cronache dalla scuola

Con i ragazzi al cinema a vedere il ragazzo dai pantaloni rosa, classi di seconda e terza, sala piena, appena si spengono le luci e partono i primi fotogrammi inizia il casino: sfottò, sento qua e là la parola “frocio”, allora mi alzo, mi giro verso l'intera sala e – illuminato dai raggi del proiettore – faccio un cazziatone che quando mi risiedo per un po' non si sente una mosca volare e io penso, pure il maschio alfa mi hanno costretto a fare, pure il maschio alfa.

Il film onestamente temevo potesse essere una di quelle cose inguardabili didascaliche italiane invece, non è un capolavoro, ci sono alcuni attori che proprio non mi piacciono, ma è dignitoso in diverse delle sue parti. Visto lo scopo per cui è stato scritto, efficace. Ci sono anche alcune scene interessanti come anche l'uso della messa a fuoco.

Durante la visione i ragazzi poi hanno seguito, un po' di casino ogni tanto, ma il grosso ha seguito. Hanno anche partecipato, due momenti chiave: quando il ragazzino bacia la ragazzina, tutta la sala scoppia in un applauso. Quando invece, precedentemente, il ragazzo aveva baciato sul petto un altro ragazzo la sala era scoppiata in un mormorio di chiaro disagio.

Alla fine si accendono le luci, c'è pure qualcuno che ha pianto, anche tra i docenti e noi docenti proviamo ad accendere un po' di discussione, ci siamo presi mezz'ora la sala per discutere un po' e – devo dire – ci sono una cinque o sei ragazzi che si mettono in gioco, io e altri docenti lanciamo un po' di domande, e loro rispondono sul pezzo, dicono cose personali, non hanno vergogna.

C'è chi ha subito bullismo e ha vissuto in prima persona la separazione dei genitori, come il protagonista, e lo racconta; c'è chi è apertamente omofobo e non solo non è omosessuale – ma è contro. E si vede come lì in mezzo ci siano i futuri omofobi anche tossici dell'età adulta. C'è un grosso lavoro da fare. Costante.

Quando andavo verso il cinema mi ero preparato un discorso, che poi non ho fatto perché non è servito, di come io alle medie, a Manesseno, in una scuola un po' borderline, sentissi spesso espressioni come “oh, ma sei frocio?”, usate per indicare qualsiasi cosa. Essere frocio era una sorta di handicap, generale, ma che andava a danneggiare un gruppo che – nella mia vita scolastica – è sempre stato invisibile. Per tutte le medie e le superiori non ho mai conosciuto un compagno che si dichiarasse pubblicamente o privatamente omosessuale. Anni ottanta e esseri fantastici, ma usati frequentemente nelle schermaglie di classe.

Quando poi avevo avuto dei figli, con l'arrivo del digitale, avevo visto nascere sensibilità lgbt molto più consapevoli, identità di genere, rispetto, tanto che avevo ingenuamente pensato che parole come “frocio” fossero ormai da boomer, da sfigati. Invece negli ultimi anni le ho viste riemergere in classe, nei momenti informali, intervallo, fuori da scuola.

In auto, mentre vado al cinema, chiedo aiuto anche a terzogenita, le racconto la trama del film e le chiedo se nella sua classe ci sono ragazzi omofobi. Lei ci pensa, mi dice che alle elementari no, alle medie sì. “E come te ne sei accorta?” le chiedo. Lei dice tipo con i meme. “Ce ne è uno che è chiedere “english or spanish?” e poi devi dire “chi si muove è gay!”, e quando me lo hanno fatto io ho fermato il gioco e ho detto, beh, scusate, ma se anche fosse? che c'è di male a essere gay?“. Terzogenita ha una bella testolina.

Al cinema poi, davanti ai duecento studenti racconto l'aneddoto di mia figlia e loro ridono, conoscono tutti il meme però dicono che quello non è essere omofobi. È uno scherzo. È assorbito socialmente tanto che non si rendono nemmeno conto del significato. “Però – dico io – non sono d'accordo”. Rido. Penso che a dire 'chi si muove è gay', o 'ma sei frocio?' si faccia comunque una violenza e si normalizzi un certo modo di vedere il mondo. Lo si giustifichi. Il solito “ma fattela una risata!” che imperversa su Facebook tra gente che ha frainteso cosa sia il senso dell'umorismo. Anche qua, ci sarà molto lavoro da fare.

Alla fine di tutto comunque, esco, e la differenza vera non l'abbiamo fatta noi docenti, ma quei cinque o sei ragazzi che si sono messi in gioco, anche quelli che hanno dichiarato la loro omofobia. La scuola riesce a dire qualcosa di sensato quando riesce ad ascoltare i ragazzi che si raccontano e riesce ad accordare il suo linguaggio con il loro.

Credo.

[cronache dalla scuola]

Attività in quarta, due ore per rifare gli Stati Generali. Un gioco di ruolo, la classe divisa in tre parti, clero, nobiltà, terzo stato, più il re e i suoi funzionari. Attività che avevo già fatto in passato con due altre classi.

Due ore di divertimento, in alcuni momenti avevo le lacrime agli occhi. Il re che aveva ricevuto via mail nei giorni precedenti i cahier de doleances di tutti i suoi compagni, si è preparato un discorso scritto di sette pagine.

Fa uscire i nobili dalla sala e poi fa un discorso a clero e terzo stato e propone loro un sistema per fare giustizia in Francia, senza però perdere il potere. Piccole riforme sociali, sgravi fiscali da una parte, ma poi altre incombenze dall'altra. Offre soldi a tutti (si è portato da casa delle monete di cioccolata) poi li fa uscire e fa entrare i nobili.

Ai nobili spiega che al terzo stato e al clero ha proposto un piano farlocco che dà pochissimi benefici e non toglie nessun privilegio reale alla nobilità. Solo, nella discussione che seguirà, dovranno stare zitti e supportarlo. Ai nobili dà il doppio di monete al cioccolato che aveva dato agli altri.

Poi fa rientrare tutti e inizia il dibattito, dove tutti interpretano il loro personaggio: un commerciante che tratta male il re viene sbattuto fuori dalla classe, i ragazzi si sfottono a seconda della classe sociale a cui appartengono. Fanno domande, contestano. Alla fine si vota: il terzo stato e il clero vengono fregati dal re che vede approvato il suo piano fiscale. Niente rivoluzione. Il tutto in clima di attenzione, libertà e interazione impensabile in una lezione tradizionale.

Fine gioco, il re rivela di aver fregato terzo stato e clero. Poi tutti autovalutano l'attività, loro stessi e i loro compagni con un modulo che andiamo a vedere subito e commentare.

Io, in tutto questo, non ho fatto letteralmente niente se non ascoltare e segnarmi i nomi di chi ha fatto gli interventi migliori.

La differenza – quando possono – la fanno gli studenti.

Venerdì il gruppo Medio Oriente del laboratorio Right Here Right Now fa il suo servizio in classe, aprono i titoli di testa con le notizie della Siria, i due studenti-anchorman lasciano la parola agli studenti-inviati, danno informazioni magari un po' essenziali, ma con alcune cose ben pensate. Ad esempio ad un certo punto uno degli anchorman fa domande all'inviato che risponde, così che le notizie arrivano ai compagni in maniera più dinamica. Usano immagini, video, hanno un linguaggio soprattutto più giornalistico ed efficace.

Ma la cosa che mi ha colpito è quando uno degli studenti, descrivendo l'andamento della guerra, dice che i ribelli si stanno spostando verso Damasco e che è possibile che nei prossimi giorni la conquistino.

Io lascio finire il telegiornale e poi do il mio feedback e tra le altre cose dico che – tutto bene – ma alcune notizie erano “vecchie”, tipo Damasco è già stata presa e Assad è fuggito.

Lo studente in questione dice “ah”, però subito spiega, “eh prof, ma io la lezione l'avevo preparata due giorni fa”. Due giorni fa – in effetti – Damasco non era stata ancora presa.

La cosa, dicevo, mi ha colpito per due motivi. Il primo l'ho detto a loro, ecco, vedete, nella sigla diciamo che “il mondo sta cambiando molto in fretta”, ed è vero. Sono bastati due giorni per rendere “vecchia” la tua ricerca. Il mondo ci cambia attorno e dobbiamo tenergli il passo.

La seconda cosa che mi ha colpito è stata questa farsa della scuola: le ricerche non sono quasi mai vere ricerche, sono simulazioni di ricerca. Le cose che gli studenti fanno servono quasi sempre solo per il voto, non perché davvero servano.

Così di fronte a una attività che deve dare informazioni reali e in tempo reale, in cui quello che fanno serve per informarsi e informare i compagni, prevale comunque il meccanismo della farsa. Perché comunque anche quello è un compito infilato in mezzo a decine di altri compiti che gravano sugli studenti in maniera un po' schizofrenica, talvolta solo per l'ansia della valutazione.

Così nel mondo reale Damasco è caduta e Assad è in fuga, ma nel mondo scuola la città è ancora sotto un governo dispotico e la libertà un miraggio da raggiungere.

[cronache dalla scuola]

Stiamo facendo questo laboratorio settimanale dove un'ora è gestita dai ragazzi che devono organizzare in classe un telegiornale che affronta di volta in volta un tema specifico: Europa, Stati Uniti, Medio Oriente, Tecnologia e Scienza, Liguria. Siamo già al terzo appuntamento.

In quinta i ragazzi non erano abituati. I primi telegiornali erano simili a ricerche scolastiche, muri di testo letti con voce mono-tono, scarso apporto di immagini o video. Ogni volta io le la docente di sostegno abbiamo dato un feedback, consigli, in modo che potessero migliorare, essere più sicuri, comunicare meglio, saper attirare l'attenzione.

Quando venerdì scorso un gruppo ha messo sul mega-schermo che abbiamo in classe la via della città rumena dove ha sede TikTok, usando Google Maps, e uno studente si è messo davanti all'immagine fingendo di essere in Romania e un altro studente ha finto di essere un passante, un lavoratore di TikTok che stava smontando dal lavoro e il primo ha iniziato a intervistare il secondo chiedendo cosa ne pensasse delle accuse di disinformazione rivolte a TikTok dopo le recenti elezioni politiche, ecco, in quel momento mi sono reso conto che quel lavoro che stavamo facendo in classe serviva davvero a qualcosa.

[cronache dalla scuola]

#1

— professor Venerandi, volevamo dirle una cosa — sì? — le apre un sacco di laboratori, belli eh, adesso abbiamo quello su Shakespeare, quello dei telegiornali sul mondo, quello su Don Chischiotte fatto con i video di intelligenza artificiale, quello di storia con Sutori, quello del gioco di ruolo sulla rivoluzione francese... — sì — e non ne chiude mai nessuno — ah — non riusciamo a portarli avanti tutti contemporaneamente — capisco — bisognerebbe un po' ridurli, capisce, abbiamo anche le materie di indirizzo da studiare — capisco

#2

— professor Venerandi — sì? — ho un problema con il laboratorio su Cervantes — ah — dico, la lotta contro i mulini a vento fatta con l'intelligenza artificiale. Non potrei fare una animazione al posto dell'intelligenza artificiale? — non riesci a trovare una piattaforma per generarle? Posso consigliarti... — no, non è quello. È un problema etico — ah — io sono contro l'intelligenza artificiale generativa, perché è stata addestrata sul lavoro di grafici a loro insaputa — capisco — e quindi non voglio usarla perché penso che l'addestramento fatto in questa maniera non sia etico e rispettoso del lavoro degli altri — capisco — potrei fare una animazione al posto dell'AI? — guarda, con queste premesse ne sarei felice — oh, bene — però quando poi la presenti spieghi perché non hai voluto usare l'AI, così facciamo nascere un po' di dibattito in classe. Ok? — ok

[cronache dalla scuola]

Aggiungo solo due cose a margine dell'affaire Raimo (docente sospeso per tre mesi dall'insegnamento e con stipendi dimezzato per aver criticato pubblicamente il ministro Valditara), ed è quello legato all'informazione giornalistica. La quasi totalità dei giornali riporta che Raimo avrebbe definito Valditara come “cialtrone, lurido, repressivo e pericoloso”. Le virgolette non sono mie, sono dei giornali che ho preso online. E – aggiungono – Raimo avrebbe detto che “Valditara va colpito come si colpisce la morte nera”. Più o meno tutti i giornali riportano così la notizia.

Ora, entrambe le citazioni sono false.

Gli aggettivi citati sono simili a quelli usati da Raimo, vero, ma mai riferiti alla persona di Valditara quanto alla sua ideologia politica, alle sue esternazioni e al suo linguaggio. Raimo non dice mai che Valditara sia un “cialtrone, lurido, repressivo e pericoloso”. Dice che la sua ideologia politica è repressiva e che quello che dice è arrogante, cialtrone e lurido. Quando parla di colpire Valditara come la morte nera, dice che va colpito politicamente, e poi spiega anche come: con una manifestazione di piazza dei partiti di sinistra.

La parola politicamente sparisce dai citati dei giornali, l'idea della manifestazione non è riportata da nessuno e nemmeno le motivazioni dell'impianto di Raimo: dalle “patriottiche” linee guida per l'educazione civica di Valditara alla sua “didattica dell'umiliazione”. Tutto è stato sbianchettato tranne cinque termini che sono stati copincollati e ridistribuiti ad hoc.

Insomma, si può essere o non essere d'accordo su quello che Raimo ha detto, sul linguaggio usato, ma i virgolettati che girano e su cui sono costruiti poi molti post o molti commenti in rete, sono palemente adulterati dai media per attirare click rapidi.

E questo imho è un altro problema tossico della comunicazione in rete: anche i media tradizionali vivono di copia e incolla con scarsissimo controllo delle fonti e contribuiscono a creare un clima divisivo, superficiale e che lavora sullo stomaco e non sul cervello.

Altra cosa, ultima giuro, sul fatto che sia aberrante che esista una regolamentazione che impedisca ai docenti di poter raccontare la scuola e criticare la gestione della stessa.

Diverse persone in rete, ho letto, commentavano che in una normale azienda privata se critichi la dirigenza vieni licenziato in tronco. Perché invece nel pubblico un dipendente dovrebbe poter criticare la propria dirigenza? La ragione non è tanto che l'azienda privata ha come scopo il profitto, mentre il pubblico – ad esempio la scuola – no. Ma piuttosto perché – banalmente – il pubblico è pubblico.

Gli americani non hanno eletto Steve Jobs come CEO Apple. Nessun dipendente di una azienda privata elegge il proprio datore di lavoro. Io – come docente – sì.

Ogni cinque anni voto, assieme al resto degli italiani, una serie di persone che andranno direttamente a governare il ministero della pubblica istruzione, o che sceglieranno una persona per farlo, una persona che agirà coerentemente con l'ideologia, gli interessi e i programmi dello schieramento che avrà vinto le elezioni.

In quest'ottica è essenziale che io – che lavoro nella scuola – abbia la possibilità di comunicare quello che la scuola è a chi nella scuola non ci entra. Raccontare quello che succede, indicare le buone prassi ma anche le manomissioni, gli errori e i pericoli di queste o quelle norme, linee guida, circolari.

Impedire ai docenti di poter fare questa opera di comunicazione, anche critica, è fare un danno alla scuola stessa. Significa anche che il docente non viene considerato come un intellettuale, ma come un semplice dipendente statale che non può esprimere il proprio “uso pubblico della ragione”, nemmeno al di fuori della scuola, ragionando e condividendo il suo giudizio su quello che fa.

Se chi lavora nella scuola non può parlare della scuola, il dibattito sulla scuola del futuro, quella dei nostri figli, sarà in mano a gente che non sa di cosa si sta parlando, che non ha mai messo piede in una classe e che agiterà una comunicazione sporca e superficiale, magari sfruttando qualche episodio di cronaca, per i propri interessi personali.

[cronache dalla scuola] In pratica ieri e oggi c'erano state tensioni in una quinta, scazzi, studenti che trattavano in maniera tossica altri studenti, esplosioni di nervosismo e alla fine delle mie due ore non me la sono sentita di fare il solito mazzo generale o di andarmene facendo finta di niente con qualche nota disciplinare o andando dalla coordinatrice per dirle “che la classe non va bene”, o – ancora peggio – di parlare con loro in corridoio, tra un'ora e l'altra, in piedi senza nessuna privacy, così ho chiesto alla docente successiva se mi prestava quattro studenti, quelli che avevano avuto i momenti di scontro più forte, e me li sono presi.

Sono andato nella classe dove avrei dovuto far lezione, c'era una docente di sostegno a cui non ho avuto nemmeno il tempo di spiegare niente e ho detto ai ragazzi che avrebbero potuto cazzeggiare con il telefonino finché non tornavo perché dovevo avere un momento con i loro compagni.

Sono andato in una aula vuota, mi sono seduto con i quattro ragazzi che mi guardavano meravigliati e un po' preoccupati e abbiamo parlato per venti minuti. Gli ho detto quello che mi sembrava che non stesse funzionando, le cose di cui ero rimasto deluso e le mie preoccupazioni, e loro mi hanno risposto, mi hanno raccontato il loro punto di vista, alcuni hanno chiesto scusa, altri hanno puntualizzato, altri mi hanno detto cose che non sapevo e che mi saranno utili in futuro per capire meglio. Niente di incredibile, un confronto in cui è emerso qualcosa, anche piccolo, che in classe, nei corridoio, nella fretta non sarebbe uscito.

Torno a casa e vedo che uno dei quattro ragazzi mi ha scritto una mail lunghissima, mi racconta altre cose che dal vivo non era riuscito a dire, ammette alcuni errori, promette alcune cose, ringrazia ma su altre resta sulle sue posizioni e racconta ancora di sé e del rapporto con i compagni.

Ecco, è una cosa che ripeto da tanto tempo: è stato liberatorio. Per venti minuti mi sono sentito di aver fatto il mio lavoro. Oltre a quello che già faccio, in maniera più completa e – per alcuni aspetti – più utile. Poi domani verrò deluso, poi mi ricrederò, poi emergeranno certamente i limiti di questa cosa, ma è chiaro che questo dovrebbe esser lo standard di una docenza.

Non dico il mio “fare qualcosa in più”, dico lo standard: il docente dovrebbe avere in maniera formale ore in cui fare “ricevimento studenti”, in cui potere parlare davvero a gruppi minimi della didattica, dei loro problemi, delle loro prospettive future. Il docente dovrebbe vivere la scuola per fare tante cose di cui una, importante eh, è l'insegnamento. Invece oggi il docente a scuola entra per chiudersi in classe e spiegare, verificare, uscire – esausto, distrutto, spompato – il più velocemente possibile. E quando non fa questo è impelagato in qualche attività burocratica fine a se stessa.

So di essere un illuso ma penso che sia importante continuare a immaginare una scuola impossibile e provare a farne qualche pezzetto, sapendo che tutto, tutto, tutto attorno è costruito perché il sistema di questa scuola continui a sopravvivere con modalità e riti a cui molti intimamente non credono più.

Ho preso a leggere i volumi grigi del Materiale e l'immaginario, sicuramente l'edizione più coraggiosa e ricca del progetto di Ceserani e De Federicis (l'edizione dell'anno scorso che ogni tanto provo a leggere, mi pare una pallida ombra al confronto). Ad un certo punto c'è una citazione da Mothé, “Gli operai, gli O.S.)”, inizio anni settanta che riporto:

Che dire del condizionamento della televisione che a lui si rivolge non più come ad un operaio non qualificato, né come ad un cittadino, ma come a un superman? Lo si persuade che egli può eguagliare gli eroi dei romanzi d'appendice, può andare alla loro stessa velocità su una vettura comperata a rate, può beneficiare degli appartamenti più belli, può sedurre le donne e scalare l'Himalaya. Se nella fabbrica si fa di tutto per convincerlo che è un imbecille, nel suo appartamento, al contrario, l'apparecchio si rivolge a lui come a un adulto.

Ecco, leggendo questo passo non posso non pensare a come meccanismi simili avvengano oggi con gli studenti e la rete. Mentre nella scuola “si fa di tutto per convincerlo che è un imbecille” la rete propone allo studente modelli che sono incompatibili con la scuola e con le proposte che la scuola fa. Anzi, più la scuola si pone come unico tramite ad un mondo adulto, anche sul piano economico e lavorativo, più la rete mostra modelli vincenti, appaganti e rapidi per il raggiungimento del benessere: youtuber, influencer, trapper sono le punte di un iceberg che dimostra ai ragazzi che esiste un mercato del lavoro dinamico, osteggiato da quello dei boomer e attraverso il quale si possono avere guadagni rapidi e indipendenti dal mondo scuola.

Quello che rende questi modelli alternativi appetibili, è che danno immediatamente gratificazione. È possibile provare subito, con costi contenuti, ed ottenere immediatamente un appagamento, magari non economico, ma sociale ed egotico attraverso like, condivisioni, nuove relazioni.

Lo studente vive in una realtà schizofrenica nella quale la scuola è un punto fermo, certo, ma con la quale ha difficoltà ad empatizzare e nella quale non riesce a essere coinvolto perché tutto quello che è fuori della scuola, specie nel mondo della rete, tende a valorizzarlo, ad appagarlo, trattandolo da protagonista e adulto, più di quanto la scuola possa strutturalmente fare.

la maturità è anche una maturità per il docente: ho di fronte i ragazzi che parlano di quello che ho fatto con loro nel corso dell'anno e vedo emergere cose che non pensavo, mi rendo conto di errori miei che cascano su di loro, di attività che sono risultate poi velleitarie o superficiali

e di cose che invece hanno funzionato meglio e che i ragazzi – a volte con coraggio a volte con anche un certo affetto – si porteranno dietro.

uno studente che parla davanti a me e altri sconosciuti di Democrazia Cristiana e di arrivo di Berlusconi, di neoavanguardie, gruppo '63, Balestrini, Pagliarani, l'asemic writing e l'uncreative writing di Goldsmith

è lui che parla ma mi sento il peso di avergli dato io quelle cose da dire.

e sentire citare dagli studenti in sede d'esame alcune cose che ho organizzato e che avrei potuto non fare, e che gli studenti raccontano come cose che li hanno interessati: il risiko riscritto alla luce della prima guerra mondiale, lo studio del contratto di affitto o l'attività nella realtà virtuale, ecco

fa capire che sei responsabile tu prima di tutti gli altri di quello che si dice o di quello che si tace

[cronache dalla scuola]

In pratica sono le ultime due ore del venerdì e in terza ho preparato questo esperimento: siccome la settimana prossima sono in pcto e quindi mi era saltata la verifica finale di storia, ho pensato di fare questa cosa.

Li porto tutti nell'aula cooperative learning, gli chiedo di posare i cellulari sulla cattedra e di dividersi in gruppi di cinque persone. E poi gli dico che facciamo una verifica sulla riforma protestante. Che noi, in classe, non abbiamo mai fatto.

Gli do un foglio con una ventina di domande piuttosto complesse sulla riforma protestante e una serie di fonti. Una mappa logica della riforma protestante, una pagina di un libro di storia internazionale che cita la riforma protestante (Una storia globale dell'umanità), quattro pagine A4 di un libro di storia generalista (Storia del mondo) e altre nove A4 fitti fitti di un testo di storia universitario (Storia moderna), sempre sulla riforma protestante.

“Avete due ore” gli dico. “Le risposte alle domande che vi ho fatto sono nei fogli che vi ho dato”. Possono lavorare collettivamente con i compagni del tavolo che gli è stato assegnato, non degli altri, possono usare tutti i fogli che gli ho dato. Alla fine darò una valutazione al singolo compito che mi viene restituito.

E qua succede la cosa che mi cambia la giornata. Ci stanno. Si mettono lì e per due ore, le ultime due ore del venerdì, non fanno altro. In alcuni gruppi si dividono i fogli da leggere, in altri uno legge ad alta voce per gli altri, confrontano le diverse fonti, escludono i fogli in cui non ci sono informazioni utili per le domande finali, si autocorreggono nelle risposte, si danno consigli, segnalano gli errori di grammatica dei compagni.

Io giro tra i banchi, osservo quello che fanno, come piano piano compongano le risposte, come tutti aiutino uno a scriverle e poi quell'uno le detti agli altri. Alla fine suona la campanella che alcuni stanno ancora copiando le risposte. Due ore di lavoro ininterrotto.

E io in quel momento sento che è successa quella fortunata alchimia, di quando proponi qualcosa che potrebbe essere un disastro e che invece viene presa bene, è stata ben calibrata: funziona.

E a me della riforma protestante, onestamente, non frega più di tanto: quello che vedo brillare è la capacità dei singoli gruppi di elaborare le strategie per arrivare a un fine, di trovare risorse che prima non c'erano, di riuscire ad aiutarsi l'un l'altro per il raggiungimento di un obiettivo comune.

Mentre io non faccio altro che controllare, dare qualche spiegazione dei termini più complessi quando mi chiamano, godermi lo spettacolo.

Insomma, tutto pur di non lavorare.