📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

Vocazione di Isaia 1Nell’anno in cui morì il re Ozia, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio. 2Sopra di lui stavano dei serafini; ognuno aveva sei ali: con due si copriva la faccia, con due si copriva i piedi e con due volava. 3Proclamavano l’uno all’altro, dicendo: «Santo, santo, santo il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria». 4Vibravano gli stipiti delle porte al risuonare di quella voce, mentre il tempio si riempiva di fumo. 5E dissi: «Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti». 6Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. 7Egli mi toccò la bocca e disse: «Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato». 8Poi io udii la voce del Signore che diceva: «Chi manderò e chi andrà per noi?». E io risposi: «Eccomi, manda me!». 9Egli disse: «Va’ e riferisci a questo popolo: “Ascoltate pure, ma non comprenderete, osservate pure, ma non conoscerete”. 10Rendi insensibile il cuore di questo popolo, rendilo duro d’orecchio e acceca i suoi occhi, e non veda con gli occhi né oda con gli orecchi né comprenda con il cuore né si converta in modo da essere guarito». 11Io dissi: «Fino a quando, Signore?». Egli rispose: «Fino a quando le città non siano devastate, senza abitanti, le case senza uomini e la campagna resti deserta e desolata». 12Il Signore scaccerà la gente e grande sarà l’abbandono nella terra. 13Ne rimarrà una decima parte, ma sarà ancora preda della distruzione come una quercia e come un terebinto, di cui alla caduta resta il ceppo: seme santo il suo ceppo.

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Approfondimenti

IL MEMORIALE DI ISAIA _6,1-9,6 I capitoli da 6,1 a 9,6 costituiscono un'unità, comunemente conosciuta come “memoriale di Isaia” Con questo scritto, composto in prima persona poco tempo dopo i avvenimenti della cosiddetta “guerra siro-efraimitica”, il profeta intese testimoniare, ai suoi discepoli e a tutto il popolo, l'autenticità della propria missione da parte del Signore e quindi la responsabilità dei capi che non avevano accolto la sua parola. Oggi la maggior parte degli studiosi ritiene che il memoriale originario si estendesse da 6,1 a 8,18. In 8,19-9,6 abbiamo aggiunte di diversa natura e importanza. Inoltre anche nella parte riconosciuta originaria si incontrano diversi interventi redazionali. Soprattutto nel c. 7 la rielaborazione deuteronomistica è stata così profonda che riesce per lo più difficile separare la parola del profeta dalla rielaborazione successiva. Infine sono state effettuate delle aggiunte in alcuni punti che si prestavano ad essere attualizzati per le necessità di epoche successive. Le più significative sono: 6,12-13; 7,1.8b.15.18-23; 8,9-10.

L'organicità del messaggio, qui sviluppato, si riflette nella stessa struttura letteraria della nostra unità. Il racconto della vocazione, posto all'inizio della raccolta (Is 6,1-13) e richiamato alla fine (8,11-18), forma una grandiosa inclusione. A sua volta la parte centrale (7,1-8,10), presenta un'organizzazione chiastica secondo il seguente schema:

a. Appello alla confidenza nel Signore (7,1-9) b. Transizione (7,10) c. Nascita dell'Emmanuele (7,11-17; altre glosse) c. Nascita di Mahèr-salàl-cash-baz (8,1-4) b. Transizione (8,5) a. Conseguenze per la mancata confidenza (8,6-8).

Un primo sguardo a questa struttura offre un prezioso orientamento. La vocazione di Isaia appare, anzitutto, tesa a rinnovare nel popolo l'atteggiamento esistenziale, e perciò concreto e dinamico, della fiducia nel Signore. Al tempo stesso il profeta non raccoglie il frutto della propria missione, ma deve constatare la persistente ostinazione dei capi, preoccupati solo delle proprie sicurezze sociali e politiche, e quindi sordi alla parola e al disegno del Signore.

Vocazione di Isaia 6,1-13 Per alcuni si tratta di un racconto di vocazione, mentre per altri la pericope contiene il racconto di un incarico particolare, relativo all'“indurimento” del popolo (vv. 9-10). La seconda opinione non convince. La pericope di Is 6 è legata al memoriale. La scelta redazionale di evidenziare il memoriale, incorniciandolo in una serie particolare di detti profetici, ha avuto come conseguenza che la nostra pagina venisse a trovarsi nell'attuale collocazione. Se si tiene presente la storia della tradizione, la nostra pagina appare caratterizzata dal motivo dell'uomo che è ammesso al consiglio divino. Tale fatto testimonia una concezione nella quale il profeta è compreso come messaggero di Dio. Si tratta di una tradizione che si situa parallela a quella rappresentata dalla narrazione della vocazione di Geremia. Quest'ultima, infatti, incentrata sull'evento della parola, riflette lo schema della chiamata di guide carismatiche, come risulta anche dall'affinità con i racconti della vocazione di Mosè (Es 3) e di Gedeone (Gdc 6). Il racconto della vocazione di Ezechiele (Ez 1-3), che fonde insieme gli elementi di entrambi le tradizioni, ma a livello formale, privilegia la struttura bipartita di Is 6 (visione-audizione) e costituisce un'ulteriore conferma che lo schema della nostra pagina venne inteso come narrazione vocazionale.

Comunemente la pagina di Is 6 è suddivisa in tre parti: teofania (vv. 1-5); consacrazione (vv. 6-7); missione (vv. 8-13; oppure 8-11 poiché i vv. 12-13 sono da ritenersi delle glosse successive). In realtà sotto il profilo letterario il testo consta soltanto di due parti: visione (vv. 1-7) e audizione (vv. 8-11). Esse sono chiaramente contrassegnate dalle forme verbali «io vidi» (v. 1) e «io udii» (v. 8). All'interno della prima parte troviamo le locuzioni «E dissi» (v. 5), «e disse» (v. 7) che circoscrivono un dialogo tra Isaia e il serafino. Analogamente, nella seconda parte, le stesse locuzioni, riprodotte due volte (prima nei vv. 8 e 9; quindi nel v. 11), registrano l'intensificarsi del dialogo tra il profeta e il Signore.

1-7. La struttura, appena individuata, permette di cogliere lo sviluppo organico del racconto. Isaia si trova nel tempio. Durante una celebrazione cultuale, come insinua l'acclamazione del v. 3, si verifica una esperienza decisiva per la vita del profeta e per la stessa tradizione biblica. Isaia si incontra con il Signore in un modo nuovo e personale. L'immagine del trono «alto ed elevato» (v. 1) e l'affermazione «i miei occhi hanno visto il re» (v. 5) racchiudono in un'inclusione il nucleo stesso della visione. Il profeta percepisce la regalità del Signore come elemento basilare nel rapporto del popolo con il suo Dio. Nella tradizione dell'Antico Oriente il re, secondo i lineamenti assunti dalla sua figura idealizzata, era la guida del popolo, l'amministratore della giustizia e, infine, il difensore dei deboli. L'esperienza isaiana si situa in questo orizzonte di salvezza e di speranza. Essa, però, sottolinea in modo speciale la potenza del Signore re. Ciò è anzitutto rimarcato dalla presenza dei «serafini». Infatti il loro stesso nome, che significa gli «incandescenti», orienta a contemplare il Signore nel simbolo del fuoco (v. 2). Inoltre nessuno dei serafini può vedere direttamente Dio (si copre il volto), anche se ognuno di essi sta alla sua presenza in atteggiamento di totale venerazione (si copre il corpo) e di pronta disponibilità al suo volere (si libra per attuare immediatamente la parola divina). Resi incandescenti dalla loro vicinanza a Dio, i serafini ne proclamano la santità (v. 3).

Con il termine «santo», che racchiude un concetto vitale per la fede biblica, si confessa il Signore in quanto pienezza di vita, di potenza, di amore e di fedeltà. Nei vv. 1-5 il vocabolario della pienezza ricorre tre volte, come il termine «santo» nel trisagio del v. 3. Nel v. 1 i lembi del manto divino (l'espressione allude al Dio nascosto, ma riconoscibile nelle sue manifestazioni) «riempiono» il tempio (luogo per eccellenza dell'incontro tra il popolo e il suo Dio). Nel v. 4 la casa del Signore «si riempie» di fumo, simbolo di una presenza che supera ogni conoscenza ed esperienza umana, Infine nel v. 3, che occupa evidentemente una posizione centrale, si proclama che la gloria del Signore «riempirà» tutta la terra. Con il termine «gloria» (kābôd) si connota la potenza del Signore che si manifesta nelle meraviglie delle sue opere e, al tempo stesso, porta il popolo a confessare il Dio santo nella grandezza del suo amore e nella munificenza della sua fedeltà. La locuzione «Signore degli eserciti» evidenzia il carattere salvifico della potenza divina che suscita la fiducia nelle prove e l'adorazione nella liturgia. La proclamazione del Signore «veramente santo» e «santo in grado sommo» (secondo il significato della triplice ripetizione) è dunque associata all'annuncio della manifestazione salvifica della sua gloria. La regalità del Signore delle schiere è l'epifania della sua santità nella storia del suo popolo e di tutta l'umanità. Perciò la presenza di Dio, che riempie il tempio, è preludio di quella presenza gloriosa, che costituirà “la pienezza di tutta la terra” (v. 3b).

Questa esperienza teofanica, evidenziata anche dal v. 4 con il motivo degli stipiti che vibrano e del fumo che, come nube, riempie il luogo della divina presenza (cfr. Es 19, 16.18), porta Isaia a percepire la verità della tradizione secondo cui nessun uomo può vedere Dio e rimanere in vita (cfr. Es 33, 20). Egli si sente perduto, soprattutto perché nell'incontro con il Signore ha la chiara coscienza di essere peccatore e di vivere in mezzo a un popolo peccatore (v. 5). “L'impurità” delle labbra non denota solo delle colpe connesse formalmente con la lingua, ma connota la situazione nella quale si trovano Isaia e il popolo, incapaci di accostarsi al Dio santo (cfr. Prv 10,6-32). La breve, ma ricca scena dei vv. 6-7 appartiene strutturalmente alla descrizione della visione, che si ispira forse a un rituale di purificazione connesso con l'altare dell'incenso, o l'altare d'oro (cfr. 1Re 8,48), e si sviluppa su un piano simbolico, il cui centro dinamico è ancora rappresentato dall'immagine del fuoco. L'altare, al quale nemmeno i ministri incandescenti del re possono avvicinarsi, è qui simbolo del Signore stesso, fuoco infinito di santità e di gloria, di vita e di amore. La parola, che svela il signiticato dell'azione (v. 7), dichiara che il fuoco (di JHWH) ha toccato le labbra del profeta e per questo la sua persona è liberata dalla colpa. Per Isaia l'incontro con il Dio santo si è convertito in sorgente di espiazione, dunque di vita. Per il popolo peccatore esiste tale possibilità? La seconda parte del racconto, l'audizione (vv. 8-11), dischiude la risposta a questo interrogativo.

8-11. La voce che Isaia ascolta riprende il motivo dell'uomo chiamato a partecipare al consiglio divino. La successione dei verbi «mandare» – «andare» è significativa: l'uomo può andare come profeta solo se è mandato dal Signore stesso (cfr. Es 3,10; Ger 1,7). L'espressione «Eccomi, manda me!» esprime la disponibilità interiore di Isaia che, introdotto dalla visione nell'esperienza del Dio santo, apre la propria esistenza alla missione che gli viene affidata. La risposta divina ne rappresenta la necessaria conferma (v. 9a), Il v. 9b non va inteso come una minaccia o un'invettiva e nemmeno come una “parola performativa” che realizza ciò che esprime. Il profeta deve chiamare il popolo ad «ascoltare» e «osservare». Tuttavia «questo popolo» non comprende e non conosce (nella relazione finale del libro il messaggio è stato significativamente richiamato all'inizio dell'opera, cfr. 1,2-3). In 9b abbiamo quindi la caratterizzazione del popolo che, nonostante l'annuncio della parola profetica, rimane refrattario all'esperienza del Signore e all'ascolto della sua voce. Questa dimensione viene approfondita nel v. 10 che presenta una struttura chiastica perfetta e che si può tradurre così:

Impingua il cuore di questo popolo, rendine sordi gli orecchi e accecane gli occhi, perché non veda con gli occhi, non ascolti con gli orecchi e non comprenda con il cuore.

Gli imperativi rivolti al profeta nel v. 10a non esprimono un comando (che sarebbe assurdo e del resto contraddetto dalla stessa attività profetica di Isaia), ma intendono rilevare che fin dal momento della vocazione-missione il Signore conosceva anticipatamente l'ostinato rifiuto del suo popolo. In altri termini il comando positivo dell'annuncio della parola (v. 9b) avrebbe avuto un effetto antitetico a quello voluto di portare il popolo a «conoscere» il Signore e a «comprendere» le sue vie. Il richiamo alla tradizione cultuale di Dt 29,3, che forse Isaia conosceva, spiega la ragione profonda dell'ostinazione del popolo. Questi non ascolta la voce del profeta, perché non celebra in modo autentico il culto del Signore (cfr. 1,11-17) e quindi non riceve dal suo Dio il cuore della sapienza, gli occhi della visione e gli orecchi dell'ascolto. L'espressione del v. 10c, che cade fuori della struttura chiastica, è una glossa. Essa, comunque, ha il pregio di offrire una profonda interpretazione della parola di Isaia in quanto vede nell'accoglienza del cuore nuovo, della visione e dell'ascolto l'espressione esistenziale della conversione (cfr. 1, 18).

La domanda di Isaia «Fino a quando, Signore?» (v. 11), che proviene dal linguaggio della lamentazione in favore del popolo (cfr. Sal 6,4; 74,10; 80,5; 90,13), mostra che per il profeta il giudizio non costituisce l'ultimo scopo dell'intervento di Dio nella storia del suo popolo. In questo contesto appare che la risposta non intende annunciare la fine di Israele, ma un momento culmine di prova, dopo il quale si verifica l'attesa svolta della salvezza.

12-13, Due aggiunte significative hanno attualizzato il messaggio di questa pagina. Con l'immagine del Signore che allontana gli uomini dal paese il v. 12 riferisce il giudizio di cui parla Isaia alla caduta del regno di Israele e alla deportazione in massa di gran parte della sua popolazione. Il v. 13ab applica il giudizio al regno di Giuda (la proporzione tra Giuda e Israele era di 1 a 10) e si riferisce quindi alla caduta di Gerusalemme. Invece il v. 13c descrive la «progenie santa» che si sviluppa sul ceppo rimasto dopo il giudizio. I vv. 12-13ab sono una reinterpretazione deuteronomistica del periodo di Giosia, mentre il v. 13c riflette la rilettura maturata al tempo di Esdra, quando i rimpatriati da Babilonia si consideravano la «progenie santa». Contrapponendosi alla popolazione rimasta nel paese, dopo la caduta di Gerusalemme, e che appariva impura per i suoi compromessi con le pratiche religiose cananee o di altri popoli deportati, i rimpatriati da Babilonia si ritenevano la «progenie santa», il resto che, purificato dalla prova, era destinato a un futuro grandioso secondo la promessa. Questa reinterpretazione positiva della progenie santa, che la comunità di Qumran alcuni secoli dopo applicava a se stessa, testimonia che le generazioni successive hanno saputo leggere nel racconto della vocazione di Isaia quell'apertura al futuro della salvezza, dalla quale esso era profondamente caratterizzato.

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Israele, la vigna del Signore 1Voglio cantare per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna. Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. 2Egli l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato viti pregiate; in mezzo vi aveva costruito una torre e scavato anche un tino. Egli aspettò che producesse uva; essa produsse, invece, acini acerbi. 3E ora, abitanti di Gerusalemme e uomini di Giuda, siate voi giudici fra me e la mia vigna. 4Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto? Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi? 5Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata. 6La renderò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni; alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia. 7Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi.

Raccolta di una serie di «Guai» 8Guai a voi, che aggiungete casa a casa e unite campo a campo, finché non vi sia più spazio, e così restate soli ad abitare nella terra. 9Ha giurato ai miei orecchi il Signore degli eserciti: «Certo, molti palazzi diventeranno una desolazione, grandi e belli saranno senza abitanti». 10Poiché dieci iugeri di vigna produrranno solo un bat e un homer di seme produrrà un’efa. 11Guai a coloro che si alzano presto al mattino e vanno in cerca di bevande inebrianti e si attardano alla sera. Il vino li infiamma. 12Ci sono cetre e arpe, tamburelli e flauti e vino per i loro banchetti; ma non badano all’azione del Signore, non vedono l’opera delle sue mani. 13Perciò il mio popolo sarà deportato senza che neppure lo sospetti. I suoi grandi periranno di fame, il suo popolo sarà arso dalla sete. 14Pertanto gli inferi dilatano le loro fauci, spalancano senza misura la loro bocca. Vi precipitano dentro la nobiltà e il popolo, il tripudio e la gioia della città. 15L’uomo sarà piegato, il mortale sarà abbassato, gli occhi dei superbi si abbasseranno. 16Sarà esaltato il Signore degli eserciti nel giudizio e il Dio santo si mostrerà santo nella giustizia. 17Allora vi pascoleranno gli agnelli come nei loro prati, sulle rovine brucheranno i grassi capretti. 18Guai a coloro che si tirano addosso il castigo con corde da tori e il peccato con funi da carro, 19che dicono: «Faccia presto, acceleri pure l’opera sua, perché la vediamo; si facciano più vicini e si compiano i progetti del Santo d’Israele, perché li conosciamo». 20Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro. 21Guai a coloro che si credono sapienti e si reputano intelligenti. 22Guai a coloro che sono gagliardi nel bere vino, valorosi nel mescere bevande inebrianti, 23a coloro che assolvono per regali un colpevole e privano del suo diritto l’innocente. 24Perciò, come una lingua di fuoco divora la stoppia e una fiamma consuma la paglia, così le loro radici diventeranno un marciume e la loro fioritura volerà via come polvere, perché hanno rigettato la legge del Signore degli eserciti, hanno disprezzato la parola del Santo d’Israele.

Lo sdegno del Signore contro il suo popolo 25Per questo è divampato lo sdegno del Signore contro il suo popolo, su di esso ha steso la sua mano per colpire; hanno tremato i monti, i loro cadaveri erano come immondizia in mezzo alle strade. Con tutto ciò non si calma la sua ira e la sua mano resta ancora tesa. 26Egli alzerà un segnale a una nazione lontana e le farà un fischio all’estremità della terra; ed ecco, essa verrà veloce e leggera. 27Nessuno fra loro è stanco o inciampa, nessuno sonnecchia o dorme, non si scioglie la cintura dei suoi fianchi e non si slaccia il legaccio dei suoi sandali. 28Le sue frecce sono acuminate, e ben tesi tutti i suoi archi; gli zoccoli dei suoi cavalli sono come pietre e le ruote dei suoi carri come un turbine. 29Il suo ruggito è come quello di una leonessa, ruggisce come un leoncello; freme e afferra la preda, la pone al sicuro, nessuno gliela strappa. 30Fremerà su di lui in quel giorno come freme il mare; si guarderà la terra: ecco, saranno tenebre, angoscia, e la luce sarà oscurata dalla caligine.

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Approfondimenti

Israele, la vigna del Signore 5,1-7 Questo «cantico d'amore» o «cantico dell'amato» è un capolavoro nel quale l'arte poetica e il messaggio profetico si fondono in una unità di straordinaria bellezza e di inesauribile ricchezza.

1-6. Il testo è dominato dalle esperienze e dalle immagini della vita agricola. Si narra l'assiduo lavoro del viticoltore, si descrivono le sue cure per custodire la vigna al tempo della vendemmia, cure che si concretizzano addirittura in opere straordinarie, come la costruzione di una «torre» di pietra invece di una semplice capanna di frasche (v. 2). Lo sviluppo del cantico dischiude presto un secondo livello. La poesia non canta un amore bucolico, ma una storia umana d'amore. Il motivo del lavoro insinua l'agire premuroso dell'innamorato pieno di attenzione verso l'amata, nell'attesa che il loro amore possa sviluppare i frutti attesi. L'amara sorpresa del viticoltore diventa così simbolo eloquente dell'accorata delusione dell'innamorato che constata la mancata corrispondenza al proprio amore. A questo punto, però, la minaccia dell'innamorato, che comanda alle nubi di non mandare più pioggia, rivela il terzo livello del cantico, la sua intenzionalità profetica. Il poema proclama il dramma dell'amore del Signore verso il suo popolo: amore che si manifesta nell'intensità appassionata della tenerezza sponsale e sperimenta l'amarezza di una non-corrispondenza, che si configura come infedeltà. La bellezza del poema si riflette anche nella costruzione artistica del testo. Il termine che conferisce alla composizione il suo carattere unitario e la sua tensione dinamica è il verbo «fare»: esso compare due volte nel v. 2 per indicare i frutti attesi e non corrisposti dalla vigna; due volte nel v. 4a per proclamare l'opera del Signore e due volte in 4b per rilevare lo stupore davanti alla mancanza dei frutti; infine una volta (v. 5) per annunciare la punizione che il Signore infliggerà alla sua vigna. Il v. 4 appare qui il punto ideale di convergenza di tutta la composizione, il centro interiore del poema. Anche il verbo «aspettare» svolge una funzione fondamentale nella nostra poesia. Esso si incontra nell'ultimo stico del v. 2. La descrizione dell'attesa appare a prima vista come la conseguenza normale di tutta l'attività descritta nella serie dei cinque verbi precedenti. La frase finale del v. 2 («ma essa fece uva selvatica») conferisce all'attesa un'improvvisa e imprevista tensione. Ora è l'uditore (o il lettore) della parabola che si trova coinvolto nell'attesa di conoscere la conclusione del racconto. Il verbo «aspettare» ricompare nel v. 4, cioè nel centro dinamico e strutturale del poema, per esprimere la sorpresa e lo sbigottimento davanti a un risultato opposto a quello giustamente atteso. Infine il nostro verbo ricorre nel v. 7, formando così una suggestiva inclusione con il v. 2.

7. Proprio in questo versetto il cantico svela il suo significato: l'attesa dell'uditore si scioglie e il popolo si incontra con la parola che annuncia il giudizio del Signore. In realtà il nostro poema appartiene al genere letterario del discorso di accusa. Più precisamente nei vv. 1-4 si incontrano gli elementi propri della requisitoria: la constatazione dell'esistenza di un rapporto vincolante tra il querelante e il querelato (proprietario-vigna; sposo-sposa; JHWH-Israele); il compimento del proprio impegno da parte del querelante; l'accusa per l'inadempienza del querelato e, infine, l'appello alla comunità giuridica perché sia arbitra nella querela. Il fatto che nei vv. 5-6 il proprietario stesso intervenga, emettendo la sentenza, al punto che i “giudici” diventano i “giudicati”, contribuisce ad accrescere la tensione narrativa già innescata dai verbi «fare» e «aspettare». Al culmine di questa tensione il v. 7 rivela l'identità dei protagonisti. Il proprietario è il Signore in quanto sposo, la vigna è la comunità in quanto sposa. L'“io” che intona il cantico (v. 1) è il profeta stesso che qui si presenta, in quanto “amico dello sposo”, nella suggestiva immagine di colui che prepara il tempo delle nozze. Infine con una frase scultorea si evidenzia il contenuto dell'attesa divina. Con un gioco di allitterazioni il profeta annuncia che il Signore attendeva il diritto, ma si è moltiplicato il delitto, si attendeva la giustizia, ma si è sviluppata l'ingiustizia nella forma violenta dell'oppressione.

Raccolta di una serie di «Guai» 5,8-24 La pericope, ben distinta dalla precedente, nell'attuale contesto si pone come commento alla requisitoria di 5,1-7. Essa in origine era costituita da una raccolta di sette «Guai», di cui sei contenuti nei nostri versetti, mentre il settimo, in seguito a una attività redazionale, venne a trovarsi in 10,1-3. Anche se i singoli detti nella maggior parte sono stati pronunciati da Isaia in circostanze diverse, la raccolta come tale risale all'epoca di Giosia. Il genere profetico dei detti «Guai» ha la sua lontana origine nel lamento funebre (cfr. 1Re 13,30; Ger 22,18; 34,5). Questa forma poteva essere usata anche in riferimento ai vivi. In questo caso si dichiarava che le persone nominate erano da piangere perché si trovavano già sotto il dominio della morte. Il detto, in simile contesto, è molto affine a una maledizione e attesta che, nella prospettiva biblica, “maledire” non significa tanto auspicare o attirare la sventura su una determinata persona, quanto dichiarare che essa si trova già nell'ambito della rovina e della morte. E inoltre significativo il fatto che, nell'uso profetico, dopo il grido segue non un sostantivo, ma un participio. È evidente che il profeta condanna non la persona, bensì ogni comportamento antitetico al disegno di Dio.

8-10. Secondo la tradizione antica di Israele, la terra apparteneva al clan che ne assicurava la distribuzione ai propri cittadini. Però l'instabilità economica e la tassazione eccessiva portavano facilmente i piccoli proprietari a forti indebitamenti per cui erano costretti a vendere le terre, riducendosi così allo stato di braccianti o schiavi. Il detto condanna coloro che speculano sulle strutture inique del sistema, trascurando ogni esigenza di giustizia e solidarietà pur di accrescere la loro ricchezza immobiliare. «Dieci iugeri» (v. 10): una vigna di ca. 20.000 mq produrrà solo 22 litri di vino (un bat). Un comer di seme produrrà solo un'efa (circa 9 kg), cioè la decima parte.

11-17. Questo detto si rivolge contro il mondo irresponsabile dei ricchi e dei capi che si dedicano al bere e alle feste. Gli elementi della sua struttura (grido e minaccia) presentano delle particolarità: il grido (v. 11) è ampliato con la descrizione del v. 12. A sua volta la minaccia è duplicata (cfr. v. 13 e v. 14: in ebraico iniziano con la stessa espressione «Perciò», mentre nella nostra traduzione troviamo:«Perciò» e «Pertanto»). Inoltre il v. 14 originariamente continuava con il v. 17, mentre i vv. 15-16 sono un'aggiunta postesilica che in questo contesto richiama il tema teologico dell' esaltazione del Signore già sviluppato nel c. 2. Il detto, che si ispira alla tradizione sapienziale (cfr. Prv 20,1; 23,29-35), condanna la classe dirigente perché trascorre il tempo nell'irresponsabilità e nell'ubriachezza. La severità del castigo minacciato (v. 13) mette in luce l'estrema gravità della colpa appena descritta. Il v. 14, forse di mano deuteronomistica, si inserisce in questo discorso con l'immagine degli «inferi» che dilatano le fauci per accogliere quanti vi cadono, colpiti dal giudizio di Dio. Da parte loro i vv. 15-16, richiamandosi al «giorno del Signore», annunciato nel c. 2, presentano una reinterpretazione del giudizio. Attraverso di esso l'uomo superbo si abbassa (quindi riconosce Dio e il suo disegno), mentre il Signore si manifesta nella sua gloria e santità, dunque come potenza che trasforma il suo popolo, perché viva nel diritto e nella giustizia. Infine il v. 17 afferma che la città, raggiunta dal giudizio di Dio, diventa un pascolo e un luogo di transito per i nomadi. Si tratta di un motivo (cfr. 17,2; 27,10; 32,14) che attesta la reale efficacia dell'intervento di Dio contro ogni forma di ingiustizia e di irresponsabilità.

18-19. Il profeta ha di mira i potenti di Gerusalemme che rifiutano di accogliere la parola profetica e con la loro ostinazione attirano su di sé il castigo. Dopo il grido di minaccia (v. 18) si descrive la colpa, mostrando, con ironia, l'arroganza di chi non crede alla parola e sfida il Signore a realizzare la sua opera e ad adempiere il suo disegno.

20. Per Isaia il bene è strettamente legato alla giustizia e, in particolare, alla protezione di quanti sono privi di ogni difesa. Il detto, quindi, prende direttamente di mira i responsabili della giustizia che non giudicano secondo verità, ma si lasciano corrompere dai regali (cfr. Am 2,6-7a; Dt 10,16-19).

21. Il detto ha di mira coloro che si ritengono dotati di sapienza e di discernimento e si basano su questa autocoscienza per non ascoltare la parola del Signore.

22-23. Mentre nei vv. 11-13 l'abuso del vino chiude gli uomini alla conoscenza del disegno del Signore, qui esso è condannato perché li spinge a violare le esigenze fondamentali della giustizia, per es. dichiarando innocente il colpevole. In tal modo essi tolgono al giusto la sua giustizia (v. 23) e così manifestano di essere agli antipodi del Signore, che «toglie» ogni sostegno a coloro che non praticano la giustizia e la fraternità (cfr. 3,1; 5,5 e la reinterpretazione di 3,18).

24. Il versetto ha la funzione di collegare la raccolta dei «Guai» con il v. 25 nel quale si annuncia, con l'immagine della mano tesa, l'effetto dell'ira del Signore contro il suo popolo. L'immagine del fuoco che «divora la stoppia» e la stessa erba illumina la sorte di coloro che non agiscono secondo il disegno del Signore. Il vocabolario e il contenuto mostrano che si tratta di una reinterpretazione recente, influenzata dalla concezione teologica del Cronista (cfr. 1,4).

Lo sdegno del Signore contro il suo popolo 5,25-30 La locuzione «Con tutto ciò non si calma la sua ira / e la sua mano resta ancora tesa», presente nel v. 25, si incontra anche nel poema di Is 9,7-20, dove svolge la funzione di ritornello (vv. 11.16.20). Questo dato orienta a ritenere, con la maggior parte degli studiosi, che il v. 25 apparteneva in origine al brano citato di 1s 9, brano che in base al suo ritornello può essere chiamato il poema della «mano tesa». Molto probabilmente il v. 25, che a noi è giunto in forma incompleta, si trovava alla fine del poema e aveva la funzione di introdurre la descrizione dell'arrivo degli invasori, chiamati dall'ira del Signore contro il suo popolo (5, 26-30). L'intervento redazionale, che anticipò l'ultima parte del poema nella posizione attuale, è frutto di una rivisitazione del messaggio di Isaia secondo precisi obiettivi. Anzitutto si volle dare un forte risalto alla raccolta di Is 6,1-8,23, chiamata “memoriale di Isaia”. Grazie alla posizione occupata ora da 5,25-30 il memoriale è messo in stretto rapporto con l'annuncio della minaccia assira che coinvolse, prima indirettamente (c. 7) e poi direttamente (c. 8), anche il regno di Giuda e la stessa città di Gerusalemme. In secondo luogo si intese affermare che la minaccia del profeta (cfr. Is 6, 11) si era adempiuta con l'invasione assira che pose fine al regno del Nord. Infine, facendo leva sul fatto che le minacce si erano già adempiute, ci si propose di rafforzare in tutti la fede nella promessa della salvezza, che Isaia aveva annunciato a Gerusalemme e alla casa di Davide (cfr. 7,7). Nel contesto attuale il v. 25 annuncia l'irrompere dell'ira del Signore come conseguenza delle numerose infedeltà descritte nella sezione dei «Guai». L'ira del Signore è un'immagine centrale nella «Visione di Isaia», come nell'insieme di tutta la Scrittura. Essa indica la situazione di un individuo e, soprattutto, di una comunità che, per una grave infrazione, non si trova più in comunione con il Signore. Poiché tale comunione è sorgente di vita, chi si situa fuori di essa entra con ciò stesso in un ambito dominato dalle potenze della morte che lo portano alla totale estinzione. In definitiva il tema dell'ira del Signore connota l'antiesi assoluta tra il disegno di Dio e le forze del male, tra la salvezza e la perdizione, tra la vita e la morte. Perciò l'ira può essere stornata solo eliminando la causa che l'ha suscitata. Soltanto più tardi, con Ezechiele, Israele prenderà coscienza che il peccatore è incapace di liberarsi dalle forze del male. Allora il concetto teologico dell'ira di Dio porterà la fede a confessare che il Signore, per essere fedele al suo amore, trasforma l'intimo dell'uomo con il dono del suo Spirito, liberandolo così da ogni iniquità e rendendolo partecipe della sua vita (cfr. Ez 36,24-28; Is 54, 4-13).

26-30. Il Signore è presentato nell'atto di rivolgersi «a un popolo lontano», per indicargli, con l'apposito segnale, il luogo dove accamparsi prima di sferrare l'attacco definitivo contro il suo popolo. Il rapido spostamento di un esercito agile e perfettamente armato (il cavallo e il carro erano emblemi di grande potenza militare), mentre richiama la straordinaria organizzazione dell'esercito assiro, a livello testuale evidenzia la potenza dell'ira del Signore che opera negli avvenimenti della storia umana.

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Giudizio e salvezza per Gerusalemme

Gerusalemme nella sventura 1Sette donne afferreranno un uomo solo, in quel giorno, e diranno: «Ci nutriremo del nostro pane e indosseremo le nostre vesti; soltanto, lasciaci portare il tuo nome, toglici la nostra vergogna».

Il giorno del germoglio 2In quel giorno, il germoglio del Signore crescerà in onore e gloria e il frutto della terra sarà a magnificenza e ornamento per i superstiti d’Israele. 3Chi sarà rimasto in Sion e chi sarà superstite in Gerusalemme sarà chiamato santo: quanti saranno iscritti per restare in vita in Gerusalemme. 4Quando il Signore avrà lavato le brutture delle figlie di Sion e avrà pulito Gerusalemme dal sangue che vi è stato versato, con il soffio del giudizio e con il soffio dello sterminio, 5allora creerà il Signore su ogni punto del monte Sion e su tutti i luoghi delle sue assemblee una nube di fumo durante il giorno e un bagliore di fuoco fiammeggiante durante la notte, perché la gloria del Signore sarà sopra ogni cosa come protezione, 6come una tenda sarà ombra contro il caldo di giorno e rifugio e riparo contro la bufera e contro la pioggia.

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Approfondimenti

La storia del regno di Giuda, la storia di Isaia e la sua “visione” della storia

Il Regno di Giuda si formò dopo la morte del re Salomone (circa 933 a.C.), quando il Regno di Giuda e Israele si scisse in due entità autonome: – il Regno di Israele a Nord, composto dalla maggior parte delle tribù ebraiche; – il Regno di Giuda a Sud, comprendente il territorio della tribù di Giuda, quello della tribù di Simeone (scomparsa e assorbita dalle altre due) e la maggior parte della tribù di Beniamino, oltre che numerosi membri della tribù di Levi, che non possedeva terra.

Numerosi Re degli Ebrei vi regnarono. Il regno gravitò attorno alla capitale Gerusalemme e al suo tempio. Tutti i re furono della dinastia davidica. Venne distrutto nel 587 a.C. quando il re babilonese Nabucodonosor conquistò Gerusalemme e deportò gran parte della popolazione ebraica.

Successivamente i Persiani conquistano Babilonia nel 538 a.C. anno in cui fu emanato il “Decreto di Ciro” che permette agli ebrei di ritornare a Gerusalemme. Inizia la costruzione del Secondo Tempio (il “Tempio di Salomone” che s'iniziò a costruire nel 967 a.C. e fu terminato nel 960 a.C. era stato distrutto dal babilonese Nabucodonosor II nel 586 a.C.). Fu completato nel 515 a.C. così come raccontato nel Libro di Esdra, e fu definitivamente distrutto nel 70 d.C. dal generale romano Tito.

Isaia, figlio di Amoz, visse a Gerusalemme nella seconda metà del VIII sec. a.C. Nell'anno della morte del re Ozia (o Azaria) – molto probabilmente il 740 a.C. – inizia la sua attività di profeta, in un periodo storico che coincide con l’avanzata dell’impero assiro verso ovest. La sua attività si puà suddividere in cinque periodi.

1. sotto il regno di Iotam (740-736) che si conclude con l'inizio della “guerra siro-efraimitica” ed è caratterizzato da una situazione politicamente ancora tranquilla ed economicamente prospera (capitoli 1-5). Muovendosi nella stessa linea di Amos e Osea, il profeta interviene cin energia in Gerusalemme per denunciare l'ingiustizia sociale come realtà inconciliabile con l'alleanza. Isaia comprende il pericolo che incombe sul popolo per le sue infedeltà e in modo particolare per l'orgoglio dei capi che non accolgono la parola di Dio. 2. la “guerra siro-efraimitica” (734-732) (capitoli 7-8). La parola del profeta manifesta in questa fase un pensiero destinato a svilupparsi nei secoli futuri: annuncia la regalità e la santità di Dio che guida gli eventi del mondo e attua la promessa di salvezza; richiama alla necessità della fede come fiducia in Dio che si esprime e si sviluppa in tutte le dimensioni dell'esistenza umana; afferma la permanenza della “casa di Davide”, garantita dalla fedeltà di Dio alla sua promessa. 3. dal 727 al 722. Isaia condanna la Filistea, che alla morte di Tiglat-Pilezer III istiga Giuda alla ribellione, e la Samaria che si era ribellata all'Assiria. 4. dal 716 al 711. Verso il 714, il Re di Babilonia inviò messaggeri al re Ezechia con l'intento di averlo come alleato (cf Is 39,1-2). Anche l'Egitto si mostra interessato a questa rivolta. Nel 713 la città filistea di Asdod si proclama indipendente dall'Assiria e si mette a capo di una coalizione nella quale entra anche il regno di Giuda. Isaia interviene per dissuadere il re di Giuda dal ribellarsi contro l'Assiria, che nel 711 con una rapida campagna militare sottomette Asdod. 5. dal 705 al 701 quando Ezechia si fece promotore di una vasta insurrezione appoggiata dall'Egitto (capitoli 28-31). Isaia mette in guardia Ezechia contro l'alleanza con l'Egitto che, secondo lui, si configurava come la ricerca di sicurezze umane in netta antitesi con la fiducia in Dio, unica fonte di salvezza. Infatti il redi Assiria devastò il regno di Giudae giunse a minacciare la stessa Gerusalemme. Davanti alla crudeltà della spedizione punitiva degli Assiri, Isaia pronunciò la sua condanna profetica.

Per Isaia la storia non è condizionata solo dalle forze politiche, economiche e belliche, ma è guidata dal Signore che dischiude agli uomini le vie della giustizia e della solidarietà. La tradizione successiva svilupperà, in un lungo processo, la formazione del libro che sarà intitolato “Visione di Isaia”.

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Il v. 4,1 è legato a 3,25-26, come nei due versetti conclusivi del capitolo precedente anche qui c'è la descrizione della sciagura che si abbatte sulla città di Gerusalemme. Avendo perso i propri mariti e familiari, caduti in battaglia, le donne cercano un uomo a ogni costo, disposte addirittura ad essere in sette a sposarlo. Il numero sette, benché simbolico, connota la situazione resa estremamente grave per la scomparsa della maggior parte degli uomini. La notizia che le donne sono pronte a rinunciare al diritto di essere mantenute dal marito (per l'espressione «pane» e «vesti» nel senso di sostentamento cfr. Dt 10, 18), conferisce al quadro un'atmosfera di angoscia e disperazione di particolare effetto. La minaccia di 3,1 si sta adempiendo.

Il giorno del germoglio 4,2-6 Il brano, costituito da alcune unità postesiliche, è stato inserito dopo l'annuncio del giudizio (3,1-4,1) per sottolineare che la sofferenza del momento presente è in funzione di un luminoso futuro di salvezza.

L'espressione «il germoglio del Signore» ricorre unicamente nel nostro testo al v. 2. La locuzione va intesa, insieme con la frase «il frutto della terra», come promessa di un periodo di fertilità della regione e abbondanza dei suoi prodotti. Certamente l'autore, con una costruzione stilistica basata sul parallelismo, orienta verso un futuro caratterizzato dalla salvezza divina. Inoltre il significato fondamentale del vocabolo «germoglio» è letterale; esso denota tutto ciò che produce la terra (cfr. Gn 19,25). Tuttavia il termine ha assunto anche una connotazione simbolica e come tale venne adoperato per indicare il nuovo Davide, che il Signore avrebbe suscitato secondo la promessa di Ez. 34, 23-24 (ispirata a sua volta dalla tradizione contenuta in 2Sam 7,1-17). I testi che parlano del nuovo Davide annunciano spesso la fertilità della terra come segno che nei “suoi” giorni finirà la maledizione minacciata (cfr. Gn 3,17-18; Dt 28,18.23-24), e inizierà un mondo nuovo, caratterizzato dalla divina benedizione (cfr. Sal 72, 9-17, in particolare il v. 16; Sal 132,11.13.15.17). Questo versetto costituisce, quindi, una preziosa testimonianza dell'attesa del nuovo Davide, che svolse un ruolo importante nella speranza della comunità giudaica del postesilio. La sua attuale collocazione, all'interno della «Visione di Isaia», illumina la promessa dell'«Emmanuele» (Is 7,14) e le relative reinterpretazioni di Is 9,5-6 e Is 11,1-4a, ponendole nel contesto della nuova Sion.

Nel v. 3 si presenta la condizione di coloro che sono «rimasti» in Sion: essi partecipano della “santità” divina e «saranno iscritti per restare in vita in Gerusalemme». La locuzione forse indicava originariamente coloro che erano nelle liste degli aventi diritto a risiedere in Gerusalemme. Essa, però, con il tempo giunse a significare coloro che sono fedeli all'alleanza e perciò non sono cancellati dal libro della vita, ma sono chiamati a partecipare per sempre della vita del Signore. I vv. 4-5a sembrano riferirsi alla riforma religiosa di Esdra (Esd 9-10; Ne 13,3.23-30). I vv. 5b-6 sono una glossa recente. Il motivo della protezione divina è ora specificato con le immagini della tenda che fornisce ombra contro il caldo e rifugio contro i temporali. Si tratta di metafore che alludono all'oppressione dei tiranni (cfr. 25,4-5). Esse sono un segno che la minaccia del giudizio non colpirà più la nuova Sion, ma si abbatterà definitivamente contro le potenze dell'ingiustizia e dell'oppressione.

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Giudizio e salvezza per Gerusalemme

Minaccia di anarchia 1Sì, ecco il Signore, il Signore degli eserciti, toglie a Gerusalemme e a Giuda ogni genere di risorsa, ogni risorsa di pane e ogni risorsa d’acqua, 2il prode e il guerriero, il giudice e il profeta, l’indovino e l’anziano, 3il comandante di cinquanta e il notabile, il consigliere e il mago astuto e l’esperto d’incantesimi. 4Io metterò dei ragazzi come loro capi, dei monelli li domineranno. 5Il popolo userà violenza: l’uno contro l’altro, individuo contro individuo; il giovane tratterà con arroganza l’anziano, lo spregevole il nobile. 6Perché uno afferrerà il fratello nella casa del padre: «Tu hai un mantello: sii nostro capo; prendi in mano questa rovina!». 7Ma lui si alzerà in quel giorno per dire: «Non sono un guaritore; nella mia casa non c’è pane né mantello. Non ponetemi a capo del popolo!». 8Certo, Gerusalemme va in rovina e Giuda crolla, perché la loro lingua e le loro opere sono contro il Signore, e offendono lo sguardo della sua maestà. 9La loro parzialità li condanna ed essi ostentano il loro peccato come Sòdoma: non lo nascondono neppure; disgraziati loro, poiché preparano la loro rovina. 10Beato il giusto, perché avrà bene, mangerà il frutto delle sue opere. 11Guai all’empio, perché avrà male, secondo l’opera delle sue mani sarà ripagato.

L'accusa del Signore 12Il mio popolo! Un fanciullo lo tiranneggia e delle donne lo dominano. Popolo mio, le tue guide ti traviano, distruggono la strada che tu percorri. 13Il Signore si erge per accusare, egli si presenta per giudicare il suo popolo. 14Il Signore inizia il giudizio con gli anziani e i capi del suo popolo: «Voi avete devastato la vigna; le cose tolte ai poveri sono nelle vostre case. 15Quale diritto avete di schiacciare il mio popolo, di pestare la faccia ai poveri?». Oracolo del Signore, il Signore degli eserciti.

Contro le nobili di Gerusalemme 16Dice il Signore: «Poiché si sono insuperbite le figlie di Sion, procedono a collo teso, ammiccando con gli occhi, e camminano a piccoli passi, facendo tintinnare gli anelli ai piedi, 17il Signore renderà tignoso il cranio delle figlie di Sion, il Signore denuderà la loro fronte». 18In quel giorno il Signore toglierà l’ornamento di fibbie, fermagli e lunette, 19orecchini, braccialetti, veli, 20bende, catenine ai piedi, cinture, boccette di profumi, amuleti, 21anelli, pendenti al naso, 22vesti preziose e mantelline, scialli, borsette, 23specchi, tuniche, turbanti e vestaglie. 24Invece di profumo ci sarà marciume, invece di cintura una corda, invece di ricci calvizie, invece di vesti eleganti uno stretto sacco, invece di bellezza bruciatura.

Gerusalemme nella sventura 25I tuoi prodi cadranno di spada, i tuoi guerrieri in battaglia. 26Si alzeranno lamenti e gemiti alle sue porte ed essa, disabitata, giacerà a terra.

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Approfondimenti

Giudizio e salvezza per Gerusalemme (Is 3,1-4,6) La sezione si articola nelle seguenti unità:

  • minaccia di anarchia (3,1-11);
  • intervento del Signore che esprime il suo dolore per la sorte del popolo e lo accusa delle proprie colpe (3,12-15);
  • sentenza che condanna l'orgoglio della nobiltà femminile di Gerusalemme (3,16-24);
  • descrizione della sciagura che si abbatte sulla città (3,25-4,1);
  • annuncio del giorno del «germoglio» che inaugura l'era della vita per il “resto”, rinnovato dal fuoco del Signore (4,2-6).

Minaccia di anarchia (3,1-11) Liberato dalle glosse e dalle aggiunte reinterpretative, il nostro brano presenta le caratteristiche tematiche ed espressive del profeta Isaia. Difficile è l'ambientazione storica di questo annuncio. Poiché il detto sembra riferirsi più a un disordine interno che a un nemico esterno, è possibile che risalga ai primi anni del regno di Acaz, quando il pericolo assiro non si era ancora affacciato all'orizzonte.

1-7 Isaia annuncia l'intervento del Signore che toglie a «Gerusalemme e Giuda» ogni sostegno e appoggio (v. 1). Con questa metafora, come risulta dai vv. 2-3 si indicano concretamente le guide sociali e religiose del popolo. Una glossa posta alla fine del v. 1 vede l'assenza di sostegno nella mancanza del cibo, reinterpretando così la parola del profeta in riferimento all'assedio di Gerusalemme nel 587. Il vocabolario isaiano racchiude una profonda prospettiva teologica. Il sostantivo «risorsa» deriva da una radice verbale che, in un contesto religioso, connota l'atteggiamento profondo della fede (cfr. Is 7,9b), con cui l'uomo si abbandona in modo incondizionato al Signore e alla sua parola (cfr. Is 10,20), o, inversamente, l'atteggiamento dell'incredulità, con cui l'uomo pone la sua sicurezza nei propri piani e nella propria forza (cfr. 30,12; 31,1). Togliendo ogni sostegno sul quale l'uomo poggia la garanzia del proprio futuro, JHWH mira a suscitare nel suo popolo la fede perché sappia scoprire il futuro che viene da Dio e porta la vita all'uomo.

La gravità della minaccia è accentuata nei vv. 4-7, dove si descrivono le conseguenze dell'intervento del Signore (di qui l'uso della prima persona nel v. 4). Nella situazione di caos che si viene a creare, il potere sarà assunto da ragazzi, privi di forza nell'azione e di esperienza politica. Come si evince dal parallelismo del v. 4, il paese sarà governato dal “capriccio”, dunque da ogni forma di arbitrio egoistico e irresponsabile.

8-9a In due versetti concisi ed efficaci il profeta presenta il crollo di Gerusalemme e la caduta di Giuda legati a una duplice causa: la ribellione contro Dio, perpetrata nelle parole e nelle opere (v. 8), e la parzialità nell'amministrazione della giustizia, un male così generalizzato che non è più necessario che rimanga nascosto; gli stessi responsabili – come si rileva con fine ironia – lo possono impunemente annunciare (v. 9a).

9b-11 Alla motivazione, ora seguono due aggiunte. Quella del v. 9b assicura che quanti si rendono colpevoli di ingiustizia saranno causa a se stessi della propria disgrazia. La seconda aggiunta (vv. 10-11) si ispira al v. 9b ed è caratterizzata formalmente dal parallelismo antitetico (giusto-empio). Quanto al messaggio, il v. 10 è affine a Sal 128,1 (dove si parla dell'uomo «che teme il Signore»), mentre il v. 11 ha un testo parallelo in Prv 12, 14b («ciascuno sarà ripagato secondo le sue opere»).

L'accusa del Signore (3,12-15) Entrambi gli stichi del v. 12, che forse è un frammento di un brano altrimenti sconosciuto, iniziano con la stessa espressione: al nominativo in 12a «Il mio popolo!» e al vocativo in 12b «Popolo mio». In questo modo il detto si muove in uno spazio caratterizzato dall'identità di Israele. Nel secondo stico il Signore si rivolge direttamente al suo popolo per illuminarlo: coloro che lo guidano sono dei “corruttori” e lo lasciano nella confusione circa la via da percorrere. Letto nell'attuale contesto, il nostro versetto sottolinea che si è compiuta la minaccia dei vv. 1-3 e, al tempo stesso, orienta a contemplare il cuore del Signore che, mentre annuncia il castigo, non gode della punizione che il popolo ha attirato su di sé, ma parla di lui e si rivolge a lui con la tenerezza del suo amore (cfr. la stessa prospettiva in Ger 31,20).

13-15 Il Signore sorge in giudizio non per condannare gli dei (Sal 82,2) o i nemici (Sal 77,18-23), ma si erge contro «gli anziani e i capi del suo popolo» (v. 14), perché, derubando i poveri, devastano la «vigna». La costruzione chiastica (voi – vigna // poveri – vostre case) mostra che la «vigna» è identificata con i poveri. Nella stessa linea teologica il chiasmo del v. 15a identifica i poveri, oppressi e derubati, con il «popolo» del Signore, in altri termini con la sua famiglia. Per questo JHWH giudica gli stessi anziani e i capi, come aveva un tempo giudicato il faraone d'Egitto quando era divenuto “l'oppressore” del suo popolo. Poiché l'identificazione tra il popolo, vigna, del Signore e i poveri presuppone la riflessione psot-esilica sugli “anawim” (cf. Sof 3,12-13a), questo versetto è da ritenersi una reinterpretazione del messaggio isaiano.

Contro le nobili di Gerusalemme (3,16-24) È una minaccia contro la superbia delle figlie di Sion, che precede il motivo su cui essa si fonda, che viene così introdotto in modo enfatico. Questo lascia intendere che l'agire di Dio non si sviluppa in modo arbitrario o dispotico, ma si realizza nella storia, secondo la parola rivelata al suo popolo. Il profeta descrive il comportamento delle «figlie di Sion» che «si sono insuperbite»: le loro manifestazioni, secondo Isaia, sono il segno di una orgogliosa autosufficienza che chiude il cuore all'ascolto del Signore e alla solidarietà umana. Nel v. 17 viene annunciato il castigo, ricorrendo al motivo del “contrappasso”. I vv. 18-23 sono stati introdotti con arte nel periodo postesilico: viene descritta l'azione di Dio che priverà le donne di Gerusalemme di ogni loro gioiello e veste preziosa. L'elenco degli “articoli” dell'eleganza femminile offre un quadro delle nobildonne di Gerusalemme nella società postesilica. Il v. 24 descrive il castigo e specifica il senso dell'azione di Dio. Il profeta sta immaginando che le nobili donne di Gerusalemme saranno condotte schiave come bottino di guerra, vestite poveramente e marchiate a fuoco come segno di appartenenza al loro nuovo padrone.

Gerusalemme nella sventura (3,25-26) Il v. 25 si rivolge a un “tu” femminile, identificabile con la città di Gerusalemme. Le porte della città erano il luogo nel quale i cittadini si riunivano e celebravano le loro assemblee... qui si descrive quello che succede quando Gerusalemme cade in mano ai nemici.

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Intestazione 1Messaggio che Isaia, figlio di Amoz, ricevette in visione su Giuda e su Gerusalemme.

Il pellegrinaggio dei popoli al Sion 2Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e s’innalzerà sopra i colli, e ad esso affluiranno tutte le genti. 3Verranno molti popoli e diranno: «Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri». Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore. 4Egli sarà giudice fra le genti e arbitro fra molti popoli. Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra. 5Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore.

L’esaltazione del Signore sull'orgoglio umano 6Sì, tu hai rigettato il tuo popolo, la casa di Giacobbe, perché rigurgitano di maghi orientali e di indovini come i Filistei; agli stranieri battono le mani. 7La sua terra è piena d’argento e d’oro, senza limite sono i suoi tesori; la sua terra è piena di cavalli, senza limite sono i suoi carri. 8La sua terra è piena di idoli; adorano l’opera delle proprie mani, ciò che hanno fatto le loro dita. 9L’uomo sarà piegato, il mortale sarà abbassato; tu non perdonare loro. 10Entra fra le rocce, nasconditi nella polvere, di fronte al terrore che desta il Signore e allo splendore della sua maestà, quando si alzerà a scuotere la terra. 11L’uomo abbasserà gli occhi superbi, l’alterigia umana si piegherà; sarà esaltato il Signore, lui solo, in quel giorno.

12Poiché il Signore degli eserciti ha un giorno contro ogni superbo e altero, contro chiunque si innalza, per abbatterlo, 13contro tutti i cedri del Libano alti ed elevati, contro tutte le querce del Basan, 14contro tutti gli alti monti, contro tutti i colli elevati, 15contro ogni torre eccelsa, contro ogni muro fortificato, 16contro tutte le navi di Tarsis e contro tutte le imbarcazioni di lusso. 17Sarà piegato l’orgoglio degli uomini, sarà abbassata l’alterigia umana; sarà esaltato il Signore, lui solo, in quel giorno.

18Gli idoli spariranno del tutto. 19Rifugiatevi nelle caverne delle rocce e negli antri sotterranei, di fronte al terrore che desta il Signore e allo splendore della sua maestà, quando si alzerà a scuotere la terra. 20In quel giorno ognuno getterà ai topi e ai pipistrelli gli idoli d’argento e gli idoli d’oro, che si era fatto per adorarli, 21per entrare nei crepacci delle rocce e nelle spaccature delle rupi, di fronte al terrore che desta il Signore e allo splendore della sua maestà, quando si alzerà a scuotere la terra. 22Guardatevi dunque dall’uomo, nelle cui narici non v’è che un soffio: in quale conto si può tenere?

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Approfondimenti

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)

Intestazione Il “titolo” di Is 1,1 «Visione che Isaia, figlio di Amoz, ebbe su Giuda e su Gerusalemme al tempo dei re di Giuda Ozia, Iotam, Acaz ed Ezechia» vale per tutto il complesso dei capitoli 1-39. In 2,1 si nota la presenza (problematica) di un secondo titolo (o intestazione): «Messaggio che Isaia, figlio di Amoz, ricevette in visione su Giuda e su Gerusalemme». L’intenzione di questo secondo titolo è di ribadire l’attribuzione della profezia di Is 2,2-5 (il pellegrinaggio dei popoli al Sion) al profeta Isaia, dal momento che il testo è presente quasi identico in Mi 4,1-3.

Il pellegrinaggio dei popoli al Sion Is 2,2-5 sottolinea l'importanza attribuita al tempio e alla sua funzione nella “nuova Gerusalemme”. L'espressione iniziale è una formula che introduce l'annuncio di un evento futuro all'interno della storia umana. Il Pellegrinaggio al tempio è motivato da una precisa finalità: ricevere “l'insegnamento” divino della rivelazione per attuarlo nella propria vita. Quando i popoli saliranno al monte del Signore, Egli come giudice ristabilirà l'ordine sconvolto e i popoli trasformeranno le armi (strumenti di morte) in utensili agricoli che consentono all'uomo di assicurarsi il cibo per la propria vita. L'insegnamento divino riguarda la pace, per questo i popoli non “impareranno/si eserciteranno” più la guerra... così la pace potrà durare per sempre. Il v. 5 marca la differenza tra Mi 4,1-3 e Is 2,2-5: la “casa di Giacobbe”, ovvero gli abitanti della regione di Giuda e della città di Gerusalemme (chiamati con un nome che sottolinea il legame che Dio ha stabilito con loro) sono invitati a camminare «nella luce del Signore». Questa espressione richiama l'importanza della parola del Signore che è fondamentale nell'esperienza della salvezza come itinerario compiuto nella luce della rivelazione. Solo così Sion potrà irradiare la pace su tutta l'umanità.

L’esaltazione del Signore sull'orgoglio umano L'espressione «casa di Giacobbe» aggancia questa sezione alla precedente (cf. v. 5 e v. 6): con un linguaggio vigoroso e poetico viene descritto «il giorno del Signore» nel quale Egli sarà esaltato e si manifesterà in tutta la sua gloriosa potenza contro ogni forma di superbia umana. Anzitutto la «casa di Giacobbe» si deve liberare dalle pratiche idolatriche che trovano invece un continuo e pericoloso incentivo nel commercio praticato con gli stranieri che abitano oltre i confini orientale e occidentale (i Filistei). Il territorio abitato dalla «casa di Giacobbe» (= «la sua terra») è descritto come colmo di ricchezze, accumulate con il commercio e pieno di cavalli. Questi animali provengono dagli incontri/scontri con gli “Ittiti” (antico popolo che abitava nei territori dell'attuale Turchia) e si diffusero nell'Antico vicino Oriente come simbolo di potenza economica e militare.

I vv. 12-17 riportano un detto del profeta Isaia che annuncia «il giorno del Signore». Sono individuate cinque realtà (ciascuna descritta con una coppia di termini) contro cui tale giorno è diretto:

  1. cedri e querce (simboli dell'elevatezza naturale);
  2. monti e colli (simboli dell'elevatezza urbana);
  3. torri e mura (simboli della sicurezza nelle proprie opere di fortificazione);
  4. navi e imbarcazioni (simboli dell'elevatezza cooerciale);
  5. l'orgoglio e l'alterigia degli uomini.

Le prime due coppie descrivono “il mondo creato” mentre le successive riguardano le realizzazioni tecniche dell'umanità e le conseguenti ricchezze accumulate grazie a queste.

Questa grandiosa descrizione del giorno del Signore presenta molti tratti comuni con il Sal 29 e si sviluppa secondo la traiettoria di un uragano che parte dal Libano, sradicandone gli alti alberi, investe la città di Gerusalemme, abbattendone le mura e le fortezze, si estende fino al mare, portando ovunque distruzione e rovina.

Il «giorno del Signore» si rivolgerà contro ogni forma di orgoglio, contro chi “sta in alto” cioè “si è elevato” ed è “superbo”. L'orgoglio umano è l'atteggiamento dell'uomo che si ritene “il dio” di sé stesso e agisce “indipendentemente” dalla volontà di Dio, senza cercare né accogliere l'insegnamento divino della Parola e della Legge.

Il «giorno del Signore» segna la fine di ogni superbia umana, che sarà «abbassata» e «piegata». Al tempo stesso si manifesterà l'esaltazione divina come fonte di sicura salvezza.

I vv. 18-22 descrivono la ricaduta “universale” del «giorno del Signore» che Isaia aveva annunciato e riferito alla «casa di Giacobbe» (in particolare alla caduta di Gerusalemme). Nel «giorno del Signore» scompariranno definitivamente tutti gli “idoli”: colti dal terrore per l'apparizione divina gli uomini fuggiranno, abbandonando tutti gli oggetti a loro cari, compresi gli idoli.

Il saggio che attende il «giorno del Signore» vive nella certezza che l'uomo (orgoglioso)sarà umiliato. Per questo non si lascia condizionare né dal suo potere, né dalle sue promesse.


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LIBRO DEL PROFETA ISAIA

Titolo 1Visione che Isaia, figlio di Amoz, ebbe su Giuda e su Gerusalemme al tempo dei re di Giuda Ozia, Iotam, Acaz ed Ezechia.

Accusa al popolo che ha abbandonato il Signore 2Udite, o cieli, ascolta, o terra, così parla il Signore: «Ho allevato e fatto crescere figli, ma essi si sono ribellati contro di me. 3Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende». 4Guai, gente peccatrice, popolo carico d’iniquità! Razza di scellerati, figli corrotti! Hanno abbandonato il Signore, hanno disprezzato il Santo d’Israele, si sono voltati indietro. 5Perché volete ancora essere colpiti, accumulando ribellioni? Tutta la testa è malata, tutto il cuore langue. 6Dalla pianta dei piedi alla testa non c’è nulla di sano, ma ferite e lividure e piaghe aperte, che non sono state ripulite né fasciate né curate con olio. 7La vostra terra è un deserto, le vostre città arse dal fuoco. La vostra campagna, sotto i vostri occhi, la divorano gli stranieri; è un deserto come la devastazione di Sòdoma. 8È rimasta sola la figlia di Sion, come una capanna in una vigna, come una tenda in un campo di cetrioli, come una città assediata. 9Se il Signore degli eserciti non ci avesse lasciato qualche superstite, già saremmo come Sòdoma, assomiglieremmo a Gomorra.

Le celebrazioni religiose senza giustizia sono inutili 10Ascoltate la parola del Signore, capi di Sòdoma; prestate orecchio all’insegnamento del nostro Dio, popolo di Gomorra! 11«Perché mi offrite i vostri sacrifici senza numero? – dice il Signore. Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di pingui vitelli. Il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco. 12Quando venite a presentarvi a me, chi richiede a voi questo: che veniate a calpestare i miei atri? 13Smettete di presentare offerte inutili; l’incenso per me è un abominio, i noviluni, i sabati e le assemblee sacre: non posso sopportare delitto e solennità. 14Io detesto i vostri noviluni e le vostre feste; per me sono un peso, sono stanco di sopportarli. 15Quando stendete le mani, io distolgo gli occhi da voi. Anche se moltiplicaste le preghiere, io non ascolterei: le vostre mani grondano sangue. 16Lavatevi, purificatevi, allontanate dai miei occhi il male delle vostre azioni. Cessate di fare il male, 17imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova». 18«Su, venite e discutiamo – dice il Signore. Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve. Se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana. 19Se sarete docili e ascolterete, mangerete i frutti della terra. 20Ma se vi ostinate e vi ribellate, sarete divorati dalla spada, perché la bocca del Signore ha parlato».

Futura purificazione di Gerusalemme 21Come mai la città fedele è diventata una prostituta? Era piena di rettitudine, vi dimorava la giustizia, ora invece è piena di assassini! 22Il tuo argento è diventato scoria, il tuo vino è diluito con acqua. 23I tuoi capi sono ribelli e complici di ladri. Tutti sono bramosi di regali e ricercano mance. Non rendono giustizia all’orfano e la causa della vedova fino a loro non giunge. 24Perciò, oracolo del Signore, Dio degli eserciti, il Potente d’Israele: «Guai! Esigerò soddisfazioni dai miei avversari, mi vendicherò dei miei nemici. 25Stenderò la mia mano su di te, purificherò come in un forno le tue scorie, eliminerò da te tutto il piombo. 26Renderò i tuoi giudici come una volta, i tuoi consiglieri come al principio. Allora sarai chiamata “Città della giustizia”, “Città fedele”». 27Sion sarà riscattata con il giudizio, i suoi convertiti con la rettitudine. 28Ribelli e peccatori insieme finiranno in rovina e periranno quanti abbandonano il Signore. 29Sì, vi vergognerete delle querce di cui vi siete compiaciuti. Arrossirete dei giardini che vi siete scelti, 30Sì, diventerete come quercia dalle foglie avvizzite e come giardino senz’acqua. 31Il forte diverrà come stoppa, la sua opera come una favilla; bruceranno tutte e due insieme e nessuno le spegnerà.

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Approfondimenti

(cf. MASSIMILIANO SCANDROGLIO, Introduzione ai Profeti – schede informative, Dispense ad uso degli studenti, Milano, 2021-2022)

IL LIBRO DI ISAIA L’ampiezza del materiale testuale, la varietà dei temi trattati, la ricchezza delle forme linguistiche, le divergenze contenutistiche e formali al suo interno... hanno condotto la ricerca esegetica a proporre una fondamentale tripartizione del libro di Isaia: – primo Isaia (capitoli 1-39); – secondo Isaia (capitoli 40-55); – terzo Isaia (capitoli 56-66).

In sostanza si possono individuare tre figure complementari: c'è un primo “Isaia”, il cui nome significa “Dio è salvezza/salva”, che suggerisce l’intensa collaborazione del profeta al piano salvifico divino, di cui è strumento prezioso. Lo stesso Siracide potrà così affermare: «Il Santo li ascoltò e li salvò per mezzo di Isaia» (Sir 48,20).

Questo “primo” Isaia probabilmente nacque a Gerusalemme intorno al 760 a.C. e visse nel periodo che va da Ozia a Ezechia (cf Is 1,1). Venne chiamato alla missione profetica nell’“anno in cui morì il re Ozia” (Is 6,1; 740/739 a.C.), a circa 20 anni di età.

Svolgerà così il suo ministero per circa 40 anni da protagonista della vita politica e religiosa della Gerusalemme di allora. Forse poco dopo la vocazione, si sposa con una donna di cui non conosciamo il nome, ma che in un’occasione viene chiamata “profetessa” (Is 8,3).

Da questo matrimonio nascono almeno due figli, ai quali Isaia impone nomi simbolici: Seariasub (“un resto ritornerà”), e Maher-salal-cash-baz (“bottino-pronto-saccheggio-prossimo”) (Is 8,18). In questo modo, come nel caso di Osea, è l’intera vita del profeta ad essere a servizio della missione di annuncio della Parola.

Sulla sua morte non abbiamo notizie certe. La tradizione lo vuole martire sotto l’empio re Manasse (ca. 701 a.C.?), uccisore di profeti (cf 2Re 21,16): secondo gli apocrifi Ascensione di Isaia e Vite dei profeti, il re lo avrebbe fatto segare in due per aver paragonato Gerusalemme a Sodoma e Gomorra (cf Is 1,10).

Isaia è uomo deciso, di azione. Lo si vede bene nella risposta ferma al momento della vocazione «Eccomi, manda me!» (Is 6,8). Questa risposta esprime una costante della sua vita, che emerge in particolare nei frequenti e intensi confronti con le autorità costituite, compreso il sovrano regnante. Le accuse nei riguardi delle élite sono giustificate dalla situazione drammatica della società giudaica del tempo, ben descritta in Is 1 con il ricorso al simbolismo del corpo malato (cf in part. v. 6).

Isaia è un contestatore del modo comune di pensare, capace di andare anche contro-corrente; un uomo di Dio che confronta l’umana sapienza con il messaggio che gli è stato consegnato. Il profeta è anche uomo di relazioni e di conoscenza; punto di riferimento per un gruppo di discepoli, che poi diverrà il nucleo della sua “scuola” (cf Is 8,16). Egli mostra familiarità con il tempio, l’ambiente di corte, i circoli aristocratici; conosce la geo-politica del tempo, le grandi tradizioni di Israele (in particolare l’elezione di Gerusalemme e della dinastia regnante), la conformazione della città santa, il suo tempio, le liturgie, come anche la vita quotidiana della campagna di Giuda... insomma, un uomo di cultura, chiamato ad essere profeta.

È stato detto di Isaia che è un personaggio aristocratico, politicamente conservatore, nemico di rivolte e di mutamenti sociali profondi. Ma nulla di tutto ciò ha un serio fondamento. Che il profeta sia nemico dell’anarchia e la consideri un castigo sembra evidente (cf Is 3,1-9). Ma questo non vuol dire che appoggi la classe alta. Dai primi poemi fino agli ultimi oracoli, dirige i suoi principali attacchi contro i gruppi dominanti: autorità, giudici, latifondisti, politici […] donne della classe alta di Gerusalemme. E quando difende qualcuno con passione, non si tratta di aristocratici, ma di oppressi, di orfani, di vedove (cf Is 1,17) del popolo sfruttato e traviato dai governanti (cf Is 3,12-15).

Il suo ministero profetico si è incrociato con diversi sovrani di Giuda, in particolare con Acaz ed Ezechia. Non è esplicitata nel libro la posizione di Isaia in relazione alla riforma religiosa di Ezechia (sempre che ci sia effettivamente stata...), ma si può immaginare una sua sostanziale approvazione.

Lo stile nel parlare (e nello scrivere) di Isaia è talmente variegato da renderlo un classico della produzione letteraria ebraica. Nel suo libro ritroviamo soprattutto oracoli (cf ad es. Is 1,2-9; 2,2.5), ma non mancano parabole (cf ad es. Is 28,23-29), resoconti biografici (cf ad es. Is 7,1; 20,1) e autobiografici (cf ad es. Is 6,8), allegorie (cf ad es. Is 5,1-7).

Il “primo” Isaia in molti capitoli riflette gli eventi dell’VIII secolo, con la presenza del dominio assiro, una vita sociale incentrata sulla figura del re, attorno al tempio, pervasa da un relativo benessere economico fonte di una sicurezza perfino spavalda, con acuti problemi nei rapporti tra i cittadini.

Il “secondo Isaia”, dopo la metà del VI secolo, vede emergere l’Unto di JHWH (45,1) con il passaggio dal dominio babilonese a quello persiano, considera la dinastia davidica come realtà del passato, conosce la triste situazione dell’esilio vissuta dal popolo tra timori, incredulità, ribellioni, indifferenza religiosa, insensibilità morale e rischio di cedere all’idolatria. Il Terzo Isaia si colloca bene nel tempo che segue l’editto di Ciro del 539 (cf 2Cr 36,23; Esd 1,2-4), che permise i vari ritorni protrattisi per un secolo circa; lascia inoltre intravedere il dissidio con i rimasti in patria, la religiosità superficiale, le controversie sul valore del tempio.

Allo stile conciso, pungente, polemico, minaccioso costituito in gran parte dall’oracolo del “primo” Isaia, subentra un linguaggio appassionato, solenne, sapienziale con varietà di generi letterari, senza che l’autore parli di sé, nel secondo Isaia: si passa così all’anonimia. A unità letterarie ampie e ben collegate subentrano piccoli brani quasi staccati che con difficoltà si possono ricondurre a un tutto organico.

Il “terzo” Isaia raccoglie brani suggestivi, poetici, di immediata comprensione, con aperture universalistiche, insieme a passi duri e zoppicanti come i tempi che riflettono, di limitato valore teologico: impossibile ritrovare un’unità in capitoli diversi per origine, linguaggio e contenuto.

Nel Primo Isaia prevale il giudizio su Gerusalemme e sui suoi abitanti, che lascia il posto alla salvezza in un futuro non precisato per l’intervento di un mediatore che ha i caratteri del re (messianismo regale).

Nel Secondo Isaia domina la consolazione, la certezza di un cambiamento e si profila la salvezza che proviene dalle sofferenze di un misterioso Servo. Da verità pacifica, anche se spesso inefficace nella vita, il monoteismo diventa conquista riflessa cui si giunge attraverso una serrata polemica con gli idoli; mentre la sofferenza da punizione si trasforma in mezzo di purificazione dei peccati.

Il Terzo Isaia decade spesso dai vertici teologici raggiunti dai primi due e risulta immerso in problemi religiosamente secondari, come il digiuno o il valore del tempio, anche se non è privo di slanci innovativi (Is 60; 61; 65,10ss).

Ci sono stati sviluppi recenti della ricerca esegetica sulla tripartizione del libro: si è passati dalla valorizzazione dell’autonomia di ogni singola componente al tentativo di riconoscere un “disegno redazionale” complessivo. Oggi si tende ad apprezzare l’unità del libro e le diverse connessioni fra le sue parti.


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DOCUMENTI DEL CONCILIO VATICANO II Decreto sull’apostolato dei laici APOSTOLICAM ACTUOSITATEM (18 novembre 1965)

CAPITOLO VI – LA FORMAZIONE ALL'APOSTOLATO

Adattare la formazione ai diversi tipi di apostolato 31 Le varie forme di apostolato richiedono pure una formazione particolare adeguata.

a) Quanto all'apostolato per l'evangelizzazione e la santificazione degli uomini, i laici debbono essere particolarmente formati a stabilire il dialogo con gli altri, credenti o non credenti, per annunziare a tutti il messaggio di Cristo (49). E poiché nel tempo nostro il materialismo di vario tipo sta diffondendosi largamente dovunque, anche in mezzo ai cattolici, i laici non soltanto imparino con maggior diligenza la dottrina cattolica, specialmente in quei punti nei quali la dottrina stessa viene messa in questione, ma contro ogni forma di materialismo offrano anche la testimonianza di una vita evangelica.

b) Quanto alla trasformazione cristiana dell'ordine temporale, i laici siano istruiti sul vero significato e valore dei beni temporali in se stessi e rispetto a tutte le finalità della persona umana; si esercitino nel retto uso delle cose e dell'organizzazione delle istituzioni, avendo sempre di mira il bene comune secondo i principi della dottrina morale e sociale della Chiesa. Assimilino soprattutto i principi della dottrina sociale e le sue applicazioni, affinché si rendano capaci sia di collaborare, per quanto loro spetta, al progresso della dottrina stessa, sia di applicarla correttamente ai singoli casi (50).

c) Poiché le opere di carità e di misericordia offrono una splendida testimonianza di vita cristiana, la formazione apostolica deve portare pure all'esercizio di esse, affinché i fedeli, fin dalla fanciullezza, imparino a immedesimarsi nelle sofferenze dei fratelli e a soccorrerli generosamente quando versano in necessità (51).

I sussidi 32 I laici consacrati all'apostolato hanno già a disposizione molti sussidi, cioè convegni, congressi, ritiri, esercizi spirituali, incontri frequenti, conferenze, libri, riviste per una più profonda conoscenza della sacra Scrittura e della dottrina cattolica per nutrire la propria vita spirituale, per conoscere le condizioni del mondo e per scoprire e impiegare i metodi apostolici adatti (52).

I suddetti sussidi di formazione sono in funzione delle svariate forme di apostolato negli ambienti in cui essere vengono esercitate. A questo fine sono pure stati eretti centri o istituti superiori che hanno già recato ottimi frutti. Questo sacro Concilio si rallegra per simili iniziative già fiorenti in alcune parti è si augura che esse siano promosse pure in altri posti, dove risultassero necessarie.

Si erigano inoltre centri di documentazione e di studio, non solo in campo teologico, ma anche antropologico, psicologico, sociologico, metodologico, per meglio sviluppare le attitudini dei laici, uomini e donne, giovani e adulti, in tutti i campi di apostolato.

ESORTAZIONE FINALE 33 Il sacro Concilio scongiura perciò nel Signore tutti i laici a rispondere volentieri, con generosità e con slancio alla voce di Cristo, che in quest'ora li invita con maggiore insistenza, e all'impulso dello Spirito Santo. In modo speciale sentano questo appello come rivolto a se stessi i più giovani e l'accolgano con gioia e magnanimità.

È il Signore stesso infatti che ancora una volta per mezzo di questo santo Sinodo invita tutti i laici ad unirsi sempre più intimamente a lui e, sentendo come proprio tutto ciò che è di lui (cfr. Fil 2,5), si associno alla sua missione salvifica.

È ancora lui che li manda in ogni città e in ogni luogo dove egli sta per venire (cfr. Lc 10,1), affinché gli si offrano come cooperatori nelle varie forme e modi dell'unico apostolato della Chiesa, che deve continuamente adattarsi alle nuove necessità dei tempi, lavorando sempre generosamente nell'opera del Signore, sapendo bene che faticando nel Signore non faticano invano (cfr. 1Cor 15,58).

Tutte e singole le cose stabilite in questo Decreto sono piaciute ai Padri del Sacro Concilio. E Noi, in virtù della potestà Apostolica conferitaci da Cristo, unitamente ai Venerabili Padri, nello Spirito Santo le approviamo, le decretiamo e le stabiliamo; e quanto è stato così sinodalmente deciso, comandiamo che sia promulgato a gloria di Dio.

Roma, presso San Pietro 18 novembre 1965.

_______________________ NOTE

(49) Cf. PIUS XII, Enc. Sertum laetitiae, 1 nov. 1939: AAS 31 (1939), pp. 635-644; cf. IDEM, Ai «laureati» Az. Cat. Ital. 24 maggio 1953.

(50) Cf. PIO XII, Disc. al Congresso Universale della Federazione Mondiale della Gioventù Femminile Cattolica, 18 apr. 1952: AAS 44 (1952), pp. 414-419. Cf. IDEM, Disc. all’Associazione Cristiana dei Lavoratori Italiani (A.C.L.I.), 1° maggio 1955: AAS 47 (1955), pp. 403-404.

(51) Cf. PIO XII, Ai Delegati del Congresso delle Associazioni di Carità, 27 apr. 1952: AAS 44 (1952), pp. 470-471.

(52) Cf. GIOVANNI XXIII, Encicl. Mater et Magistra, 15 maggio 1961: AAS 53 (1961), p. 454.

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CAPITOLO VI – LA FORMAZIONE ALL'APOSTOLATO

Necessità della formazione all'apostolato 28 L'apostolato può raggiungere piena efficacia soltanto mediante una multiforme e integrale formazione. Questa è richiesta non soltanto dal continuo progresso spirituale e dottrinale del laico, ma anche dalle varie circostanze di cose, di persone, di compiti a cui la sua attività deve adattarsi. Questa formazione all'apostolato deve poggiare su quei fondamenti che da questo sacro Concilio altrove sono stati affermati e dichiarati (45). Oltre la formazione comune a tutti i cristiani, non poche forme di apostolato esigono una formazione specifica e particolare, a causa della varietà delle persone e delle circostanze.

Principi per la formazione dei laici all'apostolato 29 Poiché i laici hanno un modo proprio di partecipare alla missione della Chiesa, la loro formazione apostolica presenta un carattere speciale a motivo dell'indole secolare propria del laicato e della sua particolare spiritualità.

La formazione all'apostolato suppone che i laici siano integralmente formati dal punto di vista umano, secondo la personalità e le condizioni di vita di ciascuno. Il laico, infatti, oltre a conoscere bene il mondo contemporaneo, deve essere un membro ben inserito nel suo gruppo sociale e nella sua cultura.

In primo luogo il laico impari ad adempiere la missione di Cristo e della Chiesa vivendo anzitutto nella fede il divino mistero della creazione e della redenzione, mosso dallo Spirito Santo che vivifica il popolo di Dio e che spinge tutti gli uomini ad amare Dio Padre e in lui il mondo e gli uomini. Questa formazione deve essere considerata come fondamento e condizione di qualsiasi fruttuoso apostolato.

Oltre la formazione spirituale, è richiesta una solida preparazione dottrinale e cioè teologica, etica, filosofica, secondo la diversità dell'età, della condizione e delle attitudini. Né si trascuri l'importanza della cultura generale unitamente alla formazione pratica e tecnica. Per coltivare buone relazioni umane ne bisogna favorire i genuini valori umani, anzitutto l'arte del convivere e del cooperare fraternamente di instaurare il dialogo.

Ma poiché la formazione all'apostolato non può consistere nella sola istruzione teorica, il laico, fin dall'inizio della sua formazione, impari gradualmente e prudentemente a vedere tutto, a giudicare e a agire nella luce della fede, a formare e a perfezionare se stesso con gli altri mediante l'azione e ad entrare così attivamente nel servizio della Chiesa (46). Questa formazione, che dev'essere sempre ulteriormente perfezionata per la crescente maturazione della persona umana e per l'evolversi dei problemi, richiede una conoscenza sempre più approfondita e un'azione sempre più idonea. Nel soddisfare a tutte le esigenze della formazione si abbia sempre dinanzi l'unità e l'integrità della persona umana, al fine di preservare e accrescere la sua armonia e il suo equilibrio.

In questo modo il laico si inserisce a fondo e fattivamente nella stessa realtà dell'ordine temporale assume la sua parte in maniera efficace in tutte le attività; allo stesso tempo quale membro vivo e testimone della Chiesa, la rende presente ed operante in seno alle cose temporali (47).

Chi forma all'apostolato 30 La formazione all'apostolato ha inizio con la prima educazione dei fanciulli. In modo speciale vengano iniziati all'apostolato gli adolescenti e i giovani e li si permei di spirito apostolico. La formazione deve essere perfezionata lungo tutta la vita a misura che lo richiedono i nuovi compiti che si assumono. È chiaro dunque che coloro ai quali spetta l'educazione cristiana sono anche tenuti al dovere della formazione all'apostolato.

È compito dei genitori disporre nella famiglia i loro figli fin dalla fanciullezza a riconoscere l'amore di Dio verso tutti gli uomini. Insegnino loro gradualmente, specialmente con l'esempio, la sollecitudine verso le necessità sia materiali che spirituali del prossimo. Tutta la famiglia dunque, nella sua vita in comune, diventi quasi un tirocinio di apostolato.

È necessario inoltre educare i fanciulli in modo che, oltrepassando i confini della famiglia, aprano il loro animo alla vita delle comunità sia ecclesiali che temporali. Vengano accolti nella locale comunità parrocchiale in maniera tale che acquistino in essa la coscienza d'essere membri vivi e attivi del popolo di Dio.

I sacerdoti poi, nella catechesi e nel ministero della parola, nella direzione delle anime, come negli altri ministeri pastorali, abbiano dinanzi agli occhi la formazione all'apostolato. Anche le scuole, i collegi e gli altri istituti cattolici di educazione devono promuovere nei giovani il senso cattolico e l'azione apostolica (48). Qualora questa formazione manchi, o perché i giovani non frequentano tali scuole o per altra causa, la curino con tanto maggiore impegno i genitori, i pastori d'anime e le associazioni.

Gli insegnanti, poi, e gli educatori i quali con la loro vocazione e il loro ufficio esercitano una eccellente forma di apostolato dei laici, siano provveduti della necessaria dottrina e dell'arte pedagogica con cui potranno impartire efficacemente questa formazione.

Parimenti i gruppi e le associazioni di laici che abbiano per scopo l'apostolato in genere o altre finalità soprannaturali, secondo che il loro fine e la loro possibilità lo comportano, debbono diligentemente e assiduamente favorire la formazione all'apostolato. Essi sono spesso la via ordinaria di un'adeguata formazione all'apostolato. In essi infatti si dà simultaneamente una formazione dottrinale, spirituale e pratica. I loro membri, riuniti in piccoli gruppi con i compagni e con gli amici, valutano i metodi e i frutti della loro attività apostolica e confrontano con il Vangelo il loro modo di vivere quotidiano.

Tale formazione va organizzata in modo da tener conto di tutto l'apostolato dei laici, che deve essere esercitato non solo tra i gruppi stessi delle associazioni, ma in ogni circostanza per tutta la vita, specialmente professionale e sociale.

Anzi ognuno deve fattivamente prepararsi all'apostolato, cosa che urge maggiormente nell'età adulta. Infatti con il progredire dell'età, l'animo si apre meglio in modo che ciascuno può scoprire più accuratamente i talenti con cui Dio ha arricchito la sua anima, ed esercitare con maggiore efficacia quei carismi che gli sono stati concessi dallo Spirito Santo, a bene dei suoi fratelli. _______________________ NOTE

(45) Cf. CONC. VAT. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen Gentium, cap. II, IV, V: AAS 57 (1965), pp. 12-23, 37-49 [pag. 133ss, 193ss]; cf. anche il Decr. sull’Ecumenismo Unitatis redintegratio, nn. 4, 6, 7, 12: AAS 57 (1965), pp. 94, 96, 97, 99, 100 [pag. 315ss, 321ss, 327ss]; cf. anche sopra, n. 4 [pag. 565ss].

(46) Cf. PIO XII, Disc. alla VI Conferenza internazionale dei “boyscouts”, 6 giugno 1952: AAS 44 (1952), pp. 579-580; GIOVANNI XXIII, Encicl. Mater et Magistra, 15 maggio 1961: AAS 53 (1961), p. 456.

(47) Cf. CONC. VAT. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen Gentium, n. 33: AAS 57 (1965), p. 39 [pag. 197ss].

(48) Cf. GIOVANNI XXIII, Encicl. Mater et Magistra, 15 maggio 1961: AAS 53 (1961), p. 455.

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CAPITOLO V – L'ORDINE DA OSSERVARE NELL'APOSTOLATO

Introduzione 23 L'apostolato dei laici, sia esso esercitato dai singoli che dai cristiani consociati, dev'essere inserito, con il debito ordine, nell'apostolato di tutta la Chiesa; anzi l'unione con coloro che lo Spirito Santo ha posto a reggere la Chiesa di Dio (cfr. At 20,28) è un elemento essenziale dell'apostolato cristiano. Non meno necessaria è la collaborazione tra le varie iniziative di apostolato, che deve essere convenientemente predisposta dalla gerarchia.

Infatti, per promuovere lo spirito di unione, affinché in tutto l'apostolato della Chiesa splenda la carità fraterna, si raggiungano le comuni finalità e siano evitate dannose rivalità, si richiede una stima vicendevole fra tutte le forme di apostolato nella Chiesa e un conveniente coordinamento, nel rispetto della natura propria di ciascuna (35). Ciò è sommamente conveniente quando una determinata attività nella Chiesa richiede l'armonia e la cooperazione apostolica dell'uno e dell'altro clero, dei religiosi e dei laici.

Rapporti con la gerarchia 24 Spetta alla gerarchia promuovere l'apostolato dei laici, fornire i principi e gli aiuti spirituali, ordinare l'esercizio dell'apostolato medesimo al bene comune della Chiesa, vigilare affinché la dottrina e le disposizioni fondamentali siano rispettate.

L'apostolato dei laici ammette certamente vari tipi di rapporti con la gerarchia, secondo le svariate forme e diversi scopi dell'apostolato stesso.

Sono molte infatti le iniziative apostoliche che vengono prese dalla libera volontà dei laici e sono rette dal loro prudente criterio. Mediante queste iniziative, in certe circostanze la missione della Chiesa può essere meglio adempiuta; perciò esse vengono non di rado lodate o raccomandate dalla gerarchia (36). Ma nessuna iniziativa rivendichi a se stessa la denominazione di «cattolica», se non interviene il consenso della legittima autorità ecclesiastica.

Alcune forme di apostolato dei laici vengono espressamente riconosciute dalla gerarchia in maniere diverse. L'autorità ecclesiastica, per il bene comune della Chiesa, può inoltre scegliere e promuovere in modo particolare alcune associazioni e iniziative aventi finalità immediatamente spirituali, per le quali assume una speciale responsabilità. Così la gerarchia, ordinando in diverse maniere l'apostolato secondo le circostanze, unisce più strettamente alcune forme di esso alla sua missione apostolica, rispettando tuttavia la natura propria e la distinzione dell'una e dell'altra, senza per questo togliere ai laici la necessaria facoltà di agire di propria iniziativa. Questo atto della gerarchia prende in vari documenti ecclesiastici il nome di «mandato».

Infine la gerarchia affida ai laici alcuni compiti che sono più intimamente collegati con i doveri dei pastori, e ciò sia nell'esposizione della dottrina cristiana, sia in alcuni atti liturgici, sia nella cura delle anime. In forza di tale missione, i laici, nell'esercizio di questi compiti, sono pienamente soggetti alla direzione del superiore ecclesiastico.

Nei confronti delle opere e istituzioni di ordine temporale, il compito della gerarchia consiste nell'insegnare e interpretare autenticamente i principi dell'ordine morale che devono essere seguiti nelle cose temporali; inoltre è in suo potere giudicare, tutto ben considerato e servendosi dell'aiuto di esperti, della conformità di tali opere e istituzioni con i principi morali, e stabilire quali cose sono necessarie per custodire e promuovere i beni di ordine soprannaturale.

L'aiuto che il clero deve dare all'apostolato dei laici 25 Ricordino i vescovi, i parroci e gli altri sacerdoti dell'uno e dell'altro clero, che il diritto e il dovere di esercitare l'apostolato è comune a tutti i fedeli, sia chierici sia laici, e che anche i laici hanno compiti propri nell'edificazione della Chiesa (37). Perciò lavorino fraternamente con i laici nella Chiesa e per la Chiesa, ed abbiano una cura speciale dei laici nel loro lavoro apostolico (38).

Si scelgano con diligenza sacerdoti dotati delle qualità necessarie e convenientemente formati per aiutare i laici in speciali forme di apostolato (39). Coloro che si dedicano a questo ministero, una volta ricevuta la missione dalla gerarchia, la rappresentano nella loro azione pastorale: favoriscano le opportune relazioni dei laici con la gerarchia stessa, sempre aderendo fedelmente allo spirito e alla dottrina della Chiesa; consacrino se stessi ad alimentare la vita spirituale e il senso apostolico delle associazioni cattoliche ad essi affidate; le assistano con il loro sapiente consiglio nella loro operosità apostolica e ne favoriscano le iniziative; instaurando un continuo dialogo con i laici, studino attentamente quali siano gli accorgimenti per rendere più fruttuosa la loro azione apostolica; (40)promuovano lo spirito d'unione nell'interno dell'associazione medesima, come pure fra essa e le altre.

I religiosi, infine, sia i frati che le suore, abbiano stima delle opere apostoliche dei laici; secondo lo spirito e le regole dei loro istituti, si dedichino volentieri a promuovere le opere dei laici procurino di sostenere, aiutare, completare i compiti del sacerdote.

Alcuni strumenti per la mutua collaborazione 26 Nelle diocesi, per quanto è possibile, vi siano dei consigli che aiutino il lavoro apostolico della Chiesa, sia nel campo dell'evangelizzazione e della santificazione, sia in campo caritativo, sociale, ecc., nei quali devono convenientemente collaborare clero, religiosi e laici. Questi consigli potranno giovare alla mutua coordinazione delle varie associazioni e iniziative dei laici, nel rispetto dell'indole propria e dell'autonomia di ciascuna (41).

Consigli di tal genere vi siano pure, per quanto è possibile, nell'ambito parrocchiale, interparrocchiale, interdiocesano, nonché a livello nazionale e internazionale (42).

Sia costituito inoltre presso la santa Sede uno speciale segretariato per il servizio e l'impulso dell'apostolato dei laici, come centro che, con mezzi adatti fornisca notizie delle varie iniziative apostoliche dei laici, istituisca ricerche intorno ai problemi che sorgono in questo campo e assista con i suoi consigli la gerarchia e i laici nelle opere apostoliche. In questo segretariato abbiano la parte loro i movimenti e le iniziative dell'apostolato dei laici esistenti in tutto il mondo e, con i laici, vi lavorino anche dei chierici e dei religiosi.

La collaborazione con gli altri cristiani e con i non cristiani 27 Il comune patrimonio evangelico, nonché il conseguente comune dovere della testimonianza cristiana, raccomandano e spesso esigono la collaborazione dei cattolici con gli altri cristiani, da attuarsi dai singoli e dalle comunità ecclesiali, sia in singole attività, sia in associazioni, nel campo nazionale e in quello internazionale (43). Anche i comuni valori umani richiedono non di rado una simile cooperazione dei cristiani che perseguono finalità apostoliche con coloro che non professano il cristianesimo, ma riconoscono tali valori. Con questa cooperazione (44) dinamica e prudente che è di grande importanza nelle attività temporali, i laici danno testimonianza a Cristo, salvatore del mondo, e all'unità della famiglia umana.

_______________________ NOTE

(35) Cf. PIO XI, Encicl. Quamvis Nostra, 30 apr. 1936: AAS 28 (1936), pp. 160-161.

(36) Cf. S. C. DEL CONCILIO, Risoluzione Corrienten., 13 nov. 1920: AAS 13 (1921), pp. 137-140.

(37) Cf. PIO XII, Disc. al II Congresso Mondiale per l’Apostolato dei Laici, 5 ott. 1957: AAS 49 (1957), p. 927.

(38) Cf. CONC. VAT. II, Cost. sulla Chiesa Lumen Gentium, n. 37: AAS 57 (1965), pp. 42-43 [pag. 207ss].

(39) Cf. PIO XII, Esort. Apost. Menti Nostrae, 23 sett. 1950: AAS 42 (1950), p. 660.

(40) Cf. CONC. VAT. II, Decr. sul rinnovamento della vita religiosa, n. 8: [pag. 419ss].

(41) Cf. BENEDETTO XIV, De Synodo Dioecesana, l. III, c. IX, n. VII-VIII: Opera omnia in tomos XVII distributa, tom. XI (Prati, 1844), pp. 76-77.

(42) Cf. PIO XI, Encicl. Quamvis Nostra, 30 apr. 1936: AAS 28 (1936), pp. 160-161.

(43) Cf. GIOVANNI XXIII, Encicl. Mater et Magistra, 15 maggio 1961: AAS 53 (1961), pp. 456-457. Cf. CONC. VAT. II, Decr. sull’Ecumenismo Unitatis redintegratio, n. 12: AAS 57 (1965), pp. 99-100 [pag. 327ss].

(44) Cf. CONC. VAT. II, Decr. sull’Ecumenismo Unitatis redintegratio, n. 12: AAS 57 (1965), p. 100 [pag. 327ss]. Cf. anche la Cost. dogm. sulla Chiesa, Lumen Gentium, n. 15: AAS 57 (1965), pp. 19-2

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DOCUMENTI DEL CONCILIO VATICANO II Decreto sull’apostolato dei laici APOSTOLICAM ACTUOSITATEM (18 novembre 1965)

CAPITOLO IV – VARI MODI DI APOSTOLATO

Introduzione 15 I laici possono esercitare l'attività apostolica o individualmente o uniti in varie comunità e associazioni.

Importanza e molteplicità dell'apostolato individuale 16 L'apostolato che ciascuno deve esercitare personalmente, sgorgando in misura abbondante dalla fonte di una vita veramente cristiana (Gv 4,14), è la prima forma e la condizione di ogni altro apostolato dei laici, anche di quello associato ed è insostituibile.

A tale apostolato, sempre e dovunque proficuo, anzi in certe circostanze l'unico adatto e possibile, sono chiamati e obbligati tutti i laici, di qualsiasi condizione, ancorché non abbiano l'occasione o la possibilità di collaborare nelle associazioni.

Molte sono le forme di apostolato con cui i laici edificano la Chiesa e santificano il mondo animandolo in Cristo.

Una forma particolare di apostolato individuale e segno adattissimo anche ai nostri tempi a manifestare il Cristo vivente nei suoi fedeli, è la testimonianza di tutta la vita laicale, promanante dalla fede, dalla speranza e dalla carità. Con l'apostolato poi della parola, in alcuni casi del tutto necessario, i laici annunziano Cristo, spiegano e diffondono la sua dottrina secondo la propria condizione e capacità e fedelmente la professano.

Collaborando inoltre, come cittadini di questo mondo, in ciò che riguarda la costruzione e la gestione dell'ordine temporale, i laici devono perseguire nella vita familiare, professionale, culturale e sociale, alla luce della fede, ancor più alti motivi dell'agire e, presentandosi l'occasione, farli conoscere agli altri, consapevoli di rendersi così collaboratori di Dio creatore, redentore e santificatore e di glorificarlo.

Infine i laici animino la propria vita con la carità e l'esprimano con le opere, secondo le proprie possibilità.

Si ricordino tutti che, con il culto pubblico e la preghiera, con la penitenza e la spontanea accettazione delle fatiche e delle pene della vita, con cui si conformano a Cristo sofferente (cfr. 2 Cor 4,10; Col 1,24), essi possono raggiungere tutti gli uomini e contribuire alla salvezza di tutto il mondo.

L'apostolato individuale in particolari circostanze 17 Questo apostolato individuale è di grande necessità e urgenza in quelle regioni in cui la libertà della Chiesa è gravemente impedita. In tali difficilissime circostanze i laici, sostituendo come possono i sacerdoti, mettendo in pericolo la propria libertà e talvolta anche la vita, insegnano la dottrina cristiana a coloro cui vivono vicino, li formano alla vita religiosa e allo spirito cattolico, li inducono a ricevere con frequenza i sacramenti e a coltivare la pietà, soprattutto quella eucaristica (27). Il sacro Concilio, mentre di tutto cuore ringrazia Dio che anche nella nostra epoca, non manca di suscitare laici di eroica fortezza in mezzo alle persecuzioni, li abbraccia con paterno affetto e con riconoscenza.

L'apostolato individuale ha luogo particolarmente in quelle regioni dove i cattolici sono pochi e dispersi. Ivi i laici, che solo individualmente possono esercitare l'apostolato, sia per i motivi suddetti, sia per speciali ragioni derivanti anche dalla loro attività professionale, opportunamente a tempo e luogo si radunano insieme in piccoli gruppi per scambiarsi le idee senza alcuna rigida formula di istituzione od organizzazione, in maniera che questo apparisca sempre come segno della comunità della Chiesa di fronte agli altri e quale vera testimonianza di amore. In questo modo, con l'amicizia e lo scambio di esperienze, aiutandosi a vicenda spiritualmente, si fortificano per superare i disagi di una vita e di una attività troppo isolate e per produrre frutti sempre più abbondanti di apostolato.

Importanza dell'apostolato organizzato 18 I fedeli sono dunque chiamati ad esercitare l'apostolato individuale nelle diverse condizioni della loro vita; tuttavia ricordino che l'uomo, per natura sua, è sociale e che piacque a Dio di riunire i credenti in Cristo per farne il popolo di Dio (cfr. 1 Pt 2,5-10) e un unico corpo (cfr. 1 Cor 12,12). Quindi l'apostolato associato corrisponde felicemente alle esigenze umane e cristiane dei fedeli e al tempo stesso si mostra come segno della comunione e dell'unità della Chiesa in Cristo che disse: « Dove sono due o tre riuniti in mio nome, io sono in mezzo a loro » (Mt 18,20).

Perciò i fedeli esercitino il loro apostolato accordandosi su uno stesso fine (28). Siano apostoli tanto nelle proprie comunità familiari, quanto in quelle parrocchiali e diocesane, che già sono esse stesse espressione del carattere comunitario dell'apostolato, e in quelle libere istituzioni nelle quali si vorranno riunire.

L'apostolato associato è di grande importanza anche perché sia nelle comunità ecclesiali, sia nei vari ambienti, spesso richiede di essere esercitato con azione comune. Infatti le associazioni erette per un'attività apostolica in comune sono di sostegno ai propri membri e li formano all'apostolato, ordinano e guidano la loro azione apostolica, così che possono sperarsi frutti molto più abbondanti che non se i singoli operassero separatamente.

Nelle attuali circostanze, poi, è assolutamente necessario che nell'ambiente di lavoro dei laici sia rafforzata la forma di apostolato associata e organizzata, poiché solo la stretta unione delle forze è in grado di raggiungere pienamente tutte le finalità dell'apostolato odierno e di difenderne validamente i frutti (29). In questo campo è cosa particolarmente importante che l'apostolato incida anche sulla mentalità generale e sulle condizioni sociali di coloro ai quali si rivolge; altrimenti i laici saranno spesso impari a sostenere la pressione sia della pubblica opinione sia delle istituzioni.

Molteplicità di forme dell'apostolato associato 19 Grande è la varietà delle associazioni apostoliche alcune si propongono il fine apostolico generale della Chiesa (30); altre in particolare il fine dell'evangelizzazione e della santificazione; altre attendono ai fini dell'animazione cristiana dell'ordine delle realtà temporali; altre rendono in modo speciale testimonianza a Cristo con le opere di misericordia e di carità.

Tra queste associazioni vanno considerate in primo luogo quelle che favoriscono e rafforzano una più intima unità tra la vita pratica dei membri e la loro fede. Le associazioni non sono fine a se stesse, ma devono servire a compiere la missione della Chiesa nei riguardi del mondo: la loro incidenza apostolica dipende dalla conformità con le finalità della Chiesa, nonché dalla testimonianza cristiana e dallo spirito evangelico dei singoli membri e di tutta l'associazione.

Inoltre la missione universale della Chiesa, in considerazione del progresso delle istituzioni e sotto la spinta del rapido evolversi della società odierna, richiede che le iniziative apostoliche dei cattolici perfezionino sempre più le forme associate in campo internazionale. Le organizzazioni internazionali cattoliche raggiungono meglio il proprio fine, se le associazioni che ne fanno parte e i loro membri sono più intimamente uniti ad esse.

Salvo il dovuto legame con l'autorità ecclesiastica (31) i laici hanno il diritto di creare associazioni e guidarle (32), e di aderire a quelle già esistenti. Occorre tuttavia evitare la dispersione delle forze che si ha allorché si promuovono nuove associazioni e opere senza motivo sufficiente, o si mantengono in vita, più del necessario, associazioni o metodi invecchiati; né sarà sempre opportuno che forme istituite in una nazione vengano portate indiscriminatamente in altre (33).

L'Azione cattolica 20 Da diversi decenni i laici sono andati consacrandosi sempre più all'apostolato in molte nazioni e si sono raccolti in forme varie di attività e di associazioni che, in unione particolarmente stretta con la gerarchia, si sono occupate e si occupano di fini propriamente apostolici. Tra queste o anche altre simili del passato, sono soprattutto da ricordare quelle che, pur seguendo diversi metodi, hanno prodotto abbondantissimi frutti nel regno di Cristo e, meritatamente raccomandate e promosse dai romani Pontefici e da molti vescovi, hanno avuto da essi il nome di Azione cattolica e spessissimo sono state descritte come collaborazione dei laici all'apostolato gerarchico (34).

Queste forme di apostolato, si chiamino esse Azione cattolica o con altro nome, esercitano oggi un apostolato prezioso. Esse sono costituite dal concorso delle seguenti note caratteristiche prese tutte insieme:

a) Fine immediato di tali organizzazioni è il fine apostolico della Chiesa, cioè l'evangelizzazione e la santificazione degli uomini e la formazione cristiana della loro coscienza, in modo che riescano ad impregnare dello spirito evangelico le varie comunità e i vari ambienti.

b) I laici, collaborando con la gerarchia secondo il modo loro proprio, portano la loro esperienza e assumono la loro responsabilità nel dirigere tali organizzazioni, nel ponderare le circostanze in cui si deve esercitare l'azione pastorale della Chiesa e nella elaborazione ed esecuzione del loro programma di azione.

c) I laici agiscono uniti a guisa di corpo organico, affinché sia meglio espressa la comunità della Chiesa e l'apostolato riesca più efficace.

d) Questi laici, sia che si offrano spontaneamente, o siano invitati all'azione e alla cooperazione diretta con l'apostolato gerarchico, agiscono sotto la superiore direzione della gerarchia medesima, la quale può sancire tale cooperazione anche per mezzo di un « mandato » esplicito.

Le organizzazioni in cui, a giudizio della gerarchia, si trovano tutte insieme queste note, si devono ritenere Azione cattolica, anche se, per esigenze di luoghi e di popoli, prendono varie forme e nomi. Il sacro Concilio raccomanda vivamente queste istituzioni, che certamente in molti paesi rispondono alle necessità dell'apostolato della Chiesa; invita i sacerdoti e i laici che lavorano in esse a tradurre sempre più in atto le note sopra ricordate e a cooperare sempre fraternamente nella Chiesa con tutte le altre forme di apostolato.

Stima delle associazioni 21 Occorre stimare nel modo giusto tutte le associazioni di apostolato; quelle poi che la gerarchia secondo le necessità dei tempi e dei luoghi, ha lodato o raccomandato o ha deciso di istituire come più urgenti, vanno tenute in somma considerazione da sacerdoti, dai religiosi e dai laici e promosse secondo la natura propria di ciascuna di esse. Tra queste, soprattutto oggi, vanno certamente annoverate le associazioni e i gruppi internazionali dei cattolici.

I laici dediti al servizio della Chiesa a titolo speciale 22 Nella Chiesa sono degni di particolare onore e di raccomandazione quei laici, celibi o uniti in matrimonio, che si consacrano in perpetuo o temporaneamente al servizio delle istituzioni e delle loro opere con la propria competenza professionale. È per essa di grande gioia veder crescere sempre più il numero dei laici che offrono il proprio servizio alle associazioni e alle opere di apostolato, sia dentro i limiti della propria nazione, sia in campo internazionale, sia soprattutto nelle comunità cattoliche delle missioni e delle Chiese nascenti.

I pastori della Chiesa accolgano volentieri e con animo grato tali laici, procurino che la loro condizione soddisfi nella misura migliore possibile alle esigenze della giustizia, dell'equità e della carità, soprattutto in merito all'onesto sostentamento loro e della famiglia, e che essi godano della necessaria formazione, di conforto e di stimoli spirituali. _______________________ NOTE

(27) Cf. PIO XII, Disc. al I Congresso Mondiale per l’Apostolato dei Laici, 14 ott. 1951: AAS 43 (1951), p. 788.

(28) Cf. PIO XII, Disc. al I Congresso Mondiale per l’Apostolato dei Laici, 14 ott. 1951: AAS 43 (1951), pp. 787-788.

(29) Cf. PIO XII, Encicl. Le pèlerinage de Lourdes, 2 luglio 1957: AAS 49 (1957), p. 615.

(30) Cf. PIO XII, Disc. al Consiglio della Federazione Internazionale degli uomini cattolici, 8 dic. 1956: AAS 49 (1957), pp. 26-27.

(31) Cf. sotto, cap. V, n. 24 [pag. 605s].

(32) Cf. S. C. DEL CONCILIO, Risoluzione Corrienten. 13 nov. 1920: AAS 13 (1921), p. 139.

(33) Cf. GIOVANNI XXIII, Encicl. Princeps Pastorum, 10 dic. 1959: AAS 51 (1959), p. 856.

(34) Cf. PIO XI, Lett. Quae nobis al Card. Bertram, 13 nov. 1928: AAS 20 (1928), p. 385. Cf. anche PIO XII, Disc. all’A.C. Italiana, 4 sett. 1940: AAS 32 (1940), p. 362.

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