D͏i͏-s͏p͏e͏n͏s͏a͏

Disociale

immagine Dico sul serio: abbandoniamo ogni speranza, smettiamo di raccogliere soldi per giuste cause, decichiamoci a noi stessi. Tanto è troppo tardi per tutto.

Cosa dobbiamo salvare per primi? Le api? I delfini? I koala? Le giraffe strabiche? Le tartarughe albine del nord Madagascar in fondo a destra?

A chi donare cinque, otto, millemila per mille? Ricerca sul cancro? Ucraina? Emergency? Save the children? WWF? Caritas? UNICEF? Cgil Cisl Uil? Top gun?

Quale problema ci deve guidare nelle scelte? Inquinamento? Buco nell'ozono? Cambiamenti climatici? Parità di genere? Lotta al razzismo? Femminicidi? Desertificazione? Povertà? Verruche? È troppo, dai.

Non è nascondere la testa sotto la sabbia o negare i problemi: tutt'altro. È proprio riconoscerli e ammettere che abbiamo perso.

Cioè, su, è evidente. Non c'è scampo, è finita. Ma dove vogliamo arrivare con 'sto cazzo di caldo?

Quanta merda dobbiamo ancora immettere nell'ambiente e rimettercela in corpo sotto forma di cibo inquinato?

Per quanto vogliamo ancora stare in tensione in mezzo a pandemie mutanti, gente che minaccia bombe nucleari, file da Cracco solo per fotografare gli scontrini e lamentarsene su Instagram?

Da oggi ognuno per sé, si salvi chi può, condizionatori a palla, acqua frizzante per gli sciacquoni, quattromila benzina turbo per fare la spesa, monnezza indifferenziata, pacchi Amazon che prendo, apro e rimando indietro perché “non sono più convinto ma servizio Amazon fantastico”, chiamo Glovo pure solo per venire qua a farmi un saluto, voto Briatore. Dice: “e che pianeta lascio ai miei figli?”. Eh, cazzi loro. Ci si doveva pensare prima, dai, tanto sono fregati comunque.

Siamo come il tizio in mezzo al deserto, a mille km da tutto e con una bottiglietta da mezzo litro d'acqua: all'inizio sta ancora là a pensare come razionare, preoccuparsi, smazzarsi di fatica. Dopo due giorni vede che è ancora a 950 km dalla civiltà e finalmente accetta la sua sorte e si spara tutta la bottiglietta.

Condividi questa battaglia di buonsenso: accendi oggi tutte le luci di Natale.

Uomo Morde Cane

(fonte) #Disociale

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immagine A scorrere interviste, analisi, commenti sul turno amministrativo di domenica colpisce un dato, anzi due. Per un verso l’accanimento sulle pregiudiziali nelle alleanze future: «Con quelli mai. Letta scegli: o noi (leggi, Calenda, Renzi, centristi di varia foggia) o loro (leggasi Conte e M5s)». Questa rigidità ha trovato la spiega in risultati interpretati quale conferma della linea seguita, in altre parole «le urne ci hanno dato ragione», e ciò pure quando i numeri, a leggerli bene, dicevano altro.

Il secondo elemento è stato richiamare tutti al “merito” dei possibili accordi, da lì l’appello a misurare nel concreto affinità o distanze. Fisco, mercato del lavoro, scuola e sanità pubblica, fondi europei: l’elenco programmatico ha il taglio che sappiamo, in questo caso a segnare la differenza è stato lo spirito volitivo di chi – per parte mia mi annovero nel bel numero – è convinto sia possibile, oltre che necessario, bypassare i veti tramite una ricetta condivisa. In sintesi, da un lato si è scatenata una polemica sulle alleanze politiche (quali sigle sommare nel centrosinistra che sfiderà la destra a trazione non più leghista), dall’altro è ripartito il confronto sul programma comune da sottoporre agli italiani. Allora tutto bene? Non proprio. Nel senso che entrambe le reazioni sembrano sottovalutare i due convitati di pietra di queste elezioni.

L’astensione patologica che impatta e incrina la tenuta stessa della nostra democrazia e le modalità con le quali ricostruire flussi di scambio e canali di partecipazione finalizzati anche, non solo ma anche, a rigenerare gli istituti della rappresentanza. Il punto è che per affrontare questo nodo, fondamentale per vincere la prossima sfida nelle urne, non basta sommare un certo numero di sigle o arruolare nello stesso perimetro leadership diverse. Neppure è sufficiente mettere nero su bianco le dieci o cento cose da fare nel primo mese di un governo progressista.

Poco meno di trent’anni fa l’Ulivo di Romano Prodi e i “Comitati per l’Italia che vogliamo” segnarono un cambio di stagione nel merito della proposta di governo e più ancora nel metodo con cui il disegno venne concepito e realizzato. L’intuizione di allora – unire in un’idea dell’Italia “da fare” l’impresa produttiva, il mondo del lavoro, l’arcipelago della cultura a partire da scuola, università e ricerca – si tradusse in una seria e faticosa azione di coinvolgimento e rigenerazione di un tessuto sociale che solo pochi mesi prima Berlusconi con la sua vittoria pareva avere spento per un tempo lungo. Quell’insegnamento – insisto, di metodo oltre che di merito – si rivelò decisivo. Credo che lo stesso dovrebbe accadere adesso. Davanti a noi abbiamo una decina di mesi per attrezzare un campo il più esteso possibile di alleanze sociali, culturali e politiche. Ciò che dobbiamo sapere è che la vera chance a nostra disposizione ancora una volta sta nell’attivare, coinvolgere, rendere protagonisti pezzi di società oggi inascoltati e disaffezionati all’idea di una democrazia partecipata come radice di una cittadinanza consapevole. «Non è più tempo di fenomeni individuali», così l’altra sera Romano Prodi in un incontro pubblico nella sua Bologna.

Credo abbia profondamente ragione e se un segnale d’allarme il voto di domenica ha fatto scattare è proprio nell’invito a farsi carico di quest’opera laboriosa di associazione di un popolo che non intende cedere il passo alla destra regressiva di ora. Un tale bisogno Enrico Letta ha mostrato di comprendere a fondo. Altri sembrano fare più fatica, presi come sono nel gorgo di un protagonismo e personalismi fuori sincrono. Ma più di un motivo per coltivare l’ottimismo esiste. A una condizione: cominciare il lavoro per tempo senza attendere miracoli che non ci saranno. La vera differenza passerà da qui.

di Gianni Cuperlo #Disociale

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Per me è un grande onore essere stato scelto come portavoce dall’Unione Cinghiali Romani, che mi ha affidato una dichiarazione ufficiale. E’ un momento storico, per la prima volta in televisione non parlano solo cani e porci, ma anche i cinghiali.

“Noi cinghiali romani condanniamo con fermezza il comportamento scorretto di una minoranza, che ruba le borse della spesa alle signore anziane. Si tratta di poche mele marce, metafora che usiamo con qualche dubbio perché non avete idea di quanto siano buone le mele marce.

Ma la grande maggioranza dei cinghiali a Roma si comporta con senso civico, dando un contributo decisivo allo smaltimento dei rifiuti. E sopporta con dignità le manifestazioni ostili e discriminatorie degli umani, che ci fotografano e ci filmano, con urla di raccapriccio in sottofondo, come se fossero arrivati gli zombie. Non siamo mostri, siamo maiali selvatici. Avete frequentato troppo i social e troppo poco i boschi, per capire come funziona il mondo. Fino agli anni Novanta in Italia eravamo meno di centomila e vivevamo tranquilli nel bosco e nella macchia. Ogni scrofa partoriva, una sola volta all’anno, tre o quattro porcellini. Poi qualche genio della caccia ebbe l’idea di incrociarci con il maiale domestico e con i nostri cugini dell’Est Europa, specie molto più prolifiche di noi. Adesso, a causa dell’ibridazione, partoriamo due volte all’anno almeno dieci porcellini per volta. Noi non sappiamo far di conto, ma evidentemente neanche voi. Perché il risultato del vostro brillante intervento è che in Italia siamo diventati circa un milione e mezzo.

Poi avete abbandonato i campi. E la selva, che è il nostro habitat, si è estesa. E avete moltiplicato i vostri rifiuti, tonnellate di proteine, carboidrati, zuccheri parcheggiati in mezzo alla strada. Chiedetevi come mai preferiamo Roma a Stoccolma.

Ci chiamate specie infestante. Senti chi parla. Parlate tanto di Intelligenza Artificiale ma non siete neanche capaci di regolare le nascite. Presto sarete dieci miliardi. Per quanto ci riguarda, noi eravamo in quantità ragionevole e stabile, in equilibrio con l’ambiente. Siete voi che avete forzato la natura per avere più prede da impallinare.

Chissà se la pandemia vi ha insegnato qualcosa. Se modificate gli equilibri naturali, con la cecità e la fretta degli ingordi, ne pagherete il prezzo. Se affondate le vostre ruspe nella selva, dalla selva usciranno, in fila indiana, i virus e i piccoli mammiferi che ne sono i vettori. Se moltiplicate per venti gli esemplari di una specie, come avete fatto con noi cinghiali, la peste suina avrà venti volte più possibilità di diffondersi.

Quando ci vedete comparire sbarrate gli occhi, ma selvatico non vuol dire strano, o alieno. Selvatico dire che la vita sulla Terra non obbedisce a voi umani. Obbedisce alle leggi della natura. Nascere e prosperare è la regola, e vale per tutti gli esseri viventi del mondo, dagli infinitamente piccoli, come i virus, agli infinitamente affamati, come noi cinghiali.

Avete presente il grande cerchio della vita? A giudicare dalle vostre facce quando ci vedete comparire, si direbbe che no, non lo avete presente. Eppure è facile: tutto è connesso, la vita e la morte, la città e la foresta, la buccia di anguria che tracima dal cassonetto romano e il cinghiale che va a mangiarla. Solo voi umani, sempre più spesso, ci sembrate sconnessi. #Disociale

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Gli eventi che dominano i media mainstream e di conseguenza i nostri scambi di opinione non sono mai stati quelli che contano davvero. In questo preciso momento storico, malgrado livelli elevatissimi di tecnologia, una vasta fascia della popolazione mondiale è priva dei diritti fondamentali e dell’accesso all’acqua, al cibo, a cure mediche, all’istruzione. Mai come ora, malgrado le vaste conoscenze scientifiche a disposizione, gli esseri umani incidono sull’ambiente in cui essi stessi vivono inquinandolo e depredandolo.
Entrambi gli evidenti fenomeni, determinanti poi numerose altre conseguenze negative, sono esclusivamente determinati dalla volontà di un esiguo numero di esseri umani che, con la violenza fisica, psicologica e verbale, impongono le proprie necessità di profitto sugli 8 miliardi di abitanti del pianeta e sul pianeta stesso.

Un numero sempre minore di persone controlla governi, mezzi di comunicazione e corporazioni finanziarie ed industriali, mentre un numero sempre maggiore di persone vede peggiorate le proprie condizioni di vita.
Da decenni due giganteschi disastri continunano a colpire gli abitanti della Terra: la crisi ambientale, sfociata in diverse tipologie di emergenze, da quella climatica a quella pandemica, e la crisi sociale, arrivata a coinvolgere paesi, settori e profili professionali che fino a questo momento avevano guardato a queste ipotesi solo nei film apocalittici.

E purtroppo anche la finzione cinematografica non è in grado di riprodurre al meglio queste catastrofi perché non abbiamo a che fare con meteoriti capaci di spazzare via molti esseri viventi in alcuni istanti. Siamo invece in presenza di fenomeni drammatici che causano una sofferenza crescente in una lunga e costante agonia.

Nessuno può ritenersi al sicuro. Neanche coloro che stanno determinando questo stato di cose.
Anche loro devono arrendersi all’evidenza della vera essenza della nostra natura.
Come dice Peter Kalmus nel suo saggio ‘Essere il cambiamento: vivi bene e scatena una rivoluzione climatica’, “la nostra società è costruita attorno alla ricerca della ricchezza attraverso il consumo. Ma la felicità duratura non può essere trovata in questo modo.”

Peter ha 47 anni, è uno scienziato, lavora per la NASA, e da anni si occupa proprio dei dati inerenti il cambiamento climatico. Il suo grido disperato si unisce a quello di moltissimi altri scienziati nel mondo che hanno perso ogni speranza in una buona condotta dei governi che sia capace di fermare il riscaldamento della Terra, ormai ad un livello emergenziale impossibile da ignorare.

E proprio questa osservazione genera la madre di tutte le domande che possiamo porci al riguardo: perché, di fronte a questa letale crisi, sociale ed ambientale, e di fronte alle quotidiane evidenze della stessa, non siamo tutti concentrati su di essa, cercando di risolverle e di salvarci?

È vero, è una domanda ardua, e rispondervi non è affatto semplice, ma dobbiamo soffermarci sulle questioni più difficili per ottenere soluzioni efficaci. Come insegna un grande pensatore del nostro tempo, Jeremy Lent, non abbiamo quasi mai le risposte giuste perchè abbiamo smesso di farci le giuste domande.

Una possibile spiegazione è la ferma volontà di pochissimi individui di preservare il proprio stato economico, e di conseguenza il proprio potere all’interno della società, continuando a perseguire i propri interessi ed evitando di farsi distrarre da una situazione potenzialmente pericolosa per il loro egoismo. Un simile atteggiamento viene assunto persino da quei tanti che non hanno economie o poteri da preservare, ma vogliono mantenere lo status quo per non perdere il flusso automatico ed incontrollato delle loro esistenze, di cui invece sarebbero costretti a riprendere il dominio nel caso in cui acquisissero effettiva coscienza di quanto sta accadendo attorno a loro. Sia gli uni che gli altri sono determinati a lasciare inalterato lo stato delle cose per non vedere le proprie illusioni distrutte.

Ecco dunque che la domanda posta sopra è una di quelle domande giuste, contenendo essa stessa la risposta e la soluzione del problema. Non riusciamo a mettere fine a questa crisi, sociale ed ambientale, perché la coscienza di avvertirla in pochi blocca anche quei pochi e impedisce loro di agire in concreto per risolverla. D’altronde “il conformismo – ci dice Noam Chomsky – è la strada più facile, quella che porta al privilegio e al prestigio; la dissidenza ha un costo personale.”

Di fronte a questo crimine planetario la maggioranza, composta da pochissimi autori e moltissimi complici, sembra quindi avere la meglio su un numero comunque importante di esseri umani, completamente innocenti ma coscienti della gravità del reato, che si lasciano sopraffare da quella credenza limitante secondo la quale le cose sono così e non possono essere cambiate. Le cose sono così, invece, proprio perché sono cambiate. L’essere umano parte dell’ecosistema ha cambiato quel sistema ergendosi a sapiens e facendosene prima illeggittimanente padrone e poi illlogicamente sfruttatore. Quel cambio di sistema è la prova del fatto che il sistema può essere cambiato. L’essenza stessa del capitalismo è motivo ispiratore del suo necessario abbattimento: un sistema che nega la priorità del mondo naturale per privilegiare il denaro, artificiale, può e deve essere ribaltato.

Come ci insegna Pepe Mujica, “c’è sempre stata un’opinione tradizionalista e conservatrice che ha paura del cambiamento”, ma essa non deve spaventarci, tutt’altro. Uno dei pochi vantaggi del consumismo che può tornare utile è infatti la facilità con cui possiamo riconoscere chi ne è affetto, e chi se ne vuole o se ne sta allontanando. Il consumismo infatti, travolge e stravolge non solo l’esteriorità degli individui, ma anche, e ancor più, le loro caratteristiche personali, il loro essere. L’uomo moderno ha aggiunto ai propri pesi da portare un nuovo lutto, oltre a quello legato alla perdita delle persone care: il dolore per la perdita della propria capacità di consumare, derivante dall’esaurimento della capacità di produrre. È un tormento inaccettabile di questi tempi e gli esseri umani sono disposti a tutto per evitarlo. Gli impauriti conservatori di questo sistema malato non hanno la facoltà di curarlo: loro per primi non vedono la ferita infetta che è lì davanti ai loro occhi, non ne sentono il fetore, non provano dolore alcuno perché negano il dolore, risorsa primaria e indispensabile di ogni cambiamento. Senza il dolore per quanto sta accadendo non può esservi consapevolezza, e senza consapevolezza non può esservi rimedio.

Il rimedio, già… Quale può essere il rimedio? Anche a questa domanda non dobbiamo rispondere in maniera netta ed indiscutibile. Dobbiamo invece parlarne, dobbiamo confrontarci su di esso, perchè in troppi sembrano avere facili soluzioni a portata di mano, ma far conciliare Giustizia Climatica e Giustizia Sociale è molto complicato. Non tecnologicamente, ma moralmente complicato, così come dimostrato dagli alti costi dell’energia rinnovabile e dallo sfruttamento delle comunità che vivono a ridosso delle miniere di terre rare. La buona notizia è che risulta concretamente possibile, e persino più semplice, rispettare al tempo stesso le esigenze sociali e quelle ambientali riducendo l’impatto delle attività umane sul Pianeta. Non è un’operazione di avanzamento tecnologico quella di cui abbiamo bisogno, ma di indietreggiamento consumistico. Abbiamo bisogno di aver meno bisogni.
In particolar modo quelli indotti, non necessari, superflui, utili solo all’incremento dei profitti di pochi e dannosi per il resto dell’umanità.

Per tale motivo non possiamo più utilizzare i medesimi meccanismi, mentali e relazionali, che ci hanno condotto qui. Non possiamo sostituire un sistema che non funziona con un altro sistema, ma solo con un ecosistema. Abbiamo bisogno di una rivoluzione che rimetta al centro la natura e che riposizioni nuovamente l’essere umano all’interno e non al di sopra di essa. Ma perché sia efficace non possiamo lasciare che tale rivoluzione venga condizionata dalla fretta dettata dagli eventi. Agire subito è infatti una necessità, non una modalità. Agire subito non deve significare agire in qualche modo, in un modo qualsiasi, purché sia subito. La rivoluzione è un cammino che parte con un solo passo. Ed avanza un passo alla volta. La rivoluzione è nei passi, non solo nella meta che raggiungerà. Ad ogni singolo passo dobbiamo riconoscere il merito di portarci là dove vogliamo arrivare. Ai seguenti passi, dunque dobbiamo dare valore, ed essere un giorno grati di averli potuti compiere.

Decolonizzazione di noi stessi

Compiere gesti personali non è sufficiente, certo, ma è indispensabile per acquisire consapevolezza della facilità di cambiamento e risolutezza per la volontà di non vedere sprecati i propri sacrifici. Dobbiamo dunque privare prima di tutto noi stessi di quelle imposizioni del colonialismo capitalista che condizionano le nostre scelte, e farlo per ciò che possiamo, migliorando di giorno in giorno e senza colpevolizzarci per ciò che non riusciamo a fare.

Ascolto delle comunità locali

In prima linea nelle emergenze ci sono sempre le comunità di frontiera, siano esse frontiere geografiche o sociali, le quali subiscono per prime ogni variazione ed ogni imposizione. Esse sono, inoltre, luoghi capaci di farci riscoprire il valore delle culture indigene.

Connessione con la comunità scientifica

Gli scienziati percepiscono, perché le studiano, tutte le variazioni del nostro ecosistema che mettono lo stesso in pericolo. La scienza è importante non solo nella ricerca di soluzioni, ma ancor più, ed ancor prima, nel suonare l’allarme ed evitare di finire nel problema.

Supporto alle lotte che apparentemente non ci appartengono

La compassione è una indispensabile compagna di viaggio per coloro che vogliono arrivare sia lontano che insieme. Comprendere le difficoltà degli altri ed aiutarli nelle sfide che non stiamo vivendo sulla nostra pelle, è amore sociale.

Comunione di lotte che apparentemente diverse tra loro

Le proteste che presentano istanze diverse da quelle di cui noi siamo portatori possono essere fatte nostre e condivise. Ottenere tutto per tutti è più facile che ottenere qualcosa per qualcuno.

Radicalizzazione delle lotte per non cedere ai compromessi

Troppo spesso le rivendicazioni dei movimenti, lucide e puntuali agli albori, si sono ammorbidite a causa del lungo tempo trascorso senza risultati o per una interlocuzione con le istituzioni che si è andata via via trasformando in un inefficace compromesso. Mantenere ferme le posizioni e profonde le richieste è invece il modo in cui esse possono trovare graduale attuazione pratica ed incoraggiare altre persone a prendervi parte.

Istituzionalizzazione delle lotte perché si traducano in leggi

Le richieste di cambiamento, sin dalla loro nascita o anche in un organico percorso di crescita costruttiva, devono trovare espressione in termini di leggi e devono condizionare in modo propositivo la vita stessa delle istituzioni.

Internazionalizzazione delle lotte e dei movimenti

Sono le istanze a doversi fare larghe in modo da contenere le necessità di tutte le popolazioni sparse nel mondo, e la natura internazionale di un movimento non può che agevolare tale processo, così come la sua abilità nel fare rete.

Disponibilità al sacrificio

L’avvio di un percorso di crescita, sia esso individuale o collettivo, implica l’abbandono delle zone di comfort, le sconfitte, le critiche, la resistenza alle reazioni avverse e l’accettazione del dolore, fisico e mentale, che accompagnerà l’intero percorso.

Semplicità di linguaggio

Parlare di ingiustizie e dei metodi per ripararle è quanto di più difficile in quanto l’ascolto sarà sempre condizionato dalla propensione alla distrazione o alla rinuncia. Utilizzare parole e concetti semplici è non solo inclusivo, ma anche efficace.

Coinvolgimento dei media

Gli organi d’informazione possono determinare il successo di una campagna o di una lotta, ma è indispensabile che vengano coinvolti nella interlocuzione di lotta.
Parlare ai governi attraverso di loro non funzionerà perchè il flusso con cui si muovono è opposto, sarebbe come nuotare contro corrente.

Imposizione ai governi

Costrette da movimenti numerosi e determinati, le istituzioni possono cedere alle istanze provenienti dalla popolazione per attuare quei cambiamenti che vengono richiesti e tradurli così in leggi.

Creazione di meccanismi di controllo e monitoraggio

Il raggiungimento degli obiettivi di una campagna o di una lotta non sono mai garanzia nè del mantenimento di quanto ottenuto, né tantomeno della prevenzione da futuri peggioramenti della situazione. È quindi indispensabile che le medesime forze impegnate nel conseguimento dei risultati, si adoperino per la stabilità futura degli stessi e per impedire il ritorno alla condizione precedente.

Buon cammino! Felice rivoluzione!

Fonte: https://www.pressenza.com #Disociale

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Dispensa

Immaginate di essere di fianco a una leva di scambio ferroviario. E immaginate di vedere arrivare un vagone senza conducente che sta per dirigersi verso cinque persone legate ai binari. Se non fate qualcosa il vagone ucciderà le cinque persone. Non potete fermare il vagone immolandovi. L’unica cosa che potete fare è tirare la leva di scambio e dirottare il vagone verso un binario laterale in cui è legata una persona. L’unico modo per salvare le cinque persone è sacrificarne un’altra che, senza il vostro intervento, sarebbe rimasta incolume.

Questo esperimento mentale è noto a tutti coloro che abbiano fatto un corso introduttivo alla filosofia morale e non solo. Si chiama il trolley problem (“dilemma del carrello” in italiano) e serve per stimolare il ragionamento degli studenti forzandoli a lavorare sulle intuizioni nei casi difficili. Gli studenti perplessi solitamente protestano che non ha senso fare questi ragionamenti perché nella vita reale non si pongono situazioni così fittizie. Ma anche costoro, solitamente, ammettono che, in quella situazione, si dovrebbe tirare la leva anche se non se la sentirebbero o lo farebbero (giustamente) a malincuore.

Cosa risponderebbero al trolley problem alcuni pacifisti italiani (ad esempio, quelli visti di recente a Pace proibita di Santoro)? Se prendiamo per buone le ragioni che adducono nei loro discorsi pubblici, dovremmo rispondere che loro non tirerebbero la leva, perché la vita è sacra e non si salvano le persone uccidendone altre. Il succo del discorso è che la violenza è un male incondizionato e che chiunque ci caschi commette un male morale, anche se serve per salvare più vite. Quindi sembra che, secondo loro, lo scopo primario, e forse unico, sia mantenere la propria purezza morale, costi quel che costi.

Qual è l’insegnamento di esperimenti mentali come il trolley problem? Non è che il fine giustifica i mezzi o che, in casi del genere, non dovremmo sentirci in difficoltà a sacrificare una persona per salvarne cinque. Nella situazione reale probabilmente poche persone sarebbero capaci di agire come razionalmente (quasi) tutti sostengono si debba fare. L’insegnamento da trarre, invece, è che bisogna sempre considerare le conseguenze delle azioni anche quando sono in gioco quelli che giustamente consideriamo i valori supremi (come la vita umana). Situazioni come il trolley problem vengono usate per mettere in difficoltà prospettive assolutiste sui diritti (come l’etica kantiana) che, in interpretazioni un po’ letterali e sciocche, non sembrano capaci di giustificare il tirare la leva.

Ragionare su casi come il trolley problem serve anche per capire che i valori assoluti non sono sempre assoluti e che, anzi, possono e devono essere pesati e confrontati con altri valori o con le conseguenze delle azioni. Molti dei pacifisti più visibili nel dibattito pubblico, invece, intendono alcune nozioni (pace, guerra, violenza, armi, intervento) come degli assoluti positivi o negativi. Questo è un problema perché, senza presumere che ci siano i santi e i diavoli, nelle situazioni concrete bisogna distinguere chi è l’aggredito e chi l’aggressore, chi ha maggiori responsabilità e chi minori, chi propone una soluzione accettabile e chi invece vuole soltanto imporsi sugli altri.

La difficoltà di molti pacifisti con questo tipo di ragionamenti deriva dall’incapacità di ragionare sui termini morali (e su altri concetti) come nozioni da confrontare con altre. Abituati a pensare solo in termini di assoluti, trattano i problemi posti dalle situazioni reali come dei casi indicibili, rispetto ai quali non si può letteralmente andare avanti nel ragionamento.

Con ciò non sto dicendo che l’invio di armi non ponga dei problemi (morali, politici, strategici, economici). E nemmeno sto dicendo che tutti dovremmo saltare sul carro entusiasta dell’armamento, senza porre dei dubbi o delle perplessità. Al contrario, dobbiamo porre dubbi e perplessità. Il problema è che nel dibattito pubblico la posizione critica è stata sequestrata dal parlare per (presunti) assoluti, che sono trattati come termini incomparabili con ogni altra cosa. Questioni su cui, letteralmente, non si può ragionare.

Molto più onesto è, invece, chi sostiene che (giustamente) dovremmo essere molto cauti perché dobbiamo avere paura della situazione. Paura dell’escalation. Anche senza mettere sullo stesso piano le due parti, è legittimo esitare ed avere paura proprio perché non è impossibile che si arrivi a un punto in cui il conflitto diventa incontenibile. Paradossalmente, è anche onesto (spudorato?) chi ammette espressamente che non si dovrebbe armare l’Ucraina perché non ce lo possiamo permettere dal punto di vista economico.

La paura e l’interesse economico possono essere delle ragioni poco convincenti o in fondo non definitive. Ma sono plausibili perché si possono confrontare con altre considerazioni. I valori intesi come assoluti no. Per definizione non possono confrontarsi con nient’altro. Ma questioni come la pace, la violenza e la guerra non devono essere intese come assoluti perché ogni situazione è diversa dalle altre per responsabilità delle parti, gravità e possibilità di soluzione. È accettabile la pace del dittatore, ovvero non opporre resistenza se si è certi di dover rinunciare alle proprie libertà democratiche? È permissibile inviare (alcuni tipi di) armi per sostenere questa causa o considerazioni di prudenza e timore di escalation lo sconsigliano? Sono queste le domande a cui dovrebbe dare risposta un pacifista in buona fede. Invece, intendere le questioni come assoluti oscura le differenze, mette tutti sullo stesso piano e in definitiva serve a lavare le coscienze degli assolutisti senza offrire una soluzione né, tanto meno, un contributo al dibattito.

La cosa curiosa del pacifismo assolutista è che sgorga da ambienti intellettuali post-marxisti e cattolici, due aree culturali e filosofiche che invece in passato hanno saputo ragionare su violenza e guerra. La dottrina della guerra giusta è notoriamente di origine cattolica, così come la guerra di liberazione è parte dell’armamentario marxista. Sarebbe bello capire perché il caso attuale, pur con tutti i distinguo, non ricade in queste due fattispecie.

Le ragioni di questa débâcle intellettuale possono essere molte. Tra queste vi è certamente il problema del posizionamento storico e geopolitico. Le cattive interpretazioni del crollo del comunismo sovietico hanno preso malamente sul serio la formula giornalistica della fine della storia, e di conseguenza non ne hanno saputo accettare le conseguenze politiche e morali: ovvero il dovere di saper valutare le questioni politiche in maniera propriamente morale. Il contesto di riferimento comune sia ai post-marxisti sia ai cattolici pacifisti è la mancanza di un chiaro ordinamento storico-politico che stabilisca a priori dove sono i buoni e da che parte collocarsi.

Il problema è che l’attuale guerra in Ucraina non può essere interpretata né come una riedizione in ritardo di un conflitto da guerra fredda, né come l’ennesima guerra imperialistica americana. Non è un conflitto da guerra fredda perché manca lo scontro tra blocchi, dato che il contesto ante-guerra era di gran lunga più integrato materialmente e ideologicamente di quanto lo fosse fino a trent’anni fa. Anche senza metterli sullo stesso piano, i due blocchi ideologici non se la passano tanto bene: la Russia attuale può solo offrire un vergognoso nazionalismo plutocratico, e gli Stati Uniti fanno fatica a presentarsi, come una volta, quali campioni di democrazia e libertà.

Ma non è nemmeno una guerra ascrivibile all’imperialismo americano più recente (come le disastrose avventure in Iraq e Afghanistan) perché il sostegno americano all’Ucraina sta avvenendo in risposta a un’invasione reale e non a seguito di pretesti fabbricati ad arte. Ovviamente ora la creazione del nemico ideologico e l’opposizione dei due blocchi si sta pienamente dispiegando come naturale evoluzione di una situazione di conflitto, senza però che la causa scatenante sia stata creata dall’azione americana. Non possiamo, infatti, credere alla favola dell’attivismo Nato come provocazione che ha legittimato l’intervento russo: se lo facessimo dovremmo accettare che valgono sempre due pesi e due misure e che l’ipersensibilità russa è legittima anche quando è pretestuosa.

Dire che la situazione attuale è diversa da Iraq e Afghanistan, così come è diversa dai conflitti della guerra fredda, non deve far pensare che si condoni qualsiasi azione all’azione statunitense. Ma il rimanere vigili di fronte ad eventuali abusi da parte occidentale è un dovere che si può esercitare solo se l’atteggiamento critico non si pone pretestuosamente come tale.

Quindi l’attuale parata pacifista è il lontano risultato di una storia lunga e complessa. Ma il rifiuto di saper adeguare il proprio armamentario concettuale e morale ha prodotto il peggior esito: l’assolutismo moralista di due prospettive (post-marxismo e cattolicesimo) che invece avevano nella propria storia la capacità di mediare rivendicazioni di principio con l’analisi concreta della storia. Invece gli intellettuali che giocano questo ruolo prendono solo la posa delle proprie tradizioni di riferimento senza prenderne la sostanza. I risultati sono un atteggiamento critico senza presa sul reale e un’opposizione di principio che vuole essere disarmata solo per mostrarsi superiore.

Il trolley problem sarà anche un artificio filosofico, un esperimento accademico troppo facile da pensare e impossibile da realizzare. Ma ci costringe a prendere una posizione difficile, dato che sacrificare una vita non è mai facile. Astenersi dal prendere una posizione non lava la coscienza nel trolley problem e neanche nella vita reale.

di Federico Zuolo per https://www.valigiablu.it#Disociale

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Dispensa

In questi giorni tesi e plumbei, preludio di altri giorni, mesi e anni difficili, per i contraccolpi che la guerra inevitabilmente avrà – sta già avendo – sulla vita di milioni di persone anche al di là dei luoghi in cui oggi si combatte (la crisi alimentare in Africa, la recessione in Europa, l’intensificarsi dei flussi di profughi e migranti economici), mi sono venute in mente alcune riflessioni di Miguel Benasayag, contenute in un’intervista intitolata Resistere in un’epoca oscura (pubblicata come appendice al Discorso della servitù volontaria, a cura di E. Donaggio, Feltrinelli, 2014).

Benasayag è uno psicoanalista e filosofo che ha vissuto la prima parte della propria vita in Argentina, sotto la dittatura. Ha partecipato alla guerriglia, è stato catturato, torturato, ha scontato diversi anni di carcere. Quando parla di “epoca oscura” non pensa però a quel periodo della sua vita, ma a quello successivo. Alla Francia, dove approda dopo essere stato liberato grazie a uno scambio di prigionieri, all’Europa democratica dei nostri anni. Vivere sotto una dittatura – ci dice – significa trovarsi di fronte a scelte drammatiche, ma tutto sommato chiare. “Facili” (con tutte le virgolette del caso). Le epoche oscure sono, invece, quelle in cui la linea di demarcazione tra il bene e il male sfuma, il “nemico” non è nettamente individuabile, la tentazione al conformismo è forte. Paradossalmente – ci dice Benasayag – rimanere fermi nelle proprie convinzioni in queste condizioni è più difficile che opporsi al fascismo conclamato. Pensiamo alla difficoltà di resistere alle logiche della società capitalistica, mortifere, ma al tempo stesso avvolgenti, seduttive, affascinanti. Da cui è facile essere attratti, e di cui è (quasi) fatale ritrovarsi complici. Se pensiamo alla nostra vita di ieri, alla “normalità” pre-covid e pre-guerra in Ucraina, possiamo senz’altro dire che ci trovavamo, più o meno (s)comodamente, immersi in un’epoca oscura: senza montagne da scalare, senza rivoluzioni all’orizzonte, senza (quasi) prospettive. In cui la domanda “che fare?”, in chi ancora nutriva qualche velleità di emancipazione politica, non poteva che dar luogo a mesti ragionamenti sul seminare oggi per raccogliere chissà quando…

Poi il mondo è cambiato. La Storia – di cui era stata decretata la fine – ha subito un’accelerazione, si è messa a correre e a prendere una piega (brutta) che mai avremmo immaginato. E, se non altro, tutto sembra più chiaro: i buoni e i cattivi, il bianco e il nero, la parte con cui schierarsi. In una guerra “giusta”, in difesa della democrazia e contro il dispotismo. Oppure nella lotta contro tutte le guerre e l’economia di guerra, in un contesto che aprirebbe spazi inediti alla “sinistra non omologata”, candidata a farsi interprete della diffusa aspirazione alla pace dei popoli. L’inizio di una nuova epoca luminosa, dunque? Che nel linguaggio di Benasayag non significa meno drammatica o meno pericolosa (anzi!), ma più leggibile nelle sue alternative di fondo, più chiara, più aperta al cambiamento… Dalle parole di Benasayag, in realtà, emergono anche i pericoli che portano con sé le epoche luminose. Primo fra tutti, l’accecamento: «Nell’epoca luminosa non puoi evitare di diventare idiota: tutto sembra talmente semplice! Un organismo sociale, nella sua storia, ha bisogno di entrambe le cose, dunque anche di epoche oscure, perché non sono tempi di pura negatività. Sono epoche di elaborazione profonda. Dopo, quando tornerà un’epoca luminosa, sappiamo bene quello che accadrà: settembre 1944, tutti contenti, tutti partigiani e resistenti – e ci si dimenticherà di noi. Ma non ce ne preoccupiamo troppo. Il nostro lavoro è resistere in un’epoca oscura» (p. 88).

Lungi da me la pretesa di fornire un’interpretazione in chiave “epocale” dei giorni che stiamo vivendo. Due sole osservazioni a margine di questo testo. La prima: quello che sicuramente serve oggi, nel chiaro-scuro in cui siamo immersi, è resistere alla tentazione della semplificazione, della superficialità, dell’“arruolamento delle parole” a servizio dell’uno o dell’altro fronte. Ciò che Bobbio scriveva quasi settant’anni fa sul dovere dell’intellettuale di «seminare dubbi», anziché «raccogliere certezze», di «valutare tutti gli argomenti prima di pronunciarsi, controllare tutte le testimonianze prima di decidere, e non pronunciarsi e non decidere mai a guisa di oracolo dal quale dipenda, in modo irrevocabile, una scelta perentoria e definitiva» conserva – mi sembra – tutto il suo valore (Politica e cultura, Einaudi, p. 15).

Seconda osservazione: se è vero che i sondaggi oggi certificano l’esistenza di una maggioranza di italiani contraria alla guerra (o meglio, contraria all’invio di armi pesanti all’Ucraina), ciò non si sta traducendo in una mobilitazione diffusa per la costruzione di un’alternativa. Le assemblee, i presidi, le manifestazioni che alcuni di noi stanno contribuendo a organizzare e animare, affollate due mesi fa, non vedono oggi la partecipazione delle masse. Alcuni mondi prima scarsamente comunicanti si mescolano e può accadere che all’iniziativa promossa da un gruppo religioso si incontrino il militante di Rifondazione comunista e gli scout. Ma, alla fine, a muoversi sono coloro che già prima erano attenti, informati, disponibili a una qualche forma di impegno. Nulla di nuovo, né di inspiegabile. Ma ciò ci dice della necessità di quel lavoro lungo e faticoso di elaborazione, costruzione di pratiche, intreccio di relazioni, che è compito precipuo delle “epoche oscure”.

di: Valentina Pazé per https://volerelaluna.it – (10/05/2022) #Disociale

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Dispensa Corsi e ricorsi storici. Ecco per dire…

  1. Principio della semplificazione e del nemico unico. E’ necessario adottare una sola idea, un unico simbolo. E, soprattutto, identificare l’avversario in un nemico, nell’unico responsabile di tutti i mali.

  2. Principio del metodo del contagio. Riunire diversi avversari in una sola categoria o in un solo individuo.

  3. Principio della trasposizione. Caricare sull’avversario i propri errori e difetti, rispondendo all’attacco con l’attacco. Se non puoi negare le cattive notizie, inventane di nuove per distrarre.

  4. Principio dell’esagerazione e del travisamento. Trasformare qualunque aneddoto, per piccolo che sia, in minaccia grave.

  5. Principio della volgarizzazione. Tutta la propaganda deve essere popolare, adattando il suo livello al meno intelligente degli individui ai quali va diretta. Quanto più è grande la massa da convincere, più piccolo deve essere lo sforzo mentale da realizzare. La capacità ricettiva delle masse è limitata e la loro comprensione media scarsa, così come la loro memoria.

  6. Principio di orchestrazione. La propaganda deve limitarsi a un piccolo numero di idee e ripeterle instancabilmente, presentarle sempre sotto diverse prospettive, ma convergendo sempre sullo stesso concetto. Senza dubbi o incertezze. Da qui proviene anche la frase: “Una menzogna ripetuta all’infinito diventa la verità”.

  7. Principio del continuo rinnovamento. Occorre emettere costantemente informazioni e argomenti nuovi (anche non strettamente pertinenti) a un tale ritmo che, quando l’avversario risponda, il pubblico sia già interessato ad altre cose. Le risposte dell’avversario non devono mai avere la possibilità di fermare il livello crescente delle accuse.

  8. Principio della verosimiglianza. Costruire argomenti fittizi a partire da fonti diverse, attraverso i cosiddetti palloni sonda, o attraverso informazioni frammentarie.

  9. Principio del silenziamento. Passare sotto silenzio le domande sulle quali non ci sono argomenti e dissimulare le notizie che favoriscono l’avversario.

  10. Principio della trasfusione. Come regola generale, la propaganda opera sempre a partire da un substrato precedente, si tratti di una mitologia nazionale o un complesso di odi e pregiudizi tradizionali. Si tratta di diffondere argomenti che possano mettere le radici in atteggiamenti primitivi.

  11. Principio dell’unanimità. Portare la gente a credere che le opinioni espresse siano condivise da tutti, creando una falsa impressione di unanimità.

Fonte: https://www.lasinistraquotidiana.it/ #Disociale

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