cronache dalla scuola

[cronache dalla scuola]

Terminato ieri il laboratorio di Visual Novel del venerdì pomeriggio. Avremmo dovuto condividere i lavori fatti fino a quel punto ma i ragazzi hanno invece programmato fino alla fine delle due ore e – hanno poi scritto nel questionario di valutazione che gli ho dato alla fine – avrebbero continuato ancora.

Cinque incontri di dieci ore totali dove ho provato a fare alcune cose che in classe si fanno raramente: non dargli tempi, non dare scadenze, non fare lezioni frontali ma solo alcune pillole di game design di pochi minuti, cinque/dieci minuti al massimo, lasciarli scherzare, ridere, cazzeggiare mentre progettavano la loro storia anche se poi non usciva niente di concreto, girare tra di loro non per controllare ma per sapere se avevano bisogno di qualcosa, lasciarli liberi di partire da zero per il loro progetto di videogame, senza vincoli. Nessuna misurazione, ovviamente, nessun voto, solo consigli e suggerimenti per migliorare.

Il risultato è che – alla fine – stavano ancora lavorando al loro videogame, ma in un clima non tossico, creativo e collaborativo.

Siamo partiti in quindici, ieri erano sei. Quattro o cinque di loro mi avevano avvertito di problemi di salute o impegni familiari, ma due o tre è possibile che si siano persi durante le vacanze di natale e di loro soprattutto aspetto il questionario di valutazione per capire se e dove si è rotto l'elastico e come aggiustare meglio il tiro in futuro.

Ora aspetto che arrivino tutti i videogame che hanno fatto per giocarci, ne ho solo visti alcuni, ma sono contento di questa esperienza. Era da tempo che sognavo di fare un laboratorio di programmazione di videogame a scuola, fatto sostanzialmente come l'ho fatto, offrendo ai ragazzi un'idea di scuola alternativa a quella del mattino: lavorare su progetti personali, senza il fiato sul collo, per un compito che alla fine porta ad un risultato reale: un pacchetto da distribuire. Vedere la parte divertente e creativa del loro lavoro di programmatori, magari quella che collima con la loro natura ed estetica più nerd.

Un ringraziamento particolare al tecnico di laboratorio che non mi ha ucciso per l'orario criminale, agli ATA tutti, e soprattutto a Mario Draghi e ai suoi fondi PNRR (ah-ha!).

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Oggi i ragazzi di quarta informatico hanno presentato in classe il loro tentativo di rifare la scena di Don Chisciotte che combatte contro i mulini a vento, usando l'intelligenza artificiale.

Alcuni hanno usato l'AI generativa video creando un frammento di pochi secondi, altri si sono spinti fino al montaggio audio-video di qualche minuto, altri hanno sperimentato cambi narrativi più radicali, mettendo Berlusconi al posto di Cervantes come narratore, altri ancora hanno invece usato i motori che usano le immagini e video stock facendo creare il testo del racconto direttamente alla IA.

È stato interessante vedere i diversi modi di approccio, la diversa passione e tempo speso nel lavoro ma anche i limiti delle AI con prompt generici che creavano – talvolta – video usando le stesse immagini stock, o che generavano narrazioni standardizzate con figure retoriche prevedibili.

In mezzo, il lavoro di Alessandro che – quando un mese fa circa avevo dato la consegna del lavoro – mi aveva chiesto se poteva fare il compito senza usare l'AI, perché lui era contro. L'AI, mi aveva spiegato, è stata addestrata sul lavoro di disegnatori e artisti che erano all'oscuro di quello che stava avvenendo. Al posto dell'avventura di Don Chisciotte con l'AI, avrebbe provato a fare una piccola animazione.

Ecco, oggi abbiamo visto la piccola animazione, e alla fine la classe ha fatto un applauso sentito, spontaneo. Al momento della votazione non c'è stata storia, il premio per il miglior video fatto con l'AI è stato vinto da una animazione fatta a mano.

La cosa mi è stata utile per parlare – appunto – del pericolo della standardizzazione dei prodotti di AI, specie quella di basso profilo e dell'importanza che avrà, nei prossimi anni, la creazione di prodotti di qualità che sappiano andare oltre gli standard.

E – niente – anche questa volta gli studenti salgono in cattedra e si insegnano qualcosa da soli, emozionando anche un po' il sottoscritto.

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Oggi abbiamo quasi terminato il laboratorio “a stazioni” sulla rivoluzione russa (in realtà, un laboratorio su come lavorare su fonti diverse che parlano dello stesso argomento) di cui avevo parlato qualche giorno fa.

Alla fine somministro ai ragazzi un questionario di autovalutazione e di valutazione dell'attività già svolta. Anonimo. Molti sono i commenti positivi, diversi i distinguo e le segnalazioni di criticità, alcuni giudizi apertamente nagativi.

Un commento, tra i negativi, mi colpisce e penso che sia esemplare per chiarezza, forse inconsapevole, nel descrivere l'aberrazione del sistema scuola che forma studenti addestrati solo per accontentare il sistema scuola. Per privacy parafraso il testo originale:

“Il laboratorio che abbiamo terminato ha fatto crescere le nostre competenze trasversali, essenziali per la vita e per il lavoro, ma meno essenziali per superare l'esame di stato”.

Direi che è una frase che fa da pietra tombale a qualunque sforzo fatto all'interno di una struttura che gli stessi studenti introiettano come fine a se stessa. E che vogliono così.

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Oggi ho provato a fare questa attività in quinta, per non spiegare frontalmente la rivoluzione russa e provare una modalità didattica che mi aveva incuriosito mentre leggevo il libro di Arte che racconta l'esperienza del “liceo senza voti” di Roma.

In pratica ho creato cinque stazioni, due nell'aula della quinta e tre nell'aula di cooperative learning che era lì vicino. Le cinque stazioni offrivano contenuti differenziati sulla rivoluzione russa: un video di venti minuti dell'Università della Virginia, un estratto da “I 10 giorni che sconvolsero il mondo”, una pagina del Il materiale e l'immaginario, un capitolo del loro libro di storia con la sintesi fatta online dai loro compagni dell'anno passato e un videogioco in inglese ambientato negli anni della rivoluzione.

I ragazzi sono stati divisi in cinque gruppi. Il gioco era questo: avevano un foglio con ventuno domande sulla rivoluzione russa, di cui ovviamente loro non conoscevano la risposta, e le risposte erano “nascoste” nelle cinque stazioni. Nessuna stazione poteva rispondere a tutte e ventuno le domande.

Oggi abbiamo cominciato, due ore molto impegnative per loro che hanno giocato con attenzione, bloccando il video per analizzare meglio la spiegazione del docente, leggendo ad alta voce il testo di Reed, traducendo il testo del videogioco per trovare le risposte e così via.

La parte che mi è sembrata funzionare è la dinamica: si lavora sulle relazioni di gruppo, sulla gestione del tempo, sulla capacità di trovare informazioni e di confrontarle fra loro, in maniera tutto sommato rilassata (anche se impegnativa) e con momenti di riposo quando un gruppo doveva aspettare che si sbloccasse una stazione.

Quello che avevo progettato meno bene è la parte dei tempi: dopo due ore siamo a poco più di metà del “gioco”. Lo riprenderemo domani e forse anche venerdì. Non è un grosso problema, ma ovviamente in quattro ore, con una normale lezione frontale, avremmo affrontato molti più argomenti. Ma questo è un problema mio, non del modulo che mi pare molto interessante.

Personalmente questo è il tipo di scuola che mi piace e che vorrei fare diventare uno standard in tutto quello che faccio, liberandomi progressivamente dei tanti moduli che ho pronti, ma che presuppongono un ruolo centrale del docente e un atteggiamento di ascolto passivo degli studenti.

(Poi, le ultime due ore di lezione, mi sono seduto tra i banchi a vedere gli studenti che provavano l'Otello di Shakespeare, ma questa è un'altra storia)

Con i ragazzi al cinema a vedere il ragazzo dai pantaloni rosa, classi di seconda e terza, sala piena, appena si spengono le luci e partono i primi fotogrammi inizia il casino: sfottò, sento qua e là la parola “frocio”, allora mi alzo, mi giro verso l'intera sala e – illuminato dai raggi del proiettore – faccio un cazziatone che quando mi risiedo per un po' non si sente una mosca volare e io penso, pure il maschio alfa mi hanno costretto a fare, pure il maschio alfa.

Il film onestamente temevo potesse essere una di quelle cose inguardabili didascaliche italiane invece, non è un capolavoro, ci sono alcuni attori che proprio non mi piacciono, ma è dignitoso in diverse delle sue parti. Visto lo scopo per cui è stato scritto, efficace. Ci sono anche alcune scene interessanti come anche l'uso della messa a fuoco.

Durante la visione i ragazzi poi hanno seguito, un po' di casino ogni tanto, ma il grosso ha seguito. Hanno anche partecipato, due momenti chiave: quando il ragazzino bacia la ragazzina, tutta la sala scoppia in un applauso. Quando invece, precedentemente, il ragazzo aveva baciato sul petto un altro ragazzo la sala era scoppiata in un mormorio di chiaro disagio.

Alla fine si accendono le luci, c'è pure qualcuno che ha pianto, anche tra i docenti e noi docenti proviamo ad accendere un po' di discussione, ci siamo presi mezz'ora la sala per discutere un po' e – devo dire – ci sono una cinque o sei ragazzi che si mettono in gioco, io e altri docenti lanciamo un po' di domande, e loro rispondono sul pezzo, dicono cose personali, non hanno vergogna.

C'è chi ha subito bullismo e ha vissuto in prima persona la separazione dei genitori, come il protagonista, e lo racconta; c'è chi è apertamente omofobo e non solo non è omosessuale – ma è contro. E si vede come lì in mezzo ci siano i futuri omofobi anche tossici dell'età adulta. C'è un grosso lavoro da fare. Costante.

Quando andavo verso il cinema mi ero preparato un discorso, che poi non ho fatto perché non è servito, di come io alle medie, a Manesseno, in una scuola un po' borderline, sentissi spesso espressioni come “oh, ma sei frocio?”, usate per indicare qualsiasi cosa. Essere frocio era una sorta di handicap, generale, ma che andava a danneggiare un gruppo che – nella mia vita scolastica – è sempre stato invisibile. Per tutte le medie e le superiori non ho mai conosciuto un compagno che si dichiarasse pubblicamente o privatamente omosessuale. Anni ottanta e esseri fantastici, ma usati frequentemente nelle schermaglie di classe.

Quando poi avevo avuto dei figli, con l'arrivo del digitale, avevo visto nascere sensibilità lgbt molto più consapevoli, identità di genere, rispetto, tanto che avevo ingenuamente pensato che parole come “frocio” fossero ormai da boomer, da sfigati. Invece negli ultimi anni le ho viste riemergere in classe, nei momenti informali, intervallo, fuori da scuola.

In auto, mentre vado al cinema, chiedo aiuto anche a terzogenita, le racconto la trama del film e le chiedo se nella sua classe ci sono ragazzi omofobi. Lei ci pensa, mi dice che alle elementari no, alle medie sì. “E come te ne sei accorta?” le chiedo. Lei dice tipo con i meme. “Ce ne è uno che è chiedere “english or spanish?” e poi devi dire “chi si muove è gay!”, e quando me lo hanno fatto io ho fermato il gioco e ho detto, beh, scusate, ma se anche fosse? che c'è di male a essere gay?“. Terzogenita ha una bella testolina.

Al cinema poi, davanti ai duecento studenti racconto l'aneddoto di mia figlia e loro ridono, conoscono tutti il meme però dicono che quello non è essere omofobi. È uno scherzo. È assorbito socialmente tanto che non si rendono nemmeno conto del significato. “Però – dico io – non sono d'accordo”. Rido. Penso che a dire 'chi si muove è gay', o 'ma sei frocio?' si faccia comunque una violenza e si normalizzi un certo modo di vedere il mondo. Lo si giustifichi. Il solito “ma fattela una risata!” che imperversa su Facebook tra gente che ha frainteso cosa sia il senso dell'umorismo. Anche qua, ci sarà molto lavoro da fare.

Alla fine di tutto comunque, esco, e la differenza vera non l'abbiamo fatta noi docenti, ma quei cinque o sei ragazzi che si sono messi in gioco, anche quelli che hanno dichiarato la loro omofobia. La scuola riesce a dire qualcosa di sensato quando riesce ad ascoltare i ragazzi che si raccontano e riesce ad accordare il suo linguaggio con il loro.

Credo.

[cronache dalla scuola]

Attività in quarta, due ore per rifare gli Stati Generali. Un gioco di ruolo, la classe divisa in tre parti, clero, nobiltà, terzo stato, più il re e i suoi funzionari. Attività che avevo già fatto in passato con due altre classi.

Due ore di divertimento, in alcuni momenti avevo le lacrime agli occhi. Il re che aveva ricevuto via mail nei giorni precedenti i cahier de doleances di tutti i suoi compagni, si è preparato un discorso scritto di sette pagine.

Fa uscire i nobili dalla sala e poi fa un discorso a clero e terzo stato e propone loro un sistema per fare giustizia in Francia, senza però perdere il potere. Piccole riforme sociali, sgravi fiscali da una parte, ma poi altre incombenze dall'altra. Offre soldi a tutti (si è portato da casa delle monete di cioccolata) poi li fa uscire e fa entrare i nobili.

Ai nobili spiega che al terzo stato e al clero ha proposto un piano farlocco che dà pochissimi benefici e non toglie nessun privilegio reale alla nobilità. Solo, nella discussione che seguirà, dovranno stare zitti e supportarlo. Ai nobili dà il doppio di monete al cioccolato che aveva dato agli altri.

Poi fa rientrare tutti e inizia il dibattito, dove tutti interpretano il loro personaggio: un commerciante che tratta male il re viene sbattuto fuori dalla classe, i ragazzi si sfottono a seconda della classe sociale a cui appartengono. Fanno domande, contestano. Alla fine si vota: il terzo stato e il clero vengono fregati dal re che vede approvato il suo piano fiscale. Niente rivoluzione. Il tutto in clima di attenzione, libertà e interazione impensabile in una lezione tradizionale.

Fine gioco, il re rivela di aver fregato terzo stato e clero. Poi tutti autovalutano l'attività, loro stessi e i loro compagni con un modulo che andiamo a vedere subito e commentare.

Io, in tutto questo, non ho fatto letteralmente niente se non ascoltare e segnarmi i nomi di chi ha fatto gli interventi migliori.

La differenza – quando possono – la fanno gli studenti.

Venerdì il gruppo Medio Oriente del laboratorio Right Here Right Now fa il suo servizio in classe, aprono i titoli di testa con le notizie della Siria, i due studenti-anchorman lasciano la parola agli studenti-inviati, danno informazioni magari un po' essenziali, ma con alcune cose ben pensate. Ad esempio ad un certo punto uno degli anchorman fa domande all'inviato che risponde, così che le notizie arrivano ai compagni in maniera più dinamica. Usano immagini, video, hanno un linguaggio soprattutto più giornalistico ed efficace.

Ma la cosa che mi ha colpito è quando uno degli studenti, descrivendo l'andamento della guerra, dice che i ribelli si stanno spostando verso Damasco e che è possibile che nei prossimi giorni la conquistino.

Io lascio finire il telegiornale e poi do il mio feedback e tra le altre cose dico che – tutto bene – ma alcune notizie erano “vecchie”, tipo Damasco è già stata presa e Assad è fuggito.

Lo studente in questione dice “ah”, però subito spiega, “eh prof, ma io la lezione l'avevo preparata due giorni fa”. Due giorni fa – in effetti – Damasco non era stata ancora presa.

La cosa, dicevo, mi ha colpito per due motivi. Il primo l'ho detto a loro, ecco, vedete, nella sigla diciamo che “il mondo sta cambiando molto in fretta”, ed è vero. Sono bastati due giorni per rendere “vecchia” la tua ricerca. Il mondo ci cambia attorno e dobbiamo tenergli il passo.

La seconda cosa che mi ha colpito è stata questa farsa della scuola: le ricerche non sono quasi mai vere ricerche, sono simulazioni di ricerca. Le cose che gli studenti fanno servono quasi sempre solo per il voto, non perché davvero servano.

Così di fronte a una attività che deve dare informazioni reali e in tempo reale, in cui quello che fanno serve per informarsi e informare i compagni, prevale comunque il meccanismo della farsa. Perché comunque anche quello è un compito infilato in mezzo a decine di altri compiti che gravano sugli studenti in maniera un po' schizofrenica, talvolta solo per l'ansia della valutazione.

Così nel mondo reale Damasco è caduta e Assad è in fuga, ma nel mondo scuola la città è ancora sotto un governo dispotico e la libertà un miraggio da raggiungere.

[cronache dalla scuola]

Stiamo facendo questo laboratorio settimanale dove un'ora è gestita dai ragazzi che devono organizzare in classe un telegiornale che affronta di volta in volta un tema specifico: Europa, Stati Uniti, Medio Oriente, Tecnologia e Scienza, Liguria. Siamo già al terzo appuntamento.

In quinta i ragazzi non erano abituati. I primi telegiornali erano simili a ricerche scolastiche, muri di testo letti con voce mono-tono, scarso apporto di immagini o video. Ogni volta io le la docente di sostegno abbiamo dato un feedback, consigli, in modo che potessero migliorare, essere più sicuri, comunicare meglio, saper attirare l'attenzione.

Quando venerdì scorso un gruppo ha messo sul mega-schermo che abbiamo in classe la via della città rumena dove ha sede TikTok, usando Google Maps, e uno studente si è messo davanti all'immagine fingendo di essere in Romania e un altro studente ha finto di essere un passante, un lavoratore di TikTok che stava smontando dal lavoro e il primo ha iniziato a intervistare il secondo chiedendo cosa ne pensasse delle accuse di disinformazione rivolte a TikTok dopo le recenti elezioni politiche, ecco, in quel momento mi sono reso conto che quel lavoro che stavamo facendo in classe serviva davvero a qualcosa.

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#1

— professor Venerandi, volevamo dirle una cosa — sì? — le apre un sacco di laboratori, belli eh, adesso abbiamo quello su Shakespeare, quello dei telegiornali sul mondo, quello su Don Chischiotte fatto con i video di intelligenza artificiale, quello di storia con Sutori, quello del gioco di ruolo sulla rivoluzione francese... — sì — e non ne chiude mai nessuno — ah — non riusciamo a portarli avanti tutti contemporaneamente — capisco — bisognerebbe un po' ridurli, capisce, abbiamo anche le materie di indirizzo da studiare — capisco

#2

— professor Venerandi — sì? — ho un problema con il laboratorio su Cervantes — ah — dico, la lotta contro i mulini a vento fatta con l'intelligenza artificiale. Non potrei fare una animazione al posto dell'intelligenza artificiale? — non riesci a trovare una piattaforma per generarle? Posso consigliarti... — no, non è quello. È un problema etico — ah — io sono contro l'intelligenza artificiale generativa, perché è stata addestrata sul lavoro di grafici a loro insaputa — capisco — e quindi non voglio usarla perché penso che l'addestramento fatto in questa maniera non sia etico e rispettoso del lavoro degli altri — capisco — potrei fare una animazione al posto dell'AI? — guarda, con queste premesse ne sarei felice — oh, bene — però quando poi la presenti spieghi perché non hai voluto usare l'AI, così facciamo nascere un po' di dibattito in classe. Ok? — ok

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Aggiungo solo due cose a margine dell'affaire Raimo (docente sospeso per tre mesi dall'insegnamento e con stipendi dimezzato per aver criticato pubblicamente il ministro Valditara), ed è quello legato all'informazione giornalistica. La quasi totalità dei giornali riporta che Raimo avrebbe definito Valditara come “cialtrone, lurido, repressivo e pericoloso”. Le virgolette non sono mie, sono dei giornali che ho preso online. E – aggiungono – Raimo avrebbe detto che “Valditara va colpito come si colpisce la morte nera”. Più o meno tutti i giornali riportano così la notizia.

Ora, entrambe le citazioni sono false.

Gli aggettivi citati sono simili a quelli usati da Raimo, vero, ma mai riferiti alla persona di Valditara quanto alla sua ideologia politica, alle sue esternazioni e al suo linguaggio. Raimo non dice mai che Valditara sia un “cialtrone, lurido, repressivo e pericoloso”. Dice che la sua ideologia politica è repressiva e che quello che dice è arrogante, cialtrone e lurido. Quando parla di colpire Valditara come la morte nera, dice che va colpito politicamente, e poi spiega anche come: con una manifestazione di piazza dei partiti di sinistra.

La parola politicamente sparisce dai citati dei giornali, l'idea della manifestazione non è riportata da nessuno e nemmeno le motivazioni dell'impianto di Raimo: dalle “patriottiche” linee guida per l'educazione civica di Valditara alla sua “didattica dell'umiliazione”. Tutto è stato sbianchettato tranne cinque termini che sono stati copincollati e ridistribuiti ad hoc.

Insomma, si può essere o non essere d'accordo su quello che Raimo ha detto, sul linguaggio usato, ma i virgolettati che girano e su cui sono costruiti poi molti post o molti commenti in rete, sono palemente adulterati dai media per attirare click rapidi.

E questo imho è un altro problema tossico della comunicazione in rete: anche i media tradizionali vivono di copia e incolla con scarsissimo controllo delle fonti e contribuiscono a creare un clima divisivo, superficiale e che lavora sullo stomaco e non sul cervello.

Altra cosa, ultima giuro, sul fatto che sia aberrante che esista una regolamentazione che impedisca ai docenti di poter raccontare la scuola e criticare la gestione della stessa.

Diverse persone in rete, ho letto, commentavano che in una normale azienda privata se critichi la dirigenza vieni licenziato in tronco. Perché invece nel pubblico un dipendente dovrebbe poter criticare la propria dirigenza? La ragione non è tanto che l'azienda privata ha come scopo il profitto, mentre il pubblico – ad esempio la scuola – no. Ma piuttosto perché – banalmente – il pubblico è pubblico.

Gli americani non hanno eletto Steve Jobs come CEO Apple. Nessun dipendente di una azienda privata elegge il proprio datore di lavoro. Io – come docente – sì.

Ogni cinque anni voto, assieme al resto degli italiani, una serie di persone che andranno direttamente a governare il ministero della pubblica istruzione, o che sceglieranno una persona per farlo, una persona che agirà coerentemente con l'ideologia, gli interessi e i programmi dello schieramento che avrà vinto le elezioni.

In quest'ottica è essenziale che io – che lavoro nella scuola – abbia la possibilità di comunicare quello che la scuola è a chi nella scuola non ci entra. Raccontare quello che succede, indicare le buone prassi ma anche le manomissioni, gli errori e i pericoli di queste o quelle norme, linee guida, circolari.

Impedire ai docenti di poter fare questa opera di comunicazione, anche critica, è fare un danno alla scuola stessa. Significa anche che il docente non viene considerato come un intellettuale, ma come un semplice dipendente statale che non può esprimere il proprio “uso pubblico della ragione”, nemmeno al di fuori della scuola, ragionando e condividendo il suo giudizio su quello che fa.

Se chi lavora nella scuola non può parlare della scuola, il dibattito sulla scuola del futuro, quella dei nostri figli, sarà in mano a gente che non sa di cosa si sta parlando, che non ha mai messo piede in una classe e che agiterà una comunicazione sporca e superficiale, magari sfruttando qualche episodio di cronaca, per i propri interessi personali.