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Il primo album solista di Steve Wynn, leader dei disciolti Dream Syndicate, è un disco vario, denso di umori, con qualche puntata personale verso sonorità più ricercate dove si dimostra autore con meno rabbia del rocker dei Syndicate, ma con più idee, con un uso degli strumenti vario, mille sfaccettature nella musica, tanto che il disco mostra di avere diverse cose che si riescono a scoprire solo dopo vari ascolti.

L’album rivela un Wynn musicista più maturo, non più il ragazzo dai suoni acidi ma un scrittore ed interprete rock di vero talento. I suoni del disco richiamano in parte i Syndicate e in parte fanno apparire un lato nuovo, quello del balladeer notturno.

E’ chiaro che Wynn con questo lavoro ha voluto prendere le distanze dal vecchio suono a cui ci aveva abituato, cercando soluzioni più vicine al cantautorato statunitense che al puro rock di matrice chitarristica che aveva alimentato sino a qualche mese fa la sua carriera. Wynn si dimostra songwriter, autore di canzoni, nella più classica tradizione dello storyteller.

Nel contempo l’album dichiara una maturità di arrangiamenti che fa uscire l’autore dal suo usuale schema (chitarra-basso-batteria e, eventualmente, tastiere) per ampliare il suono con archi e fiati, adeguando le sonorità a quello che è l’ambito più ovvio del cantautore.

Kerosene Man è dunque un bel disco, dove la ballata regna sovrana, dove la voce carismatica del leader raggiunge toni talvolta confidenziali, dove sax e violino entrano di forza in un tessuto che prima non li contemplava. Il suono va dal rock alla canzone notturna, ma il disco mantiene una vena costante per tutto il lavoro, vena di elevato livello, sia professionale che artistico.

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Nicholas Edward Cave classe ’58 Australiano di Melbourne a 32 anni incide il suo sesto album solista “The Good Son”. La sua discografia, sei album in otto anni, due eccezionali “The Firstborn is Dead” e “Kicking Against The Pricks” album di cover, bello e non ovvio, tre più che validi “From Her To Eternity”, “Your Funeral… My Trial” e “Tender Prey” e questo “Buon Figlio” targato 1990. Il cambio di rotta è evidente, Cave abbandona i suoni spigolosi e irrequieti e intraprende la strada della melodia, dell’intimismo, della spiritualità. La bellezza dell’album è racchiusa nelle nove canzoni, dove non ci sono cadute di tono, anzi, tutto il disco è un continuo emozionante flusso sonoro, un alternarsi di ballate una più bella dell’altra. Proprio per questo le vediamo una ad una.

Foi Na Cruz — Lenta ed inesorabile con ritornello in portoghese, splendido decadentismo sulle note di un amore che doveva essere e non è stato; non resta che sognare sulle magiche note di accompagnamento. Bellissima partenza. The Good Son — Cori soul burrascosi, intervallati da distensioni di chitarre spiegate, per conferire estrema profondità, il basso ossessivo sembra estratto da una outtake di “From Here To Eternity” per via della sua carica emotiva ascendente. Un finale da lacrime. The Weeping Son — Camminando lentamente e forse mestamente, a testa alta, orgogliosi della nostra sofferenza in un pomeriggio di fine inverno, le campane risuonano nell’aria scandendo il ritmo che scorre, non si può più tornare indietro e non resta che la disperazione, consapevole, suo malgrado testimone di uno spaccato di vita. Meravigliosa. Sorrow Child — Forse il momento più bello, più significativo dell’intero lavoro, dove Cave esprime con perentoria capacità di immedesimazione la tristezza adolescenziale, fatta di lacrime e lamenti. Alta espressione di arte intesa in senso musicale. Unica. Ship Song — Arduo trasportare l’animo trascinandolo per mano, Ship Song è in grado di farlo, con la voce da amico prima e da imbonitore poi; l’hammond in sottofondo è una caratteristica che conferisce maestosità all’evento. Bellissima. The Hammer Song — Prosegue il viaggio nelle diverse interpretazioni di canzoni; il basso ridondante descrive una fuga attraverso gli alberi di una fitta radura; si procede con passi svelti guardandosi le spalle; via fino al fiume, sotto la pioggia, il momento è arrivato… Epica. Lament — Ancora poesia e lacrime, anche stavolta però come nelle precedenti meste ballate, Nick Cave ci invita a guardare un po’ in là, ad asciugare gli occhi, l’aria e la luce cominciano a renderlo un tantino più ottimista. Visionaria. The Witness Song — Un disimpegno, serio, alla sua maniera, energia condensata in pochi strumenti avvolgenti, nel modo più lirico possibile, senza tralasciare la drammaticità degli eventi. Essenziale. Lucy — L’amore posseduto, desiderato e disperato fatto di pena e sofferenza; non ci resta che richiamarlo alla memoria, il “reprise” finale del pezzo con il piano di Roland Wolf, è un soave finale da mini-opera con harmo e piano in evidenza. Ottimo finale.

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immagine Ci sono musicisti che a vent’anni hanno già detto tutto quello che potevano dire. Ce ne sono altri, invece, che a cinquanta suonati incominciano a dire le cose più importanti della loro vita.

Il caso dei fratelli Neville di New Orleans è quanto mai sintomatico di quanto detto sopra. I Brother’s, hanno percorso in silenzio e dignità la china di una fama ardentemente e meritatamente ricercata. Il successo del loro penultimo album, “Yellow Moon”, è la testimonianza di una fede nella musica che va al di là delle mode o dei generi.

Tra le altre cose, hanno il pregio di non poter essere facilmente catalogabili per genere. La loro musica non è mai stata inserita perfettamente in alcuno dei tanti compartimenti in cui è divisa la musica americana. Sembra infatti che, i negozianti non sappiano mai esattamente dove mettere i loro dischi. E’ capitato di trovarli nei posti più impensabili: nella sezione country, in quella gospel… Questa confusione ha indubbiamente danneggiato la loro promozione radiofonica e non solo.
Che “Brother’s Keeper” sia il prolungamento di “Yellow Moon”, sembra fin troppo ovvio, e questo depone comunque a suo favore. Ma forse si tratta di un disco ancora più vario e più bello del precedente. I Neville Brothers, sanno mischiare tutto il loro vasto sapere musicale in un unico sforzo sonoro che conta R&B, rock, blues, jazz, gospel, funky, reggae, folk-rock, ecc…

Le prodezze vocali di Aaron, Re Mida della voce, inebriano il loro sound dilatato e rarefatto. Il suo canto nero, profondo africano, crea un legame di sangue con la madre Africa.

Il titolo “Brother’s Keeper”, racchiude in sé il tema centrale del disco: ognuno di noi è il guardiano del proprio fratello. Le canzoni, attraverso un “talking” suggestivo, parlano del loro credo (sono ferventi discepoli della chiesa Battista), con un reggae solare, ci parlano della libertà d’espressione. Con atmosfere quasi epiche, si preoccupano di dire che, ogni uomo deve rispettare il proprio fratello, l’espressione del suo modo d’essere e di ciò che vuole fare con la propria vita. Attraverso un sound caraibico, cantano dell’importanza della responsabilità individuale. Tra antiche polifonie sonore e la stridula melodia araba, ci fanno notare che l’apatia è distruttiva ma che la politica può spesso appannare la verità. Con un parlato solenne, ci fanno capire che, la sofferenza di ogni uomo, donna, bambino oppresso, tocca profondamente le vite di ciascuno di noi.

I Neville si preoccupano di tutte queste cose e vogliono essere d’aiuto in qualunque modo possibile. La musica, in questo caso, può essere una forza potente, una grande fonte di aiuto, di guarigione. La loro è una musica calda, suggestiva. Il suono entra dentro di noi, in profondità, per cercare di sensibilizzare quella parte non facilmente raggiungibile, dove i sentimenti e le emozioni cercano di proteggersi da agenti esterni, per evitare scossoni, responsabilità, e vivere latenti, nel loro oblio.

Questo è un disco che non lascia indifferenti, i loro testi e la loro musica riescono a scaldare anche gli animi più gelidi, per la gioia della mente, del corpo, dell’essere. Questo è il loro motore trainante, che li rendono “grandi”.

Con questo disco i fratelli Neville, hanno finalmente ricevuto l’attenzione che si meritano, il pubblico si è reso conto che non è necessariamente vero che a quarant’anni si sia meno coraggiosi che a venti. #millenovecentonovanta

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