cronache dalla scuola

[cronache dalla scuola]

Oggi in una quinta, non mia peraltro, affianco la docente di inglese perché ho un po' di tempo libero e lanciamo un videogioco indie che ho scoperto ieri nel quale tu sei il partito socialista tedesco nel 1928 e devi – sostanzialmente – impersonare il partito socialista tedesco. La classe seduta vicino allo schermo, tutti assieme votando per alzata di mano, abbiamo giocato con me che traducevo alla buona il testo (dall'inglese) con il loro supporto e ovviamente la supervisione della docente di inglese.

Alla fine, sono le 13:49, dico, ragazzi fermiamoci qua che tra un minuto suona e dovete uscire e loro, giuro, dicono, “no prof, facciamo ancora un giro”. Se non siete pratici del mondo scuola, ai quarantanove nel tecnico in genere hanno già giacca e zaino e mordono ogni cosa si frapponga tra loro e la libertà.

Uscendo parlo con la docente di inglese, che mi ascolta, mi contraddice, limita il mio entusiasmo: certo ha funzionato anche perché prima c'è stata una lezione tradizionale, sapevano di cosa si stava parlando, certo. Però – dico io – abbiamo parlato per un'ora di parlamento tedesco, di partiti di centro, destra e sinistra, di ideologie, di caduta del governo, uso della propaganda e simili.

È, secondo me, un esempio delle potenzialità della didattica ludica, fortemente osteggiata e sottovalutata una volta usciti dal magico mondo della primaria.

[diario dalla scuola]

In pratica porto questa prima nella biblioteca della scuola e li divido in sette gruppi e gli do sette sceneggiature (fatte da un gruppo di lavoro della stessa classe) della II parte della metamorfosi di Kafka e gli dico, ok, avete un'ora per farmi un po' di girato per il vostro film, usando le tecniche che abbiamo visto la settimana scorsa: movimenti di camera, inquadrature, montaggio, eccetera.

Diciamo che non sapevo cosa sarebbe successo e mi preparavo al peggio e invece nell'ora successiva ho visto una trentina di ragazzini improvvisarsi registi con il cellulare, rantolare per terra zampettando come insetti, ritagliare cartoncino e costruire dal nulla una mela verde, reggere pareti di cartone, venire da me chiedendomi ciotole, spegnere luci per fare strani effetti di luce, chiedermi di cambiare aula per poter fare una ripresa in cui la finestra “deve essere bassa”, sbattere la testa contro la porta e fare un casino terribile, un rumore che a scuola se si sente vuol dire che non c'è lezione, e qui invece l'opposto.

Passa una collega di inglese che guarda tutto, ridacchia, mi dice che qualche mio collega non sarebbe d'accordo su questo tipo di lezione. “E poi -aggiunge – non vedi che si stanno divertendo? A scuola non ci si diverte!” chiosa. Ammicca, svanisce.

E in effetti penso guardandoli, si stanno anche un po' divertendo. E questo mi fa proprio impressione.

Quando i docenti si incontrano per i corridoi, nella sala docenti, quando si scrivono messaggi su WhatsApp o si mandano email difficilmente parlano di didattica o contenuti inerenti alla loro disciplina. In genere parlano dei ragazzi. Continuamente i docenti parlano dei ragazzi più di quanto i ragazzi possano pensare. Ragionano di loro, si lamentano per i tradimenti, per le disillusioni e – talvolta – mostrano entusiasmo, timido, per alcune cose che sono riuscite. Parlano del loro carattere, di come cambiano nel tempo, di come funzionino bene con altri simili a loro o si annullino, a seconda delle malformità dell'animo e della classe. Ne parlano con rabbia, a volte, con rammarico, con sarcasmo o con stupore. Con le parole cercano di tenerli sotto controllo, ma anche di capirli, di armonizzarli. Parlano delle loro famiglie, sussurrano i problemi più profondi, si chiedono come poter fare qualcosa. Ci sono voci di docenti che sono più forti, altre più sottili, alcune sono voci che tendono a costruire discorsi, altre a distruggerli, alcune voci sono più deboli ma anche più determinate. Alcune voci sono affettuose, altre fanno paura a sentirle. Tutte sono lì assieme, si impastano in un grosso mormorio che è una parte della scuola sconosciuta, forse la più interessante e lasciata a se stessa, alla volontà del singolo, all'inuizione, a una formazione spesso invisibile e inconsistente. Tra queste voci passa la storia degli studenti, la narrazione della loro partecipazione o della loro scomparsa. Quando suona l'ultima campanella, gli studenti escono con un frastuono standard, che non si sente nemmeno. Poi la struttura piomba in un crocicchio di voci lontano: sono quelle dei docenti che – abbandonate le classi – si incontrano, a coppie si sfogano, creano cappannelli, si salutano e non se ne vanno, si abbandonano, vanno a cercare qualcosa negli armadietti, continuano a parlare di quegli spettri incasinati che sono appena fuggiti, tengono viva la scuola finché anche questa si spegne nel preserale invernale.

[cronache dalla scuola]

Attività di cinema in classe, siamo seduti per terra in cerchio davanti a una mappa simbolica del mondo e l'esperta che sta facendo la lezione chiede agli studenti del loro futuro: dove pensano di vivere da adulti e come si immaginano la Genova dei prossimi secoli.

E tre cose emergono. La prima è che la quasi totalità di loro non vede l'Italia nel proprio futuro felice. Non dico Genova, proprio l'Italia. Tutti sognano una vita distante dalla nazione dove sono nati.

La seconda è che sognano di vivere in posti che – se ci vivessero – significherebbe che ce l'hanno fatta. Hanno fatto i soldi. Dubai. Montecarlo. La felicità è completamente sovrapponibile al raggiungimento di una solidissima retribuzione economica.

La terza è che la propria soddisfazione capitalista è l'unica speranza possibile. Non c'è nessuna fiducia di un futuro collettivo e felice. Molti dicono che non hanno alcune intenzione di fare figli, perché il mondo è sull'orlo di un disastro. Hanno paura della guerra: per loro, non per i loro figli. Il clima è un problema reale ma nessun politico davvero ha interesse a risolverlo. Sono problemi che verranno davvero al pettine quando i politici di oggi saranno morti. E loro, gli studenti, non potranno fare niente. Anche dopo la scuola “noi non contiamo niente”. Una totale rassegnazione e sfiducia verso il progresso.

Alla domanda “Come vorresti la Genova del futuro?” uno studente ha risposto, “come è adesso, prima che il progresso la rovini del tutto”. Avevo davanti dei ragazzini di diciotto anni che parlavano come dei vecchi disillusi.

Ieri ero in corridoio che parlavo con una collega, citavo gli hackathon, si parlava di didattica. Parlavo con lei e intanto controllavamo la classe in cui stavamo facendo lezione: un terzo della classe era chiusa dentro, si stava registrando mentre creavano un video in cui commentavano – a gruppi – le mappe dell'ultimo Limes. Un altro terzo della classe era in aula di fisica, espropriata, e stavano discutendo di quello che avevano ascoltato durante la manifestazione di Limes a Genova, e intanto si riprendevano con il cellulare. L'ultimo terzo era nell'aula di cooperative learning che organizzava altri materiali per questo blog che stiamo preparando in cui mettere i nostri lavori di riflessione sulla geopolitica contemporanea

e vedevo i ragazzi uscire e entrare dalle diverse classi, allestire materiali, venire a chiedere delucidazioni e – vabbè – ogni tanto distrarsi e dicevo, vedi, così dovrebbe essere più spesso la scuola, un cantiere per fare qualcosa, come gli hackathon e – niente – viene fuori che nessuno tra i colleghi con cui parlo anche dopo ne avesse mai visto uno di hackathon.

Poi dopo, durante un banale tradizionale compito in classe per prepararsi alla maturità, tipologia b & c, nel silenzio che c'è in classe, sento un collega nella classe a fianco che fa una lezione frontale su Napoleone e ne sento dei pezzi e penso che non è male, ci sono cose che nemmeno io sapevo, e penso – di nuovo – allo spreco di avere in una scuola docenti che in classi a fianco le une alle altre spesso spiegano esattamente le stesse cose, ognuno a suo modo, quando ogni tanto sarebbe così utile a tutti vedersi in una bella aula di storia o di letteratura dove due o tre docenti spiegano a due o tre classi, girano, si ascoltano fra di loro, si criticano e si aiutano.

Alla fine ricordo ai ragazzi il compito per lunedì: ognuno deve registrare venti secondi di suoni ambientali che ricordino l'inferno dantesco, intermezzati dalla loro voce che per pochi secondi legge un verso di Dante. Poi creino una playlist con i due file mp3 e li faremo andare in loop, spargiamo tutti e trenta i cellulari in giro in un ambiente e poi ci giriamo dentro, camminiamo in un ambiente sonoro dantesco e vediamo se ci viene qualche idea. Un gioco. Una trasposizione dal mondo reale a quello virtuale. Una denuncia al Mim. Qualche idea ci verrà in mente.

[cronache dalla scuola]

Io se fossi a capo di un mondo distopico, privo di principi e scrupoli, farei la scuola con due sezioni principali: la sezione “la buona e vecchia scuola come una volta” e la sezione “la scuola che manco i finlandesi”.

Nella prima tutto il meglio del magico quadrilattero del conservatorismo, tra Gramellini, la Mastrocola, Crepet, Galli della Loggia con una spruzzata di Galimberti e compagnia cantante: pedagogia dell'umiliazione, distanziamento sociale e umano tra docente e studente, cattedra messa sul rialzo di legno, scrittura in corsivo, scuola fortemente incentrata sui contenuti disciplinari, lezioni prevalentemente frontali, forte meritocrazia e valutazione solo in cifre per verifiche e interrogazioni misurative. Niente smartphone, uso essenziale del digitale e studio delle radici cristiane, eurocentriche e romane della Nazione. I docenti preparano con cura lo studente per l'esame di maturità.

Nella seconda classi aperte, scuola pomeridiana, niente voti, valutazioni formative e descrittive, lavori di realtà, sviluppo delle competenze, meglio se trasversali, byod, inclusione e valorizzazione del sostegno, rapporto “umano” tra docenti e studenti, aule per lavori prevalentemente collaborativi e dove si può fare casino, forte componente di didattica e conoscenza del digitale. Visione cosmopolita del mondo e studio trasversale costante della contemporaneità. A nessuno, docenti, studenti e genitori, importa un fico secco del voto con cui il ragazzo uscirà dalla maturità.

Poi uno sceglie.

Un'altra riforma della scuola che farei se fossi padrone del mondo è quella della secondaria superiore dove – dopo il biennio – ogni studente può presentare durante l'estate un “piano di studi” dove segnala il peso maggiore o minore che vuole dare alle materie del suo indirizzo, con un effettivo carico/scarico progressivo man mano che si procede verso la fine della secondaria.

Giravo due giorni fa per l'Università di Pavia, vedevo i manifestini dei corsi, laboratori e mi sarei messo lì e avrei ricominciato tutto. Perché, mi sono chiesto, perché l'Università – pur dura – è un posto in cui gli studenti si sbattono in maniera attiva, mentre la secondaria superiore sempre l'inferno della noia.

Non è solo questione di valutazione (che pure c'entra, e molto) ma anche perché all'Università studi cose che ti interessano. Alle secondarie no. Quanti studenti di quinta vedo a pochi mesi dalla maturità essere già con la testa nella facoltà, per dire, di psicologia, morire sotto esami di matematica o disegno tecnico che si caricano sulle spalle con tutto l'odio possibile per scaricare via tutto appena finita la maturità.

È uno spreco. Per il docente che si trova a cercare di spiegare cose a studenti a cui non frega di meno, e allo studente che è costretto a studiare approfonditamente discipline per cui – dopo cinque anni – ha capito non essere portato.

E la risposta non può essere il “reindirizzamento”, perché il reindirizzamento è in realtà un 'allontanamento'. La risposta dovrebbe essere un “ribilanciamento” delle discipline. Uno studente non è proprio portato per matematica ma è bravissimo in italiano? Non lo “reindirizzo”, ma calo il numero di ore di matematica e aumento il numero di ore di italiano (o l'opposto), senza allontanarlo, ma bilanciando il suo “piano di studi” a inizio anno.

Cose che – in altre nazioni – si fanno già da anni e che permettono agli studenti di approfondire le discipline nelle quali – anno dopo anno – si rendono conto di essere più portati. Ma la scuola italiana ha un sistema rigido, dove gli indirizzi sono impermeabili gli uni con gli altri e dove è lo studente che deve adattarsi ad una struttura disciplinare e didattica del tutto irrazionale, basata su “indirizzi” che sono il più delle volte improbabili nella loro struttura, decisi a livello ministeriale da gente che non vede cosa succede all'interno delle aule.

[cronache dalla scuola]

Antefatto: secondogenito mi racconta di questo gioco che fanno in rete di prendere Wikipedia, aprire due pagine a caso, e poi da una pagina devi arrivare alla seconda usando solo i link. “Ah” faccio io e il mio cervellino inizia a girare e fare rumore.

Venerdì ho due ore in quarta informatico, prima ora interrogo di letteratura, interrogazione classica sangue e affanno, seconda ora due gruppi fanno il telegiornale sugli sviluppi in medio oriente e sulla tecnologia, finiscono presto, ho ancora mezz'ora libera.

Sullo schermo touch che abbiamo in classe apro Wikipedia, in una pagina metto Shakespeare, nella seconda Galileo e dico, ok ragazzi, prendete il cellulare. Andate su Wikipedia e cercate Shakespeare.

Loro, un po' sospettosi, lo fanno.

Ok, – spiego – ora al mio via dovete passare da Shakespeare a Galileo, usando solo i link. Mi raccomando: solo usando i link. Ovviamente, non barate, altrimenti si perde il gusto del gioco. I primi tre che ci riescono gli do un più sul registro.

I ragazzi si animano, alcuni conoscono già il gioco, si preparano e poi silenzio in classe per diversi minuti, tutti sul cellulare. A un certo punto, nel silenzio che si è creato, uno dice: “ho vinto”. Mormorii di disappunto. Poco dopo il secondo, e poi il terzo.

Chiedo a tutti e tre le tecniche usate, mi congratulo e poi dico, ok ora potete rilassarvi finché non suona. A quel punto la classe dice no, prof, facciamo un altra sfida! Vogliono continuare a giocare.

Nelle partite successive facciamo da Ellon Musk a Hitler (facile) e da Robespierre a Steve Jobs. Avrebbero continuato, ma è suonata la campanella.

Adesso ho un modulino carino da usare con la byod per i momenti in cui c'è un cambio programmazione improvviso che è meno stupido e inutile di quel che sembri: ci sono competenze trasversali, conoscere i personaggi storici, confrontare timeline diverse, trovare strategie di “movimento” all'interno di un database esteso come quello di Wikipedia.

La settimana prossima se riesco lo propongo anche alle altre classi, declinato alla programmazione fatta con loro.

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Terminato ieri il laboratorio di Visual Novel del venerdì pomeriggio. Avremmo dovuto condividere i lavori fatti fino a quel punto ma i ragazzi hanno invece programmato fino alla fine delle due ore e – hanno poi scritto nel questionario di valutazione che gli ho dato alla fine – avrebbero continuato ancora.

Cinque incontri di dieci ore totali dove ho provato a fare alcune cose che in classe si fanno raramente: non dargli tempi, non dare scadenze, non fare lezioni frontali ma solo alcune pillole di game design di pochi minuti, cinque/dieci minuti al massimo, lasciarli scherzare, ridere, cazzeggiare mentre progettavano la loro storia anche se poi non usciva niente di concreto, girare tra di loro non per controllare ma per sapere se avevano bisogno di qualcosa, lasciarli liberi di partire da zero per il loro progetto di videogame, senza vincoli. Nessuna misurazione, ovviamente, nessun voto, solo consigli e suggerimenti per migliorare.

Il risultato è che – alla fine – stavano ancora lavorando al loro videogame, ma in un clima non tossico, creativo e collaborativo.

Siamo partiti in quindici, ieri erano sei. Quattro o cinque di loro mi avevano avvertito di problemi di salute o impegni familiari, ma due o tre è possibile che si siano persi durante le vacanze di natale e di loro soprattutto aspetto il questionario di valutazione per capire se e dove si è rotto l'elastico e come aggiustare meglio il tiro in futuro.

Ora aspetto che arrivino tutti i videogame che hanno fatto per giocarci, ne ho solo visti alcuni, ma sono contento di questa esperienza. Era da tempo che sognavo di fare un laboratorio di programmazione di videogame a scuola, fatto sostanzialmente come l'ho fatto, offrendo ai ragazzi un'idea di scuola alternativa a quella del mattino: lavorare su progetti personali, senza il fiato sul collo, per un compito che alla fine porta ad un risultato reale: un pacchetto da distribuire. Vedere la parte divertente e creativa del loro lavoro di programmatori, magari quella che collima con la loro natura ed estetica più nerd.

Un ringraziamento particolare al tecnico di laboratorio che non mi ha ucciso per l'orario criminale, agli ATA tutti, e soprattutto a Mario Draghi e ai suoi fondi PNRR (ah-ha!).

[cronache dalla scuola]

Oggi i ragazzi di quarta informatico hanno presentato in classe il loro tentativo di rifare la scena di Don Chisciotte che combatte contro i mulini a vento, usando l'intelligenza artificiale.

Alcuni hanno usato l'AI generativa video creando un frammento di pochi secondi, altri si sono spinti fino al montaggio audio-video di qualche minuto, altri hanno sperimentato cambi narrativi più radicali, mettendo Berlusconi al posto di Cervantes come narratore, altri ancora hanno invece usato i motori che usano le immagini e video stock facendo creare il testo del racconto direttamente alla IA.

È stato interessante vedere i diversi modi di approccio, la diversa passione e tempo speso nel lavoro ma anche i limiti delle AI con prompt generici che creavano – talvolta – video usando le stesse immagini stock, o che generavano narrazioni standardizzate con figure retoriche prevedibili.

In mezzo, il lavoro di Alessandro che – quando un mese fa circa avevo dato la consegna del lavoro – mi aveva chiesto se poteva fare il compito senza usare l'AI, perché lui era contro. L'AI, mi aveva spiegato, è stata addestrata sul lavoro di disegnatori e artisti che erano all'oscuro di quello che stava avvenendo. Al posto dell'avventura di Don Chisciotte con l'AI, avrebbe provato a fare una piccola animazione.

Ecco, oggi abbiamo visto la piccola animazione, e alla fine la classe ha fatto un applauso sentito, spontaneo. Al momento della votazione non c'è stata storia, il premio per il miglior video fatto con l'AI è stato vinto da una animazione fatta a mano.

La cosa mi è stata utile per parlare – appunto – del pericolo della standardizzazione dei prodotti di AI, specie quella di basso profilo e dell'importanza che avrà, nei prossimi anni, la creazione di prodotti di qualità che sappiano andare oltre gli standard.

E – niente – anche questa volta gli studenti salgono in cattedra e si insegnano qualcosa da soli, emozionando anche un po' il sottoscritto.

[cronache dalla scuola]

Oggi abbiamo quasi terminato il laboratorio “a stazioni” sulla rivoluzione russa (in realtà, un laboratorio su come lavorare su fonti diverse che parlano dello stesso argomento) di cui avevo parlato qualche giorno fa.

Alla fine somministro ai ragazzi un questionario di autovalutazione e di valutazione dell'attività già svolta. Anonimo. Molti sono i commenti positivi, diversi i distinguo e le segnalazioni di criticità, alcuni giudizi apertamente nagativi.

Un commento, tra i negativi, mi colpisce e penso che sia esemplare per chiarezza, forse inconsapevole, nel descrivere l'aberrazione del sistema scuola che forma studenti addestrati solo per accontentare il sistema scuola. Per privacy parafraso il testo originale:

“Il laboratorio che abbiamo terminato ha fatto crescere le nostre competenze trasversali, essenziali per la vita e per il lavoro, ma meno essenziali per superare l'esame di stato”.

Direi che è una frase che fa da pietra tombale a qualunque sforzo fatto all'interno di una struttura che gli stessi studenti introiettano come fine a se stessa. E che vogliono così.