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Nel 1859 il naturalista inglese Charles Darwin ha pubblicato il testo “L’origine della specie” e, in un’ottica laica e apertamente sfidante verso le convenzioni del tempo, ha cambiato inevitabilmente il nostro modo di vedere il mondo.

Tra le sue brillanti osservazioni ce n’è una, all’inizio del quarto capitolo del libro, che se riletta oggi potrebbe aiutarci nella lotta al cambiamento climatico, la più grande minaccia alle nostre foreste (oltre alla deforestazione), dal momento che sottopone gli alberi a enormi stress dovuti a siccità, ondate di calore, tempeste e incendi. Una riflessione riassumibile in modo molto semplice: tante specie diverse che convivono nello stesso territorio crescono in modo più sano di una singola specie piantata individualmente.

Vista la caratura del testo e del personaggio a cui ci stiamo riferendo potrebbe sembrare incredibile ma, negli oltre 150 anni successivi alla pubblicazione del libro, questo specifico passaggio non è stato applicato spesso, tanto che le attuali politiche di riforestazione tendono piuttosto a puntare su monocolture.

A indicare l’importanza di questo passaggio del biologo inglese è stata la rivista The Conversation, dove Rob MacKenzie, direttore e fondatore del Birmingham Institute for Forest Research e Christine Foyer, professoressa di biologia presso l’Università di Birmingham, hanno sottolineato come l’osservazione di Darwin possa essere un punto di partenza ideale per un cambio di paradigma necessario.

Secondo il loro punto di vista, infatti, nessuna tecnologia umana è  in grado di competere con il lavoro di una foresta per quanto riguarda l’assorbimento di anidride carbonica e il suo conseguente stoccaggio, e il suggerimento contenuto ne “L’origine della specie” potrebbe essere la chiave per affrontare il cambiamento climatico.

Le idee su cui si basa la teoria di Darwin

Le indicazioni di Darwin fornirebbero quindi una guida illuminata su come predisporre la piantumazione di alberi. “Senza ombra di dubbio avere dalla nostra parte foreste rigogliose rappresenta uno strumento estremamente potente per mitigare la crisi climatica , ma parliamo di macchine complesse, spesso formate da milioni di componenti” affermano Foyer e MacKenzie.

Le foreste che seguono il modello descritto nel libro di Darwin, e che quindi puntano sulla diversità della piantagione, ambiscono a crescere da due a quattro volte in più, massimizzando l’assorbimento dell’anidride carbonica nell’aria e dimostrando maggiore resilienza alle epidemie, ai cambiamenti climatici e alle condizioni metereologiche estreme.

Darwin spiega le differenze di condizione tra le foreste monospecie e quelle multispecie, sostenendo che in queste ultime ogni varietà di pianta accede a diverse fonti di nutrienti rispetto alle altre, rendendo la competizione per le risorse decisamente meno pressante. Ciò si traduce in piante più forti, dagli steli e i tronchi più alti, e quindi a maggior spazio per immagazzinare CO2.

Le foreste miste inoltre sono più resistenti alle malattie, e meno vulnerabili agli attacchi di batteri e parassiti, dal momento che ogni patogeno prende di mira un bersaglio privilegiato. Avendo una rosa più nutrita di piante da poter colpire quest’ultimo agirà con minore aggressività, con una percentuale di rischio di provocare danni irreversibili decisamente ridotta.

Il caso studio dell’effetto Darwin

Proprio per discutere le considerazioni di Charles Darwin, un gruppo di esperti impegnati nella lotta al cambiamento climatico provenienti da Australia, Canada, Germania, Italia, Nigeria, Pakistan, Svizzera, Regno Unito e Stati Uniti si è recentemente riunito per studiare un nuovo modo di dar vita a foreste che assorbano il carbonio in modo più efficiente.  L’evento è frutto di una collaborazione tra la Association of Applied Biologist e il Birmingham Institute of Forest Research ed è parte fondamentale del programma istituito dal Regno Unito per raggiungere l’obiettivo delle zero emissioni entro il 2050. All’incontro hanno partecipato anche MacKenzie e Foyer.

“Questo meeting è un passo fondamentale nel percorso verso il net zero, perché abbiamo ancora delle domande vitali a cui rispondere a proposito di quali alberi dovremmo piantare, dove piantarli e cosa fare con loro una volta cresciuti”.

Per net zero si intende il punto d’incontro tra la percentuale di carbonio emessa nell’atmosfera e quella rimossa. Gli esperti hanno discusso inoltre il caso studio della tenuta di Norbury Park, in Inghilterra, dove sfruttando il cosiddetto “effetto Darwin” si è riusciti a catturare oltre 5.000 tonnellate di CO2 in un anno. Un record che l’ha reso il territorio più carbon-negative -ovvero in grado di creare un vantaggio ambientale eliminando più carbonio di quello che viene emesso- di tutto il Regno Unito.

Sempre MacKenzie e Foyer, continuano: “Oggi sappiamo che è impossibile piantare direttamente una foresta, ma possiamo progettare grandi piantagioni che nel corso degli anni fioriranno in boschi rigogliosi per le future generazioni”.

Darwin ci ha mostrato la strada più di un secolo e mezzo fa, a noi non resta che seguirla e immaginare una risposta pratica alle crisi climatiche e che ci permetta anche di preservare la biodiversità del nostro pianeta.

Fonte: bnpparibas

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Ci avevano raccontato che la globalizzazione ci avrebbe preservato dalle guerre. Al contrario, il mondo in cui viviamo è sempre più insicuro. Dobbiamo chiederci come rifondare l’economia per poter vivere un tempo più pacifico e più sostenibile. Cinque grandi cambiamenti da attuare secondo Francesco Gesualdi

Ci avevano raccontato che la globalizzazione ci avrebbe preservato dalle guerre. L’adagio era che permettendo alle imprese di poter collocare i propri prodotti ovunque nel mondo, di poter spostare la produzione dove appariva più conveniente, di poter trasferire i capitali dove erano garantiti maggiori vantaggi, avremmo creato un mondo più interdipendente e quindi più interessato a mantenere la pace. Ma le crescenti tensioni tra Stati Uniti e Cina e soprattutto la guerra in Ucraina, che assomiglia sempre di più a uno scontro fra Russia e Occidente, mostrano che la maggior internazionalizzazione degli affari non è sufficiente a sopire gli istinti nazionalistici che evidentemente fanno parte integrante di ogni forma di capitalismo. E mentre rimane forte l’impegno di ogni governo ad aprire la strada commerciale alle multinazionali battenti la propria bandiera, le tensioni si fanno sempre più accese per il controllo delle risorse e il dominio delle tecnologie. La conclusione è che il mondo in cui viviamo è sempre più insicuro, per cui dobbiamo chiederci come rifondare l’economia per poter vivere in un mondo al tempo stesso più pacifico e più sostenibile. Penso che per riuscirci dovremmo introdurre cinque grandi cambiamenti che a mio avviso ogni popolo farebbe bene a valutare ed attuare, anche unilateralmente.

Il primo passo da compiere è la messa al bando delle industrie di armamenti. Il Sipri valuta che nel 2020 le prime 100 imprese mondiali di armi hanno avuto un fatturato complessivo di 531 miliardi di dollari, una cifra superiore al prodotto interno lordo del Belgio. Finché produrremo armi avremo guerre perché rappresentano l’occasione di consumo di materiale bellico. E come le imprese di imbottigliamento hanno bisogno di chi beve acqua in bottiglia, allo stesso modo le imprese di armi hanno bisogno di guerre. Non a caso i produttori di armi mantengono rapporti continui con i ministeri della Difesa e spendono fiumi di denaro per ottenere dai governi scelte a vantaggio delle proprie attività. Secondo l’organizzazione Open Secrets, nei soli Stati Uniti negli ultimi 20 anni le industrie belliche hanno speso 285 milioni di dollari per contributi alle campagne elettorali e ben 2,5 miliardi per spingere le istituzioni statunitensi a compiere scelte politiche e finanziarie favorevoli ai propri interessi. Quanto all’Unione europea, i numeri ufficiali, risalenti al 2016, dicono che le prime 10 imprese di armi spendono oltre cinque milioni di euro all’anno e dispongono di 33 lobbisti a libro paga per esercitare pressione sulle istituzioni di Bruxelles.

La seconda grande scelta da compiere è l’abbandono del consumismo a favore della sobrietà. Il consumismo è una bestia insaziabile che ha bisogno di quantità crescenti di risorse ed energia. Un’impostazione che spinge inevitabilmente alla sopraffazione per aggiudicarsi le risorse a buon mercato presenti nei territori altrui. Lo testimonia non solo il colonialismo, ma anche il neocolonialismo che oggi si presenta col volto dello scambio ineguale, del land grabbing, dello strangolamento finanziario. Fino a ieri la lotta era per il carbone, il petrolio, i minerali ferrosi, oggi è per le terre agricole, i minerali rari, la biodiversità, l’acqua. L’unico modo per interrompere le guerre di accaparramento è ripensare il nostro concetto di benessere, riportandolo nel perimetro di ciò che ci serve senza sconfinare nell’inutile e nel superfluo. Un compito non semplice perché si scontra con le nostre pulsioni più profonde, ma con possibilità di successo se torniamo a dare il giusto valore alla sfera affettiva, sociale, spirituale e più in generale agli aspetti relazionali che la logica materialista tende a mettere in ombra.   Il terzo passaggio è la capacità di orientarci totalmente verso le energie rinnovabili perché affidandoci al sole, al vento e alle altre forme di energia naturale, rompiamo la nostra dipendenza dalle risorse altrui. Un’indipendenza che ci rende al tempo stesso meno angosciati, e quindi meno aggressivi, e più propensi alla collaborazione internazionale. Ricordandoci che la transizione energetica sarà tanto più possibile quanto più sapremo orientarci verso la sobrietà perché meno consumiamo, meno energia dobbiamo produrre.

Il quarto intervento è la capacità di potenziare l’economia pubblica, precisando che pubblico non è sinonimo di Stato, ma di comunità. L’economia pubblica è l’economia della comunità che diventa imprenditrice di se stessa per garantire a tutti, in maniera solidaristica e gratuita, tutto ciò che risponde a bisogni irrinunciabili come acqua, alloggio, sanità, istruzione e in generale tutto ciò che definiamo diritto. Beni e servizi determinanti per la dignità umana che non possono essere variabili dipendenti dalla disponibilità di denaro, bensì certezze da garantire a tutti tramite la solidarietà collettiva. Se riuscissimo a liberarci dai condizionamenti ideologici capiremmo che il rafforzamento dell’economia pubblica è non solo elemento di progresso umano e sociale, ma anche di pace, perché l’economia pubblica, a differenza dell’economia di mercato, non ha bisogno di espansione. Poiché non vende, bensì distribuisce, non ha la preoccupazione di procurarsi nuovi clienti. Il suo obiettivo è produrre quanto basta per soddisfare i bisogni dei propri cittadini, dopo di che è ben lieta di fermarsi. Non così per le imprese commerciali in lotta perenne fra loro per la conquista di nuovi mercati, se necessario con l’assistenza dei propri governi che magari non usano armi, ma ricatti e altri strumenti di pressione non meno insidiosi perché capaci di suscitare rancori dagli esiti imprevedibili.

E per finire la capacità di improntare i rapporti internazionali a spirito di cooperazione ed equità. Equità per garantire la giusta remunerazione ai produttori e cooperazione per sostenersi reciprocamente e colmare gli squilibri creati da cinque secoli di economia di rapina. Tutto ciò, però, è possibile solo con un cambio di paradigma culturale. In economia bisogna passare dai principi di guadagno, crescita, concorrenza, a quelli di equità, sostenibilità, cooperazione. In ambito sociale bisogna passare dai principi di forza, vittoria, successo a quelli di mitezza, rispetto, sostegno. Perché solo predisponendoci diversamente verso l’altro potremo passare da una cultura della guerra a una cultura della pace.

di Francesco Gesualdi – via | https://altreconomia.it -

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Entro il 2050 i tre quarti della popolazione mondiale potrebbero sperimentare condizioni di siccità. Secondo una stima della Banca Mondiale, più di 200 milioni di persone potrebbero essere costrette a emigrare a causa della mancanza d’acqua entro il 2050 e sono 129 i Paesi che vedranno aggravarsi i propri problemi di siccità legati agli effetti del cambiamento climatico. In tutto il mondo, compresa l’Europa… #Diambiente

Leggi articolo di Giorgia Marino

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immagine «Quando l’ultimo albero sarà abbattuto, l’ultimo pesce mangiato e l’ultimo fiume avvelenato, vi renderete conto che non si può mangiare il denaro». Cosi disse nel 1876 Toro Seduto, capo tribù dei nativi americani Sioux Hunkpapa, qualche mese prima della leggendaria battaglia del Little Bighorn. Toro seduto non era uno scienziato dell’Ipcc dell’Onu, ma la sua sintesi meriterebbe di essere scritta in tutti gli edifici pubblici del Paese, in questo inizio estate che ci costringerà a fare davvero i conti con la profondità della crisi eco-climatica.

Paradigmatica è la situazione del Po, il più grande fiume italiano, il cui bacino attraversa la pianura padana e l’intera Italia del Nord. Sono le regioni in cui si sono storicamente concentrate un’agricoltura e un allevamento intensivi, una massiccia industrializzazione, la grande industria energetica, nonché grandi concentrati di popolazione urbana e metropolitana.

Tutte figlie del medesimo paradigma, che è la cifra del modello capitalistico: l’idea della crescita economica come termometro del benessere della società, accompagnata dall’uso di beni comuni presenti in natura dei quali si presuppone l’illimitata disponibilità.

Una situazione accelerata dal modello liberista e dal preponderante ruolo assunto dalla finanza, che ha visto il progressivo ritiro delle istituzioni pubbliche tanto dall’intervento diretto in campo economico, quanto da qualunque idea di programmazione e pianificazione dello stesso, delegate alla ‘autoregolazione dei mercati’.

Peccato che esista una contraddizione strutturale fra come la vita delle persone si organizza nello spazio e nel tempo rispetto a come si declina l’economia di mercato.

La vita delle persone si svolge dentro uno spazio limitato, la comunità di riferimento, e si dipana dentro un tempo lungo che attraversa l’intera esistenza.

Al contrario del mercato che si organizza in uno spazio potenzialmente infinito, l’intero pianeta, ma declina le proprie scelte dentro un tempo estremamente ridotto, l’indice di Borsa del giorno successivo. E’ questa differenza a far sì che gli interessi di mercato siano quasi sempre in diretto contrasto con i bisogni della vita delle persone.

L’economia della pianura padana lasciata al mercato, oltre ad aver prodotto pesanti livelli di inquinamento complessivo che hanno trasformato il serio problema sanitario prodotto dalla pandemia da Covid19 in una tragedia di massa, ha messo in campo un’idea di agricoltura, allevamento, industria e produzione energetica vocate al massimo rendimento nel minimo arco temporale. Una relazione predatoria nei confronti del suolo, dell’aria, dell’acqua, dell’energia e della salute delle persone che ha prodotto grandi risultati di fatturato per le industrie dell’agro-business e di utili in Borsa per le multiutility dell’acqua e dell’energia.

Permettendo alle stesse di comportarsi come quell’uomo del film “L’odio” che, cadendo da un palazzo di 50 piani, man mano che passa da un piano all’altro continua ripetersi «fino a qui, tutto bene», misurando il ‘qui ed ora’ della caduta e non l’esito dell’atterraggio.

Esito che nella pianura padana è arrivato con la più grave crisi idrica degli ultimi 70 anni e il Po ridotto a un rigagnolo circondato da distese di sabbia.

Prima che gli interessi delle grandi lobby scendano in campo per far ricadere la crisi ancora una volta sulle spalle degli abitanti, è il momento che le comunità locali insorgano per prendersi cura del ramo su cui siamo seduti contro chi continua a segarlo. Magari rivendicando che i soldi del Pnrr vadano alla cura e alla manutenzione dei territori invece che a nuove basi militari dentro parchi naturali.

di Marco Bersani, Attac Italia e Cadtm Italia

(fonte) #Diambiente

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Dispensa

Chiunque abbia a cuore il futuro della Terra e delle prossime generazioni non può che essere preoccupato per il declino della biodiversità, le estinzioni di massa, la crisi climatica e altre situazioni di forte criticità innescate dall’uomo.

Ma il punto è che quasi sicuramente non siamo preoccupati abbastanza per trasformare quell’intermittente inquietudine in una spinta immediata all’agire, come se la nostra casa fosse in fiamme. (…)

Circa un milione di specie di piante e animali sono minacciate di estinzione e gli insetti stanno rapidamente scomparendo da molte regioni della Terra. In tre secoli abbiamo perso l’85% delle paludi, mentre il 65% degli oceani subisce in qualche misura l’influenza delle attività umane. Le foreste di alghe kelp e posidonie (importantissimi ecosistemi oceanici) si sono assottigliate, la quantità di coralli vivi nei reef si è dimezzata negli ultimi 200 anni, e i grandi predatori marini sono il 30% in meno di un secolo fa.

La popolazione umana è raddoppiata rispetto agli anni Settanta e conta ora i 7,8 miliardi di unità. Nel 2050 saremo in 10 miliardi, un aumento che si tradurrà in una maggiore insicurezza alimentare, un più estensivo utilizzo del suolo, più inquinamento da plastica, un rischio aumentato di pandemie, disoccupazione, fragilità abitative, insurrezioni, guerre. Tutto questo, in un contesto in cui stiamo usando ben più delle risorse naturali che la Terra abbia la capacità di rinnovare, e con il riscaldamento globale lanciato per superare il grado e mezzo dall’era pre-industriale tra il 2030 e il 2052.

Anche se tutti i contraenti degli Accordi di Parigi osservassero i loro impegni, il global warming si attesterebbe tra i 2,6 e i 3,1 °C entro il 2100. L’avanzata di leader populisti con agende avverse alla crescita sostenibile favorisce movimenti d’opinione e campagne di disinformazione che attribuiscono all’impegno ambientale colori politici, anziché vedere nell’attivismo climatico una volontà di preservare la specie umana.

Come superare l’immobilismo e trasformare la paura in energia di cambiamento? Lo studio suggerisce alcune azioni indispensabili, come abolire l’obiettivo di una crescita economica perpetua; rivelare il vero costo dei prodotti che utilizziamo e delle attività che svolgiamo, obbligando i responsabili di danni ambientali ad assumersene economicamente i costi (per esempio tassando le aziende per i gas serra che emettono); abbandonare progressivamente e in modo rapido i combustibili fossili; limitando i monopoli e l’influenza indebita delle aziende sulla politica; garantire alle donne istruzione, lavoro e libertà nelle scelte di pianificazione familiare.

Elisabetta Intini per Focus #Diambiente

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