i sensi di colpa. Tu lo hai punito con la tua rabbia, gli hai voltato le spalle e sei scappata.” “Non sono una codarda e anch’io ho sostenuto le idee per le quali si batte mio marito. Ma quando un atto è compiuto e ha preso forma, non lo possiamo più ignorare, restiamo imprigionati nella trappola dei nostri disinganni e risentimenti.” Mentre rispondeva al suo fantomatico interlocutore, cresceva in lei il dubbio di essere con qualcuno che la conosceva a fondo, si sentì perciò libera di sfogare tutto il veleno che aveva in corpo e che era riaffiorato con una violenza inconsueta per una donna, come lei, abituata a meditare ogni sillaba, ogni lettera dell’alfabeto. “Sono proprio i disinganni ed i risentimenti a determinare la realtà, la mia realtà. Ogni evento porta con sé la pena dell’esser stato, non può essere modificato. Solo in astratto potrei dire che mi perdono e che perdono mio marito.” “Perché ‘in astratto’?” “Un albero senza radici – continuò Selene –, non è più una pianta, è solo un tronco su cui le foglie, cambiando colore, piano piano gli daranno un altro volto, fino a diventare altro da sé. Io non so dire chi sono, le mie radici si sono staccate, sono state bruciate e sono diventate vento.” “Un fatto, sia pure tragico, sia pure atroce non può tenerti legata e sospesa per sempre. Le ceneri di Gaia riposano sotto una lapide: il suo sonno dovrebbe essere la tua forza.” “Non capisco quello che mi vuoi dire. Lei non c’è più. E’ nell’infinito vuoto. Cosa dovrei fare? E poi chi sei tu per darmi consigli?” Ribadì Selene. “Nessuno, in effetti, io sono nessuno e tanti, sono un agente wetware senziente, come hai notato, esisto finché tu sarai qui con me, domani o più tardi il mio esserCI sarà diverso in una diversa dimensione, perché tutto muta a seconda del passeggero che io accompagno. Dopo di te ci sarà qualcun altro con la sua storia, meglio con le sue storie: tutti momenti unici che lo hanno reso quel che è, ma non quello che sarà. Se l’Essere non evolve l’Essere Umano soccombe. Il resto è illusione.” “Non è certo un’illusione la tomba di mia figlia”, mormorò Selene avvilita e irritata. “No, non è un’illusione, così come è vero che nessuno nel divenire lascia una traccia solo per se stesso, subendone le conseguenze. Qualsiasi nostra azione ricade inevitabilmente anche su altri. E’ inutile che tu abbia aspirato al Bene, se ora non distingui ciò che ti ha reso diversa da chi non è in grado di comprendere che la sorte, a volte, può renderci vittime di noi stessi, dei nostri valori. Affoghi nel tuo dolore, ne sei schiava ed è questa schiavitù che ti ha consentito di sopravvivere, ma non di continuare a lottare contro l’indifferenza e la superficialità di coloro che hanno perso il contatto con l’imprevedibile e si accontentano di un miserabile controllo cromosomico.” “Basta!” Urlò Selene. Non voleva più ascoltare. Un impulso irrazionale si era impadronito dei suoi pensieri. Disattivò il computer di bordo. Non avendo più un percorso in memoria, l’aerotaxi si fermò. Selene chinò il capo, strinse i pugni. Era ferita e sanguinante: quella conversazione l’aveva fatta ripiombare nel baratro da cui aveva cercato di fuggire. Si sentì debole e indifesa, in balia dei flutti di un mare in tempesta, incapace di approdare in un porto tranquillo da cui scrutare i primi bagliori dell’aurora. Disattivò la chiusura dell’abitacolo e scese. Dov’era? Il suo navigatore le indicò il sentiero stretto e tortuoso dell’abitazione nella quale aveva vissuto gli anni della speranza e della fiducia. Volse lo sguardo verso le stelle. La Luna era lassù, per quanto aveva ascoltato quella voce? Si diresse verso il fiume, l’argine era scivoloso e per questo il suo incedere era vacillante. Riconobbe il prato in cui si recava con Gaia ad assaporare l’odore fresco del fieno. Si accasciò, baciò l’erba appena nata fino a mangiare la terra. Estrasse dalla borsa un flacone trasparente che le era stato, furtivamente, consegnato da una tremula pietosa mano, incontrata al Centro Ricerche Patologie Infantili, nel tetro androne che conduceva nella corsia dei malati terminali. All’interno risuonarono due pillole dall’aspetto anonimo, ma invitante. Le osservò. Finalmente in quella silente notte aveva trovato la serenità e la risolutezza per ingoiarle. Si distese vicino all’acqua. Il rumore sordo della corrente le rimbombava in testa. Era molto stanca. Tre giorni dopo il suo cadavere finì contro le pale lucide di un vecchio battello, che solcava rumorosamente le acque limpide, trasportando giovani coppie che si erano date appuntamento per scambiarsi promesse e brindare al futuro, incuranti del volto oscuro della Luna.

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Dalla finestra del trentesimo piano il panorama era magnifico. Terry ammirava i monti che da lontano facevano trapelare la tenue luce del crepuscolo, digradante verso le valli incastonate sui pendii addormentati. Donna vivace, dinamica, naturalmente estroversa e dal fascino intrigante, alternava periodi di gioia ed euforia ad altri di cupo sconforto. Era sabato, l’attendeva come sempre il suo accompagnatore Tom, un androide che aveva acquistato per precauzione, per non affrontare da sola un ambiente decisamente rischioso ed ambiguo: dopo la seconda rivoluzione robotica, avvenuta qualche decennio prima, risultava difficile distinguere tra un essere umano ed un dispositivo evoluto come Tom. “Dove ti porto?” La domanda retorica di cui conosceva già la risposta, non scompose di un millimetro Terry. “Vorrei raggiungere la periferia.” “Lo sai che è molto pericoloso allontanarsi dal centro città.” “Me lo dici ogni volta che te lo chiedo, ma io non ho paura e poi ci sei tu.” “Vorrei ricordarti gli episodi di violenza che lo scorso mese hanno travolto e ucciso una ragazza di vent’anni.” Sara era stata uccisa in un locale come ce ne sono tanti nel buio incantato della trasgressione e sotto luci soffuse e sfumate da una nebbia di odorosi effluvi che stordivano i sensi. Questo era il fascino di quel luogo denominato Campo 2, fondato dagli androidi che si erano ribellati al potere costituito e si erano barricati lì in nome della libertà e dell’autodeterminazione. Solo cittadini scortati potevano accedere e i controlli delle sentinelle erano rigorosi. “Sara non poteva immaginare che il suo androide non avrebbe fatto niente per salvarla. Forse non era di buona qualità o forse voleva unirsi ai suoi simili. Vi sono troppi improvvisati nel settore della biorobotica. Tu sei costoso, ma sei stato un buon investimento.” Già, Tom per lei era solo questo: un buon investimento. Quando varcarono la frontiera furono abbagliati da proiettori fotonici che chiaramente intimavano di fermarsi. Controllati minuziosamente i documenti, furono autorizzati ad entrare. “Ora comincia il divertimento.” “Terry non esagerare, non metterti nei pasticci.” “Quali pasticci? Io desidero solo divertirmi un po’, fare qualche nuova conoscenza. Non ti preoccupare non mi apparterò, sarò costantemente sotto il tuo sguardo vigile.” Tom fremeva, si era invaghito di lei ed era geloso. Quella sera nella piccola Repubblica i festeggiamenti per l’Indipendenza erano stati organizzati affinché ogni angolo offrisse motivo di svago. C’era tanta confusione ed era complicato non farsi trascinare dalla bolgia. Fiumi di alcolici venivano offerti ai visitatori. Terry era felice e come non esserlo: era circondata da corteggiatori che, ammaliati dal suo fascino, le facevano provare il piacere dell’eccesso provocatorio. “Tom non starmi addosso.” “Sei una contraddizione, non sei più una ragazzina. Il tuo temperamento è troppo esuberante.” L’aveva offesa, lui sapeva cosa le era capitato. Terry scappò. Corse all’impazzata fino a che ebbe fiato. Si accasciò davanti ad un locale la cui insegna colorata e attraente la catturò. Circondata da una nuvola di profumo intenso ed esaltante, percepì uno strano disagio, un intreccio di pensieri a maglie fitte cominciavano a schiacciarla contro la sua storia. Il trattamento che aveva subito non avrebbe dovuto lasciare nessun segno nella sua memoria. Invece la casuale vista del corpo insanguinato di una donna trafitta da un raggio di Sole ed incapace di chiedere aiuto, le fece rivivere alcuni dei momenti più bui del sospetto e della condanna. Per non morire in un manicomio criminale, aveva accettato di fare un intervento di biogenetica al fine di cancellare ogni traccia del delitto e delle motivazioni che lo avevano reso possibile. Era una cura sperimentale volta alla manipolazione delle reti neurali alla quale sarebbe seguito un periodo di rieducazione. I medici controllavano regolarmente i suoi progressi e la sottoponevano ad estenuanti colloqui. L’unico, tuttavia, ad aver penetrato la sua anima era stato Tom, il buon Tom, l’innamorato Tom, il testardo Tom che quella notte, in ansia per averla persa di vista, la cercava affannosamente. Quando la ritrovò Terry aveva un volto spettrale, era caduta ed era stata calpestata da un manipolo di goliardi che nel trambusto generale non si erano accorti di lei. La prese in braccio e la riportò in città nel suo appartamento, piccolo ma ben arredato. Terry sprofondò nella quiete della sua dimora. Il sonno le regalò un po’ di pace fino a che l’aurora si insinuò curiosa nella camera e la risvegliò accarezzandola. Ancora in vestaglia si avvicinò alla portafinestra della terrazza e la spalancò per godersi il tepore primaverile. Fece colazione, indossò un abito blu ed un cappello a tese larghe della stessa tinta, scese, attraversò il viale e si sedette su una panchina sotto un cipresso ripercorrendo la stanca storia di un libro in cui mancavano delle pagine. L’assenza di un ricordo chiaro del passato la spingevano a cogliere nelle cose e nelle persone il senso allusivo che le imponeva bruschi salti indietro. Chiuse gli occhi un attimo per frugare nel suo profondo e ricomporre il quadro della sua esistenza. Avvertiva il richiamo prepotente del nulla, del buio in cui stava vivendo, o meglio in cui l’avevano costretta a vivere. Le pareva di essere in una trappola senza fine, in bilico su un precipizio che portava ad un altro precipizio. Era una brutale assassina o una vittima degli eventi? Il presagio di un destino già segnato aleggiava e più tentava di distrarre la mente dalla prigione del suo delitto, più le bruciava dentro la fastidiosa e pungente ebbrezza della dissoluzione. Aveva bisogno del sostegno di Tom, della sua costanza nel proteggerla dalle lusinghe e dalle insidie. Riprese la strada di casa, disorientata e avvilita. Quando Tom la vide, le fece un cenno di saluto. Terry era pallida e camminava con il capo chino. Appena le fu accanto, le cinse le affettuosamente le spalle. “Tom, e se fosse solo un sogno? Se fossimo all’interno del sogno di qualcun altro?” “Mi rattristano queste parole. Sei una donna forte, coraggiosa. Quanti avrebbero scelto la strada della genetica per riconquistare la libertà a testa alta? Che cosa ti sta succedendo?” “E’ come se una qualcosa di me non ci fosse più, forse non c’è mai stata, forse sono semplicemente un esperimento mal riuscito, oppure il mio destino è già stato scritto ed io sono l’interprete di un ruolo che mi è stato assegnato da un autore sconosciuto.” “Il vortice che ti sta risucchiando rischia di annullare la tua lucidità e di tenerti incollata ai dubbi. Fermati per un istante, concentrati, ascolta la tua voce e la mia. Noi ci siamo, c’è il mare, c’è il cielo, c’è la città... e c’è il Campo 2.” “Forse hai ragione tu, ma se questa non fosse che una delle possibilità? Se fossimo dalla parte sbagliata?” La condusse per mano fino alla camera da letto. Un lieve tremore delle sue dita incrociate con quelle di Terry, rivelava tutto il suo amore. Lei se ne accorse, il suo volto cambiò espressione, era felice di avere accanto a sé Tom, ma non glielo disse. “Tom, perché non proviamo a valicare le montagne? Solo per capire cosa c’è al di là?” “Come ti è venuta questa idea bizzarra?” “Quando mi risvegliai, ad intervento concluso, le mie palpebre facevano fatica ad aprirsi. Rimasi così per un po’. I medici, nel frattempo, si scambiavano battute. Uno di loro, ridendo, fece accenno ad un muro costruito là dove lo spazio tocca l’orizzonte.” “Vuoi superare la misteriosa Terra del Fuoco. Un mondo di cui abbiamo notizie vaghe e che potrebbe riservare spiacevoli sorprese.” “Lo so e so anche che la mia potrebbe apparire come una fuga e forse lo è.” Terry sperava di eliminare dalla propria vita lo scomodo bagaglio di accadimenti senza senso, schegge da riordinare, come si fa quando fotogramma dopo fotogramma si crea una storia che è una serie di fatti concatenati. “Va bene, se è questo che vuoi.” Rispose con un tono rassegnato, poco convinto. L’ubbidienza, rafforzata da una sconsolata pazienza, lo portò a seguire Terry in questa avventura.

Valicate le montagne, li accolse il deserto. Man mano che si addentravano il caldo rallentava la loro marcia. Erano particolarmente silenziosi, non osavano quasi incrociare gli occhi. In quella landa desolata Tom non si sentiva a suo agio. Gli sembrava di andare verso l’infinito, di muoversi su un sentiero sospeso e senza uscita. Terry era impolverata e mostrava i segni dello sforzo. “Sono stanca. Facciamo una sosta. Chissà quanto dovremo...” Si interruppe quando udì un vociare sommesso. “Da dove proviene questo suono?” Si accorsero che altri marciavano, come loro, nel tentativo di scovare il mitico confine. Decisero di proseguire insieme per sconfiggere la fatica ed il tempo che pareva dilatarsi a dismisura. Ciò che li univa era l’obiettivo comune ed erano felici di poter condividere quell’esperienza. Presto l’eccitazione per quello che avrebbero trovato si tramutò in timore. Una struggente malinconia ebbe il sopravvento. Avanzavano con lentezza estenuante. Le loro ombre tagliavano il terreno e si insinuavano nell’arida sabbia. Stavano finendo le scorte di acqua e cibo. La situazione era critica. Tom rincuorò Terry e gli altri compagni d’avventura, mentre l’orizzonte assumeva una connotazione angosciante, il cielo, coperto di un velo grigio, divenne scuro come la pece. Il fruscio di un pianoforte, che scandiva note tristi dal sapore acre, avvolse i loro corpi stremati. Si bloccarono. La musica aumentò il ritmo, rimbombando con una intensità ed un timbro cui non erano abituati. Giunsero, alfine, davanti ad una grande vetrata. “E’ questo il muro?” Si chiesero scuotendo la testa intimiditi. Dietro le loro schiene un rumore sordo e metallico li spaventò. Dei fari enormi e scintillanti si accesero. Erano intrappolati davanti ad una barriera trasparente, simile ad una bolla. Scoppiò un applauso: “Bene... Bravi... Bis...” Terry e Tom avrebbero voluto riportare indietro le ore, i minuti. Erano imprigionati davanti a gruppi di esseri squamati e dai volti soddisfatti, arrivati sulla Terra proprio per osservare la specie Umana, ormai in via di estinzione, rinchiusa in un’area protetta dalla Confederazione. “Mamma sono orribili! E quello è ancora più schifoso.” Mormorò un piccolo esserino indicando Tom. “Abbiamo speso molto per questa gita al Parco Naturale più famoso dell’intera Galassia. Goditi lo spettacolo”.

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