📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

Capitolo LXX – Divieto di arrogarsi la riprensione dei confratelli

1 Nel monastero si deve sopprimere decisamente ogni occasione di arbitri e di soprusi; 2 perciò dichiariamo che non è permesso ad alcuno di infliggere la scomunica o un castigo corporale a un confratello, senza l’autorizzazione dell’abate. 3 I colpevoli di tale trasgressione siano rimproverati alla presenza dell’intera comunità, affinché anche gli altri ne abbiano timore. 4 I ragazzi, però, rimangano fino a quindici anni sotto la disciplina e l’oculata vigilanza di tutti, 5 ma sempre con grande moderazione e buon senso. 6 Chi poi si arrogasse una qualsiasi autorità sugli adulti, senza il comando dell’abate, o si inquietasse irragionevolmente con i ragazzi, sia sottoposto alla punizione prevista dalla Regola, 7 perché sta scritto: «Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te».

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Approfondimenti

1-3: Non punire arbitrariamente i fratelli Il capitolo comincia col ribadire l'assoluta inammissibilità di un potere indebito, di atti arbitrari, di arroganza (c'è nel testo la famosa parola praesumptio). SB, in RB 23,4-5, ha parlato espressamente delle due pene: scomunica e battiture; qui ribadisce che può infliggerle solo che ne ha l'autorità. Certo, a noi appare un po' strano che un semplice monaco potesse così semplicemente scomunicare un altro!

4-5: Disciplina dei fanciulli SB torna ad occuparsi dei fanciulli. Nel monastero c'era una perfetta comunione di vita tra vecchi, adulti, adolescenti e fanciulli, i quali pregavano, mangiavano lavoravano, dormivano tutti insieme. Certamente la natura stessa porta a delle differenze di cui si tiene conto, com'è logico; anche la Regola fa oggetto di particolare attenzione vecchi e fanciulli (RB 37; cf. anche 22,7; 30; 45,3) e ha ordinato che i fanciulli siano sotto la vigilanza e la disciplina (RB 63,18-19) e che questa sia un'incombenza di tutti i monaci adulti (RB 63,9). In questo capitolo SB specifica ancora questa disposizione (vv. 4-5): per i fanciulli fino ai 15 anni, tutti i monaci si devono sentire educatori; si stabilisce così un'altra dimensione nelle relazioni fraterne: i monaci adulti siano educatori dei loro fratelli più piccoli. E si noti che SB raccomanda in ciò “mensura et ratio” (equilibrio e moderazione), qualità raccomandate all'abate nel suo esercizio di correzione (cf RB 64).

6-7: Pene per i trasgressori Chi usa senza discrezione, senza misura, la correzione nei confronti dei fanciulli, o chi si arroga il diritto nei confronti di altri monaci adulti, sia punito; e la motivazione SB la prende dall'assioma chiamato la “regola d'oro”, che in Mt 7,12 e in Lc 6,31 è in forma positiva (come in Tobia 4,15): “Non fare agli altri...”; la troviamo per la terza volta nella RB (qui, 4,9 e 16,4): cioè castigare i fratelli senza autorizzazione e i fanciulli senza discrezione sono mancanze contro la carità fraterna.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LXIX – Divieto di arrogarsi le difese dei confratelli

1 Bisogna evitare in tutti i modi che per qualsiasi motivo un monaco si provi a difendere un altro o ad assumerne in certo modo la protezione, 2 anche se ci fosse tra loro un qualsiasi vincolo di parentela. 3 I monaci si guardino assolutamente da un simile abuso, che può costituire una pericolosissima occasione di disordini o di scandali. 4 Se qualcuno trasgredisse queste norme, sia punito con la massima severità.

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Approfondimenti

Questo e il capitolo seguente sono un tutt'uno: parlano di due atteggiamenti opposti che possono gravemente disturbare le relazioni fraterne ed offendere la carità. Ci sono infatti nei monasteri dei temperamenti istintivi portati per natura ad assumersi il ruolo di “avvocato difensore” e di giustiziere; seguendo la propria indole, costoro si arrogano delle funzioni che non sono di loro competenza e possono turbare l'armonia della comunità con interventi senza discrezione. Il c. 69 condanna perciò con fermezza qualsiasi intervento di un monaco in difesa di un altro; il c. 70 stabilisce in modo deciso che la riprensione (grave e pubblica) e il castigo compete solo all'abate e a pochi altri autorizzati da lui. Dal punto di vista delle relazioni fraterne, potremmo dire che il c. 69 mette in guardia i monaci da comportamenti fuori luogo dettati da simpatia, il c. 70 da eccessi a cui può condurre l'antipatia e anche lo zelo immoderato. Su SB ci saranno stati, sì, degli influssi letterari della tradizione pacomiana, ma è stato detto – giustamente – che sono dettati soprattutto dall'esperienza. Il tono di particolare severità, l'asprezza delle espressioni, il citare il caso particolare della consanguineità in RB 69,2, fanno capire che SB ha in mente fatti concreti che gli erano capitati e che lo spinsero ad aggiungere questi due capitoli. Solo poche parole di commento.

1-4: Non difendere un altro Notiamo tre volte (titolo, v. 1, v. 3) il verbo praesumere (ardire, osare) che c'è spesso nella Regola per indicare l'usurpazione di un potere altrui (in questo caso il compito dei superiori). Il v. 3: “Possono nascere gravissime occasioni di scandali”. Notiamo la gravità delle parole “gravissime” e “scandali”. Dall'appoggio di un “avvocato” fuori posto, il monaco si sente incoraggiato a respingere un'obbedienza, a resistere contro l'abate e altri confratelli, ed ecco simpatie, antipatie, pettegolezzi, gelosie, discordie... Il v. 4: “Sia punito molto severamente”. Anche S. Pacomio in questi casi prescrive una riprensione severissima (Reg. 176) e S. Basilio è molto rigido, perché il fratello difeso indebitamente si confermava nella colpa.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LVIII – Le obbedienze impossibili

1 Anche se a un monaco viene imposta un’obbedienza molto gravosa, o addirittura impossibile a eseguirsi, il comando del superiore dev’essere accolto da lui con assoluta sottomissione e soprannaturale obbedienza. 2 Ma se proprio si accorgesse che si tratta di un carico, il cui peso è decisamente superiore alle sue forze, esponga al superiore i motivi della sua impossibilità con molta calma e senso di opportunità, 3 senza assumere un atteggiamento arrogante, riluttante o contestatore. 4 Se poi, dopo questa schietta e umile dichiarazione, l’abate restasse fermo nella sua convinzione, insistendo nel comando, il monaco sia pur certo che per lui è bene così 5 e obbedisca per amore di Dio, confidando nel Suo aiuto.

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Approfondimenti

Questo capitolo, uno dei più belli di tutta la Regola, fa parte della serie degli ultimi capitoli (67-73) propri di SB, i quali – secondo Delatte – possono considerarsi il testamento spirituale del santo Patriarca e sono interamente immersi nella luce di Dio e impregnati della sua dolcezza; e – secondo De Vogué, di altra generazione e di altra scuola – il capitolo 68 uno dei passi più caratteristici e più preziosi della RB; dopo tanti commenti conviene fermarsi ad ammirare la sua dottrina tanto ferma e insieme tanto armoniosa, tanto soprannaturale e insieme tanto umana. SB torna ad occuparsi dell'obbedienza sino alla fine della sua Regola. Non si tratta di una ritrattazione o rettifica di certe cose, come potrebbe dirsi in qualche modo del capitolo 64 rispetto al capitolo 2 per quanto riguarda l'abate; si tratta invece di una appendice, di una precisazione molto interessante.

Diversità dal capitolo 5 Ci troviamo di fronte a una caso estremo di obbedienza: come deve reagire in situazioni difficilissime il monaco desideroso di obbedire? A risolvere la questione ci si presenta un autore con un linguaggio e una mentalità certamente diversi dal capitolo 5; o non è la stessa persona o è talmente maturata in età, esperienza, saggezza da non sembrare la stessa. Si può dire, giustamente, che nel capitolo 5 l'obbedienza è messa a fuoco dal punto di vista dell'abate, mentre nel capitolo 68 dal punto di vista del discepolo. Tuttavia ciò non è sufficiente ad eliminare la distanza tra i due capitoli: nel primo una dottrina austera, esigente, teorica; nel secondo un insegnamento altrettanto soprannaturale e in fondo anche più esigente, però nello stesso tempo pieno di umanità, di comprensione, di finezza psicologica. È veramente una perla tra le più fini della RB, un capitolo meraviglioso non solo sotto l'aspetto dottrinale, ma anche letterario.

Fonti Non si trovano paralleli del capitolo 68 in quanto tale; niente del sapere e della mentalità del capitolo nella RM secondo la quale l'obiezione del fratello ad accettare ed eseguire immediatamente un ordine, merita subito la scomunica e la pena (RM 57,14-16). Si possono tuttavia considerare i seguenti testi: la Regola di S. Basilio 69; Pseudo-Basilio: Ammonizione al figlio spirituale 6; S. Cesario di Arles: Discorso 233,7; e sopratutto Cassiano: Istituzioni 4,10. Quest'ultimo, a proposito di monaci obbedienti, aggiunge che essi “non solo ricevono con fede e devozione comandi umanamente impossibili, ma si sforzano anche di adempierli senza alcuna esitazione del cuore, non misurando l'impossibilità per riverenza e sottomissione al loro seniore”. Probabilmente questo passo, con il richiamo alle cose impossibili, avrà ispirato SB; ma in esso manca completamente il processo psicologico-pedagogico, meravigliosamente descritto nel capitolo 68 della RB.

STRUTTURA di RB 68 Il capitolo non presenta difficoltà d'interpretazione; basta leggerlo e seguirlo parola per parola. È come un piccolo dramma, piccolo per durata ma grande per intensità e profondità, in tre atti:

  1. il monaco riceve un ordine estremamente difficile e lo accetta con perfetta docilità e sottomissione (v.1);
  2. se, soppesato il tutto, vede che sembra superare le sue forze, il monaco è autorizzato a presentare le ragioni della sua impossibilità (vv.2-3);
  3. se il superiore non cambia parere, il monaco sappia che gli conviene obbedire e obbedisca (vv.4-5)

1: Il caso difficile Nonostante la prudenza e la discrezione raccomandata da SB all'abate (specie nel capitolo 64), nonostante la retta intenzione del superiore di dare ordini ragionevoli, può anche avvenire che il comando appaia insopportabile. Gravia aut impossibilia: significa qualcosa di difficile o addirittura di impossibile. Difficile: significa “troppo pesante per le proprie forze”. Impossibile: non nel senso in cui allude Cassiano nel testo citato sopra (Ist. 4,10), cioè di cose che il superiore stesso conosce impossibili e comanda solo per provare il monaco e distruggere ogni attaccamento alla propria volontà, ma nel senso che paiono impossibili a chi li riceve. Si può notare inoltre che spesso una cosa sembra impossibile solo finché non la si fa. SB vuole che all'inizio, anche in casi così ardui per la debolezza umana, si riceva l'ordine con perfetta docilità e sottomissione.

2-3: dialogo filiale con il superiore Il monaco soppesa l'ordine ricevuto e conclude che veramente è superiore alle sue forze. Ed ecco allora il tocco paterno di SB e la larghezza del suo spirito: non si irrigidisce subito sulla esecuzione del comando, ma permette che il monaco suggerat (faccia presente) la sua difficoltà; la voce del monaco può illuminare anche il superiore e indurlo a modificare o a ritirare il comando. Però SB insiste: “con sottomissione e a tempo opportuno” – due qualità positive – “senza arroganza, puntiglio od opposizione – tre note negative –. È l'atteggiamento proprio dell'umiltà; anche il verbo “suggerat” indica il parlare sommesso e umile di chi accenna appena, fa presente con calma.

4-5: Obbedienza eroica per amore Ma anche dopo l'esposizione delle difficoltà, il superiore può avere ancora le sue valide ragioni per persistere nell'ordine dato. È il momento in cui viene messo alla prova tutto il fondo soprannaturale che ispira l'obbedienza, è il momento della fede di Abramo, dell'obbedienza eroica. “Sappia...” Con questo verbo SB introduce un'ammonizione di grave importanza. Ricordi bene il monaco che, nonostante tutto, gli conviene abbracciare la via dell'obbedienza: la mente si ribella, il cuore sanguina, ma Dio può chiedere questa testimonianza d'amore.

Bello il v. 5, anche letterariamente, pare quasi ritmato a tre cadenze: et ex caritateconfidens de adiutorio Deioboediat. “E per amore” – “confidando nell'aiuto di Dio” – “obbedisca”.

  • per amore: l'amore rende possibile e meritorio tutto. SB ha già detto nel capitolo 5 che l'obbedienza è propria di quelli che non hanno nulla più caro di Cristo, e che sono incalzati dall'amore per la vita eterna.
  • confidando nell'aiuto di Dio: allo scoraggiamento viene in soccorso la fiducia che Dio è vicino per sorreggere e aiutare.
  • obbedisca: bellissimo questo “obbedisca”, alla fine: sembra un grido di vittoria.

CONCLUSIONE Senza togliere nulla alla dottrina dell'obbedienza, SB in questo capitolo l'ha umanizzata e posta al livello del cuore del discepolo. Un momento nuovo – il suggerat (faccia presente) – si è introdotto nello schema dell'obbedienza e conferisce a questa un valore più alto, quello dell'atto compiuto in piena luce in cui il superiore e il suddito agiscono ormai ambedue in piena conoscenza di causa. La considerazione della persona del monaco e della impossibilità soggettiva da lui sperimentata approfondisce e arricchisce il tema dell'obbedienza, dà luogo a un approfondimento psicologico, a uno sforzo educativo che prende come punto di partenza la ripugnanza interiore e la trasforma in profitto spirituale per il monaco (De Vogué).

È facile osservare quanto la prospettiva di SB sia conforme agli insegnamenti del Vaticano II. Non si nomina Cristo in tutto il capitolo. Però sappiamo che l'obbedienza perfetta che insegna la RB non vuole essere una prodezza ascetica; tutta la sua forza proviene dall'esempio di Cristo.

H.U. Von Balthasar fa notare la presenza, invisibile ma certa, di Gesù Cristo in questo luogo. «Solo l'esempio di Cristo – ha scritto – giustifica il mirabile capitolo 68 di SB. Dato che il Padre chiese al Figlio cose impossibili – che prendesse su di sé tutto ciò che presso Dio è impossibile, esecrabile, cioè il peccato – il Figlio muore sulla croce. Però prima il Figlio espose al Padre le ragioni della sua impossibilità ad obbedire: “Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice. Però non come voglio io, ma come vuoi tu” (Mt 26,39). Se il monaco, secondo la Regola, presenta al superiore umilmente, senza atteggiamento di contraddizione, i motivi della sua ripugnanza all'ordine ricevuto, non fa altro che seguire l'esempio di Cristo nel Getsemani; e se, nonostante l'abate mantiene il suo ordine, il monaco obbediente seguirà Cristo fino alla croce». (H.U. Von Balthasar)

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LXVII – I monaci mandati in viaggio

1 I monaci, che sono mandati in viaggio, si raccomandino alle preghiere di tutti i confratelli e dell’abate; 2 e nell’orazione conclusiva dell’Ufficio divino si ricordino sempre tutti gli assenti. 3 Quelli, poi, che rientrano, nel giorno stesso del loro ritorno si prostrino in coro al termine di tutte le Ore canoniche, 4 implorando dalla comunità una preghiera per riparare le mancanze eventualmente commesse durante il viaggio, guardando o ascoltando qualcosa di male o perdendosi in chiacchiere. 5 E nessuno si permetta di riferire ad altri quello che ha visto o udito fuori del monastero, perché questo sarebbe veramente rovinoso. 6 Se poi qualcuno si provasse a farlo, sia sottoposto al castigo previsto dalla Regola. 7 Allo stesso modo sia punito chi osasse oltrepassare i confini del monastero o andare in qualunque luogo o fare qualsiasi cosa, sia pur minima, senza il consenso dell’abate.

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Approfondimenti

Norme per i fratelli in viaggio I viaggi senza dubbio sono inevitabili. È curioso notare che proprio immediatamente dopo il c. 66 che insiste rigorosamente nulla necessità di rimanere in monastero, il primo dei capitoli aggiunti (ricordiamo che i cc. 67-73 sono stati aggiunti dopo la prima redazione della Regola che terminava al c. 66) parla dei fratelli mandati in viaggio. Necessità di apostolato, di carità, di interessi del monastero e anche di famiglia possono esigere che i fratelli viaggino. RB. 67 si limitava comunque a far notare i pericoli spirituali a cui può andare incontro il monaco fuori del suo ambiente più naturale, e SB richiama continuamente l'aiuto soprannaturale. I partenti si raccomandano alla preghiera della comunità (v. 1); essi poi durante l'assenza vengono ricordati alla fine dell'ufficio (v. 2: questo si fa ancor oggi con il “Divinum auxilium...); al ritorno chiedono perdono delle eventuali colpe commesse fuori (vv. 3-4). In questo contesto si comprende la prescrizione seguente (vv. 5-6), di non riferire le cose viste o udite fuori ai fratelli rimasti dentro, sempre per evitare il pericolo di far entrare la mentalità del mondo nel monastero. Il v. 7 aggiunge la pena regolare per chi esce dal monastero senza il permesso dell'abate, o per chi compie qualsiasi cosa (l'interpretazione secondo il contesto sembra essere: qualsiasi cosa fuori dal monastero), senza il permesso dell'abate. Il santo Patriarca non perde occasione per riaffermare l'autorità del “padre del monastero”. Tuttavia SB non prescrive niente di straordinario: i Regolamenti di Pacomio hanno disposizioni molto simili. Anche per questo brano va tenuto conto, oggi, della nostra situazione diversa; va interpretato secondo quanto già detto al capitolo precedente.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LXVI – I portinai del monastero

1 Alla porta del monastero sia destinato un monaco anziano e assennato, che sappia ricevere e riportare le commissioni e sia abbastanza maturo da non disperdersi, andando in giro a destra e a sinistra. 2 Questo portinaio deve avere la sua residenza presso la porta, in modo che le persone che arrivano trovino sempre un monaco pronto a rispondere. 3 Quindi, appena qualcuno bussa o un povero chiede la carità, risponda: «Deo gratias!» oppure: «Benedicite!» 4. e con tutta la delicatezza che ispira il timor di Dio venga incontro alle richieste del nuovo arrivato, dimostrando una grande premura e un’ardente carità. 5 Lo stesso portinaio, se ha bisogno di aiuto, sia coadiuvato da un fratello più giovane. 6 Il monastero, poi, dev’essere possibilmente organizzato in modo che al suo interno si trovi tutto l’occorrente, ossia l’acqua, il mulino, l’orto e i vari laboratori, 7 per togliere ai monaci ogni necessità di girellare fuori, il che non giova affatto alle loro anime. 8 Infine vogliamo che questa Regola sia letta spesso in comunità, perché nessuno possa giustificarsi con il pretesto dell’ignoranza.

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Approfondimenti

Il monastero nella primitiva tradizione era considerato come un luogo chiuso, separato dal mondo, costituito – secondo la RM – da “santi”, da “fratelli spirituali” che non si debbono mescolare ai secolari. I fratelli perciò vivevano tutta la loro vita nei “recinti” del monastero, ai margini della vita del mondo. Così per anacoreti e cenobiti, cominciando dai pacomiani. Tuttavia anche per il monastero di RM e di RB, alcune relazioni con l'esterno sono inevitabili: accogliere poveri e pellegrini, quindi l'importanza dell'ufficio del portinaio (RB 66), ricevere tutti gli ospiti (RB 53 e 56), uscire per breve tempo per qualche commissione (RB 51) o anche per viaggi più lunghi (RB 67). Il capitolo sui portinai del monastero ci testimonia – come si è detto – di tutta una mentalità sulla concezione del monastero come unità auto-sufficiente, separato dal mondo, ecc. Difatti non si limita a tracciare le qualità del portiere (vv. 1-5), ma ricorda che il cenobio deve essere organizzato con ogni cosa all'interno (vv. 6-7); una nota finale prescrive la lettura frequente della Regola in comunità (v.8).

1-5: Persone e ufficio del portinaio L'ufficio del portinaio, secondo la Regola, è molto importante e delicato: il portinaio è intermediario tra il monastero e il mondo, è il guardiano della pace dei monaci e, nello stesso tempo, il rappresentante della comunità; il primo contatto della gente col monastero avviene attraverso il portinaio, anzi a volte (almeno nelle brevi visite, non in caso di ospitalità), egli è il solo monaco avvicinato e conosciuto; spesso dal suo modo di rispondere e di trattare dipende l'edificazione degli estranei e il buon nome del monastero. Gli antichi davano grande importanza a tale ufficio e sceglievano per esso i migliori monaci. A Montecassino SB spesso fu trovato a leggere presso la porta (II Dial. 31); e lì pure S .Willebaldo (sec. VIII) fu per parecchi anni portinaio.

La Regola enumera alcune qualità: saggezza, assennatezza, prontezza e sollecitudine nel rispondere “con tutta gentilezza e fervore di carità”. Si parla di “saggio” come per l'abate (RB 27,2; 28,2), per il celleraio (RB 31,1), per il foresterario e in generale per quanti amministrano la “casa di Dio” che è il monastero (RB 53,22). Notiamo che alla fine del v. 1 alcuni codici danno vagari, altri vacari, e il senso sarebbe: “la cui età non gli permetta di rimanere “ozioso” (vacari); oppure: “la cui età matura non gli permetta di andare gironzolando” (vagari).

Nota per l'oggi Oggi molti monasteri per l'ufficio di portinaio viene assunto un laico; però nella riscoperta che oggi si sta facendo del monastero come luogo di accoglienza, non sarebbe male ripensare la cosa e rifare all'ufficio del portinaio quel posto delicato e importante che gli dà la Regola. Così pure sarà bene rieducare tutti alla disponibilità e gentilezza nel rispondere alla porta e al telefono; anche rispondere subito e con delicatezza al telefono può essere oggi un'ottima forma di accoglienza.

6-7: Clausura Già alla fine del c. 4 SB ha ricordato che tutti gli strumenti dell'arte spirituale enumerati vanno usati nell'“officina” che è il recinto del monastero e la stabilità. Perciò ora aggiunge che il cenobio deve essere provvisto di tutto il necessario – enumera difatti alcune cose principali – per ridurre al minimo le uscite, “cosa questa che non giova affatto alle loro anime” (v. 7). (La frase riecheggia alcune espressioni della “Historia Monachorum in Aegypto”). Ricordiamo anche come SB ha parlato male dei monaci girovaghi (RB 1,10-11). Già Antonio il Grande diceva che “un monaco fuori del monastero è come un pesce fuor d'acqua” (Vita, 85; Apoftegmi, Antonio, 10).

Nota per l'oggi Certamente l'evoluzione storica, le circostanze, il ritmo di vita diverso, i segni dei tempi, ecc., inducono a una rilettura di questo brano e a una concezione diversa dei contatti con l'esterno. Oggi non è più possibile, e neanche opportuno, organizzarsi in un sistema economico chiuso e in una vita completamente avulsa dal contesto sociale ed ecclesiale. Però non è fuori di luogo richiamare a noi il principio generale che i monaci devono abitualmente stare in monastero. E questo non come indizio di una mentalità ristretta e meschina (che potrebbe affiorare in noi) che il “mondo” è la sentina di tutti i vizi e il monastero il luogo dei santi, dei puri, cosa che non è nello spirito di SB e della genuina tradizione monastica. Nei Detti dei Padri, spesso si trova il fatto del santo eremita, vissuto per lungo tempo nella solitudine, a cui viene rivelato che in città c'era un semplice e comune artigiano che era più santo di lui; e Gregorio ci presenta SB avere dei rapporti semplici e liberi con le persone di fuori. Si tratta semplicemente di coerenza con il proprio stato di vita: una certa separazione dal mondo può considerarsi come una componente essenziale della professione monastica, ma naturalmente la cosiddetta “fuga-mundi” deve essere rettamente intesa. Per quanto possa sembrare paradossale, questo modo di essere tutto di Dio senza alcun pensiero in cuore al di fuori di quello della sua presenza è il modo più pieno e assoluto di essere tutto dei fratelli. “Monaco è colui che è separato da tutti e unito a tutti”, dice Evagrio. E per irradiare genuinamente Cristo (anche nel lavoro pastorale, per alcuni monasteri) il modo migliore è questa fedeltà a un certo distacco, a una certa separazione, a una vita “più nascosta in Dio”.

8: Prescrizione di leggere la Regola in comunità Questa nota finale prescrive la lettura frequente della Regola in pubblico, anche se non specifica i modi e i tempi. Secondo la RM (RM 24,15), tale lettura si faceva a refettorio durante il pasto. Da questa finale si deduce che qui terminava la prima stesura della RB: difatti RB 66 corrisponde a RM 95, sempre sui portinai, che è l'ultimo capitolo della RM.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LXV – Il priore del monastero

1 Accade spesso che la nomina del priore dia origine a gravi scandali, 2 perché alcuni, gonfiati da un maligno spirito di superbia e convinti di essere altrettanti abati, si attribuiscono indebitamente un potere assoluto, fomentando litigi, creando divisioni nelle comunità, 3 specialmente in quei monasteri nei quali il priore viene nominato dallo stesso vescovo o dagli stessi abati a cui spetta l’elezione dell’abate. 4 È facile rendersi conto dell’assurdità di una simile procedura, con cui si dà motivo al priore di insuperbirsi fin dal primo momento della sua nomina, 5 perché la considerazione di questo stato di cose può insinuare in lui l’idea di non essere più soggetto all’autorità dell’abate. 6 «Tu pure – dirà a se stesso – sei stato nominato da quelli che hanno eletto l’abate». 7 Di qui nascono invidie, liti, maldicenze, rivalità, divisioni e disordini di ogni genere, 8 per cui, mentre l’abate e il priore sono in disaccordo, le loro anime vengono necessariamente a trovarsi in pericolo a motivo di questo contrasto 9 e i loro sudditi, parteggiando per l’uno o per l’altro, vanno in perdizione. 10 La responsabilità di questa perniciosa situazione ricade principalmente sugli autori di tanto disordine. 11 Quindi, per la tutela della pace e della carità ci è sembrato necessario far dipendere l’ordinamento del monastero unicamente dalla volontà del suo abate. 12 E, se è possibile, tutte le attività del monastero siano regolate – come abbiamo già stabilito in precedenza – per mezzo di decani, secondo quanto disporrà l’abate, 13 in modo che, ripartendo l’autorità fra varie persone, non si dia motivo a uno solo di insuperbirsi. 14 Ma se le condizioni locali lo esigono o la comunità lo chiede umilmente e con ragioni fondate e l’abate lo giudica opportuno, 15 nomini egli stesso priore quel monaco che avrà scelto con il consiglio di fratelli timorati di Dio. 16 Il priore, da parte sua, esegua con reverenza gli ordini del suo abate e non faccia nulla contro la volontà o le disposizioni di lui, 17 perché quanto più è stato elevato al di sopra degli altri, tanto maggior impegno deve dimostrare nell’osservanza delle prescrizioni della Regola. 18 Se poi questo priore si rivelerà pieno di difetti o, lusingato dalla vanità, monterà in superbia o darà prova manifesta di disprezzare la santa Regola, sia ammonito a voce per quattro volte, 19 ma, nel caso che non si corregga, si prenda nei suoi confronti il provvedimento disciplinare previsto dalla Regola. 20 Se neppure così si ravvederà, sia deposto dalla carica di priore e sostituito da un altro che ne sia degno. 21 E se in seguito non intenderà starsene quieto e sottomesso in comunità, sia addirittura espulso dal monastero. 22 Ma l’abate, da parte sua, si ricordi sempre che un giorno dovrà rendere conto a Dio di tutte le sue decisioni, per evitare che la fiamma dell’invidia e della gelosia gli divori l’anima.

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Approfondimenti

SB (RB 31) ha messo tutto il suo cuore a delineare con cura la figura del cellerario ideale, il più prezioso collaboratore dell'abate, che pensa alle necessità materiali – ma come ufficio spirituale – dei monaci, degli ospiti, dei poveri. Parlando del preposito, un altro stretto collaboratore dell'abate, SB diventa veemente e duro; non solo perché deve denunciare gravi disordini a tale riguardo nel monachesimo del tempo, ma proprio perché non sente – è chiaro – nessuna simpatia per tale ufficio; nella RB il preposito è, insomma, un collaboratore dell'abate poco desiderabile e nulla affatto desiderato.

La parola “praepositus” (=posto prima... degli altri) designava il capo – supremo o subalterno – il primo del gruppo. Nella tradizione monastica era talvolta chiamato così l'abate stesso (S. Basilio, Cassiano Inst. 6,27; Coll. 20,1). Nel secolo VI era chiamato preposito il “secondo” (veniva usato anche il termine “secundus”), il luogotenente dell'abate, il cui ufficio, anche se con nomi diversi, era tradizionale nel cenobitismo (Pacomio, Basilio, Cesario, ecc.). In II Dial. 22 Gregorio narra, a proposito del nuovo costruendo monastero di Terracina, che SB nominò “il padre” (l'abate) e “chi gli doveva fare da secondo”.

L'organizzazione del cenobio prevista da SB è quella di tipo pacomiano con i decani (come in RB 21): in seguito SB si sarà dovuto adattare alla tradizione forse più corrente nell'ambiente italiano; ma è chiaro che lo fa di malavoglia, costretto dalle circostanze e scrive questa pagina che irrompe nella Regola violenta e inaspettata, subito dopo il c. 64 sull'elezione dell'abate, così carico di umanità e di delicatezza. La comunità è già stata organizzata in decanie; il nome stesso di preposito appare solo di sfuggita in 21,7 – che è chiaramente un'aggiunta – e in 62,7 (anche qui pare un'aggiunta). Invece ora dedica al preposito un capitolo intero abbastanza lungo.

1-10: Disordini nell'elezione del priore La prima parte del capitolo presenta uno stile così vivace e un tono di sì vigorosa indignazione da far pensare a un'esperienza che più di una volta avrà amareggiato l'animo di SB. Abbiamo un quadro molto fosco: gravi e frequenti scandali nei monasteri (v. 1); prepositi gonfi di superbia, tirannici (v. 2); invidie, liti, divisioni in partiti (vv. 2.7.9)... Da dove provengono queste disgrazie? SB ne segnala senza esitazione la fonte: l'assurdità che commettevano certi vescovi o abati, ordinando il preposito nello stesso tempo in cui ordinavano l'abate. Si sente al v. 4 che l'espressione è forte e nervosa. Si noti al v.6 il brusco passaggio di discorso diretto (non sempre reso, purtroppo, nelle traduzioni) che dà vivacità alla trattazione: è l'orgoglio che suggerisce al priore questo pensiero: “anche tu sei stato stabilito in carica da quegli stessi che hanno stabilito l'abate!”.

11-15: Disposizioni sulla nomina del priore Per evitare perciò abusi e per l'unità del monastero, SB dà all'abate il diritto di organizzare il cenobio come meglio crede. Si noti la frase, che è caratteristica della Regola benedettina: “tutta l'organizzazione del monastero dipende dall'abate” (v. 11). (Si pensi anche a tutte le restrizioni apportate oggi dalla Chiesa e dalla mentalità nuova, con poteri al capitolo di famiglia, la corresponsabilità, ecc...).

SB preferisce il sistema dei decani (vv. 12-13); però deve ammettere anche la nomina del priore, ma lo fa con una serie di condizioni restrittive: “se le condizioni locali lo richiedono, se la comunità ne fa umilmente richiesta e se l'abate lo giudica utile” (v. 14) e sopratutto è lui, l'abate, che, sia pur consigliandosi, sceglie liberamente il suo priore (v. 15).

16-22: Ammonizioni al priore Si enumerano quindi pochi doveri del nuovo funzionario. In realtà SB si limita ad inculcargli con energia la riverenza e l'assoluta obbedienza all'abate (v. 16) e l'osservanza più esatta della Regola (v.17). Passa invece a descrivere minuziosamente il processo di riprensione nel caso di un priore superbo, fino alla sospensione dall'ufficio, dopo quattro ammonizioni, e addirittura fino all'espulsione dal monastero (vv. 18-21). Leggendo queste righe così insolitamente severe, si ha l'impressione che SB prevede che tali casi possono succedere con frequenza. Al v. 22 c'è però una clausola per l'abate: la lite e le passioni di parte potrebbero offuscare anche il giudizio dell'abate; SB che vuole così alto e retto il padre del monastero, non ignora che anche lui è un uomo; e gli ricorda – al solito – il rendiconto a Dio. E così il capitolo 65 non parla tanto del priore – come gli altri capitoli che trattano dell'abate e degli altri officiali del monastero – ma parla piuttosto contro il priore; cioè SB denigra talmente questo ufficio, quasi per scoraggiare dal metterlo in atto, preferendo sempre l'organizzazione per decani.

Evoluzione storica Storicamente il sistema priorale – malgrado questo capitolo di SB – finì col prevalere su quello decanale! Nel medioevo fu detto “praepositus” anche il monaco che presiedeva all'amministrazione temporale; “prior” invece l'addetto alla disciplina conventuale. Oggi il “praepositus” della RB si suole chiamarlo “priore”, e più precisamente “priore claustrale” (dove c'el'abate), perché a lui è affidata la disciplina interna del monastero; è chiamato così per distinguerlo dal "priore conventuale" che è capo di un monastero _sui iuris_ senza avere la dignita abbaziale.

Conclusione sui collaboratori dell'abate Secondo la RB i principali collaboratori dell'abate sono dunque i decani (c. 21), il cellerario (c. 31), il priore (c. 65) con cui l'abate possa condividere i suoi pesi (ma naturalmente ci sono anche altri officiali nel monastero: maestro dei novizi, portinaio, foresterario, ecc...). La più grande importanza per la pace e la tranquillità del cenobio SB la annette al cellerario, la cui figura morale tratteggia con singolare predilezione: un buon economo, fidato, prudente, caritatevole, umile, libererà l'abate da una parte particolarmente dura delle sue responsabilità (quella materiale ed economica), in modo che egli possa dedicarsi pienamente al servizio spirituale dei fratelli.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LXIV – L’elezione dell’abate

1 Nell’elezione dell’abate bisogna seguire il principio di scegliere il monaco che tutta la comunità ha designato concordemente nel timore di Dio, oppure quello prescelto con un criterio più saggio da una parte sia pur piccola di essa. 2 Il futuro abate dev’essere scelto in base alla vita esemplare e alla scienza soprannaturale, anche se fosse l’ultimo della comunità. 3 Se invece, – non sia mai! – la comunità eleggesse, sia pure di comune accordo, una persona consenziente ai suoi abusi, 4 e il vescovo della diocesi o gli abati o i fedeli delle vicinanze ne venissero comunque a conoscenza 5 devono impedire in tutti i modi che il complotto di quegli sciagurati abbia il sopravvento e nominare un degno ministro della casa di Dio, 6 ben sapendo che ne riceveranno una grande ricompensa, mentre invece sarebbero colpevoli, se non se ne curassero. 7 Il nuovo eletto, poi, pensi sempre al carico che si è addossato e a chi dovrà rendere conto del suo governo 8 e sia consapevole che il suo dovere è di aiutare, piuttosto che di comandare. 9 Bisogna quindi che sia esperto nella legge di Dio per possedere la conoscenza e la materia da cui trarre «cose nuove e antiche», intemerato, sobrio, comprensivo 10 e faccia «trionfare la misericordia sulla giustizia», in modo da meritare un giorno lo stesso trattamento per sé. 11 Detesti i vizi, ma ami i suoi monaci. 12 Nelle stesse correzioni agisca con prudenza per evitare che, volendo raschiare troppo la ruggine, si rompa il vaso: 13 diffidi sempre della propria fragilità e si ricordi che «non bisogna spezzare la canna già incrinata». 14 Con questo non intendiamo che l’abate debba permettere ai difetti di allignare, ma che li sradichi – come abbiamo già detto – con prudenza e carità, nel modo che gli sembrerà più conveniente per ciascuno, 15 e cerchi di essere più amato che temuto. 16 Non sia turbolento e ansioso, né esagerato e ostinato, né invidioso e sospettoso, perché così non avrebbe mai pace; negli stessi ordini sia previdente e riflessivo e, tanto se il suo comando riguarda il campo spirituale, quanto se si riferisce a un interesse temporale, proceda con discernimento e moderazione, tenendo presente la discrezione del santo patriarca Giacobbe, che diceva: «Se affaticherò troppo i miei greggi, moriranno tutti in un giorno». 17 Seguendo questo e altri esempi di quella discrezione che è la madre di tutte le virtù, disponga ogni cosa in modo da stimolare le generose aspirazioni dei forti, senza scoraggiare i deboli. 18 E soprattutto osservi e faccia osservare integramente la presente Regola per potersi sentir dire dal Signore, al termine della sua onesta gestione, le parole udite dal servo fedele, che a tempo debito distribuì il frumento ai suoi compagni: 19 «In verità vi dico: – dichiara Gesù – gli diede potere su tutti i suoi beni».

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Approfondimenti

Nulla aveva detto il capitolo 2° sulla elezione dell'abate. Se ne parla in questo capitolo 64, il cui titolo corrisponde solo alla prima parte del testo (vv. 1-6), mentre la seconda parte, molto più lunga (vv. 7-22) contiene un nuovo direttorio abbaziale sulle qualità e caratteristiche dell'abate, in parte simili, in parte diverse dal capitolo 2°.

Non è facile interpretare i vari termini che compaiono nel testo. I verbi-chiave sono: ordinare, constituere ed eligere, che si possono rendere in italiano con: scegliere, eleggere, designare, elevare, costituire. La RB non spiega il senso preciso di queste parole, né come si realizzava ciò che esse significano. Si può dire che per SB l'elezione di un abate è un avvenimento sopratutto spirituale che viene dall'alto, non tanto giuridico; quindi non vuole imporre a Dio delle regole fisse. Ciò che importa è che si nomini una persona degna. Inoltre, si ritiene oggi che quando un legislatore monastico non è molto esplicito e chiaro nel definire qualche punto, lo fa perché dà la cosa come scontata, ben conosciuta e rimanda alla norma comune.

Nel secolo VI i modi di designazione erano diversi, se ne conoscevano almeno sei: il nuovo abate poteva essere nominato dal predecessore, dagli abati della regione, dal vescovo locale, dal vescovo metropolita o dal patriarca, dal signore del luogo (feudatario, conte, duca...) o, a volte, da un gruppo di persone particolarmente qualificate. In questi casi l'elezione da parte di tutta la comunità poteva significare solo l'accettazione di una designazione già fatta da una autorità.

PRIMA PARTE: vv. 1-6

Procedura per l'elezione dell'abate Secondo la RM, era l'abate prossimo alla morte che sceglieva il successore. SB accetta invece un modo che rimontava alle origini del cenobitismo: la comunità di comune accordo sceglie un nuovo capo (questa prassi era prevista e approvata dalle leggi ecclesiastiche e civili); ma comune accordo “secondo il timore di Dio”, cioè seguendo il criterio unicamente valido per il superiore (v. 2), il quale deve essere persona degna e con tutte quelle qualità elencate nei capp. 2 e 64,7-22.

Importanza del vescovo nell'elezione SB non offre particolari sul meccanismo elettorale. Nel caso in cui nessuno dei monaci riceva un suffragio unanime, cioè nel caso di una comunità divisa, l'intenzione di SB è che sia preferito il candidato scelto dalla parte più sana e spirituale della comunità, per quanto piccola di numero possa essere. Ma come si fa a stabilire qual'è questa “parte più sana”? Potevano essere senza dubbio quelli che avevano condiviso parte di responsabilità con l'abate precedente: i superiori subalterni, i decani o i “seniori” spirituali. Nel caso anche qui di dubbio (o di discordia), si deve supporre, come appare in maniera evidente dal contesto seguente, che era il vescovo, abitualmente o occasionalmente coadiuvato dagli abati vicini, che doveva giudicare quale fosse la parte più stimabile della comunità e preferire il suo candidato.

Due garanzie: vita santa e soda dottrina Quello che importa per SB è che l'eletto offra garanzia di una vita irreprensibile e di una dottrina sicura, anche se fosse l'ultimo nell'ordine della comunità (v. 2); una clausola, questa, molto originale per le consuetudini del tempo in cui le elezioni tenevano conto, è vero, del merito personale, ma anche (e a volte sopratutto!) del rango del candidato. In ogni caso né il vescovo diocesano, negli abati della regione, né i cristiani del luogo dovevano permettere che si designasse un abate indegno, complice dei vizi dei monaci, anche se fosse stato eletto all'unanimità (si pensi ai monaci di Vicovaro, Dial. II,2). È notevole l'energia di SB in questo passo (vv. 3-6): non ha paura dell'ingerenza di estranei al monastero, anzi la sollecita; da qui possiamo capire che il monastero di allora non era fuori dal contesto e dall'organizzazione della Chiesa locale: l'ultima parola, appare chiaro, spettava al vescovo della diocesi; anche nel caso della scelta unanime della comunità essa non costituiva definitivamente il candidato nel suo ufficio, equivaleva ad una “presentazione” che poi veniva ratificata dalla competente autorità ecclesiastica; il vescovo, cioè, decideva se l'eletto era degno di governare “la casa di Dio” (v. 5). In tutto il capitolo il termine “ordinare” significa l'atto legale con cui uno viene di fatto immesso in un ufficio. Dalla RM e da alcune lettere di S. Gregorio, si può arguire che l'atto ufficiale con cui il nuovo abate veniva insediato dal vescovo nel suo nuovo ufficio, si compiva in maniera solenne e probabilmente durante la celebrazione dell'Eucarestia. Non si tratta ovviamente di una ordinazione sacramentale, ma solo di una benedizione abbaziale che è come un sacramentale; ma non si sa bene in che cosa consistesse; forse in orazioni da parte del vescovo sopra il nuovo eletto. Il documento liturgico più antico che offre un formulario di ordinazione o benedizione dell'abate è il Sacramentario Gregoriano (sec. VI): consta di una sola orazione, chiaramente ispirata al capitolo 2° della RB.

L'elezione dell'abate nel corso dei secoli Nel corso dei secoli, come si sa, non sono mancati gravi abusi nell'elezione dell'abate, come all'infelice tempo della commenda o della intromissione di principi o di altri laici. Le reazioni a questi abusi portarono a una dottrina canonica in cui sono precisati dal diritto generale e particolare (dalle Costituzioni delle singole congregazioni) le norme per l'elezione, la procedura, la durata in carica, ecc.

Durata dell'ufficio abbaziale Secondo la RB è chiaro che l'abate è a vita e, essendo ogni monastero autonomo, viene eletto nell'ambito della propria comunità. Con il raggruppamento di monasteri in congregazioni o per motivi storici o per la nascita di famiglie monastiche con una organizzazione centralizzata, qualcosa e cambiato. Anche nei grandi monasteri “sui iuris” non sempre l'abate è tratto dalla stessa comunità (ma anche da altri monasteri delle stessa congregazione o federazione); inoltre, con il cambiamento della mentalità e anche per volontà della Chiesa (che invita i vescovi a dimettersi a 75 anni d'età) molte congregazioni monastiche prevedono ora, in occasione della visita canonica, una procedura che invita l'abate a dimettersi; altre congregazioni preferiscono un abbaziato temporaneo o superiori nominati per un tempo breve. Anche le grandi abbazie che conservano ancora l'abate a vita si pongono oggi il problema. Tutto questo, naturalmente, ha mutato la figura tradizionale dell'abate come è nella Regola di S. Benedetto.

SECONDA PARTE: vv. 7-22

Nuovo direttorio abbaziale I vv. 7-22 contengono un'esortazione al nuovo abate che entra nel suo ufficio, non solo riguardo ai suoi obblighi, ma anche riguardo a ciò che deve essere – o cerca di essere – egli stesso. Per la RM l'unico criterio per l'elezione di un abate era la perfezione personale che uno aveva raggiunto: a chi deve insegnare l'arte spirituale si richiede che la sappia praticare meglio di tutti. Invece la RB in questa nuova esortazione parla all'abate delle qualità umane, del carisma della direzione delle anime, delle doti del pastore. Abbiamo così un nuovo direttorio abbaziale, che è un completamento, una aggiunta, una ratifica anche, con il suo accento più affettuoso e paterno, con il tono di maggiore discrezione e benignità, frutto senz'altro di esperienza personale. È una stupenda pagina di letteratura cristiana in cui si armonizza la saggezza di un profondo conoscitore delle anime e l'ispirazione soprannaturale di prudenza e carità; vi aleggia lo stile delle lettere pastorali di S. Paolo e quello delle esortazioni liturgiche agli ordinandi.

SCHEMA DELLA SECONDA PARTE del cap. 64 Lo schema e` abbastanza lineare: alla introduzione (v. 7) corrisponde la conclusione (vv. 21-22) che trattano di uno stesso tema: rendiconto a Dio, prospettiva escatologica; alla breve raccomandazione di quattro qualità positive (v. 9) corrisponde l'avvertenza contro le sue qualità negative (v. 16). Si noti che nella RM non si parla mai di eventuali difetti dell'abate, il quale deve essere più avanti di tutti nella perfezione. Al relativamente lungo commento sulla correzione dei difetti (vv. 12-15) corrisponde il commento sul modo di governare (vv. 17-19); la raccomandazione di far osservare la Regola (v. 20) è la conseguenza di tutto quanto precede e annuncia la conclusione. È quindi una costruzione ben combinata. Vediamo il contenuto.

7-8: Coscienza della sua responsabilità SB insiste, con la ripetizione di parole simili (pensi, si ricordi, sappia), sulla coscienza della sua responsabilità che l'abate deve avere. È un tema già molto sviluppato nel primo direttorio abbaziale (vedi RB 2,6-7; 2,34; 2,37-38). Sappia che deve giovare più che dominare prodesse magis quam praeesse: una bella massima con efficace giuoco di parole prese da S. Agostino (Discorso 340,1 e altrove) che forse era di uso comune ai tempi di SB.

9-10: Qualità positive Delle quattro qualità positive elencate in questo passo (dottrina, intemeratezza, sobrietà, misericordia), la prima e la quarta sono seguite da un piccolo commento.

9: Sia dotto nella legge divina... L'abate sia istruito nella legge di Dio, perché il primo elemento della sua opera di bene è l'insegnamento delle cose divine. SB ha già insistito nel capitolo 2 su tale compito dell'abate, la cui dottrina deve infondere nel cuore dei discepoli un fermento di giustizia divina (RB 2,5; cf. anche RB 2,11-15); “... perché sappia da dove trarre insegnamenti nuovi e antichi” (l'espressione latina “nova et vetera” è una citazione di Mt 13,52): sono gli insegnamenti che non mutano e le applicazioni che cambiano ogni giorno, le regole che sono eterne e gli ammonimenti che si adattano a ciascun individuo.

Sia casto, sobrio, misericordioso: richiamo all'elenco delle qualità del vescovo in S. Paolo (cf. per es. 1Tim 3,2). L'ultima qualità, la misericordia, è seguita da un commento. SB raccomanda all'abate di preferire la misericordia alla giustizia (citazione di Gc 2,13), “affinché egli stesso possa ottenere un trattamento simile” (chiarissima allusione a due passi del Vangelo: Mt 5,7; Mt 7,2).

11-15: Indulgenza e amore nella correzione Nella medesima linea della misericordia, abbiamo un'altra sentenza lapidaria frequente in S. Agostino (Discorso 49,5 e altrove), con l'invito a non cessare di amare i fratelli mentre detesta i vizi: oderit vitia, diligat fratres (detesti i vizi, ami i fratelli).

12: ne quid imis La massima precedente “oderit vitia, diligat fratres” conduce SB a trattare del modo di agire nella correzione, che è uno dei temi capitali del codice monastico, con l'insistenza sulla moderazione: ne quid nimis (senza eccedere). La sentenza classica (era attribuita a uno dei sette sapienti) ispira il senso del giusto mezzo e della discrezione. Forse SB la ricordava dalla scuola giovanile; però in seguito il ricorso alla Scrittura (Is 42,3: che “non si deve spezzare la canna già incrinata” del v. 13) eleva la massima dal semplice piano naturale alla imitazione di Gesù stesso (cf. Mt 12,20 dove la citazione di Isaia è applicata a Gesù). In nessun altro testo appare, come qui, il carattere di ritrattazione o di rettifica del capitolo 64 rispetto al capitolo 2. Abbiamo visto come nel primo direttorio abbaziale SB invita l'abate a estirpare dalle radici, appena cominciano a spuntare, i difetti dei fratelli (RB 2,26); se coloro che trasgrediscono sono individui “testardi, superbi e ribelli”, dice di non perdere tempo ad ammonirli, ma di punirli subito con castighi corporali (RB 2,26-29). Qui raccomanda, sì, di stroncare i vizi, ma il tono è interamente diverso: “usi prudenza e carità, adattandosi al temperamento di ciascuno” (v. 14). Con tutto il contesto in cui si inculca con insistenza la misericordia e l'amore, la norma sulla correzione finisce col perdere l'eccessiva durezza, in un certo contrasto con il capitolo 2.

15: Studeat plus amari quam timeri (= Miri ad essere amato piuttosto che temuto): altra bellissima sentenza tratta direttamente dalla Regola di S. Agostino (cap. 15) e sapiente programma di governo. La norma, in realtà, si trova anche in altri testi, cristiani, monastici e classici; si può dire che queste brevi ma sostanziose parole convergono la sapienza del deserto, quella cristiana e quella politica classica. “Miri ad essere amato piuttosto che temuto” è in fondo una variante di “giovare piuttosto che dominare” del v. 8. In ambedue le sentenze appaiono due gruppi di elementi: autorità, onore, timore da una parte; servizio, misericordia, amore dall'altra. Trovare l'equilibrio tra le due cose sarebbe l'ideale, ma in realtà – e la RB è realista – risulta impossibile mantenere sempre tale equilibrio tra i due piatti della bilancia.

16-19: Difetti da evitare. Discrezione dell'abate Nel v.16 abbiamo un elenco di qualità negative da evitare. Nulla di più dannoso per la tranquillità di spirito delle tensioni di un abate turbolento, inquieto, vittima del sospetto e della gelosia.

  • Apprensivo anxius significa: in affanno ed eccessiva angustia di spirito.
  • Esagerato nimius. Si intende di uno che, sia pur con le migliori intenzioni, si rende fastidioso con l'insistere, col pretendere, col soverchio correggere, con la troppa cura delle minuzie.
  • Ostinato obstinatus: deve pur essere convinto che gli altri possano talvolta pensarla meglio di lui.
  • Troppo sospettoso nimis suspiciosus: è il difetto di chi vede ad ogni passo pericoli, cattive intenzioni, malignità: un abate simile non avrà mai pace!

È stato notato che il non sia turbolento dell'inizio del v. 16 evoca la figura del Servo di JHWH (Is 42,4), applicata a Cristo in Mt 12,18-21): “Non contenderà, né griderà, né si udrà sulle piazze la sua voce”; già prima, nel v. 13, SB ha ricordato l'altra caratteristica “non spezzerà la canna incrinata”: la mansuetudine di Cristo deve essere un modello e uno specchio per il suo vicario.

17-19: La discrezione, madre delle virtù Per quanto riguarda il governo, SB raccomanda la previsione, la riflessione, il discernimento e l'equilibrio (v. 17). Alla fine appare l'equilibrio, la moderazione, la discrezione (v. 19) che domina tutto il direttorio abbaziale: è quel sapiente giusto mezzo che è frutto di grande equilibrio spirituale e che rende la virtù tanto più amabile e accessibile. La discrezione era tanto stimata presso i monaci antichi. Anche Cassiano usa l'espressione: “la discrezione, madre di tutte le virtù” come al v. 19 (cf. Collazioni 2,4). È noto che S.G regorio Magno la colse come una caratteristica della RB, definendola appunto “mirabile per la discrezione” discretione praecipuam (Dial. II,36). La parola “discrezione” va presa anzitutto nel suo senso preciso e originario da discernere, cioè “distinguere” bene i mezzi e le circostanze per raggiungere un fine e ordinare gli atti corrispondenti senza eccesso né difetto.

17: ut...fortes quod cupiant et infirmi non refugiant La discrezione sarà che l'abate disponga tutte le cose – tanto le spirituali che le temporali (v. 17) – in modo che “i monaci forti desiderino di fare di più e i deboli non si scoraggino” non refugiant (v. 19). L'espressione ci ricorda quella di Prol. 48: “non refugias”, “non abbandonare subito la via della salvezza”. In ambedue i casi SB considera la stessa situazione umana: quella del monaco pusillanime e di poca forza che di fronte a un'osservanza troppo rigorosa si sentirebbe tentato di lasciare il monastero. Nel prologo SB si rivolge a questo monaco spaventato esortandolo alla perseveranza; qui chiede all'abate che tenga conto di tale debolezza. Nel prologo promette al fratello tentennante che non si stabilirà nulla di troppo duro e penoso, qui esige dalla “discrezione” dell'abate che mantenga la promessa abbreviando piuttosto che aumentando il peso della Regola che, per altro, deve far osservare in tutto (v. 20).

18-19 Conclusione: osservanza della Regola e premio eterno Il primo direttorio abbaziale termina facendo appello al giudizio di Dio e alla correzione delle colpe proprie dell'abate (RB 2,39-40). Questa nota di timore e di severità è sostituita in questo secondo direttorio abbaziale da una nota di gioiosa speranza: SB, per sollevare il duro lavoro e l'incessante peso dell'abate, gli ricorda il premio preparato al servo fedele quando verrà il Signore (Mt 24,47).

Ritratto del pastore ideale, immagine di Cristo È stato detto che appare nel capitolo 64 una omogeneità di pensiero, una unica visuale ispira l'autore: quella del pastore ideale, del servitore umile, mansueto e paziente che è Cristo. Spirito di servizio, misericordia, amore, prudenza, pace, ecc., sono tutti aspetti di una identica attitudine fondamentale. “Il Servo di JHWH di Isaia, il Cristo di S. Matteo, il Pastore di S. Paolo, l'Anziano misericordioso e “discreto” di Cassiano, tutte queste immagini ideali del capo cristiano vengono a fondersi senza sforzo in un ritratto dell'abate che è profondamente semplice” (De Vogué). Questo ritratto dell'abate del capitolo 64 differisce in alcuni punti non solo dalla RM, ma anche da quanto detto nel capitolo 2 della stessa RB. SB ha corretto se stesso in età avanzata alla luce dell'esperienza? Oppure il capitolo 64 è dovuto a una mano diversa da quella del capitolo 2? Tutte le ipotesi sono permesse. Comunque, negli ultimi capitoli della Regola, che sono propri di SB (di cui si riconosce sempre più l'originalità) ci si presenta l'abate piuttosto che come un maestro severo, teso ed inquieto per il peso della responsabilità, come un uomo servizievole e misericordioso.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LXIII – L’ordine della comunità

1 Nella comunità ognuno conservi il posto che gli spetta secondo la data del suo ingresso o l’esemplarità della sua condotta o la volontà dell’abate. 2 Bisogna però che quest’ultimo non metta lo scompiglio nel gregge che gli è stato affidato, prendendo delle disposizioni ingiuste come se esercitasse un potere assoluto, 3 ma pensi sempre che dovrà rendere conto a Dio di tutte le sue decisioni e azioni. 4 Dunque i monaci si succedano nel bacio di pace e nella comunione, nell’intonare i salmi e nei posti in coro, secondo l’ordine stabilito dall’abate o a essi spettante. 5 E in nessuna occasione l’età costituisca un criterio distintivo o pregiudizievole per stabilire i posti, 6 perché Samuele e Daniele, quando erano ancora fanciulli, giudicarono gli anziani. 7 Quindi, a eccezione di quelli che, come abbiamo già detto, l’abate avrà promosso per ragioni superiori o degradato per motivi fondati, tutti gli altri occupino sempre i posti determinati dalla data del rispettivo ingresso, 8 in modo che il monaco, arrivato – per esempio – in monastero alle 9, sappia di essere più giovane di quello arrivato alle 8, quale che sia la sua età e dignità. 9 Per quanto riguarda i ragazzi, invece, si osservi in tutto e per tutto la relativa disciplina. 10 I più giovani, dunque, trattino con riguardo i più anziani, che a loro volta li ricambino con amore. 11 Anche quando si chiamano tra loro, nessuno si permetta di rivolgersi all’altro con il solo nome, 12 ma gli anziani diano ai giovani l’appellativo di «fratello» e i giovani usino per gli anziani quello di «reverendo padre», come espressione del loro rispetto filiale. 13 L’abate poi sia chiamato «signore» e «abate», non perché si sia arrogato da sé un tale titolo, ma in onore e per amore di Cristo del quale sappiamo per fede che egli fa le veci. 14 Da parte sua, però, rifletta sull’onore che gli viene tributato e se ne dimostri degno. 15 Dovunque i fratelli si incontrano, il più giovane chieda la benedizione al più anziano; 16 quando passa un monaco anziano, il più giovane si alzi e gli ceda il posto, guardandosi bene dal rimettersi a sedere prima che l’anziano glielo permetta, 17 in modo che si realizzi quanto è scritto: «Prevenitevi a vicenda nel rendervi onore». 18 I ragazzi più piccoli e i giovanetti occupino in coro e in refettorio i posti loro spettanti secondo la Regola: 19 ma fuori di lì siano sorvegliati e tenuti dappertutto sotto la disciplina, finché non avranno raggiunto un età più matura.

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Approfondimenti

1-9: L'ordine della comunità Abbiamo avuto modo di notare spesso la preoccupazione di SB per l'ordine e la precisione, che sono una salvaguardia per la pace e la tranquillità della vita monastica. Uno spinoso problema che ha tormentato e tormenta gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi, trascinandoli spesso in contese, a volte assurde e ridicole, è quello della precedenza, del rango, del posto occupato rispetto agli altri (ricordiamo l'episodio dei figli di Zebedeo: Mc 10,34-35). SB dà tre criteri: quello normale è l'anzianità monastica, cioè la data d'ingresso in monastero (vv. 1.7-8); un'eccezione può essere data da particolari meriti di un monaco (come nei casi riscontrati in RB 60,4; 61,11-12; 62,6); oppure la volontà dell'abate, il quale è autorizzato a promuovere e a degradare, ma solo per ragioni superiori e per motivi validi (vv. 2-3); SB gli ricorda di fuggire il dispotismo e di pensare al giudizio di Dio, secondo lo stile e le espressioni già riscontrate in RB 2,64 e RB 65. Comunque, l'età fisica e l'estrazione sociale dell'individuo non conteranno nulla (vv. 5-8.18). Pertanto anche i fanciulli oblati staranno al posto che corrisponde alla data della loro consacrazione a Dio, anche se sotto la tutela di monaci adulti (v. 9 e l'argomento sarà ripreso nei vv. 18-19).

10-17: Deferenza e amore tra i fratelli Fissato l'ordine materiale dei posti, SB passa a un tema di grande originalità: le manifestazioni di reciproco rispetto e cortesia. Comincia con un principio generale (v. 10), già annunciato negli strumenti delle buone opere (n. 70 e 71): “Venerare i più anziani, amare i più giovani” (RB 4,70-71). Le norme seguenti (vv. 11-17) sono applicazioni del principio generale sull'onore e l'amore. Tali forme di deferenza non sono soltanto manifestazioni di educazione, sensibilità, delicatezza e buon gusto naturali, ma sono ispirate soprattutto dalla S. Scrittura (Rom 12,10): “Prevenitevi a vicenda nel rendervi onore” (v. 17). Notiamo che il termine “nonno” è di origine egiziana e si divulgò in oriente; in seguito fu latinizzato e più tardi nel linguaggio ecclesiastico si applicò, con un senso familiare e affettuoso, alle persone che senza appartenere alla gerarchia, erano considerate degne di particolare venerazione: monaci, asceti, vergini consacrate a Dio, vedove e anziani; ancor oggi in francese “nonne”, in inglese “nun”, in tedesco “nonne” significa monaca. Anche i titoli per l'abate “dominus et abbas” (signore e abate) non sono nuovi, ma già attestati nella tradizione monastica: “dominus” esprimerebbe l'onore dovuto all'abate come vicario di Cristo; “abbas” esprimerebbe l'amore.

18-19: Posizione dei fanciulli Gli ultimi versetti riguardano la prima parte del c. 63, non la seconda. È una specie di appendice sulla posizione dei fanciulli (v. 9). I piccoli oblati in qualità di persone consacrate a Dio come gli altri monaci professi, mantenevano il loro posto negli atti ufficiali della comunità (coro e refettorio, v. 18). Essendo però nel periodo della formazione, debbono essere curati con la vigilanza e mantenuti sotto disciplina “fino alla maggiore età” (v. 19), che era considerata verso i 15 anni (cf. RB 70,4).

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LXII – I sacerdoti del monastero

1 Se un abate desidera che uno dei suoi monaci sia ordinato sacerdote o diacono per il servizio della comunità scelga in essa un fratello degno di esercitare tali funzioni. 2 Ma il monaco ordinato si guardi dalla vanità e dalla superbia 3 e non creda di poter fare altro che quello che gli ordina l’abate, tenendo sempre presente che d’ora in poi dovrà essere maggiormente sottomesso alla disciplina. 4 Né col pretesto del sacerdozio trascuri l’obbedienza alla Regola o la disciplina, ma anzi progredisca sempre più nelle vie di Dio. 5 Conservi sempre il posto che gli spetta in corrispondenza del suo ingresso in monastero, 6 tranne che per il ministero dell’altare, oppure nel caso che la scelta della comunità o la volontà dell’abate l’abbiano promosso in considerazione della sua vita esemplare. 7 Sappia però che deve osservare la disciplina prestabilita per i decani e i superiori. 8 Se avrà la presunzione di agire diversamente, non sia più trattato come un sacerdote, ma come un ribelle. 9 E nell’eventualità che, dopo essere stato ammonito non si correggesse, si chiami a testimonio anche il vescovo. 10 Ma se neanche allora si emendasse e le sue colpe diventassero sempre più evidenti, sia espulso dal monastero, 11 purché però sia stato così ostinato da non volersi sottomettere e obbedire alla Regola.

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Approfondimenti

Per associazione, si parla qui dei sacerdoti del monastero, cioè dei fratelli che nel monastero vengono elevati al sacerdozio (non già dei sacerdoti che chiedono di diventare monaci, come nel c. 60): la loro posizione di privilegio si aggiunge a quella contemplata nei cc. 60-61. RB 62 non ha un parallelo nella RM, la quale non prevede l'elevazione dei monaci al sacerdozio, anche se prevede la comunione giornaliera. Per la Messa si andava alla chiesa del villaggio, come del resto facevano gli antichi monaci ed eremiti (ma talvolta gli eremiti si ritenevano dispensati dalla partecipazione esterna al culto. Pensiamo a SB che, eremita, a Subiaco, ignorava che fosse il giorno di Pasqua: II Dial 1). S. Pacomio ed altri preferivano chiamare nei loro cenobi qualche sacerdote per celebrare i sacri riti.

Monachesimo e sacerdozio Tutto ciò manifesta la posizione generale, se non unanime, del monachesimo antico riguardo al sacerdozio. Gli anacoreti copti si mostravano restii all'ordinazione; i pacomiani la rifiutavano in assoluto; in Siria i migliori monaci si opponevano a che i vescovi imponessero loro le mani. Sacerdozio e monachesimo sono realtà distinte: uno è per il servizio ministeriale del popolo di Dio attraverso la Parola e i Sacramenti, l'altro è per lo sforzo di realizzare nella solitudine la perfezione dell'unione con Cristo. Desiderare il sacerdozio per i monaci antichi era segno di superbia; i monaci avevano paura del sacerdozio; sacerdozio e orgoglio vanagloria sono termini spesso associati nei loro scritti (per esempio Cassiano, Inst. 11,14-18; Coll 4,20; 5,12). Avevano paura che a motivo del sacerdozio dovessero lasciare la loro vita isolata per il ministero: “il monaco deve fuggire allo stesso modo i vescovi e le donne”, secondo il celebre detto di Cassiano (Inst 11,18). L'ordinazione di alcuni monaci per il servizio della comunità poteva dare origine a dispute, invidie, divisioni, problemi di autorità e di precedenza. Era un rischio. In questo contesto si comprende il c. 62 di SB. Oggi, evidentemente, la situazione e la mentalità sono mutate, la teologia ha aperto una nuova visione. Oggi sarebbe a dir poco ridicolo accettare con la odierna mentalità l'espressione di Cassiano cosi` come suona...; ma non è che Cassiano avesse torto: se anche noi oggi avessimo, del “vescovo e della donna”, l'immagine pratica ed esterna che queste categorie immediatamente evocavano, non c'è dubbio che dovremmo avere la stessa reazione. La realtà spirituale (la teologia) è la stessa, l'immagine e la situazione esterna e contingente sono mutate. Ma anche oggi, del resto, non mancano aspetti di conflitto esteriore tra “vescovi e gerarchia” e religiosi; non per nulla è stato necessario il documento pontificio “Mutuae Relationes” (Criteri direttivi sui rapporti tra i Vescovi e i Religiosi nella chiesa, 14 maggio 1978).

1: Elevazione di un monaco al sacerdozio SB con tutto il monachesimo di allora dimostra una certa sfiducia di dover avere dei sacerdoti in monastero (appare abbastanza chiaro da questo capitolo e dal c. 60), ma preferisce correre questo rischio per il vantaggio di avere in casa un sacerdote per la liturgia monastica. Tanto l'iniziativa che la scelta della persona spettano all'abate, il quale dovrà vedere chi sia degno, cioè un monaco sensato, maturo e di “santa conversazione”. Sacerdotio fungi “esercitare l'ufficio sacerdotale”, in senso largo: sacerdote e diacono è frase biblica da Sir 45,19.

2-7: Posizione e obblighi dell'ordinato “Honores mutant mores”, dice un proverbio: “Gli onori cambiano i costumi”. Una volta elevato alla dignità sacerdotale, il monaco che ne era degno (v. 1) può cessare di esserlo e lasciarsi prendere dallo spirito di alterigia e di superbia (v. 2). SB gli ricorda l'obbligo di sottomissione alla Regola e all'abate; anzi, gli ricorda che si deve sentire più obbligato degli altri alla disciplina regolare e sforzarsi di “avanzare sempre più nel Signore” “magis ac magis in Deum proficiat”, v. 4. La frase riecheggia S. Cipriano, Epist. 13,16. Insomma, “noblesse oblige”, la nobiltà impone dei doveri! Il monaco ordinato sacerdote o diacono conserverà il suo posto in comunità (v. 5), anche se potrà essere trattato con più riguardo ed avanzare grado (come già previsto per i sacerdoti secolari che si fanno monaci: RB 60,4.8 e per i monaci forestieri: RB 61,11-12).

8-11: Penalità per il sacerdote indegno La finale del capitolo è nello stesso tempo molto triste ed energica. Se il sacerdote cessa per la sua cattiva condotta di essere monaco, non lo si riterrà più neanche sacerdote, ma ribelle (v. 8). Certo, lo si riprenderà più volte, “saepe monitus”, chiamando a testimoniare anche il vescovo che lo ha ordinato (questo corrisponderebbe all'ammonizione pubblica di RB 23,3). In seguito si può arrivare addirittura all'espulsione dal monastero (v. 10), ma naturalmente solo in casi estremi (v. 11). È presumibile che le disposizioni dei vv. 7-11 si applicassero anche ai monaci che erano già sacerdoti prima di entrare in monastero (RB 60); ma il pericolo dell'insubordinazione sarà stato più facile – e forse SB lo apprese dall'esperienza – in coloro che, prima semplici monaci, si vedevano poi elevati alla dignità sacerdotale o diaconale e preferiti ad altri loro fratelli.

Conclusione del capitolo Concludendo, la RB “non considera il sacerdozio dei monaci che in due casi: quando vengono alla vita monastica già rivestiti del sacerdozio e quando si fa sentire la necessità della presenza di un sacerdote nella comunità, per assicurare il servizio dell'altare. In altre parole, il sacerdozio non è stato previsto se non nei casi di vera necessità. Il monaco sacerdote, lungi dall'essere un ideale, è concepito come una pericolosa, benché inevitabile, anomalia, i cui inconvenienti si cerca di ridurre con severi avvertimenti” (DeVogué). Sono parole un po' forti, ma storicamente vere. Sappiamo che nel corso dei secoli, il numero dei monaci sacerdoti è aumentato, il che ha cambiato la prospettiva della Regola (e tutta la visuale di questo capitolo), che è quella di una comunità laicale. Negli ultimi tempi, in alcuni luoghi, si notano dei movimenti di ritorno (almeno come ipotesi) ad un monachesimo laicale.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LXI – L’accoglienza dei monaci forestieri

1 Se un monaco forestiero, giunto di lontano, vuole abitare nel monastero in qualità di ospite 2 e si dimostra soddisfatto delle consuetudini locali, 3 accontentandosi con semplicità di quello che trova, senza disturbare la comunità con le sue pretese, sia accolto per tutto il tempo che desidera. 4 Nel caso poi che egli rilevi qualche inconveniente o dia qualche suggerimento, l’abate si chieda se il Signore non lo abbia mandato proprio per questo. 5 E se in seguito vorrà fissare la sua stabilità nel monastero, non si opponga un rifiuto a questa sua richiesta, tanto più che durante la sua permanenza si è avuto modo di studiarne il comportamento. 6 Se però, quando era ospite si è dimostrato pieno di pretese e di difetti, non solo non dev’essere aggregato alla comunità, 7 ma bisogna dirgli garbatamente di andarsene per evitare che le sue miserie contagino anche gli altri. 8 Invece, se non merita di essere allontanato, non sia accolto e incorporato nella comunità solo nel caso che ne faccia domanda, 9 ma sia addirittura invitato a rimanere, perché gli altri possano trarre profitto dal suo esempio 10 e perché dappertutto si serve il medesimo Signore e si milita sotto lo stesso Re. 11 Anzi, se l’abate lo ritiene degno, può anche assegnargli un posto un po’ elevato. 12 E non solamente un monaco, ma anche coloro che appartengono all’ordine sacerdotale o al chiericato, l’abate può destinare a un posto superiore a quello corrispondente al loro ingresso in monastero, se ha notato che la condotta lo merita. 13 Si guardi però sempre dall’ammettere stabilmente nella sua comunità un monaco proveniente da un monastero conosciuto, senza il consenso e le lettere commendatizie del suo abate, perché sta scritto: 14 «Non fare agli altri quello che non vuoi che sia fatto a te».

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Approfondimenti

Monaci pellegrini Questo capitolo presenta un'ultima categoria di candidati: i monaci venuti da fuori. La parola “pellegrini”, suscettibile di varie interpretazioni, qui significa soprattutto “monaci stranieri, forestieri” (non monaci sarabaiti e girovaghi tanto detestati da SB, cf. RB 1,6-11). RB 61 dice semplicemente: “monaco proveniente da paesi lontani” (v.1), non si specifica il motivo del viaggio, né la categoria a cui il monaco appartiene.

1-4: Il monaco pellegrino ricevuto come ospite A differenza del sacerdote o chierico del capitolo precedente, il monaco pellegrino non intende entrare a far parte della comunità, ma solo essere accolto in foresteria come ospite. Per SB non c'è nessun problema: sia accolto “per tutto il tempo che vuole”, purché abbia due atteggiamenti fondamentali: si accontenti di quello che trova e non turbi la pace della famiglia monastica con pretese, critiche, pettegolezzi, ecc. (vv. 1-3). Questo non esclude che egli possa fare delle giuste osservazioni “con motivi validi e con umile carità” (v. 4). Pieno di spirito di fede, SB suggerisce all'abate che forse il Signore ha inviato il monaco forestiero “proprio per tale motivo” (v. 4): c'è sempre da correggere e da migliorare e la volontà del Signore si può manifestare attraverso un ospite, come attraverso le osservazioni dei fratelli più giovani (SB lo ha già detto in RB 3,3).

5-10: Aggregazione del monaco ospite alla comunità Se il monaco forestiero si trova bene nel monastero che lo ospita, potrà in seguito chiedere di essere ammesso nella comunità: dato che si è potuto conoscere la sua condotta, ci si regoli di conseguenza. SB è preoccupato soprattutto del profitto spirituale dei suoi monaci; l'ospite può contagiare la comunità con i suoi vizi, come può edificarla con la sua virtù: nel primo caso gli si dica “con urbanità” – non con insulti e violenza – di andar via; nel secondo caso non solo lo si accolga in comunità, se lo chiede, ma anzi sia invitato a entrarvi perché gli altri ne abbiano edificazione e perché “in ogni luogo si serve un solo Signore e si milita sotto un unico Re” (in omni loco uni Domino servitur, uni Regi militatur): la bella sentenza era forse comune nell'uso cristiano.

11-14: Due osservazioni Il capitolo si chiude con due osservazioni.

  1. L'abate avrà l'autorità di assegnare al nuovo fratello un posto più elevato, se lo ritiene degno (v. 11); e lo stesso potrà fare per i sacerdoti e i chierici (v. 12) di cui ha parlato al capitolo precedente. Si noti che non si tratta di una ripetizione, perché prima aveva previsto la promozione per onorare il sacerdozio (RB 60,4.8), mentre qui vuole onorare la virtù personale.
  2. La seconda osservazione è ispirata al desiderio di conservare la pace tra i monasteri vicini; quindi per accogliere un monaco di un monastero noto sarà necessaria l'autorizzazione del suo abate e le “lettere commendatizie”. Così prescrivevano vari Concili e le regole monastiche del sec. V e VI.

Il c. 61 ci appare così una pagina di discrezione veramente soprannaturale: accoglie il monaco forestiero, ma accetta le eventuali osservazioni come provenienti dal Signore, si preoccupa dell'avanzamento spirituale della comunità per cui, in caso di un ospite virtuoso, insiste per farlo rimanere, in modo da costituire uno sprone per gli altri: ma con prudenza e delicatezza, senza far torto a un monastero vicino. Ancora una volta SB ci appare non un legislatore minuzioso e legalista, ma un uomo spirituale e sollecito pastore di anime.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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