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DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

Capitolo XXX – La correzione dei ragazzi

1 Ogni età e intelligenza dev’essere trattata in modo adeguato. 2 Perciò i bambini e gli adolescenti e quelli che non sono in grado di comprendere la gravità della scomunica, 3 quando commettono qualche colpa siano puniti con gravi digiuni o repressi con castighi corporali, perché si correggano.

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Approfondimenti

Correzione dei ragazzi o di adulti di scarsa intelligenza Il titolo non abbraccia tutto il contenuto del capitolo perché, oltre ai fanciulli di minore età, include anche gli adolescenti e gli adulti di scarsa intelligenza, insomma tutti coloro che “non comprendono il valore della scomunica ” (v. 2): in questi casi la scomunica sarebbe non solo inutile, ma dannosa; allora si usano digiuni o battiture “perché si correggano” (v. 3): si noti sempre il fine medicinale della pena.

Nella RM viene indicata l'età dei 15 anni quale limite per le battiture (RM 14,79-87); negli adulti le battiture sono previste solo per motivo oggettivo: colpe enormi commesse. Invece in RB le battiture inflitte agli adulti sono determinate da un motivo soggettivo: il colpevole non comprende la scomunica.

Il principio generale di sapiente governo e di sana pedagogia posto al v.1 giustifica il capitolo e le deduzioni pratiche e semplici che ne derivano. Notiamo che la pena delle battiture era, a quei tempi, un fatto comune tra i monaci e i chierici (come anche tra gli alunni in genere).

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XXIX – La riammissione dei fratelli che hanno lasciato il monastero

1 Il monaco, che, dopo aver lasciato per propria colpa il monastero, volesse ritornarvi, prometta anzitutto di correggersi definitivamente dalla colpa per la quale è uscito 2 e a questa condizione sia ricevuto all’ultimo posto per provare la sua umiltà. 3 Se poi uscisse di nuovo sia riammesso fino alla terza volta, ma sappia che in seguito gli sarà negata ogni possibilità di ritorno.

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Approfondimenti

Il “dramma” si prolunga in un “terzo atto”: chi di propria iniziativa abbandona il monastero. La RB prevede ed ha fiducia che costui si converta e riprenda il retto sentiero; se sollecitasse la sua riammissione, gli si apriranno le porte del monastero, a due condizioni (sconosciute nel parallelo di RM 64):

  1. che prometta seriamente di correggersi di quei vizi per cui se ne andò via;
  2. che sia messo all'ultimo posto nella comunità per provare la sua umiltà e, in ultima analisi, la sincerità della sua conversione. Lo stesso stabilisce la Regola di Pacomio (Reg. 136).

Se tornerà ad uscire, potrà essere riammesso fino a tre volte, secondo il procedimento evangelico delle tre ammonizioni (cf. Mt 18,15-17), ma poi basta: seguitare ad uscire ed entrare sarebbe poco serio e, in certo modo, burlarsi di Dio e dei confratelli. Colui che abusa di questa triplice possibilità di riabilitarsi, sarà escluso definitivamente dalla società cenobitica. S. Basilio non permetteva più l'ingresso al disertore, nemmeno come ospite di passaggio (Reg. fus. 14).

Possiamo notare che questa linea di condotta seguita per chi se ne usciva dal monastero, doveva valere probabilmente anche per gli espulsi del capitolo precedente.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XXVIII – La procedura nei confronti degli ostinati

1 Se un monaco, già ripreso più volte per una qualsiasi colpa, non si correggerà neppure dopo la scomunica, si ricorra a una punizione ancor più severa e cioè al castigo corporale. 2 Ma se neppure così si emenderà o – non sia mai! – montato in superbia pretenderà persino di difendere il suo operato, l’abate si regoli come un medico provetto, 3 ossia, dopo aver usato i linimenti e gli unguenti delle esortazioni, i medicamenti delle Scritture divine e, infine, la cauterizzazione della scomunica e le piaghe delle verghe, 4 vedendo che la sua opera non serve a nulla, si affidi al rimedio più efficace e cioè alla preghiera sua e di tutta la comunità 5 per ottenere dal Signore che tutto può la salvezza del fratello. 6 Se, però, nemmeno questo tentativo servirà a guarirlo, l’abate, metta mano al ferro del chirurgo, secondo quanto dice l’apostolo: «Togliete di mezzo a voi quel malvagio» 7 e ancora: «Se l’infedele vuole andarsene, vada pure», perché una pecora infetta non debba contagiare tutto il gregge.

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Approfondimenti

Provvedimenti per i recidivi Il c. 27 presentava il caso dei fratelli scomunicati; il c. 28 presenta il “secondo atto” – diciamo così – del dramma: i recidivi, mentre nel c. 29 avremo il “terzo atto”: gli apostati.

Ci possono essere dunque dei monaci recidivi: li si corregge, li si scomunica. Se non si ottiene nulla, si venga a severi colpi di verga: il castigo corporale difatti si riserva per i duri di testa o di cuore, a cui non giovano le pene spirituali (cf. RB 23,5; 30,2). E..., se nonostante questo, non si correggono, ma anzi volessero difendere la loro condotta?

Ritorna qui l'immagine dell'abate come medico, immagine che viene più sviluppata: ha applicato i lenitivi (unguenti) delle esortazioni, i farmaci della S. Scrittura, il ferro rovente della scomunica e delle frustate (v.3). Tutto è stato vano. Allora viene suggerito “un rimedio ancora più efficace”: chiedere un particolare aiuto della grazia di Dio mediante la preghiera dell'abate e di tutta la comunità (vv. 4-5).

Esauriti tutti i mezzi naturali e soprannaturali, il medico si trasforma in chirurgo: “l'abate ricorra ormai al ferro dell'amputazione” e, per giustificare questa estrema e sgradita decisione, ricorre a due testi di S. Paolo: il primo (1Cor 5,13) si riferisce all'incestuoso di Corinto ed è ben applicato; il secondo (1Cor 7,15) non calza troppo bene, è in un senso molto accomodatizio: là S. Paolo parla del matrimonio tra un cristiano e un non cristiano e dice che, se il coniuge non credente (pagano) si vuole separare, si separi pure. SB gioca sulla parola “infidelis” che lì significa “non credente” e la applica nel senso di “non fedele” alla sua professione monastica.

Si noti la radice profonda di questa drastica decisione: “perché una pecora infetta non contagi il gregge intero” (v. 8). Il concetto è comune nei Padri: cf. Cipriano (Epistola 59,15); S. Agostino (Epistola 211,11; Regula Orientalis 35); spesso in S. Girolamo (Epistola 2,1; 16,1; 130,19). SB non caccia dal monastero per castigare l'orgoglio e l'ostinazione; in tutto il codice penale la sua preoccupazione è curare; le pene sono sempre medicinali. Qui però si sente frustrato e impotente in quanto la cura a oltranza dell'ostinato comporta dei rischi per la salvezza di tutti gli altri. Nel c. 27 si trattava di salvare una pecora smarrita, nel c.28 si tratta di salvare l'intero gregge; l'obiettivo distingue i due capitoli, però lo spirito, l'ispirazione, le immagini, la costruzione letteraria e lo stesso vocabolario sono identici.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XXVII – La sollecitudine dell’abate per gli scomunicati

1 L’abate deve prendersi cura dei colpevoli con la massima sollecitudine, perché «non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati». 2 Perciò deve agire come un medico sapiente, inviando in qualità di amici fidati dei monaci anziani e prudenti 3 che quasi inavvertitamente confortino il fratello vacillante e lo spingano a un’umile riparazione, incoraggiandolo perché «non sia sommerso da eccessiva tristezza», 4 in altre parole «gli usi maggiore carità», come dice l’Apostolo «e tutti preghino per lui». 5 Bisogna che l’abate sia molto vigilante e si impegni premurosamente con tutta l’accortezza e la diligenza di cui è capace per non perdere nessuna delle pecorelle a lui affidate. 6 Sia pienamente cosciente di essersi assunto il compito di curare anime inferme e non di dover esercitare il dominio sulle sane 7 e consideri con timore il severo oracolo del profeta per bocca del quale il Signore dice: 8 «Ciò che vedevate pingue lo prendevate; ciò invece che era debole lo gettavate via». 9 Imiti piuttosto la misericordia del buon Pastore che, lasciate sui monti le novantanove pecore, andò alla ricerca dell’unica che si era smarrita 10 ed ebbe tanta compassione della sua debolezza che si degnò di caricarsela sulle sue sacre spalle e riportarla così all’ovile.

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Approfondimenti

Quanto sia dovuto pesare a SB sentirsi obbligato a elaborare un codice penale così severo, appare chiaramente da questo c. 27, uno dei più belli della Regola. Il testo, quasi senza parallelo nella RM, tutto pervaso di pietà e misericordia, tratta degli scomunicati, ma è interamente dedicato all'abate, è un direttorio abbaziale per un caso concreto, a cui SB dà la massima importanza. Basta far caso al vocabolario: vediamo che abbondano i termini che rivelano una costante preoccupazione, un enorme interesse con la ricerca di tutti i rimedi fino a qualche stratagemma: “ogni cura” (v. 1), “tutti i rimedi” (v. 2), “estrema sollecitudine” (v. 5), “con ogni mezzo e saggia accortezza” (v. 5).

1-4: L'abate sollecito come un medico All'inizio l'abate è visto come un medico (la metafora risale a Origene, Ambrogio, Cassiano) che si occupa dei malati, secondo la frase di Gesù in Mt 9,12. Ora, questo medico saggio, esperto, userà ogni industria perché la “medicina” della scomunica abbia il migliore effetto. E SB ne indica una che, mentre salva l'autorità dell'abate, esercita anche lo spirito di carità fraterna: manderà dei monaci anziani ed assennati i quali “quasi di nascosto” (dagli altri confratelli) lo consolino nell'afflizione e lo spingano a riconciliarsi umilmente dando la dovuta soddisfazione.

Al v. 2 c'è l'espressione inmittere senpectas (far arrivare delle senpecte) che, secondo l'etimologia più accertata, deriva da “senape” e indicherebbe un impiastro di senape o “senapismo” che ha proprietà medicinali, refrigeranti e calmanti. Appare così più chiaramente il paragone con il medico: questo cataplasma che deve calmare il dolore sono i fratelli anziani inviati “quasi di nascosto” a consolare il reo, perché “non sia sommerso da eccessiva tristezza”. Bella questa preoccupazione presa da S. Paolo (2Cor 2,7) che denota la tenerezza che deve avere l'abate; è bello anche il v.4 che allarga questa preoccupazione a tutta la comunità: “si dia prova a suo riguardo di maggiore carità (citata da 2Cor 2,8) e tutti preghino per lui.”

5-9: L'abate sollecito come un pastore SB ritorna alla raccomandazione dell'inizio quasi con le stesse parole e presenta ora l'abate come pastore: un pastore che non deve “perdere nessuna delle pecore a lui affidate” (v. 5). È notevole la forza con cui la RB sottolinea l'aspetto realistico, autenticamente umano della missione dell'abate. Non c'è da farsi illusioni: nella comunità ci sono a volte alcuni monaci santi, la maggior parte vive certamente una vita degna della propria vocazione; però l'abate sta lì soprattutto per essere attento a quelli moralmente infermi perché ha preso “la cura delle anime deboli e non la tirannia su quelle sane” (v.6). Il monastero non è una società chiusa di anime perfette, Dio ci guardi (soprattutto i superiori) dal pretendere una tal cosa! SB ricorda all'abate il rimprovero di Dio ai pastori d'Israele per mezzo di Ez 34,3-4, citato un po' a senso, quasi a dire: ti compiacevi (ti era facile e comodo) governare i sani, cioè i più docili e virtuosi e trascuravi i deboli che cadono o stentano nella via di Dio. Decisamente la RB sta dalla parte dei più deboli, di quelli più bisognosi di comprensione, di aiuto.

Questo atteggiamento di SB contrasta con quello di RM nelle stesse circostanze: al monaco scomunicato che si mantiene nella sua ostinazione e ricusa la soddisfazione dovuta, la RM dà tre giorni di tempo; poi passa a una buona dose di frustate e all'espulsione dal monastero (RM 13,68-73). SB non ci dice come va a finire se lo scomunicato persevera sino in fondo nella sua ostinazione (in questo senso il c. 27 potrebbe sembrare incompleto): SB ha fiducia che il peccatore sia vinto dalla grazia di Dio, dalla sollecitudine dell'abate e dalla carità di tutti i fratelli. L'immagine del buon Pastore che riporta all'ovile la pecorella smarrita “sulle sue sacre spalle”, con cui si chiude il capitolo, pare insinuare soltanto una conclusione felice di questo piccolo dramma.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XXVI – Rapporti dei confratelli con gli scomunicati

1 Se qualche monaco oserà avvicinare in qualche modo un fratello scomunicato, o parlare con lui, o inviargli un messaggio, senza l’autorizzazione dell’abate, 2 incorra nella medesima punizione.

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Approfondimenti

Un brevissimo capitolo, secco e deciso; di nuovo appare il verbo “praesumere” (ardire, osare). Due soli versetti, una sola severa proposizione che giunge velocemente alla conclusione dopo l'enunciazione della colpa: se un fratello, senza ordine dell'abate (cf. il seguente c. 27,2-3, in cui si dice che l'abate deve far arrivare, quasi senza darlo a vedere, dei fratelli prudenti che sostengano e consolino il fratello scomunicato), osasse unirsi con lo scomunicato, parlare con lui o mandargli messaggi, soggiaccia alla stessa pena della scomunica (vv. 1-2).

Sembrerebbe a prima vista una sanzione esagerata e senza fondamento. Ma così non è se si tengono presenti alcune considerazioni: la vita di comunità e la comunione fraterna, come è stato rilevato al c. precedente, sono realtà molto importanti nella vita monastica; la pena della scomunica consiste proprio nel privare il monaco reo di questa realtà spirituale; colui che di iniziativa sua si unisce allo scomunicato, rende vana la pena medicinale applicata dall'autorità pastorale dell'abate. Egli si contrappone all'abate con grave colpa di insubordinazione, ritenendo ingiusta la decisione di lui. E come succede spesso in questi casi, il monaco che così agisce, non è mosso dal desiderio di aiutare il reo, ma da una passione di connivenza, di scontentezza, di critica verso l'abate; il suo contatto col monaco reo, fatto magari di nascosto e con sotterfugio, si riduce spesso a colloqui di mormorazione, con ulteriore detrimento spirituale del reo e dell'intera comunità. Alla luce di queste riflessioni, si comprende la drastica decisione del santo Legislatore.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XXV – Le colpe più gravi

1 Il monaco colpevole di mancanze più gravi sia invece sospeso oltre che dalla mensa anche dal coro. 2 Nessuno lo avvicini per fargli compagnia o parlare di qualsiasi cosa. 3 Attenda da solo al lavoro che gli sarà assegnato e rimanga nel lutto della penitenza, consapevole della terribile sentenza dell’apostolo che dice: 4 «Costui è stato consegnato alla morte della carne, perché la sua anima sia salva nel giorno del Signore». 5 Prenda il suo cibo da solo nella quantità e nell’ora che l’abate giudicherà più conveniente per lui; 6 non sia benedetto da chi lo incontra e non si benedica neppure il cibo che gli viene dato.

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Approfondimenti

La scomunica maggiore per le colpe più gravi La posizione del monaco colpito dalla scomunica maggiore impressiona veramente: il colpevole di colpe gravi è condannato al più completo isolamento, tanto più brutto in quanto si tratta soprattutto di isolamento morale: sta in comunità ma nessuno gli parla (v. 2); lavora da solo (v. 3); nessuno lo benedice nell'incontrarlo né viene benedetto il suo cibo (v. 6); deve “perseverare nel pianto della penitenza riflettendo sulle terribili parole di S. Paolo” (v. 3) che applicherà a se stesso. Il versetto di 1Cor 5,5 si riferisce al famoso incestuoso di Corinto di cui S.Paolo dice: “Sia dato in balia di Satana per la rovina della sua carne”, cioè separato dal regno di Cristo che è la Chiesa, sicchè ricada nel regno di Satana dove sarà esposto senza difesa spirituale al suo potere ostile, anche ai tormenti del corpo che Satana gli potrebbe procurare. SB dipende qui da Cassiano (Inst. 2,16), ma intenzionalmente ha soppresso la parola “Satana”, non solo per mitigare l'espressione, ma per dichiarare che il fratello viene abbandonato non a Satana ma alle sue pene afflittive del corpo e di tutte le passioni, purchè si salvi lo spirito. Comunque, anche ammettendo con alcuni codici la presenza della parola “Satana”, non pare si possa interpretare questa scomunica nel senso di una censura ecclesiastica, cioè esclusione dal corpo della Chiesa, ma solo “scomunica regolare”, cioè separazione della comunità monastica.

Per chi comprende bene il profondo senso della vita in comune, tale pena era veramente terribile: il monaco nelle condizioni descritte in questo capitolo, per poco sensibile che fosse, era veramente distrutto. In confronto a tale isolamento, l'eventuale restrizione del cibo (v.m5) appare ben poca cosa.

È chiaro che il fine, come in S. Paolo, è medicinale: la correzione e la salvezza del reo. Infatti poco dopo (c. 27) SB ricorderà la sollecitudine particolare dell'abate verso questi fratelli colpevoli e dalla vita sappiamo che, appena si fosse riconosciuto umilmente l'errore, egli era pronto a perdonare (cf. II Dial. 12).

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XXIV – La misura della scomunica

1 La scomunica e, in genere, la punizione disciplinare dev’essere proporzionata alla gravità della colpa 2 e ciò è di competenza dell’abate. 3 Però il monaco che avrà commesso mancanze meno gravi sia escluso dalla mensa comune. 4 Il trattamento inflitto a chi viene escluso dalla mensa è il seguente: in coro non intoni salmo, né antifona, né reciti lezioni fino a quando non avrà riparato alle sue mancanze; 5 mangi da solo dopo la comunità, 6 sicché se, per esempio, i monaci pranzano all’ora di Sesta, egli mangi a Nona; se pranzano a Nona, egli a Vespro, 7 fino a quando avrà ottenuto il perdono con una conveniente riparazione.

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Approfondimenti

Il titolo non abbraccia il contenuto del capitolo in cui, dopo un principio generale, si parla solo delle colpe meno gravi.

1-2: Criterio per la misura della pena Si enuncia con chiarezza il principio generale: la scomunica (o la pena corporale) deve essere proporzionata alla colpa (v.1); il giudizio di ciò spetta all'abate (v. 2). SB stabilisce due forme di scomunica:

  • scomunica minore: esclusione solo dalla mensa comune (c. 24);
  • scomunica maggiore: esclusione dalla preghiera e dalla mensa comune (c. 25).

Naturalmente, in tutti e due i casi, non si tratta di scomunica ecclesiastica, ma solo “regolare”, cioè nell'ambito della comunità, pena inflitta dal superiore di una comunità monastica.

3-7: Scomunica minore per le colpe meno gravi La scomunica minore consiste principalmente nella privazione della mensa comunitaria. Molto più che dai pagani, il pasto comune era considerato come qualcosa di sacro dai cristiani, che vi scorgevano una relazione e una richiamo con il banchetto eucaristico e con quello escatologico. L'esclusione era sentita perciò vivamente come pena. Il fratello reo di colpe relativamente leggere, dopo – s'intende – la trafila delle ammonizioni, private e pubblica (cf. c. 23), mangerà, sì, come gli altri fratelli, però più tardi, da solo, non con loro, in quanto si è reso indegno della loro comunione.

Tale privazione della mensa comportava anche una limitazione in coro: cioè il reo prendeva parte all'Ufficio divino, ma non poteva fare la parte di solista (recitare a solo o intonare salmi, antifone o lezioni), fino a quando non avesse fatto la dovuta soddisfazione e ottenuto il perdono (queste cose saranno descritte in RB. 44,9-10).

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XXIII – La scomunica per le colpe

1 Se qualche fratello si dimostrerà ribelle o disobbediente o superbo o mormoratore, o assumerà un atteggiamento di ostilità e di disprezzo nei confronti di qualche punto della santa Regola o degli ordini dei superiori, 2 questi lo rimproverino una prima e una seconda volta in segreto, secondo il precetto del Signore. 3 Se non si migliorerà, venga ripreso pubblicamente di fronte a tutti. 4 Ma nel caso che anche questo provvedimento si dimostri inefficace, sia scomunicato, purché sia in grado di valutare la portata di una tale punizione. 5 Se invece difetta di una sufficiente sensibilità, sia sottoposto al castigo corporale.

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Approfondimenti

Il “codice penitenziale” – capitoli 23-30 e 43-46 Con il nome di “codice penitenziale” o “codice penale” della RB si indicano i cc. 23-30 che trattano della scomunica e delle questioni ad essa collegate. A questi si aggiungono in genere i cc. 43-46 che trattano della soddisfazione (RB 44) delle pene per i ritardatari (RB 43), per gli sbagli nell'oratorio (RB 45) e per danni provocati ad oggetti vari (RB 46). Ma nella Regola sono frequenti, anche al di fuori di questi capitoli, le menzioni di pene per colpe o mancanze lievi o gravi: vedi ad esempio RB 2,26-29; 11,13; 21,5; 34,7; 42,9; 48,19-20; ecc.

La disciplina regularis I capitoli 23-30 e 43-46 probabilmente formavano in origine un fascicolo a parte per uso dei decani e costituivano la “disciplina regularis” (disciplina regolare). Che cosa significa precisamente? Vuol dire: punizione secondo la Regola, secondo le norme stabilite dalla Regola, cioè tutta la procedura ben organizzata nei cc. 23-30 e 43-46, che comprende le varie tappe stabilite in RB 23:

  • ammonizioni private
  • ammonizione pubblica
  • scomunica
  • oppure battiture.

La frase “sia punito secondo la (oppure: sia sottoposto alla) disciplina regolare” torna altre volte nella Regola, al di fuori del codice penale (vedi ad esempio: RB 3,10; 32,5; ecc.). Nonostante l'apparente aridità dell'argomento, l'esame di questa sezione è interessante perché ci rivela la mentalità propria di SB e la sua concezione della vita di comunità con i suoi regolamenti interni e i momenti difficili, di infrazioni, di punizioni, di soddisfazioni, ecc.

Differenze dalla RM Il codice penitenziale è una delle sezioni in cui maggiormente appare il lavoro di rielaborazione compiuto da SB rispetto alla RM. In RM il codice penale è contenuto nei cc. 12-15; 64; 73 e qualche altro elemento sparso qua e là. La diversa posizione delle due Regole è dovuta soprattutto al fatto che nella RB il codice penitenziale sta dopo il codice liturgico (cioè RB 8-20), invece in RM sta prima di esso (che è in RM 33-49). SB organizza e sistema il materiale della RM.

Fonti Per le fonti, dobbiamo ricordare anzitutto la S. Scrittura. La RM usa largamente la Scrittura come le è abituale; RB ha delle citazioni proprie, indipendentemente dalla RM, anche nei testi paralleli, soprattutto S .Paolo (1Cor, 2Cor, Gal); RB è più ricca di citazioni scritturistiche della RM, anche se questa ha due grandi discorsi di estrema ricchezza biblica al c. 14. Altra fonte per ambedue le Regole è Cassiano.

Spirito e caratteristiche della RB nel codice penitenziale Lo spirito del codice penitenziale nelle due Regole è molto diverso. RM è preoccupata dell'ordine e della giustizia: a ciascuno il suo e ciascuno al suo posto; RB, al contrario, si interessa alla salute della persona. Tipica di SB è difatti la distinzione tra colpe gravi e colpe leggere, tra scomunica maggiore (RB 25) e scomunica minore (RB 24); mettendo ordine alla materia disordinata della RM, SB è molto legato alla proporzionalità tra la punizione e la persona a cui è diretta, cioè tiene conto dei diversi tipi di persona (cf. anche le osservazioni che a questo proposito SB fa all'abate: RB 2,23-25). Il fine cui SB mira è esplicitamente il ravvedimento del colpevole; difatti il primo gruppo di capitoli organizza il triplo salvataggio delle anime: scomunicato (RB 27); recidivi (RB 28); apostati (RB 29). Il secondo gruppo di capitoli (RB 43-46) si sviluppa intorno alla soddisfazione degli scomunicati. “Guarire”, “educare” sono dunque le parole-chiavi della nuova legislazione penale; mentre la RM si preoccupa soprattutto di esercitare la giustizia e di ristabilire l'ordine, RB è assillato dalla preoccupazione di correggere e di salvare le anime.

In RB appare chiaramente la cura che l'abate deve prendersi per gli scomunicati (soprattutto RB 27): prima e dopo l'espulsione egli si interessa della salvezza del peccatore. Si vede sempre il senso pedagogico che porta a considerare l'aspetto medicinale della pena. Bisogna però anche dire che il numero accresciuto delle pene (in proporzione alla RM) indica una tendenza a punire e a minacciare. Se SB crea una pastorale inedita per la salvezza dei cuori duri, egli ha anche sviluppato la penalizzazione e ha dato alla sua Regola un volto spesso severo. La cosa appare anche dal c. 46, dove RB indurisce la pratica di RM, di Cassiano e di Agostino. Almeno questo è il giudizio di un esperto, come De Voguè: “l'inchiesta si chiude con questa immagine complessa. RB si stacca dalle sue fonti sia per una tenera e instancabile tenerezza verso i peccatori, sia per un certo rigorismo che tende a moltiplicare le esigenze e le punizioni”.

I capitoli del codice penitenziale possono essere così divisi:

  • RB 23-26: vari casi a proposito della scomunica;
  • RB 27: esortazione all'abate sui doveri verso gli scomunicati;
  • RB 28-29: gli incorreggibili e coloro che escono dal monastero;
  • RB 30: come debbono essere trattati i fanciulli;
  • RB 43: pene per i ritardatari all'Ufficio e alla mensa;
  • RB 44: la soddisfazione che debbono dare gli scomunicati;
  • RB 45: pene per chi sbaglia nell'oratorio;
  • RB 46: pene per altre mancanze.

Il capitolo 23 Il presente capitolo serve da introduzione. Determina le colpe degne della scomunica e stabilisce la procedura di questa. In che cosa consiste la scomunica monastica lo spiegherà dopo. Dobbiamo dire che raramente si comprende appieno il significato della scomunica, di cui non viene sufficientemente valutata l'importanza. Eppure è difficile dire di conoscere bene la comunità, se non si riconosce il suo contrario, cioè la “s-comunica”: la conoscenza umana procede spesso anche per contrasti. Dobbiamo quindi dedurre che nell'antica Chiesa e nell'antico monachesimo si sentiva il valore della scomunica perché si aveva un forte concetto di Chiesa e di comunità monastica.

1-5: Colpe e castigo SB enumera le colpe: si tratta – ciò è chiaro – di mancanze gravi esterne. La procedura è ispirata al Vangelo: Mt 18,15-17 (la correzione fraterna), procedura che nel monastero ha la seguente modalità:

  • due ammonizioni private da parte dei seniori (che sono i decani e in genere i superiori, includendovi certamente l'abate) (v.2);
  • una terza ammonizione, pubblica, per correggere il colpevole con l'umiliazione davanti a tutti (v.3);
  • in caso di pertinacia, si passa alla scomunica, che è pena più morale che fisica; quindi si richiede un animo che comprenda il suo valore (v.4);
  • se invece è un animo così rozzo, una “testa dura” che sarebbe insensibile alla scomunica, si usa la verga o altri castighi corporali.

Per SB le battiture sono per quelli che non comprendono la scomunica, quindi ha un criterio soggettivo, mentre in RM le battiture sono determinate da un criterio oggettivo: colpe enormi commesse. Ciò mette ancora una volta in risalto la cura del soggetto propria di SB. Le pene corporali non erano novità propria di SB: basta confrontare le Regole di Pacomio, Macario, le Vitae Patrum, Cassiano e in occidente la Regola di Cesario e la RM. In questo, come detto sopra, SB è molto severo; ma non pare giustificata l'immagine trasmessa da qualche pittore di un SB con un fascio di verghe in mano, quasi stesse sempre a frustare. Potrebbe interpretarsi di un santo che mortifica se stesso con la “disciplina”: concezione facile specialmente dopo S. Pier Damiani; oppure il fascetto di verghe potrebbe rappresentare uno strumento per la sveglia, un qualcosa di simile alla nostra “traccola”. Del resto, la discrezione di SB anche in questo appare manifesta, se si pensa alle terribili disposizioni penitenziali di S. Colombano.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XXII – Il dormitorio dei monaci

1 Ciascun monaco dorma in un letto proprio 2 e ne riceva la fornitura conforme alle consuetudini monastiche e secondo quanto disporrà l’abate. 3 Se è possibile dormano tutti nello stesso locale, ma se il numero rilevante non lo permette, riposino a dieci o venti per ambiente insieme con gli anziani incaricati della sorveglianza. 4 Nel dormitorio rimanga sempre accesa una lampada fino al mattino. 5 Dormano vestiti, con ai fianchi semplici cinture o corde, senza portare coltelli appesi al lato mentre riposano, per non ferirsi nel sonno. 6 Così i monaci siano sempre pronti e, appena dato il segnale, alzandosi senza indugio si affrettino a prevenirsi vicendevolmente per l’Ufficio divino, ma sempre con la massima gravità e modestia. 7 I più giovani non abbiano i letti vicini, ma alternati con quelli dei più anziani. 8 Quando poi si alzano per l’Ufficio divino, si esortino garbatamente a vicenda per prevenire le scuse degli assonnati.

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Approfondimenti

Nella RM si parla del dormitorio nel capitolo sui decani nell'ambito della sorveglianza che essi dovevano esercitare (RM 11,109-120) e se ne parla anche nel c. 29 a proposito dell'orario e del luogo per dormire. SB ne fa un capitolo a parte (RB. 22) subito dopo quello sui decani (RB. 21), come già aveva separato il consiglio dei fratelli dal capitolo sull'abate (RB 2-3) che in RM sono trattati insieme.

SB stabilisce tre cose: un letto per ogni monaco, rifare bene il letto alla levata, dormire vestiti e cinti e quest'ultima cosa per tre ragioni: essere pronti per l'Ufficio divino alla sveglia; evitare i pensieri impuri e la polluzione, non essere in ritardo all'Ufficio divino. SB conserva queste norme modificando qualcosa e abbreviando.

Evoluzione dalla cella al dormitorio, alla stanza singola RM prescrive un dormitorio unico per tutti; RB una o più sale e inoltre luoghi separati per i novizi (RB 58), i malati (RB 36) e gli ospiti (RB 53). In tutte e due le Regole è scomparso comunque l'uso delle celle separate, uso comune nel cenobitismo del secolo precedente (per il significato della cella, cf. Cassiano, Instit 10; Coll 24).

La sostituzione della cella a favore del dormitorio comune avviene alla fine del secolo V in Gallia (per evitare i vizi della proprietaà privata, della gola, dell'incontinenza), e la cosa si nota anche a Costantinopoli. I motivi iniziali dell'abbandono della cella sono il lavoro manuale e l'Ufficio divino in comune. In questo cambiamento dalla cella al dormitorio si deve vedere il fatto più importante della storia del monachesimo antico. La cella dava al monaco un carattere solitario e contemplativo; il suo abbandono significa che si lascia questo alto ideale per assicurare la pratica di certe virtù elementari; salvare la povertà e i buoni costumi sembra più urgente che l'orazione incessante.

La scelta per il dormitorio non è un progresso, ma un palliativo; la vita comune non è vista come un ideale superiore, ma come un rimedio richiesto dalla debolezza dei costumi. Del resto il sonno preso in comune non è che un ulteriore atto di una evoluzione verso una più stretta vita comunitaria (si iniziò con la preghiera e il lavoro). “Tale cambiamento rispetto alla tradizione è segno di vitalità e di robustezza...; dobbiamo ammirare la libertà che ci si prende di fronte alla materialità della tradizione” (De Vogue).

Quando SB scriveva la Regola (secolo VI), il dormitorio comune era una cosa scontata. Con l'evoluzione poi nel corso dei secoli, specialmente per lo sviluppo preso dal lavoro intellettuale e per le mutate condizioni dei tempi, al dormitorio comune si vennero man mano sostituendo le stanze singole, dove ogni monaco non solo dorme, ma prega o lavora fuori dei tempi e dei luoghi stabiliti per gli atti comuni.

1-4: Letti e dormitorio Non ci si meravigli del v.1: la disposizione che oggi sarebbe superflua, è comune nelle regole antiche; la rozzezza e la semplicità dei costumi esigeva l'esplicita proibizione che in un solo letto dormissero più persone. Qualche regola fissava anche la distanza tra un letto e l'altro. L'abate dà l'occorrente per il letto – un pagliericcio, una coperta leggera, una pesante e un cuscino; lo sappiamo da un altro passo della Regola (RB 55,15 – “pro modo conversationis”, v. 2).Che cosa significa precisamente? La traduzione più comune è: “secondo il loro genere di vita, secondo le usanze monastiche”, cioè che l'arredamento del letto non disdica alla semplicità e povertà della professione monastica. Però, considerando sopratutto un testo parallelo della “Vita Pachomii” 22 (in cui si nota la diversità di condotta individuale in seno alla stessa comunità monastica), si potrebbe anche intendere: “secondo il grado di fervore della vita monastica”. La “conversatio” (il modo di condurre la vita monastica) può essere , secondo la Regola, “miserabile” (RB 1,21), può essere all'inizio o alla perfezione (RB 73,1-2), è capace di un progresso (RB Prol. 49). A ciascuno di questi gradi corrisponde una maniera diversa di usare i beni materiali. Riguardo al letto, il tenore stabilito dalla Regola (RB 55,15) è il massimo; ognuno può avere bisogno di meno, secondo il grado di ascesi raggiunto. “Questa diversità di osservanza in seno alla comunità può sembrare estrema al nostro gusto di uniformità, ma non per questo è in disaccordo con lo spirito del cenobitismo antico, dalle origini all'epoca stessa di SB” (DeVogue).

3-4: La lampada accesa di notte RM prevedeva che i letti fossero a cerchio intorno al letto dell'abate (RM 29,2-4) e che la lampada fosse spenta subito dopo che tutti si erano messi a letto (RM 29,6); per non sprecare olio, si dice!) e quindi se c'era bisogno di alzarsi di notte, si doveva parlare. RB divide la comunità nel caso fosse troppo numerosa, in vari dormitori secondo le decanie e vuole che una lampada arda sempre nel dormitorio; e quindi che sia conservato il silenzio.

5-8: Modo di dormire e di levarsi Gli antichi dormivano nudi; però i monaci devono dormire vestiti, Come risulta da RB 55,10 i monaci indossavano di notte una “tunica” corrispondente quasi alla nostra camicia e la “cuculla”, che non aveva la forma attuale, ma somigliava piuttosto a un'ampia tonaca e arrivava al ginocchio o ai piedi. Di questi indumenti se ne prevedono due per “cambiarsi di notte e per lavarle” (RB 55,10). Portavano poi ai fianchi una cintura o corda, richiamandosi anche di notte al precetto del Signore: “Siano cinti i vostri fianchi...” (Lc 12,35). Per capire tutto il v.5, bisogna ricordare che di giorno i monaci portavano una cintura larga di cuoio, detta “bracile” (RB 55,19), a cui si appendevano utensili da lavoro. SB avverte che i fratelli devono, sì, essere cinti anche di notte, ma non di bracile, bensì di cinture semplici, di cordicelle, per evitare il pericolo di portare a letto anche i coltelli e le roncole, che sono abitualmente appesi al bracile. Tale pericolo è descritto nei particolari da RM 11,112.

v.6. Stando a letto vestiti e cinti, i monaci erano già in ordine per poter accorrere all'Ufficio notturno. Un po' di pulizia e il necessario cambiamento degli indumenti per il giorno, si faceva dopo, forse prima di andare al lavoro. “Così i monaci siano sempre pronti...”: c'è in questa frase tutta la spiritualità della veglia e dell'attesa del Signore; il tema della vigilanza (Mt 24,42-51; 25,1-13; Mc 13,33-37; Lc 12,35-48) era così caro al monachesimo antico; tutta la vita monastica deve essere una vigilia orante, una perenne attesa del Signore, che è sempre vicino, ma che viene sempre, finché tornerà definitivamente.

v.7. I letti dei giovani sono alternati a quelli degli anziani (seniori = adulti, o più probabilmente i decani): RB non pensa tanto ai pericoli per la castità, piuttosto alla dissipazione e alla pigrizia.

v.8. Alla levata i monaci si esortino vicendevolmente. SB è condotto da due principi: la carità fraterna (relazioni orizzontali che mancano in RM) e il ritegno nel parlare. I monaci vengono consigliati non solo ad emularsi nell'accorrere all'Ufficio, sia pur sempre con gravita` (v.6), ma anche a dirsi parole di incoraggiamento sia pure con moderazione (v.8), per togliere ogni scusa ai sonnolenti.

Nonostante quindi la gravità del silenzio notturno (cf. RB 42), SB mette le relazioni fraterne al di sopra, mostrando fino a qual punto egli consideri vitale l'educazione reciproca, il rapporto dei fratelli, di cui tratterà esplicitamente negli ultimi capitoli della Regola.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XXI – I decani del monastero

1 Se la comunità è abbastanza numerosa, si scelgano in essa alcuni monaci di buon esempio e di santa vita per costituirli decani; 2 essi vigileranno premurosamente, secondo le leggi di Dio e gli ordini dell’abate sui gruppi di dieci fratelli affidati alle loro rispettive cure. 3 Come decani devono essere eletti quei monaci con i quali l’abate possa tranquillamente condividere i suoi pesi 4 e in tale scelta non bisogna tener conto dell’ordine di anzianità, ma regolarsi solo in considerazione della condotta esemplare e della scienza delle cose di Dio. 5 Se poi fra questi decani ce ne fosse qualcuno che, montato un po’ in superbia, dovesse essere ripreso, sia rimproverato una prima, una seconda e una terza volta e, se non vorrà correggersi, 6 venga sostituito con un altro veramente degno. 7 La stessa cosa stabiliamo per il priore.

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Approfondimenti

Decanus (decano) o decurio (decurione) era chiamato nell'esercito romano chi era a capo di una “decuria” o “contubernium”, cioè un gruppo di dieci soldati; così era divisa la “centuria” (=100 soldati), con a capo un “centurione”. Però i monaci antichi, per l'organizzazione in decanie non si rifanno all'esercito romano, ma sopratutto alla Scrittura (Esodo). La fonte a cui attinge SB è la tradizione monastica egiziana ampiamente attestata da S. Girolamo (Epistola 22,35), S. Agostino (Costumi della Chiesa cattolica 1,67) e sopratutto da Cassiano (Inst. 4,7.10.17): i cenobiti egiziani erano ordinati a gruppi di dieci sottoposti ciascuno a un decano; il complesso di dieci decurie stava alle dipendenze di un capo superiore (“centesimus”). Cassiano non usa mai la parola “decano”, ma “praepositus” (come farà la RM) o “senior” (più anziano).

Secondo la RM (c. 11) i prepositi (= i decani della RB) sono dei guardiani perpetui e minuziosi (difatti ne vengono prescritti due per ogni decania, mentre ciò non appare nella RB) il cui primo dovere consiste nello stare sempre con i fratelli e vegliare su ogni loro difetto e riprenderli immediatamente con avvertenze appropriate citando la Scrittura. Certo, al lettore moderno desta meraviglia il vedere applicato ad adulti un sistema di vigilanza che oggi non si concepisce nemmeno per i fanciulli!

Nella RB l'incarico di un decano è di più largo respiro, più pedagogico e più spirituale, come appare dalle qualità richieste (vv.1-4).

1-4: Nomina, qualità e ufficio dei decani La necessità di ricorrere a decani si avvera solo quando la comunità è alquanto numerosa (cioè – considerando che SB parla sempre di decanie al plurale – non al di sotto di una ventina di membri). SB in questo capitolo ha certo presente, come Cassiano (Inst. 4,7), l'episodio di Ietro che consiglia a Mosè di procurarsi degli uomini di buona fama e timorati di Dio che lo aiutassero nel giudicare il popolo (Es 18,21 e parallelo Dt 1,13), ma più ancora l'elezione dei primi diaconi (Atti 6,1-3).

Abbiamo nel testo tre volte la parola “elegantur” e una volta la parola “constituentur”. Da chi erano scelti i decani? Certo non si può pensare ad una elezione da parte della comunità con valore deliberativo anche contro il volere dell'abate; è troppo chiaro da tutta la Regola che, per conservare la pace e l'unione, l'organizzazione dipende dall'abate. Dunque era certamente lui a costituire i decani; ma non può escludersi da testo e dal contesto che nella scelta entrassero anche altri membri della comunità; o i monaci presentavano i candidati, oppure l'abate consultava alcuni fratelli “timorati di Dio” (RB 65,15).

Come si diceva sopra, l'incarico di decano in RB, a differenza di RM, è più pedagogico e spirituale. Si esige anzitutto che siano “stimati”, letteralmente “di buona reputazione” boni testimonii fratres, espressione tratta da Atti 6,3 a proposito dei diaconi; inoltre che siano di “santa vita monastica” sanctae conversationis. Più sotto, al v. 4, abbiamo una coppia di qualità richieste per chi deve essere ordinato abate (RB 64,2): vitae meritum et sapientiae doctrinam (santita` di vita e dottrina spirituale). Il significato è evidente: che l'abate “possa condividere con loro tutti i pesi suoi” (v. 3), (l'espressione richiama Es 18,22), compresa la responsabilità spirituale: insegnare le vie di Dio ai fratelli loro affidati.

5-7: Provvedimenti in caso di decani indegni o di priore indegno Abbiamo anche un'anticipazione del codice penale (che inizia al c. 23), per il caso dei decani indegni che montassero in superbia; per i monaci l'ammonizione era duplice (RB 23,2), per i decani è triplice.

Improvvisamente appare la menzione del “presposito”, quello che oggi si chiama priore. SB, influenzato dalla mentalità pacomiana, preferisce certo l'organizzazione del monastero in decanie (RB 65,12); è probabile che quando scriveva il presente capitolo non pensava ancora all'istituzione del priore; costretto poi dall'esperienza e dall'uso, lo avrà permesso; e allora avrà aggiunto questa postilla (v. 7) al c.21. Più tardi ancora, meglio ammaestrato dall'esperienza, sarà stato indotto a scrivere il c. 65; si osservi infatti che lì prescriverà quattro (e non tre) ammonizioni per il priore (RB 65,18).

Oggi alcune mansioni degli antichi decani sono raccolte nel priore (o vice-priore); altre sono ripartite tra gli officiali del monastero, sopratutto economo, maestro dei novizi, ecc. Il senso della corresponsabilità poi è inculcato dalla mentalità nuova della Chiesa e dall'importanza del capitolo di famiglia. (Talvolta i decani si usano soltanto per i gruppi di novizi o di giovani monaci nel periodo di formazione).

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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