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Come temevamo all'indomani del suo giuramento come ministro, CarloNordio conferma la volontà del Governo guidato da GiorgiaMeloni di riformare la giustizia nel senso auspicato sin dal 1994 da Silvio Berlusconi. Vale a dire impunità per i potenti e repressione per i deboli.

La limitazione delle intercettazioni, anche per mafia, le misure cautelari da togliere ai giudici per le indagini preliminari, il depotenziamento delle norme contro i corrotti (già ridicole di per sé), la definitiva abolizione dell'abuso d'ufficio (già pesantemente limitato nel 2020 per contrastare “la paura della firma”). Per non parlare di ventilate riforme della Costituzione, già applaudite da pezzi dell'opposizione oramai indistinguibili dalla maggioranza sul tema.

Un menu già visto, cui ha preparato il terreno la pessima riforma della giustizia Cartabia, con annesso bavaglio ai giornalisti (e anche a noi ricercatori), passata nel silenzio assoluto delle oggi opposizioni, le quali dovrebbero fare barricate e invece strizzano l'occhio alla maggioranza in nome del “senso di responsabilità”.

E' evidente come si voglia impedire alla magistratura di colpire quei comitati d'affari che sono pronti a trasformare i fondi del Pnrr nell'ennesima occasione di arricchimento privato, anziché di rilancio del nostro Paese.

Per quel poco che possiamo, continueremo a difendere l'indipendenza della magistratura e a denunciare questo clima da restaurazione, soprattutto in ambito antimafia. Se vogliono ridurre la lotta alla mafia a uno sventolio inutile di santini agli anniversari delle Stragi, sappiano Lor Signori che noi non ci stiamo.

P.S. Al Ministro che dice che vigilerà sulle violazioni del segreto istruttorio, ricordiamo, in caso non lo sapesse, che questo è stato abolito nel 1989, sostituito dal segreto investigativo. E meno male che faceva il pm fino a qualche anno fa...

Nicola Cava

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Aveva ragione lui, e loro torto. Non lo dice qualche “pericoloso virologo” ma nientemeno che la Corte Costituzionale, che ieri ha stabilito la totale e assoluta legittimità dell’obbligo vaccinale introdotto dall’allora ministro della Salute Speranza. Per due anni lo hanno massacrato, infangato, delegittimato, minacciato, usato come capro espiatorio di una emergenza mondiale. Ma gli è andata male, malissimo. E oggi, giustamente, Speranza si toglie tutti i sassolini, con garbo e senso delle istituzioni. “Non ho mai avuto dubbi sul nostro operato. La sentenza della Corte, che rispetto e che leggerò con grandissima attenzione, riconosce la razionalità delle scelte che son state fatte, ispirate sempre dal principio della difesa del diritto alla salute delle persone, seguendo l'evidenza scientifica”. Oggi più che mai, orgoglioso di averlo sostenuto quando non era comodo né popolare. Quanto a voi, se vi è rimasta un briciolo di dignità, adesso chiedete scusa a quest’uomo (anche se non succederà mai). E vergognatevi.

Lorenzo Tosa

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Non oggi. Non domani. Dopodomani. 3 giorni.

Nel 2022 in Italia ogni tre giorni c’è stato un femminicidio. 104 dal primo gennaio. A questo ritmo se ne aggiungeranno altre 12 al 31 dicembre.

9 volte su 10 l’autore del delitto è nella cerchia relazionale più intima, che sia parente, amico, compagno.

Ad oggi, 2 casi su 3 di violenza fisica o psicologica non viene denunciato, per paura di tante cose: l’indifferenza, le leggi interpretate male che fanno sentire indifese le denuncianti, la burocrazia e, forse la decisione più dolorosa, il disagio sociale nel denunciare.

Quando nel 1999 le Nazioni Unite istituirono questa giornata definirono violenza contro le donne qualsiasi atto di violenza di genere che si traduca o possa provocare danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche alle donne, comprese le minacce di tali atti, la coercizione o privazione arbitraria della libertà, sia che avvengano nella vita pubblica che in quella privata. Una donna intelligente ha milioni di nemici: tutti gli uomini stupidi.

Marie Von Ebner Eschenbach

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Enock Rodrigue Envolo ha 48 anni, è un medico. Un bravo medico, uno di quelli con la vocazione.

Nato in Camerun, laureato in Medicina alla Sapienza, un curriculum di tutto rispetto. Eppure per qualcuno non è abbastanza.

Quando il dottor Envolo ha preso il posto del medico di base andato in pensione, gli abitanti di Fagnano Olona, Varese (non tutti per fortuna, ma troppi) lo hanno accolto con ignobili insulti razzisti, rifiutando di farsi curare da lui, un africano.

“Che ci fa qui questo?

Ci vuole gente che ha studiato. Dovrebbe andare a far pascolare le pecore”.

La sua risposta è stata di grande dignità ma anche (comprensibile) rassegnazione, al punto da dichiararsi pronto a rinunciare al lavoro.

“Sono qui per curare e mettermi a servizio della comunità. Se non mi vogliono, sono già pronto a chiedere di lavorare altrove. Il mio mestiere è curare le persone”.

E invece no, non è lui a doversene andare ma gente che, nel 2022, non si fa curare da un medico perché nero e africano. Che vadano loro a farsi curare altrove.

Solidarietà totale al dottor Envolo, con l’invito a ripensarci.

Il Sistema sanitario nazionale ha bisogno oggi più che mai di persone e medici come lui.

È di miserabili razzisti che proprio non sappiamo che farcene.

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Straordinaria ieri sera, a Otto e mezzo, Cecilia Strada.

Ha elencato numeri, fornito dati, ricordato sentenze, citato leggi, evocato diritti e doveri del mare: il risultato è un intervento memorabile che sarebbe da mostrare in loop a ogni parlamentare, ministro, sottosegretario di ogni ordine, grado e schieramento politico.

“Sono sei anni. Sei anni di indagini sulle organizzazioni di soccorso. Tutte quelle che sono arrivate a dei gradi di giudizio hanno detto che avevano ragione le navi ong ad agire come agivano, che non c’è stato alcun favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, che non ci sono stati accordi con gli scafisti, e che avevano ragione i comandanti delle navi ad aver agito come hanno agito. Ma ci sono anche 5 anni di dati sul pull factor raccolti non dalle navi di soccorso, ma da istituti di ricerca come l’ISPI, che dimostrano che non esiste questo legame. Partono indipendentemente dalla presenza delle navi di soccorso.

Possiamo essere in disaccordo sulla visione generale di come si gestiscono i flussi migratori e l’accoglienza, ma non si può continuare a prendersela con le navi di soccorso, accusate di ogni crimine possibile e immaginabile mentre stanno a riempire un vuoto statale e saremmo più che felici se fossero gli Stati a riprendere una Mare Nostrum e a salvare la gente che annega in mare.

Perché salvare la gente è un atto umanitario. Perché è la politica quella che, non risolvendo la gestione dei flussi migratori, spinge la gente a rischiare la vita in mare.

Noi siamo in mare facendo grandissima fatica per salvare quattro cristiani. Porca miseria, fateci salvare quattro cristiani senza riempirci di calunnie”.

Grandissima.

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C’è un uomo che, più di tutti, la nuova destra di governo ha deciso di utilizzare come capro espiatorio, di sventolarne lo scalpo, di provare a distruggere.

Si chiama Roberto Speranza, il ministro della Salute che, per quasi tre anni, ha fronteggiato la più grande emergenza sanitaria della storia repubblicana.

Lo ha fatto con disciplina e onore, perdendoci il sonno, la salute a sua volta, mettendoci la faccia, facendo scelte spesso impopolari ma necessarie come il primo lockdown, che poi praticamente tutta Europa ha seguito a ruota, facendo dell’Italia – una volta tanto – un modello da seguire, commettendo errori, certo (chi non li avrebbe fatti in una situazione simile?) ma mettendo sempre davanti a tutto la Scienza come unica stella polare.

E, mentre faceva tutto questo, teneva anche la barra dritta sulle conquiste civili di questo Paese, puntellando la legge sull’aborto con le nuove linee guida sulla 194 contro le regioni di quella stessa destra che vorrebbe smantellarla.

Oggi il governo Meloni annuncia una commissione speciale d’inchiesta sulla pandemia. Ufficialmente per fare chiarezza su ciò che non ha funzionato, in realtà non è che uno squallido killeraggio mediatico e propagandistico con mezzi politici e istituzionali, una gogna pubblica nei confronti di una persona che ha salvato la vita a centinaia di migliaia di persone con le sue scelte, mentre altri nel mondo – spesso i sovranisti tanto cari a Meloni & C. – li mandavano a morire come bestie.

In un Paese civile, a uno così bisognerebbe fare un monumento. Qui da noi diventa il nemico da abbattere, il bersaglio da colpire per strizzare l’occhio ai fanatici no-tutto.

Lo voglio dire qui, ancora una volta, soprattutto oggi che non è comodo: giù le mani da Roberto Speranza, uno dei ministri migliori che abbiamo avuto nel pieno della tempesta perfetta.

Solidarietà assoluta e totale. Siamo in tanti con te.

Lorenzo Tosa

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immagine    Anche oggi sento tanti che parlano di una “donna che si è fatta da sola” e che quindi, per questo, va ammirata. E sbaglio io e tanti come me a non applaudire.

Non sono di questa opinione. C’è il rispetto umano, il rispetto del voto democratico (e ci mancherebbe). Ma non quello politico. E non c’è ammirazione.

E non per le idee (ripeto, siamo in democrazia). Ma per come la Meloni è passata da 3 al 26%.

Dal 2011, la Meloni ha scientificamente seguito una strategia che per chi non ha scrupoli politici funziona sempre: andare contro tutto e tutti, sottrarsi ad ogni minima responsabilità, attaccare, ferocemente – e mi si consenta anche in maniera molto bassa – gli avversari anche quando questi stavano cercando di gestire un’emergenza che non si era mai vista prima, qui facendo di tanto in tanto anche qualche sgambetto mentre nel Paese le ambulanze correvano su e giù e si doveva schierare l’esercito per portare via i morti.

Un consenso costruito sempre “contro”, con miliardi di “no” urlati, gridati in faccia alla gente per un decennio. Senza uno straccio di idea. E ancora: un consenso costruito in tante zone imbarcando gente che – fatti di cronaca alla mano, anche recenti – è finita agli arresti per mafia. Un consenso costruito solleticando le frange più estreme del Paese, a volte anche diffondendo fake news.

Scusatemi, abbiate pazienza, chi mi conosce sa che non sono “sguaiato” nei modi. Ma no, non ho rispetto politico né ammirazione per chi è arrivato a governare in questo modo. E chiamatelo “rosicamento”, chiamatelo come vi pare, ma l’ammirazione c’è quando i voti li prendi su cose concrete, non gridando per dieci anni di fila.

Leonardo Cecchi 

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I veneti hanno sempre bramato l’autonomia. Un desiderio intenso, profondo, ancestrale, che ha un origine quasi antropologica. Purtroppo, sono sempre stati sedotti dalla narrazione leghista, anche quando essa era mendace, o quanto meno fumosa. Zaia riuscì a vendere pane vecchio, ammuffito, raffermo, come fosse un cesto di aragoste fresche. “Votando si al referendum sull’autonomia, il 90% delle tasse dovrà rimanere in Veneto”, disse. Una balla colossale, alla quale i Veneti credettero, visto che Zaia li illuse che i schei sarebbero rimasti a palate qui da noi, andando in massa a votare un referendum, che, come si vede a 5 anni di distanza, visti i risultati, era in realtà un gigantesco spot elettorale per Zaia stesso.

Perché era una balla? Perché l’autonomia differenziata, di cui ancora si discute, non è il federalismo fiscale. Se il federalismo fiscale prevede che le risorse prodotte da un territorio, rimangano nel territorio, l’autonomia differenziata prevede che alcune competenze (23 per la legge) si spostino da Roma a Venezia, a parità di spese storiche. Cosa vuol dire? Niente schei. Altro che il 90% delle tasse rimarranno in Veneto. Se, ad esempio, ci fosse l’autonomia, le scuole pubbliche venete avrebbero le stesse identiche risorse di adesso, con la sola differenza che a decidere non sarebbe Roma, ma Venezia. Così i programmi e la gestione del personale sarebbero in mano alla Donazzan, una che diceva che una persona transessuale è un demonio e che aveva portato a scuola la festa della famiglia tradizionale. Una garanzia di progresso.

Trasformerebbero la scuola come hanno trasformato la sanità? Con i contratti dei professori esternalizzati alle cooperative di turno, come nelle case di riposo? Non lo sappiamo, l’unica verità, nascosta dalla narrazione zaiana e dalla promessa di una marea di schei che ci avrebbe inondato, è che di schei non ne arriverebbero. Si sostituirebbe un centralismo romano, con un centralismo veneziano. Tutto il potere a Zaia, che con la gestione della sanità, la realtà insegna, non è stato esattamente un mago. Forse, è stato più uno stregone.

I veneti, a quanto pare dai sondaggi, hanno smesso di credere nella Lega ex Nord. Un terremoto, visto che la Lega è data al 14% e nel 2019 alle europee in Veneto prese quasi il 50%. Fratelli d’Italia sarà il primo partito al 30%, nel 2018 aveva preso il 4%. Evidentemente Fratelli d’Italia si è espressa a favore dell’autonomia. Se la Lega era per l’indipendenza ed è diventata nazionalista, Fratelli d’Italia era nazionalista ed è diventata autonomista. Sono i catch all party, i partiti piglia tutto: per vincere bisogna accontentare tutti, bellezza. Però Crosetto, quello che conta di più dopo la Meloni nel partito, ha detto: “L’autonomia dopo la crisi e il Presidenzialismo”. Considerando che per il Presidenzialismo ci vuole un iter di riforma costituzionale, una cosa lunghissima, è come dire “l’autonomia può aspettare”. Allora, i veneti si sono stancati della Lega o dell’autonomia?

Carlo Cunegato

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È evidente che a Giorgia Meloni non conviene vincere le elezioni. Sulla carta ha l'occasione della vita. È la prima aspirante donna-premier che può sfondare il tetto di cristallo. Guida un partito di destra dura e pura che non ha mai gestito nulla, a parte i convegni di Atreju. Ha il pieno comando della sua sgangherata coalizione. Ha già fatto la ministra in uno dei peggiori esecutivi della Repubblica ma agli italiani piace perché risulta ugualmente “nuova”.

In teoria, le condizioni per raccogliere con entusiasmo questa sfida ci sono tutte. Ma in pratica, chi glielo fa fare questo battesimo del fuoco a Palazzo Chigi, in una delle ore più buie della Storia? Dopo aver festeggiato il probabile plebiscito nelle urne, che speranze ha di salvare davvero l'Italia, tra la minaccia neo-imperiale di Putin e la crisi del gas, una famiglia su tre che non può pagare le bollette e 120 mila imprese che rischiano la chiusura, l'inflazione al 9 per cento e la Bce che alza i tassi di interesse?

Con questo intero gregge di mucche in corridoio, si capisce che qualche Fratello d'Italia cominci a mettere già le mani avanti e a fantasticare un'altra volta di “unità nazionale” e di “governo dei migliori”, per vedere di nascosto l'effetto che fa. Guido Crosetto, in una destra drammaticamente povera di classe dirigente, non è uno qualunque: se si spinge a dire che «Giorgia non arriverà alla guida del Paese per fare la donna sola al comando» e che «per il bene dell'Italia chiamerebbe Letta senza nessuna esitazione, così come Conte o Calenda», qualcosa dietro ci dovrà pur essere.

Basta sentire il video-spot che la stessa Meloni ha diffuso giovedì scorso, intitolato “Pronti a intervenire sul costo dell'energia – Le nostre proposte”. Dura tre minuti e 28. Il tono è grave, composto, mai polemico. E le proposte vanno dal tetto europeo al prezzo del gas al “decoupling” tra prezzo del metano e delle altre fonti energetiche, dalla tassazione degli extraprofitti ai crediti d'imposta per le imprese gasivore.

Draghismo in purezza. La prima cosa che viene da dire è: troppo comodo chiedere aiuto al premier uscente, o magari persino ai leader del campo avverso, adesso che i “patrioti” stanno per entrare nella stanza dei bottoni e invece delle verdi vallate vedono la morte nera. A cosa prelude, tanto senso di responsabilità e tanta “gravitas istituzionale”? È solo maturità politica o c'è dell'altro? Dovrà spiegarcelo la Sorella d'Italia in persona, meglio se prima del voto.

Dovrà chiarire perché, lei che voleva far firmare un “patto anti-inciucio” agli alleati Salvini e Berlusconi, ora è disponibile alle “larghe intese” nella nuova legislatura, dopo averle combattute dall'opposizione in quella vecchia.

Soprattutto, dovrà dirci se a presiedere un eventuale governo giallo-rosso-nero-verde sarebbe lei, o se invece affiderebbe il compito a un “Draghi di destra”. Ben sapendo che in questa tribolata Italietta di Draghi di destra, come del resto di “Draghi di sinistra”, ce n'è uno solo: è Draghi stesso.

Massimo Giannini L'editoriale (La Stampa)

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Anche nelle «bolle» più omogenee si trova un disorientamento diffuso su se e per chi votare il 25 settembre. Ma l'urgenza è avere il coraggio di affrontare il problema storico della ricostruzione sociale e politica del campo di battaglia

Tu voti il 25 settembre? E per chi voti? Un rompicapo si aggira anche nelle «bolle» più omogenee della sinistra radicale. Un disorientamento diffuso in modo anomalo, anche tra militanti di lungo corso. 

Sui social network non mancano toni feroci e accuse di tradimento tra compagni di una vita, seppur a dire il vero sempre meno appassionanti. Il disorientamento è più alto del solito ma l’entusiasmo sembra in effetti ai minimi storici. Del resto non ci si può sorprendere: da quasi un quindicennio non esiste una vera e propria sinistra politica in Italia e alla vigilia di ogni tornata elettorale nascono nuove liste della sinistra radicale destinate a sciogliersi di lì a pochi mesi, mentre i movimenti sociali esplosi negli ultimi anni non sono riusciti a radicarsi e a incidere sullo scenario politico. Le persone di sinistra si ritrovano così a essere chiamate a votare in «un paese senza sinistra». 

La scomparsa del «voto utile»

Nella Seconda Repubblica, dopo la fine del Pci e la nascita del Pds-Ds-Pd e di Rifondazione comunista, c’è sempre stata una sostanziale divisione tra «due sinistre» – una moderata e liberale, l’altra radicale e comunista –, con tradizionali spaccature nei momenti elettorali attorno a un dilemma: accettare o meno di sottomettersi al Centrosinistra liberista per un «voto utile» a battere la destra nei collegi uninominali. Negli ultimi dieci anni per chi vota e fa attivismo a sinistra la scelta al momento del voto è divenuta peró più complessa, con la conseguente moltiplicazione delle spaccature in varie direzioni.   

Questa tornata elettorale propone l’ormai tradizionale nascita lampo di due nuove liste della sinistra radicale: l’Alleanza Verdi-Sinistra, che mette insieme i Verdi di Angelo Bonelli e Sinistra italiana di Nicola Fratoianni nel tentativo di superare lo sbarramento del 3% nella quota proporzionale, e Unione popolare di Luigi De Magistris, che con la leadership dell’ex sindaco di Napoli unisce Rifondazione comunista, Potere al popolo e altre formazioni della sinistra anticapitalista. 

Nell’anno del centenario della Marcia su Roma e con i sondaggi che danno vincente l’estrema destra postfascista di Giorgia Meloni, a sorpresa però è di fatto scomparso il «voto utile» per battere la destra. Dopo decenni in cui alla sinistra radicale è stato proposto di unirsi perfino con Clemente Mastella pur di battere Berlusconi – anche se poi spesso il Pd è finito a governare insieme alla destra in vari esecutivi di «unità nazionale» – questa volta il Partito democratico ha deciso che la priorità era un’altra: escludere dal fronte comune il Movimento cinque stelle, reo di lesa maestà per essere timidamente uscito dall’aula durante un voto di fiducia al Governo Draghi.

Così il voto alla cosiddetta coalizione progressista, ulteriormente indebolita dalla pittoresca fuoriuscita di Carlo Calenda, a conti fatti è percepito come poco efficace non solo a battere la destra ma anche a cercare di non farla stravincere nei collegi uninominali. Pur tenuto in vita artificialmente da Enrico Letta nella retorica elettorale, il «voto utile» appare così un argomento sbiadito e poco realistico.

Si tratta di una situazione inedita che rischia di far aumentare ancora l’astensione in un’elezione con un esito ritenuto dai più scontato. Ma che avrebbe, sul piano teorico, potuto aprire spazi nuovi per una sinistra radicale per una volta libera dall’eterno ricatto di doversi alleare con chi propone politiche liberiste per non subire la beffa di essere accusata di far vincere la destra.

L’Italia non è la Francia

In questo contesto inedito si poteva effettivamente ritenere possibile pensare di cambiare la geometria politica degli ultimi anni guardando al modello delle recenti elezioni francesi, dove il blocco liberale è rappresentato ormai compiutamente da Emmanuel Macron, l’estrema destra da Marine Le Pen e un nuovo ampio blocco di sinistra si è coagulato intorno a Jean-Luc Mélenchon. Un modello che secondo alcuni si sarebbe potuto emulare formando un terzo polo oltre al Pd e alla destra, con una coalizione tra il Movimento cinque stelle, Sinistra Italiana e Unione popolare.

Una coalizione certo improvvisata e che non avrebbe aumentato con questa legge elettorale le chance di battere la destra, ma che avrebbe potuto rappresentare una novità, attrarre qualche voto destinato all’astensione e soprattutto competere in modo credibile con il Partito democratico provando a sottrarre il sostanziale monopolio della rappresentanza a sinistra a un Pd sempre più legato agli interessi dell’establishment politico ed economico del paese. 

Se non abbiamo uno scenario alla francese non è però semplicemente per scelte miopi o opportuniste dei vari leader. I momenti elettorali non si costruiscono artificialmente o importando modelli dall’estero, come già visto con la lista Tsipras. Sono piuttosto delle fotografie dei conflitti sociali e dei processi politici messi in moto negli anni precedenti. In Italia in questi anni non c’è stato nulla di paragonabile alla spinta che ha rappresentato il movimento dei Gilets Jaunes francese e nemmeno un crescendo di scioperi come quelli esplosi di fronte alla riforma delle pensioni del governo Macron. I rapporti di forza in cui siamo immersi, le culture politiche sedimentate e il modo concreto con cui si sono costruiti i partiti di cui parliamo rendevano di fatto poco credibile uno scenario francese in salsa italiana.

Il Movimento cinque stelle, la lista più rilevante dell’eventuale coalizione, è stato del resto sospinto a sinistra più dalle scelte degli altri che dalle proprie: prima dalla rottura di Matteo Salvini con il primo Governo Conte e poi dalla decisione del Pd di far saltare in aria la cosiddetta alleanza giallo-rossa per dimostrarsi più draghiani dello stesso Mario Draghi. Una coalizione con Sinistra italiana e Unione popolare avrebbe minato la storica identità grillina racchiusa nel motto «né di destra né di sinistra», portata avanti concretamente nelle scelte di governo degli ultimi cinque anni che hanno messo insieme il Reddito di cittadinanza e il blocco dei licenziamenti durante la pandemia con giustizialismo, retoriche securitarie e guerra alle Ong che soccorrono i migranti in mare. 

Sinistra italiana avrebbe dovuto rinunciare alla propria decennale e imperterrita strategia di costruire la sinistra del Centrosinistra, nonché mettere a rischio la propria presenza in tante amministrazioni locali in coalizione con il Pd. Il tutto per legarsi a colui che è stato il capo del Governo dei decreti sicurezza di Salvini. 

La neonata Unione popolare – unica lista ad aver proposto la coalizione seppur con varie resistenze al proprio interno – non aveva i rapporti di forza per rendere appetibile la proposta ai potenziali alleati. Rapporti di forza non modificati dalla – tanto invocata in questi anni quanto alla fine un po’ tardiva – discesa in campo a livello nazionale di Luigi De Magistris. 

Il rompicapo per chi vota a sinistra

Stando così le cose, chi vota e fa attivismo nella sinistra radicale si trova di fronte ad almeno quattro scelte, tutte con una propria comprensibile motivazione ma con non poche contraddizioni e un’intrinseca debolezza.

Alcune e alcuni, pur distanti dalle scelte draghiane del Partito democratico, si orientano a votare la lista di Sinistra italiana e Verdi, attratti soprattutto da candidati significativi per le loro battaglie sociali e civili come Aboubakar Soumahoro e Ilaria Cucchi. L’obiettivo è provare almeno a eleggere qualche persona di sinistra nel prossimo parlamento, seppur con la contraddizione di finire per sostenere una coalizione a guida liberista che è riuscita nel capolavoro di essere disomogenea nei contenuti e nei candidati – dal custode dell’austerity Carlo Cottarelli al sindacalista Aboubakar Soumahoro – senza rappresentare comunque un «voto utile» per battere l’estrema destra di Giorgia Meloni.

Altre e altri si orientano a votare il Movimento cinque stelle in quanto unica formazione che porta avanti istanze sociali come il Reddito di cittadinanza e il Salario minimo in grado di arrivare in doppia cifra, quindi di pesare politicamente e dare uno smacco al Pd. Una scelta dettata anche da una reazione per gli attacchi subiti da Giuseppe Conte dai più solerti sostenitori di Draghi ma con la contraddizione di votare un partito esplicitamente non di sinistra e soprattutto protagonista di tutti i governi succedutisi nell’ultima legislatura.

Con l’intento di non rinunciare a votare una sinistra alla sinistra del Pd, altre e altri ancora si orientano a sostenere Unione popolare. Una lista più generosa, con candidati privi dei «seggi sicuri» trattati preliminarmente dalle altre due forze politiche, su cui però pesa l’eredità dei continui fallimenti di liste simili improvvisate a ridosso del voto nell’ultimo decennio e che potrebbe sciogliersi come neve al sole il giorno dopo il voto se non dovesse eleggere nessuno.

C’è infine chi, magari per la prima volta, pensa di astenersi rifiutando di votare progetti politici non convincenti o ritenuti inefficaci per ricostruire una sinistra radicale. Si sa, però, che chi non vota rinuncia a decidere chi viene eletto e chi governa, seppur questa volta il dato dell’astensione potrebbe essere così macroscopico da non poter essere eluso da nessuna seria analisi elettorale.   

L’urgenza

Proprio la possibile astensione record potrebbe far uscire fuori un governo con un’ampia maggioranza parlamentare ma dentro un’obiettiva minoranza sociale nel paese. Con l’aggiunta che nessuna forza politica, nemmeno quella di Giorgia Meloni, può dirsi sicura della propria rendita di posizione oltre il brevissimo termine. Le oscillazioni dei consensi elettorali nelle elezioni degli ultimi dieci anni sono state del resto senza precedenti nella storia della Prima e della Seconda Repubblica: alle europee del 2019 la Lega prese il 34% ed è ora accreditata nei sondaggi intorno al 12%; Il Movimento cinque stelle alle ultime politiche del 2018 ha raccolto il 32% e ora si accontenta di superare bene il 10%; Il Partito democratico con Matteo Renzi alle europee del 2014 arrivò al 40% e ora è accreditato del 20%; Fratelli d’Italia alle scorse elezioni politiche ottenne il 4% e stavolta potrebbe arrivare a superare il 25%.

Sono consensi labili, pronti a fuggir via e posarsi altrove velocemente, frutto dell’assenza di radicamento delle forze politiche e, dopo la crisi economica del 2008, di una profonda crisi di consenso per le politiche liberiste che con pochi distinguo portano tutte avanti. Questa volatilità dei consensi, mescolata a un’astensione sempre più di massa, costringe in ogni caso chi governa a non dormire sonni tranquilli. Seppur, nel paese senza sinistra, a mancare è sempre un’alternativa antiliberista convincente.

Il vero rompicapo per chi vuole ricostruire una sinistra radicale dovrebbe essere allora come trasformare questa distanza dalle attuali forze politiche in un’opposizione sociale in grado di affrontare le politiche autoritarie, omofobe e razziste di un possibile governo a guida Meloni e di creare una convergenza sociale e politica antiliberista ed ecologista a partire da alcuni temi cruciali che saranno sul piatto dal giorno dopo, nel pieno di un’inflazione galoppante, di una crisi climatica sempre più grave, di un’emergenza energetica alle porte, di una crisi sanitaria costante e di una fase di guerra che non accenna a finire.

Occorre convergere per andare «fuori dall’emergenza e dentro l’urgenza», come suggerisce il Collettivo di fabbrica della Gkn. Ma è fondamentale capire chi, come e perché converge. L’urgenza è incidere sui rapporti di forza sociali per poter cambiare la situazione politica in cui ci ritroviamo, costruendo una convergenza tra movimenti e lotte sociali in grado di ottenere risultati, ricostruire legami sociali di classe e anche di porsi il problema di incidere sul terreno della narrazione politica.

La campagna elettorale è da questo punto di vista un’opportunità per veicolare contenuti con cui sfidare lo status quo, come fa ad esempio il movimento Fridays for future con «l’agenda climatica» che lancia il climate strike del 23 settembre, proprio alla vigilia del voto. Ma occorre mettere in secondo piano le eterne discussioni di tattica e di leadership e smettere di eludere il problema storico che abbiamo di fronte: la fine del movimento operaio per come l’abbiamo conosciuto nel Novecento e la necessità di ricostruire i linguaggi e i legami sociali necessari a ritracciare il campo di battaglia.

Compito sul quale, a ben vedere, non hanno dato finora risposte efficaci nemmeno le varie esperienze politiche tentate invano di emulare nel nostro paese: dalla Syriza di Alexis Tsipras alla Podemos di Pablo Iglesias, dal Labour party di Jeremy Corbyn alle liste dello stesso Mélenchon. Anche tutte queste forze politiche hanno del resto subìto enormi oscillazioni di consenso elettorale scontrandosi in alcuni casi sulla contraddizione del governo di paesi a capitalismo avanzato e non riuscendo a costruire i necessari addentellati sociali e un’idea credibile di trasformazione radicale dell’esistente.

Per uscire dal pantano prolungato in cui è ferma la sinistra radicale, le nostre energie intellettuali e militanti dovrebbero concentrarsi su come trasformare la lampante crisi di consenso del liberismo in un incontro tra una nuova idea di trasformazione radicale e una nuova convergenza sociale efficace. A prescindere da come risolveremo il rompicapo del 25 settembre.

Giulio Calella – via | https://jacobinitalia.it

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