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millenovecentonovantaquattro

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Venticinquesima pubblicazione discografica del nostro “The Man”, A Night in San Francisco è un doppio album dal vivo registrato al Masonic Auditorium di San Francisco (California), il 18 dicembre 1993 e al The Mystic Theater di Petaluma (California), il 12 dicembre 1993. I due dischi contengono 22 brani (14 + 8) più un 23° aggiunto come bonus track: Cleaning Windows / The Street Only Knew Your Name, registrata il 17 dicembre 1993 sempre al Masonic Auditorium di San Francisco (California), nella ristampa in CD del 2008.

A night in San Francisco è un piccolo gioiello. E’ un piccolo gioiello perchè Van Morrison con questo disco raccoglie tutta la sua arte e la mette in scena con una energia, ed una creatività, che pochissimi altri artisti al giorno d’oggi sono in grado di esprimere. E lo fa in maniera tranquilla, senza troppe tecnologie e trucchi, solamente cantando alcune delle sue più belle canzoni ed un pugno di classici senza tempo della musica popolare, scelte dal suo infinito canzoniere dell’anima. Sì, perchè di musica dell’anima si tratta, di soul music nell’accezione più ampia del termine, una soul music che mescola blues, rock, gospel, tradizioni irlandesi ed americane, in un unico, grande insieme musicale, che sfugge alle categorizzazioni più semplici dei generi. A night in San Francisco, fedele riproduzione su disco dei due straordinari concerti sopra detti, è diretto da Morrison e la sua band, animata sempre con magnifica eleganza dal grandissimo Georgie Fame e diretta da Ronnie Johnson, una band arricchita dalla partecipazione di ospiti di riguardo come la sassofonista Candy Dulfer e di tre vere e proprie leggende del blues come John Lee Hooker, Jimmy Whiterspoon e Junior Wells, che mettono a disposizione del leader le loro personalissime “visioni” musicali, per dar vita ad una serie di esecuzioni che riescono ad essere fedeli agli originali ed al tempo stesso nuovissime e moderne. Musica fuori dal tempo, quella di Morrison, che lega senza difficoltà canzoni scritte trenta anni fa e nuove composizioni, in un gioco affascinante di richiami tra passato e presente, che permette al musicista irlandese di muoversi con la stessa sicurezza tra brani recenti e classici che non risentono minimamente le ingiurie degli anni, come Gloria o Tupelo Honey, che dal vivo trovano ancora una loro straordinaria attualità. In concerto Van Morrison dirige le esecuzioni in perfetta libertà, dà spazio alla sua inventiva, alla sua creatività, in maniera completa, mescolando intuizioni diverse, permettendosi di cantare Moondance e di farla diventare pian piano My funny Valentine, recitando preghiere e poesie cariche di passione, lasciando spazio alla band per contrappunti, dialoghi, interventi che non sembrano mai casuali ed al tempo stesso sono sempre sorprendenti. Nei due cd che compongono A night in San Francisco sono raccolte oltre due ore di musica meravigliosa e coinvolgente, scritta e cantata con irriducibile passione da uno dei più grandi artisti della musica popolare.

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immagine Grace è l’unico disco completo che Jeff Buckley ci ha lasciato in sua memoria, prima che un destino dannato lo prendesse con se. Morì infatti, annegato nel maggio del 1997.

Dal padre Tim, uno dei più grandi cantautori del secolo scorso, oltre alla morte prematura, ha preso in eredità la grandissima dote vocale. La voce infatti è una voce speciale, angelica, a tratti, drammatica, sgraziata, disperata. No, non era un vocalist da bel canto, ma un cantante in presa diretta con le emozioni e i sommovimenti dell’anima.

Il disco composto da dieci brani è di forte impatto, non solo vocale ma anche spirituale. La canzone d’apertura “Mojo Pin” è un’alternanza variegata che va dai sussurri alle grida, senza violenza e con sentimento Buckleyiano. “Grace” ci fa sentire le doti musicali di cui il nostro è in possesso. E lo si percepisce soprattuto dalle sue performance vocali. “Last Goodbye” è l’esempio di come un brano “leggero”, cantato da Jeff diventi di spessore. “Lilac Wine” è tra i brani più spirituali del disco, la malinconia e la dolcezza dell’interpretazione lo fa avvicinare allo stile del padre. “So Real” ci porta agli antipodi rispetto alla precedente, un brano “libero” senza schema, un cavallo senza briglie. “Halleluja”, brano di Leonard Cohen, è l’esempio di come la copia superi l’originale. Sei minuti di grande intensità sonora, interpretata come meglio non si può: mistica e profonda. “Lover, You Should’ve Come Over” rimane nei paraggi, la sua malinconia aumenta pian piano fino a coinvolgerti a tal punto che è come vedere una scena di un film, triste. Ulteriore alternanza sonora con “Corpus Christi Carol”, brano spirituale-religioso agli antipodi di “Eternal life” brano rockettaro con forti accenni chitarristici. L’ultimo brano del disco: “Dream Brother”, chiude in bellezza questo grande disco, e ancora una volta il misticismo di Buckley rimane in evidenza regalandoci una canzone carica di poesia e pathos.

“Grace” è un disco magico. L’abilità del mago Jeff è quella di riuscire a trasportarti nel suo mondo, un mondo tutto suo, fatto di sensazioni, emozioni, pensieri. Nel mondo rock pochi come lui, sono riusciti a trasmettere con le parole e la musica “stati” di profondo spiritualismo mai banali.

Il mago Jeff ha avuto il coraggio di aprire una nuova strada tutta personale, il suo canto, i suoi testi, i suoi suoni, hanno creato un suo personale stile, unico e irripetibile. “Grace” rimane uno degli album più importanti della storia del rock. Un disco senza tempo. Un regalo che Buckley ci ha lasciato in eredità.

Il suo testamento artistico-musicale-spirituale.

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Un blues dal cuore della terra.

Nel 1994 con la collaborazione di Ry Cooder grande “musa” musicale di tutti i tempi, esce questo Talking Timbuktu, e naturalmente come è immaginabile, per essere stato inserito tra i miei dischi preferiti, rimango deliziato. La cosa che viene subito alla luce è l’equilibrio che nasce dalla combinazione di due “mondi” diversi. Dove per mondi si intende non solo le provenienze naturali dei due musicisti, ma anche la loro diversità di esperienze, culture, vite e suoni.

Il disco composto da dieci brani, crea un’atmosfera semplicemente magica e nota dopo nota avviene questo scambio sonoro. Qualunque sia lo strumento in evidenza, si ha modo di “respirare” la musica in una maniera lenta e profonda. Il terreno dove avviene questo scambio sonoro è il blues. E se pur non suonato con i soliti strumenti, la venatura malinconica rimane in evidenza.

C’è un qualcosa che traspare dal disco che ricorda una ciclicità: l’amaro e il dolce, gli spazi brevi e ampi, il giorno e la notte, la terra e il mare. Ma quale mare? Il Mali non ha nessun sbocco al mare. Ed è questa una delle tante magie che la musica di questo disco riesce nella sua semplicità a generare.

L’immaginare l’immaginabile. Ancora una volta Cooder dimostra di saper entrare in sintonia con lo spirito della musica e dei musicisti che lo accompagnano in ogni sua avventura sonora, senza mai prevaricare, ma con un equilibrio perfetto, riuscendo così a farci conoscere sempre nuove “menti” musicali, regalandoci in questo caso una musica proveniente da un luogo situato alla fine del mondo. Ma con le radici affondate proprio al centro del suo cuore.

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