Gippo

Gippo – Un blog gestito dal Comitato Yamashita

Vi è mai capitato di leggere un titolo in cui si annuncia la fine di un fenomeno che è andato per la maggiore in passato e ora non è più tanto sulla cresta dell'onda?

A me questi articoli piacciono molto. Ricordo ad esempio “Il blog è morto, viva il blog!”. Mi piacciono talmente tanto queste riflessioni che le cerco proprio nel motore di ricerca: Facebook è morto, Twitter è morto, Internet è morto, Bitcoin è morto ecc.

Come mai questa morbosa attenzione verso la fine dei fenomeni alla moda? Credo che si tratti di un processo di elaborazione del lutto: si attesta definitivamente il decesso per passare oltre. E talvolta la fretta di attestare il decesso nasconde la gran voglia di passare oltre, oppure, più semplicemente, la curiosità di capire cosa viene dopo, chi o cosa prenderà il posto del defunto. Ovviamente ho cercato anche il necrologio del videogioco.

Dire oggi che il videogioco è morto – su questo sono d'accordo tutti – non equivale a dire che nessuno gioca più ai videogame. E' però la constatazione della crisi creativa che ha investito questo media e, in parte, anche la definitiva attestazione del fatto che è rimasto subordinato ad altri media dei quali sembrava dovesse prendere il posto. Di seguito vorrei quindi spiegare le due ragioni per le quali secondo me il videogioco è morto.

1. Non nascono più nuove cose

Ho letto su un forum in inglese (a proposito: il forum è morto, viva il forum!) l'osservazione di un utente il quale sosteneva che il videogioco, inteso come media creativo, fosse morto nel 2007. Cioè dal 2007 in poi è andata sempre peggio, nessuna novità, niente che facesse battere il cuore, fine dell'hype. Non so cosa abbia indotto questo utente a collocare in quella data il decesso ma le sue osservazioni collimano in modo quasi sorprendente con le mie. Io colloco la fine della curiosità nei confronti del mondo videoludico proprio a cavallo tra il 2007 e il 2008 (e anche se non gliene frega niente a nessuno, rivelerò che quegli anni sono stati a mio avviso decisivi sia a livello personale, sia per la storia dell'umanità, anche se molti non se ne sono del tutto resi conto). Nel mio caso la fine della curiosità ha assunto il nome di un gioco ben preciso: “Spore” di Will Wright (quello di SimCity). Uscito nel 2008 aveva risvegliato l'hype per via del fatto che si era presentato inizialmente come un “simulatore di evoluzione”, un videogioco quindi ambiziosissimo. Tuttavia, una volta viste le prime schermate, mi sono subito reso conto che era una robina troppo carina graficamente per assolvere il suo compito di rivoluzionario simulatore dell'evoluzione. Verso la metà degli anni '00 il videogioco assume una forma ben codificata. Questa forma diviene sostanza. La rivoluzione indie proverà a cambiare qualcosa ma il suo unico scopo sarà, alla fine, trovare una nuova forma, una diversa stilizzazione. Io non dubito che piccoli geniacci del game development creino anche oggi delle gemme nascoste ma il punto è proprio questo: le gemme restano nascoste, hanno un'ambizione limitata, attestano una generale saturazione degli spazi creativi e riempiono solo quelle piccole nicchie lasciate scoperte. Ormai è stato tutto esplorato e l'unica cosa che rimane da fare è solo qualche remake o enhanced edition.

2. Il videogioco ha perso contro altri media di più immediata fruizione

Lessi una volta un'intervista dello sviluppatore Chris Taylor (Total Annihilation e Dungeon Siege). Parlando di nuove idee, diceva al giornalista che secondo lui era stato lasciato inesplorato un particolare settore videoludico: quello dei giochi da praticare “rilassati”, ad esempio mentre stai facendo qualcos'altro tipo guidare il trattorino falciaerba. Anche qui ci troviamo intorno alla metà degli anni '00. Gli “idle game” sullo smartphone dovevano ancora venire, quindi onore al merito per l'intuizione. Però il punto è un altro. Se dobbiamo giocare per rilassarci e distrarci, magari per spegnere il cervello... beh, ci sono media che lo fanno meglio. La TV ad esempio. Da quando ho conosciuto la potenzialità del videogioco, l'ho sempre considerata come una cosa vecchia, destinata ad essere soppiantata. Il videogioco ha l'interattività! – mi dicevo. Sbagliavo. L'ho cominciato a capire quando la gente ha preso a commentare con gli hashtag televisivi su Twitter. Anche la TV ha acquistato (pur di riflesso) l'interattività ed è stata una interattività molto più libera e aperta grazie ai social. O meglio: è stata un'illusione di interattività molto più coinvolgente per chi aveva voglia di spegnere il cervello. Poi si è passati di recente alla libertà di scegliere la propria serie preferita fra un numero sterminato di serie TV. Parliamoci chiaro: le serie televisive odierne creano molto più hype di un qualsiasi videogioco (no, non cito Squid Game). Spararsi una puntata è molto più rilassante che superare un quadro. Non so se è mai stato detto: internet è diventato un alleato della Tv e un nemico dei videogiochi. Di quelli single player sicuramente.

Cosa viene adesso?

Cosa c'è dopo il videogioco? Sempre il videogioco. Gli sviluppatori indipendenti o mainstream continuano a produrre e sfornare giochi e la gente continua giocarli. Non voglio nemmeno accennare a quale forma obbrobriosa si debbano conformare oggi i progetti videoludici per poter avere una minima possibilità economica.

Forse personalmente pago la mia formazione antica e demodé. Per me il videogioco era quando mi compravano PC Game Parade. Leggevo di tutti i nuovi giochi e sbavavo di fronte alle schermate sulla rivista. Provavo le demo e speravo di trovare un modo per sbloccare con un hack una sottospecie di gioco completo, operando con l'editor esadecimale. Per me il gioco è sempre stato attesa, speranza, immaginazione. Pensavo: chissà se un giorno sarò talmente ricco da potermeli comprare tutti?

Beh, quel momento è arrivato. Sono talmente ricco da potermeli comprare tutti (poco conta che siano tutti abandonware gratuiti, tutti software scaricabili illegalmente o tutti titoli acquistabili a modico prezzo) ma non ho il tempo, la voglia, la curiosità, la fantasia di giocarli. Sì, ripensandoci il videogioco è proprio morto. Grazie per i bei momenti vissuti assieme. Da domani mi occupo di uncinetto.

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Quella che segue è una storia a fumetti che ho postato in un altro sito...

USAGI (SAILOR MOON) E MARIO DRAGHI: L'INIZIO DI UN AMORE?

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Usagi (Sailor Moon) e il nostro premier Mario Draghi si guardano sorridenti. Io vedo complicità nell'aria e voi? Forse è la nascita di una tenera e improbabile amicizia...

USAGI E MARIO DRAGHI: PICNIC E INSICUREZZE

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L'intesa tra i due cresce: difatti hanno deciso di fare un picnic assieme per conoscersi meglio. I due presto assumono teneri atteggiamenti che lasciano intendere qualcosa di più di un'amicizia... Ma si sa, la strada dell'amore è costeggiata di dubbi e gelosie. Forse memore di passate brucianti esperienze, Usagi esprime le sue insicurezze di ragazza che si confronta con le sue coetanee. Mario Draghi, in un certo senso la rassicura... Ma sono le sue parole del tutto sincere?

USAGI E MARIO DRAGHI: IL TRIANGOLO NO!

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Usagi e Mario Draghi sono finalmente una coppia! Il sabato pomeriggio lo trascorrono al centro cittadino passeggiando in su e in giù, salutando conoscenti, osservando vetrine mentre lei fa progetti e lui annuisce, come una qualsiasi coppia di fidanzati. Tuttavia Usagi continua ad avere il tarlo della gelosia. E questo tarlo ha un nome, un volto, una faccia e un abito da combattente alla marinara: Sailor Mercury! Ma cosa vuole quella smorfiosa? D'altronde nemmeno Mario Draghi sembra del tutto indifferente... Tag “Netorare” in vista?

USAGI E MARIO DRAGHI: CHE BARBA CHE NOIA, CHE NOIA CHE BARBA

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La relazione tra Usagi e Mario Draghi diventa matura. Ora sono una coppia vera, che vive ormai insieme! Potremmo chiamarli gli Usaghi o i Dragi (alla maniera dei Ferragnez) avendo cura di differenziare la pronuncia in giapponese o in italiano per distinguerla da quella dei cognomi singoli. Certo, la convivenza non è tutta rose e fiori e la stanchezza è sempre dietro l'angolo! Lui passa troppo tempo col cellulare in mano (è per lavoro, dice) e lei, come al solito, è gelosa. Ma noi auguriamo loro di andare avanti e di avere una vita felice assieme, a dispetto delle difficoltà e delle perplessità altrui. Specie quelle di certe gatte nere...

FINE

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Con la pandemia ho scoperto il filosofo Giorgio Agamben, che ha mostrato, fra i pochi e fra i primi, un profilo critico nei confronti della gestione della pandemia, soprattutto per quanto riguarda la limitazione delle libertà. Il suo modo di scrivere mi è subito piaciuto, il che non vuol dire che approvi tutto quello che ha scritto nè tantomeno che ne condivida l'approccio filosofico. Però mi piace molto il modo in cui argomenta e ho letto tutti i suoi passati post, anche quelli pre-pandemia. Il fatto che racconti cose interessanti si evince dagli spunti che ne ho ricavato per le mie curiose ricerche sul web. Ad esempio ha citato un antropologo olandese che mi ha portato dritto dritto ad una teoria di Mauro Biglino (sì, quello che dice che nella Bibbia si descrivono gli alieni Elohim e non Dio, ma la teoria in questione è diversa e molto più interessante). Oppure mi ha portato ad approfondire la questione della Tecnica come forza totalitaria, da cui le letture (parziali) di Jacques Ellul.

Perché allora oggi cito Agamben? Perché in uno dei suo post c'è lo spunto per il mio post odierno. Dice il filosofo: troppo rapidamente abbiamo sostituito la nostra cultura contadina millenaria con la cultura della fabbrica e dell'operaio. Io dico che ha ragione ma non perché la cultura contadina andava salvata in toto o parzialmente: difatti la trovo insopportabilmente retrograda e servile, asfissiante a dispetto degli spazi aperti della campagna. Con il tempo ho sempre più idiosincrasie nei confronti della cultura in genere, poiché spesso, come dice Henri Laborit, è la cultura dei dominanti sui dominati. Però, al di là della cultura contadina, è l'accettazione troppo rapida di quella industriale e (sì, mi tocca dirlo) capitalista che va stigmatizzato. E c'è un motivo molto valido per dire questo: perché la stessa rapidità con la quale è stata adottata questa nuova cultura non corrisponde alla velocità con cui oggi essa viene “mollata”, smobilizzata, abbandonata, a causa del suo fallimento imminente. Negli anni 50 del secolo scorso, si poteva diventare impiegati del catasto, impiegati di banca, fumettisti, cantanti, piccoli o medi imprenditori e, col raggiungimento dell'obiettivo, che era comunque difficile da conseguire (ma in certi casi un po' meno) si era sicuri di conservare la posizione per tutta la vita. Oggi è tutto un girare, un ricercare, un affannarsi, un sapere/saper-fare/saper-essere, un turbinio di occasioni da cogliere che durano lo spazio di un soffio. Oggi mancano i soldi un po' dappertutto. Perché i tempi sono rapidi e le cose vanno in malora in fretta. E allora... Quanto tempo deve ancora passare prima che la massa di persone che dovrebbe collaborare al raggiungimento degli obiettivi della società si rompa definitivamente le scatole e si sieda in panciolle o si metta a spacciar droga o decida di vivacchiare ai margini delle istituzioni e della burocrazia? Poco, davvero. Già ora esiste una forbice che si allarga sempre più tra chi sta dentro e chi sta fuori. E tanti giovani scelgono volontariamente di stare fuori. Ma anche tanti anziani. Si lasciano andare, non si interessano di burocrazia incomprensibile, nè di tecnologie a loro astruse.

Per la verità, tutte queste riflessioni mi erano venute in mente osservando la mia libreria di videogiochi. Tanti DVD degli anni '00 di questo millennio. Ho pensato che un tempo c'erano delle aziende che creavano i videogiochi. Beh, ci sono ancora oggi ma... boh, non so, mi sembra tutto cambiato troppo in fretta. C'ho un po' voglia di tirarmi fuori ma mica te lo consentono... Ma soprattutto è una domanda quella che tutti si pongono: Cosa c'è fuori?

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L'estate è finita. Dice un vecchietto alla fine del manga “Touch” da cui è stato tratto il cartone animato “Prendi il mondo e vai”: “Come li invidio i giovani, amano e vengono amati, lasciano e vengono lasciati ma per loro l'estate arriva sempre, più e più volte...”

Ecco, questa estate è passata, un anno se ne va, sto diventando grande ecc. Ho già parlato del fatto che questa estate ho rivisto “I laureati” di Pieraccioni e ho anche accennato con un racconto fantastico alla mia vaccinazione, adesso è venuto il momento di parlare d'altro.

Paperissima sprint

Quest'anno, per la prima volta, ho visto tutte le sere “Paperissima sprint”. Lo voglio scrivere perché da lunedì ricomincerà “Striscia la notizia” che non mi piace affatto. Ma ho scoperto che “Paperissima sprint” è invece una trasmissione bellissima! Ho anche scoperto per la prima volta le veline e Brumotti, mentre il Gabibbo lo conoscevo già.

Amilcareee?! Dobbiamo stare vicini vicini... Capoccione! Momenti da... briiiividooo!!!

Le veline sono due, una mora e una bionda. Non è che siano delle ragazze che come le vedi fai esclamazioni libidinose però con il tempo ho imparato ad apprezzarle. La bionda, che poi è tinta, in realtà ha origini africane, è una peperina ricca di energia in tutto ciò che fa e dice mentre la mora ha una bella eleganza, sia nelle movenze, sia nelle espressioni, sia nella voce, sempre vellutata e mai sguaiata. In questo scenario anche Brumotti, il funambolo ciclista, risulta simpatico. Per il resto, non credo che debba spiegare come funziona Paperissima: si succedono uno dietro l'altro una serie di filmati a base di comportamenti buffi di animali o bambini oppure “epic fail”, gente che salta, si tuffa, prova evoluzioni o acrobazie varie che, immancabilmente, finiscono in modo catastrofico ma divertente. I filmati si susseguono incalzanti, interrotti solo da un paio di sketch comici col Gabibbo, Brumotti, Shaila e Mikaela, gag veramente stupide ma in senso buono, c'è una generale consapevolezza della loro stupidità senza però quel nocivo compiacimento di chi vuol fare il trash a tutti i costi. Inutile dire che la ragion d'essere principale sono i filmati ma anche il contesto e la confezione sono coerenti e piacevoli. E, a proposito dei filmati, li ho guardati con divertimento ma mi sono anche fatto contagiare un po' dalla leggerezza che trasmettono per via dell'ambientazione tipica. Lo scenario base, salvo rare eccezioni, è quello della vacanza e del tempo libero, deltaplani, sci d'acqua, skateboard, tuffi. Spesso gli scenari sono tipicamente americani, grandi case su viali alberati, aria da telefilm anni 80-90. Oppure mare, spiaggia, sole. Non ci sono connotazioni sessuali ma talvolta si vedono delle belle ragazze. Spesso si susseguono serie di clip tematiche: disastri sotto l'albero di natale, scivoloni in piscina, incidenti nelle gare di bici. Le voci di commento sono fondamentali, se ci si pensa, ma in realtà, se non si è come me che devo fare un post su Paperissima, non ci si pensa affatto, si integrano alla perfezione. Mi è davvero piaciuto quest'anno Paperissima. Purtroppo però da domani non andrà più in onda e anche le veline cambieranno definitivamente.

L'estate dei ricordi

E così, con la fine dell'estate, mi è venuto in mente che avevo fatto una visual novel e che era ambientata in quel paesaggio chiamato estate. Un paesaggio che da un po' di anni a questa parte mi è cominciato a mancare. Vorrei fare con Jerry Calà un paio di discorsi sull'estate, lui si reputa un vero e proprio professionista di questa stagione, in un certo senso ha scelto di associarvi la sua vita professionale. Non solo ha girato una serie di film vacanzieri ma ha coniato una battuta che mi rimbalza in testa ad ogni bella stagione: “Che estate di merda... parliamone!”. Poi ha anche girato un film ambientato in Costa Smeralda e chiamato “Vita Smeralda” che è una specie di inno all'estate così come l'ha conosciuta lui: in pratica a trombare e a far festa con l'amico Umberto Smaila. Ci sono anche lì un paio di frasi significative, talmente significative che Calà le ribadisce con scritta in sovraimpressione alla fine del film, tipo che l'estate non è una stagione ma uno stato mentale o che in estate avviene tutto più velocemente. Francamente non me le ricordo perfettamente e non ho voglia di ricercarle, perché adesso, forse, è il caso che parli della mia estate fantastica: “L'estate dei ricordi”. Appunto.

L'estate dei ricordi

Credo fosse il 2003. Ma di sicuro mi sbaglio. Avevo comprato Darkbasic in una libreria. Un Dvd con il linguaggio per programmare i videogiochi. Poi avevo scaricato la mia prima visual novel. Era un po' zozza in effetti: “Three sisters”. Era la classica visual novel giapponese, un po' “harem” (cioè con un sacco di ragazze con cui copulare) e ammetto di essere rimasto molto colpito. Non tanto per i disegni zozzi o le situazioni erotiche quanto per la capacità dell'autore di mischiare un registro alto (il thriller, i buoni sentimenti, la trama incalzante) con un registro più basso (essenzialmente le scopate). E poi mi era piaciuto moltissimo il modo in cui le immagini statiche, brutte in effetti, si mischiavano bene con i file midi della musica e con il testo, creando un'esperienza non troppo diversa da quella cinematografica ma decisamente più a buon mercato e alla mia portata. Ecco perché, con la mia copia di Darkbasic in mano, mi misi subito a programmare un motore per visual novel. E una volta programmato, a differenza di quanto sarebbe avvenuto negli anni a venire, mi misi subito a creare un contenuto valido per metterlo in moto, il fottuto motore. Era così, con questa ispirazione, che era nata “L'estate dei ricordi”, il cui inizio citava un po' l'incipit di “Three sisters”, evocando subito quel sentimento così inscindibilmente collegato all'estate: la nostalgia.

Altre estati, altri tempi

Ma non c'era solo questo. Erano altri tempi, con una diversa speranza. Sapevamo tutti che l'informatica sarebbe stata la vincitrice e dovevamo solo capire come sfruttare questa profezia facile facile. A me sarebbe piaciuto creare un videogioco di successo, non necessariamente nel garage di casa. La visual novel poteva essere una strada interessante, mi piaceva scrivere ma a quei tempi non ero capace di disegnare. Chissà, forse ho imparato per potermi autoprodurre il materiale per quella visual novel. Fatto sta che mi buttai sulla storia. Una storia fantascientifica, senza trascurare però l'harem con cui copulare. Alla fine la completai, anche se presi un po' troppo gusto alla narrativa delle scopate. La salvai su un hard disk, che poi cascò e si ruppe. Ma un paio di anni fa mi ritrovai una copia di backup su un Cd, solo che quel Cd non aveva la copia completa ma solo il lavoro fatto a metà. Però, adesso che ci penso, questo paragrafo si chiama “Altre estati, altri tempi” e sto chiaramente andando fuori tema.

Altre estati, altri tempi (2)

L'entusiasmo con cui avevo completato quella visual novel mi ha fatto pensare alla passione dei videogiochi dell'adolescenza. Perché – mi chiedevo quando ero più giovane – perché le persone quando raggiungono una certa età non sono più in grado di apprezzare i videogiochi? Perché diventano così prosaiche e pragmatiche da ritenere i videogiochi una perdita di tempo? In realtà bisognerebbe farsi un'altra domanda cioè: perché ai giovani i videogiochi piacciono tanto? Così mi sono messo a pensare al gioco più assurdo a cui ho giocato: “Tornado” della Digital Integration. Basta dire che per poter volare con quel simulatore di volo bisognava considerare le tre configurazioni dell'apertura alare e selezionarle a seconda della velocità espressa in nodi. Cioè, dovevo avere sottomano (o ricordare a memoria) uno specchietto da cui, verificando la velocità, avevo informazioni su quanto tenere aperte le ali dell'aereo. Perché perdere tutto quel tempo e quella concentrazione per quella inutile complicazione? E perché oggi non ci riuscirei più? Semplice, quando giocavo a Tornado, ancora non ero sicuro del fatto che non avrei mai guidato nella mia vita un esemplare di quell'aereo. Così come non ero ancora sicuro, quando giocavo ad Hardball 5, che non avrei mai giocato a baseball. Così come quando giocavo a Great Courts 2 non potevo prevedere (e come avrei potuto?) che non sarei mai diventato un campione di tennis.

L'imbuto

Diceva un mio amico che la vita è come un imbuto e pian piano le possibilità si stringono come le sue pareti e vieni trascinato giù. L'ho sempre rifiutata come una visione pessimista e deprimente ma ammetto che c'è del vero. E così, tornando all'Estate dei Ricordi, avrei voluto riprenderla in mano, col mio metodo Kaizen, e portarla avanti tra flessioni e righe di storia. Ma non funziona così. Sto ad un punto diverso dell'imbuto e non ho quell'entusiasmo, quell'oceano di possibilità che mi si spalancava tanti anni fa, quando la scrissi tutta di getto. Ma sono ottimista e non credo alla metafora dell'imbuto. Se l'oceano si trasforma in uno stretto mulinello, credo che si debba cambiare oceano.

Pieraccioni aveva ragione

Ragion per cui, amici, non scriverò più la storia de “L'estate dei ricordi” così come mi ero imposto di farlo. Non lo farò, ma non perché il mondo è saturo di videogiochi o perché questo oceano informatico è diventato un piccolo gorgo asfittico. Non lo farò perché è giusto dar ragione a Pieraccioni. Pensavo di sfangarla, di essere diverso da lui ma alla fine siamo animi affini, proprio in quanto esseri umani di mezza età. Non tutti infatti hanno la forza d'animo di Jerry Calà (e la sua libidine!). E sento, qui ed ora, la voce del mio mentore toscano che risuona un po' paternalistica, mentre si rivolge ai suoi coinquilini che non vogliono crescere (e indirettamente anche a me) quasi alla fine de “I laureati”:

“Ragazzi, basta con la ricreazione. La campanella... DLENDLENDLENDLEN! ...e l'è bella che sonàta!”

Hai ragione Leonardo, scusa, non si scappa a questo momento. Scusa anche perché non ricordo se facevi DLENDLENDLEN o DRINDRINDRIN ma ho rivisto “I laureati” già quest'estate e per ora non me la sento di rivederlo.

Alla prossima estate, bischeri!

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E così l'altro giorno sono andato a farmi la terza dose di vaccino per poter aggiornare il Green Pass. Giunto al centro vaccinale non vedo molta gente, ci sono solo alcuni ragazzi e qualche ragazza. Col foglio della mia prenotazione, mi presento di fronte ad un'infermiera molto giovane e carina, con la divisa tutta rosa e una scollatura a forma di cuore al centro del petto. Sakura

Per un attimo mi chiedo se non sia una cosplayer piuttosto che un'infermiera. Lei sembra leggere le mie perplessità e mi mostra un tesserino sorridendomi, strizzando l'occhio e passandosi velocemente la punta della lingua lungo tutta l'arcata del labbro superiore. Le sorrido anch'io pure se i dubbi mi rimangono, ma solo nel subconscio. “Allora” mi dice “terza dose, giusto? Che vaccino vuole stavolta?” “Dunque” rispondo “alle prime due ho preso Pfizer che praticamente è il vaccino di Bill Gates, a questo turno lei cosa mi consiglia?” “Che ne dice di questo nuovissimo vaccino israeliano? Gli israeliani fanno sempre molto figo quando si tratta robe all'avanguardia, specie se uno pensa che il mondo sia dominato da una elite pluto-giudaico-massonica. L'esercito israeliano è una macchina da guerra micidiale. Il Krav Maga è una tecnica militare terribile e letale che pratica pure la Canalis. Il Mossad conosce tutto e tutti e influenza i maggiori eventi mondiali. Poi, a tempo perso, usano pure i golem e hanno un contatto privilegiato con Dio, che, come ci spiega Biglino, in realtà sono gli Elohim cioè gli alieni.” “No, grazie, io sono un sincero democratico e penso che gli israeliani non siano diversi da tutti gli altri stronzi che ci sono in giro nel mondo.” “Ah, ma lei è un democratico ma anche un disincantato!” replica l'infermiera, notando la crudezza del termine utilizzato per designare genericamente l'assemblea globale delle nazioni. “Da un po' di tempo a questa parte mi fido solo della scienza e dei numeri. Analizzando tutti i protocolli sanitari di tutti i vaccini esistenti al mondo, la mia scelta cadrebbe oggi sul misconosciuto vaccino del Camerun.” “Wow!” “Ho qualche dubbio sull'indipendenza dei loro analisti sanitari, anche alla luce della subdola propaganda del loro dittatore pluridecennale Paul Biya, ma chi sono io per giudicarli dopo aver visto all'opera Rocco Casalino?” “Non è certo un vaccino molto popolare...” “Credo che la sua diffusione a livello mediatico sia stata frenata soprattutto da ragioni di marketing: difatti il nome 'Bingo Bongo' non ispira di suo particolare fiducia.” “Già, è un po' come tentare di vendere negli Stati Uniti un vaccino russo chiamato 'Sputnik'!” “Ehi, questo è già stato fatto!” “Ah sì, è vero...” Restiamo per un po' in silenzio, poi l'infermiera rompe gli indugi e caccia da un frigorifero una fialetta di vaccino 'Bingo Bongo'. Quindi estrae il liquido verdastro che c'è all'interno con una siringa. Vedendomi nervoso, l'infermiera allarga un po' con la mano la scollatura a forma di cuore di modo che, sbirciandone un capezzolo, possa tranquillizzarmi. La cosa funziona, così può procedere coll'infilarmi l'ago nello spazio fra le sopracciglia, nel chakra del terzo occhio. “Ho dimenticato di dirle i possibili effetti collaterali e reazioni avverse, comunque ho visto che era abbastanza informato in merito...” “So benissimo che potrei sperimentare allucinazioni aventi come protagonista qualche divinità trickster della tradizione animista africana.” “Esatto, se accade non si preoccupi, è tutto normale.” “Certo...” “Ad ogni modo una mia amica ha fatto un vaccino pellerossa ed ha subìto la visita di una divinità trickster indiana, tale Kokopelli, associato alla fertilità, che l'ha messa incinta.” “Sono sicuro che i costi superino comunque i benefici.” “Certamente! Ora si accomodi là e attenda quindici minuti. Poi torni di nuovo qua.” “Come mai?” chiedo preoccupato. Ricordavo delle prime due dosi che dopo i quindici minuti in attesa di effetti avversi, in assenza di problemi si poteva andar via direttamente. “Sorpresa!” mi risponde l'infermiera strizzandomi di nuovo l'occhio e facendo una conturbante linguetta. Mi accomodo fiducioso. Attesi i quindici minuti di rito, torno dall'infermiera. “Qualche reazione particolare?” mi chiede lei. “Beh, non so se si è trattato di un'allucinazione, sembrava così reale... comunque lo spirito del fiume Benue mi ha portato con sè oltre le nuvole e mi ha mostrato i futuri domini del presidente Paul Biya: il Camerun governerà su tutte le nazioni del mondo!” “Ed... ecco... lo spirito del fiume Benue le ha per caso asportato la milza?” “Mio Dio, no!” “Generalmente è la prima cosa che fa quando trasporta qualcuno sopra le nuvole” “N-non lo sapevo, se lo avessi saputo...” “E' un effetto collaterale che conosciamo in pochi. Mi scusi, non gliel'ho detto perché magari ci poteva ripensare!” “Certo che ci avrei ripensato!” “Ma la milza è inutile!” “Ma che discorsi sono!” L'infermiera capisce di averla fatta grossa. Per farsi perdonare si solleva leggermente la divisa, mostrando delle mutandine semitrasparenti. Quando cambia discorso, mi sono già dimenticato tutto. “Arriviamo ora alla sorpresa!” dice tutta giuliva “Con la terza dose il Green Pass glielo aggiorniamo direttamente noi e non deve ricevere SMS nè compilare moduli online, nè stampare astrusi file pdf!” “Ma veramente non è che la cosa mi desse così tanti grattacapi...” dico un po' deluso, aspettandomi una sorpresa più piacevole. “Lei è un osso duro” ribatte chinandosi sulla mia guancia e leccandomela lascivamente. “Molto duro...” aggiunge passando una mano birichina tra le mie gambe. “O-ok, è una bellissima sopresa!” dico. Tutta sorridente mi porge un Green Pass già avvolto in una plastichina trasparente. Gli do uno sguardo volante. “Ehi, qui non c'è scritto da nessuna parte che si tratta di un certificato di vaccinazione! Anzi, la parola 'vaccino' non c'è proprio!” “Già, era proprio una brutta parola, vero? No-vax, no-vaccino, una parola divisiva...” “Si ma...” “Al suo posto c'è una definizione più congrua ed accattivante, in linea con le recenti tendenze alla gamification. Suvvia, dia un'occhiata lei stesso.” Vedo meglio il mio Green Pass e comincio a leggere ad alta voce:

Il giocatore Gippo ha acquisito un segnalino protezione virus. Un giocatore che abbia acquisito un segnalino protezione virus ha una percentuale ridotta del X% di contrarre un virus Covid e una percentuale ridotta del Y% di subire un danno critico da virus Covid, dove X ed Y sono definiti dalle recenti pubblicazioni scientifiche selezionate dal Game Master e calano ad ogni turno di un ammontare definito sempre dal Game Master. Quando X e Y raggiungono 0, il giocatore deve fare una nuova dose.

“Ma che è?! E' una fottuta carta di Magic the Gathering?!? Mi state prendendo per il...” e vorrei inveire ma l'infermiera è stranamente tutta nuda, a parte il cappellino e lo stetoscopio che continua ostinatamente a passare dal capezzolo destro al sinistro e viceversa, lamentando languidamente: “Uuuh! Che brividi!”. Dimentico quello che stavo dicendo. “Allora è d'accordo con me? Vaccino era una parola brutta. Ma soprattutto inadatta.” “Sì, inadatta, sono d'accordo” dico. Mi accompagna all'uscita, sempre nuda. Una volta tornato a casa, mi accorgo che ho un nuovo tatuaggio a forma di antilope sulla spalla destra. Dev'essere un effetto collaterale del vaccino, pardon, del “segnalino protezione virus”. Domani manderò un'e-mail all'Istituto superiore della Sanità Camerunense per consentire loro di aggiornare il protocollo sanitario. Perché sono un cittadino di grande senso civico. Già che ci sono, mi farò pure una radiografia per controllare se ho ancora la milza.

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Qualche giorno fa ho rivisto “I laureati”, film di Pieraccioni del 1995, così ho pensato che non ci fosse niente di meglio che ricominciare a scrivere per il blog ripartendo proprio da qui.

Non dobbiamo sottovalutare Pieraccioni e la sua opera. Scrivo questo perché le mie prime impressioni su di lui non furono buone. Nel 1995 (ma probabilmente lo vidi almeno un paio di anni più tardi) ero ancora alla ricerca di qualche maitre à pensèr che potesse rappresentare una bussola o un'ispirazione, un qualcuno alla Nanni Moretti di Ecce Bombo, una personalità estrosa, originale, controcorrente e geniale a cui ispirarmi. Pieraccioni non era e non è nulla di tutto questo. Tuttavia ciò non è motivo valido per il quale la sua filmografia vada snobbata. Voglio chiarire meglio il punto sulla personalità. Se voi guardate questo film, quasi all'inizio trovate una citazione di Salinger: il personaggio di Pieraccioni si chiede, di fronte a Ceccherini, dove vanno le anatre dopo che il laghetto d'inverno si ghiaccia. Penso che sia una roba abbastanza mainstream però, per chi non lo sapesse, è la stessa domanda che si pone il protagonista de “Il giovane Holden”, romanzo di formazione per eccellenza. Ora questa citazione, in bocca a Pieraccioni, sembra una specie di bestemmia per motivi di carisma che non sto a spiegarvi subito. Fare questo genere di riflessioni di fronte ad un Ceccherini qualsiasi senza specificarne la fonte è ciò che i millennial, intrisi dell'odierno gergo corrotto dalla perfida Albione, identificherebbero come un momento cringe. Eppure è chiaro che Pieraccioni vorrebbe proprio ambire al ruolo di piccolo e umile maitre a penser e lo si capisce dai brevi spiegoni che mette in bocca al personaggio del professor Galliano, suo ex professore di filosofia che, con la voce fuori campo del protagonista pieraccioniano, dà rapide e non autorevoli lezioni di vita e di tassonomia (ad esempio: “Dicesi imbuto cosmico quel momento nel quale ecc. ecc.”).

Pieraccioni e filosofia, dicevamo. Quel genere di filosofia spiccia che praticano gli estroversi per rimorchiare. La filosofia è roba da introversi, materia praticata peraltro con moderazione e coscienza della sua pericolosità. Pieraccioni è chiaramente un animatore turistico che non vuole ammetterlo: l'unico atto di umiltà, a cui però rinuncerà nel corso dei suoi film successivi, è quello di delegarne le funzioni al citato personaggio di Galliano interpretato dallo stralunato Alessandro Haber (anzi, “Stralunato Alessandro Haber”: è proprio il nome completo di questo attore) ma si tratta di una delega fatta a denti stretti, con rancore e risentimento, tanto che nel corso del film il regista Pieraccioni si vendicherà invidioso su di lui mettendoglielo letteralmente in culo (ma ci ritorneremo).

La storia de “I laureati” parla di quattro “fuori corso” trentenni che... non vogliono crescere. Eh già. In quegli anni andava di moda il mantra dei trentenni che non vogliono crescere che poi si sarebbe trasformato nel mantra dei quarantenni che non vogliono crescere, poi sarebbero diventati i bamboccioni, poi i giovani “choosy”, poi sarebbe venuto Grillo e avrebbe fatto una delle rarissime cose giuste che ha fatto, ovvero lasciar intendere, nel suo stile colorito, che forse se i giovani si comportano così è perché c'è anche una scelta economica razionale di base. Però allora andava di moda dire che i trentenni non volevano crescere ed era tutto un proliferare di film ambientati in due camere e un tinello dove venivano presentati i trentenni che non volevano crescere e i trentenni di allora erano veramente incazzati per questa storia, assieme a quell'altra che raccontava, attraverso gli editoriali delle riviste femminili, che l'uomo degli anni '90 era “troppo micio e poco macho”. Fortunatamente anche questa narrazione è entrata in crisi, stavolta a causa del fenomeno del femminicidio, e tutte le redattrici che scrivevano che l'uomo era “troppo micio e poco macho” sono state arrestate per apologia di reato e, dopo un percorso di rieducazione, trasformate in femministe e/o attiviste LGBTQ+. Ma dicevamo dei quattro fuori corso protagonisti della trama. Questi erano interpretati da: Leonardo Pieraccioni, Massimo Ceccherini, Rocco Papaleo e Gianmarco Tognazzi. Ora, io ho letto una recensione su MyMovies dove c'è proprio un'osservazione giusta: questi attori, con l'eccezione di Tognazzi, non si allontaneranno mai più dai personaggi interpretati in questo film. Ed è verissimo. Massimo Ceccherini interpreta un folle e sboccato cabarettista che al momento cruciale si lascia scappare una bestemmia ed è curioso sapere che verrà addirittura squalificato per una bestemmia durante una futura edizione de “L'isola dei famosi”. Rocco Papaleo è il solito terrone lucano orgoglioso di esserlo. Ma due parole in più merita proprio Leonardo Pieraccioni. Interpreta con costanza quello immaturo che vuole crescere (ma non troppo) e per farlo non trova altra strada che innamorarsi e fare sul serio con la ragazza madre di turno. Seriamente, il personaggio Pieraccioni durante i suoi film incontra un sacco di ragazze madri, comunque già ingravidate, spesso insicure dell'identità del padre del bambino, ad esempio ne “Il paradiso all'improvviso”, ne “Il pesce innamorato”, in “Ti amo in tutte le lungue del mondo”. Particolare un po' inquietante: la ragazza recentemente morta in fabbrica in un incidente con una pressa a Montemurlo era anche lei una ragazza madre e aveva fatto la comparsa in un film di Pieraccioni. Questa costante simboleggia un po' la sospensione di Pieraccioni tra modernità e tradizione, elemento questo che traspare in numerosi dettagli ed episodi presenti nel film. Pieraccioni si rende conto che la famiglia tradizionale e specialmente il ruolo del padre non sono più gli stessi di un tempo (la Cucinotta, di cui si innamora, accoglie la notizia di una gravidanza con padre incerto come se niente fosse) ma vorrebbe probabilmente tornare a quell'idea, difatti le sue storie sono sempre serie, mai una botta e via, e le modernità degli atteggiamenti femminili rappresentano sempre inevitabilmente una remora da superare prima di buttarsi in qualcosa che fa evidentemente (e naturalmente) paura. Altro episodio significativo in tal senso è quello che vede protagonista Tosca D'Aquino, che in questo film non fa ancora il suo mitico “Piripìììì!!” poggiando il pollice sulla punta del naso e sventolando in chiusura le altre dita. Tosca (“la napoletana”) attira maschi solitari per fargli fare cose a tre col suo partner. Coinvolge dapprima Papaleo, che rifiuterà sdegnato nel suo abituale atteggiamento da terrone lucano orgoglioso e benpensante. Poi riuscirà nell'intento col professor Galliano, il quale sarà inizialmente entusiasta e poi... Qui si consuma la vendetta di Pieraccioni-regista sul professore di filosofia, a cui il buon toscanaccio Leonardo, in un patto faustiano, dà quel carisma e autorevolezza che sente di non avere, in cambio della verginità anale del povero docente. Oggi quell'episodio appare quasi insopportabilmente moralistico, dopo lustri di Youporn, Xhamster, Pornhub ed Hentai.

Vorrei fare anche un breve inciso per il personaggio di Giammarco Tognazzi, che è un po' un pesce fuor d'acqua ma è al contempo interessante per vari spunti storici. Tognazzi è sposato con la figlia di un imprenditore ma si scopa la cognata più giovane e carina. Che poi, sua moglie non è che sia male: si tratta di Elisabetta Cavallotti, attrice che quattro anni più tardi girerà alcune scene veramente bollenti in “Guardami” di Davide Ferrario, in cui interpreterà il declino di una pornostar che si ammala gravemente. Di quest'ultimo film ho impresse, marchiate a fuoco nella mia memoria, le lapidarie e sprezzanti parole di Tinto Brass allorquando chiesero un suo parere in merito ovvero: “Non sono interessato al genere porno-oncologico!”. Ho impresse anche la scena dell'esibizione erotica dal vero al Misex e la Cavallotti che fa un bocchino a Flavio Insinna, ma non saprei dire se il pene è veramente il suo oppure di una controfigura oppure uno di quei falli realistici di plastica che giravano anche nei film del citato e compianto Brass. Tornando a Tognazzi ne “I laureati” mi commuove sentirlo affermare che, nonostante abbia un cellulare intestato alla ditta del padre, non se la sente di chiamare a casa, per dimostrare che “non se ne approfitta”. Ecco, anche questo catapulta il film nel documento d'epoca.

Il personaggio di Pieraccioni, simpatico e perbene, è quello che alla fine del film ricorda a tutti che la ricreazione è finita e che non possono continuare a vivacchiare così, e devono crescere. Devono, magari dopo l'“ultima bischerata”. Ma è chiaro che sta convincendo più se stesso che Ceccherini. Anzi, no, forse sta convincendo Rita Rusic, ex moglie del produttore Vittorio Cecchi Gori, che ha puntato su di lui. Insomma, Pieraccioni, duole dirlo, non suona sincero e tutti i film successivi stanno lì a testimoniarlo. Doveva semplicemente ammettere di essere un animatore turistico più evoluto anziché un filosofo introverso. Ci proverà fuori tempo massimo ne “Il professor Cenerentolo” con una comicità meno impegnata e sociologica, a base di nani e, marginalmente, ballerine.

Leggendo questa recensione, forse penserete che sia stato un po' critico con Pieraccioni. Magari invidio la sua fortuna. In realtà c'è davvero qualcosa che invidio a Pieraccioni e voglio dirlo senza falsi pudori e senza privarlo della verginità anale: l'amicizia con Carlo Conti e Giorgio Panariello. Sarebbe piaciuto anche a me avere almeno un amico col quale vivere un'avventura professionale del genere condividendo la stessa passione (non necessariamente nel mondo dello spettacolo) in modo da sostenersi a vicenda. Comunque Pieraccioni, al di là dei limiti, non è da sottovalutare, la sua coerenza è commovente e spero che questa recensione vi faccia riflettere.

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Oggi è un po' come quando dovevo fare 30-40 flessioni a tutti i costi e non avevo il tempo... la tentazione è di saltare l'appuntamento del venerdì col blog ma no, non lo salto! La tentazione è pure quella di infilarci dentro un vecchio post che magari avevo scritto 15 anni fa e che avevo conservato alla bisogna ma no, non ci casco! Perché ho preso l'impegno di aggiornare il blog per riabituarmi a scrivere, non per postare roba di un tanto tempo fa.

Perché scrivere? Perché questa continua, costante ricerca della costanza, dell'impegno, della fatica, della determinazione? Risposta: perché mi fa bene. Al momento è come una droga, prendo la dose che mi fa stare tranquillo, poi un giorno magari capisco come fare a meno della droga e qual è il segreto per vivere felici e soddisfatti. E allora di cosa posso parlare nel poco tempo che posso dedicare a questa attività? Del libro che sto leggendo.

Premessa. Ho trascorso ANNI leggendo, se andava bene, un libro all'anno. Ricordo una volta che, per non fare la parte di quello che non aveva letto manco un libro, mi lessi un romanzetto Harmony raccattato dalla soffitta di mamma. Poi con la pandemia mi sono scatenato. Complice un sito che mi “rifornisce” di molti ebook e del mio Kobo reader, ho letto un sacco di roba. Tutti saggi e manuali. Anche e soprattutto libri di autoaiuto. Mi sono dato questa spiegazione: fin quando le cose andavano abbastanza tranquillamente, non sentivo il bisogno di informarmi, di acquisire frecce alla mia faretra. Quando mi è venuto a mancare un po' il terreno da sotto i piedi ho sentito invece la necessità di trovare nuove armi, di potenziare la sezione Ricerca e Sviluppo, di trovare un vantaggio competitivo. Così leggo tanto da qualche mese. Per me in fondo è un segnale positivo. Ah, sapete perché ogni tanto leggo roba “da femmine”? E' un'abitudine di quando consultavo materiale relativo all'arte del rimorchio a seguito della lettura un libro prestatomi da un amico: “The Game – La bibbia dell'artista del rimorchio” di Neil Strauss. Anni fa, cose da giovani, eh! Il consiglio era di leggere cose “da femmine” per capire meglio le femmine e i loro miti tipo il principe azzurro, il bello e dannato, il cucciolo da salvare, il delinquente da redimere, lo scontroso che si scioglie... quegli stereotipi lì. Per i romanzi mi sono sempre piaciute le scrittrici donne. Ma per i saggi no. Beh, forse è il caso di concludere la premessa...

Che libro sto leggendo? Dico almeno il titolo: “Ufo e extraterrestri” di Roberto Pinotti.

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Scrivere di se stessi non è necessariamente un'opera di narcisismo. Diceva Sartre che l'inferno sono gli altri e chiosava Tozzi che gli altri siamo noi. Quindi scrivere di se stessi non è opera di narcisismo ma anche una forma di interesse e di condivisione verso gli altri. A me piace molto la forma del blog perché è una sorta di dialogo silenzioso con l'altro, mentre il social è un dialogo molto più esplicito e, talvolta, banale. Paradossalmente capita che nel social il gusto della battuta e della replica renda il tutto molto più vuoto e insignificante. Nel blog invece il dialogo, pur essendo silenzioso, risulta più intenso. Ho vari blog dai quali amo passare per vedere se sono aggiornati e devo dire che spesso non sono d'accordo con quello che scrivono. Non li commento e non ci metto sopra un mi piace ma amo lo stesso visitarli per leggerli: è proprio questa la forma di dialogo silenzioso a cui faccio riferimento. Mi rendo conto che a volte gli autori gradirebbero un piccolo riscontro ma vedo che trovano altrove le risorse interiori per andare avanti e tanto mi basta. Il fatto che scrivere di se stessi vuol dire scrivere anche degli altri non vuol dire che non ci si possa, effettivamente, chiudere troppo negli angusti recinti della propria persona. Ma scrivendo è molto difficile: difatti pur essendo un'attività che si svolge da soli, scrivere è sempre rivolto, potenzialmente, al mondo e alla massa sterminata di potenziali lettori. E' quasi solo per questo che, sin dagli inizi, ho giudicato internet come qualcosa di buono. E ho notato che i problemi sono cominciati ad arrivare quando le persone si sono cominciate a fissare sulle identità, sulle immagini, sui video, sui profili. In una parola: sull'apparenza superficiale. Ma all'inizio era commovente ed anche eccitante aprire l'animo assieme a tutte quelle persone e dare voce ai propri pensieri con gli altri. Oggi viviamo fra due estremi che nascondono entrambi una minaccia. Richiudersi in se stessi, come accennavo, porta alla morte spirituale perché, se non si accettano gli altri, non possiamo certo accettarci noi. Io sono un liberale da un punto di vista delle idee economiche ma se per liberale intendiamo persone che pensano esclusivamente ai cazzi loro, come ormai si vede fare sempre più spesso, allora non c'è più speranza. Non dobbiamo essere amici di tutti, accogliere tutti, pensare che sono tutti buoni ma non dobbiamo nemmeno esistere solo noi. Dall'altro lato abbiamo un'altro minaccioso estremo che sfocia nel fascismo, nel comunismo, nel collettivismo, nel conformismo, nel branco: perdere la nostra individualità, la nostra originalità, la nostra idea personale sul mondo per aderire pedissequamente ad un'altra idea già bella e pronta e dal sicuro consenso. Un'idea che, inutile dirlo, non può che essere di natura nazista. Scrivere allora è un antidoto, non sempre viene bene e a volte si spurgano ansie e rancori senza arrivare a nulla di buono, ma è una cosa quasi sempre positiva almeno fintanto che si è sinceri anche nel mostrare con umiltà i nostri aspetti meno piacevoli, senza ripetere slogan o scimmiottare pose, frasi, comportamenti visti altrove. Per questo mi sto impegnando a scrivere, anche se a volte è faticoso.

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Oggi la prospettiva di riempire di caratteri un nuovo post mi sembra terribile, ma vale la pena cominciare, non si sa mai dove si va a finire e magari viene fuori qualcosa di inaspettatamente buono. Tra le idee da scrivere che premono di più ce ne sono varie emergono fra tutte le altre:

  • Fare un post per rispondere alle grandi domande “Chi siamo? Da dove veniamo? Dove stiamo andando?”. Si tratterebbe di una lunga dissertazione che, attraverso filosofi, scrittori, biologi evoluzionisti e complottisti, arriverebbe ad una possibile, sorprendente conclusione. Non vedo molti riferimenti in giro su questo tema. Gran parte della dissertazione verterebbe sulla teoria dell'evoluzione.

  • Fare un post per spiegare la situazione economica in modo semplice e un po' pop. Ne ho già fatto in passato uno sul denaro, una specie di storia economica a fumetti basata sulle teorie di Carl Menger, precursore della scuola economica austrica e autore di uno snello volumetto intotolato “Denaro” (anzi “Geld”). Se non lo faccio è perché il discorso economico è molto inquinato dalla politica e dalla propaganda. “Inquinato” è un bell'aggettivo che ho preso da un post di Kein Pfusch e che spiega bene la questione.

  • Fare un post narrativo fantastico su quella volta che mi iscrissi a Facebook con vero nome e vera foto per ritrovare una mia ex compagna di classe particolarmente anonima e avviare con lei una relazione basata su intenzioni serie (pezzo scherzoso con battutacce a sfondo sessuale).

  • Fare un post su quella volta che vari anni fa, su Twitter, mi spacciai per un account ufficiale di un partito politico e da lì sfruttai quella piattaforma privilegiata per capire alcune questioni sui social network e la politica “dalla periferia”, interagendo con bot e profili palesemente “stipendiati”. Sarebbe un post interessante ma che mi condurrebbe a parlare del Covid e delle sue conseguenze in termini complottisti. (Per questo non credo che lo scriverò mai).

La preghiera nel mese di maggio

Allora, adesso parlo di qualcosa. Stavo per elencare tra i post quello del papa che ha organizzato un periodo di preghiera nel mese di maggio per opporsi al Coronavirus. Ne parlo un po' qui, sinteticamente, visto che il mese di maggio è alle porte. Qualcuno, spesso orgogliosamente laico quando non ateo o agnostico, come sempre solleva delle polemiche dicendo che è una visione vecchia e medievale quella di pregare Dio perché ci liberi dalle epidemie ma io non sono d'accordo. Cosa c'è di più umile del chiedere cose che ci stanno a cuore come i bambini? Dimentichiamo Gesù che chiedeva di essere esentato dalla crocifissione (“Padre, allontana da me questo calice”) proprio ad un passo dall'evento? E lui, oltretutto, aveva più certezze di noi, era più inserito a livello divino. Anzi, era ed è proprio Dio. Quindi trovo umano e giusto pregare per ottenere qualcosa di terreno attraverso un intervento soprannaturale. Abbiamo già delegato troppo a Matteo Bassetti. Nessuno ha detto durante la pandemia che morire non è la cosa più terribile, perché ci aspetta la vita eterna. Allora, usiamola un po' più di coerenza noi cattolici. Chiediamo l'intervento di Dio e continuiamo a parlare del Paradiso e dell'Inferno se non vogliamo che l'ultima parola l'abbia sempre Matteo Bassetti. Quanto a voi, sporchi atei, diventate coerentemente nichilisti e cominciate a girare nudi per strada. Amen.

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Da quando ho deciso di ricominciare a scrivere in modo regolare continuano a venirmi alla mente un sacco di post su argomenti interessanti. Credo sia il famoso fenomeno della neuroplasticità del cervello, cioè il cervello, vedendo che ci si cimenta insistentemente in una attività specifica, si ingegna per farla nel migliore dei modi ed è come se drizzasse le antenne per trovare elementi utili anche contro la nostra volontà. E' lo stesso meccanismo per cui, quando vuoi comprare il modello di un'auto, continui a vederlo in giro un po' ovunque. Oppure quando, incinta, avvisti solo donne col pancione. Così mi vengono alla mente un sacco di argomenti significativi di cui parlare anche laddove la volontà mi invita invece a scrivere di cose poco intriganti allo scopo sfuggire alla logica dell'attenzione a tutti i costi.

Per questo ho pensato potesse essere utile, come esercizio, stilare una bella lista di attività noiose che mi aiutino a coltivare attivamente la noia. No, non ho detto gioia. Andy Wharol ha espresso bei concetti su questo tema, tipo: “E' vero che mi piace la noia ma questo non vuol dire che non mi annoi”. Oppure ha notato come sia strano che la gente si annoi durante novanta minuti di film o di spettacoli ma non si annoi a guardare per ore davanti a una finestra quando piove. Al di la di Wharol, fare i conti con la noia, accettandola, è ormai una necessità per tutti noi. E' allora vitale che questa piccola lista venga onorata a tutti i costi, dandole priorità anche rispetto alle cose importanti, urgenti e, soprattutto, interessanti. Perché è davvero tutto troppo interessante e di questo passo va a finire che si farà all'unanimità l'abbonamento a Netflix e non devo essere io a spiegare perché si tratta di una cosa contro natura.

Quando ho provato a buttar giù questa lista però, mi sono accorto subito di un errore di fondo: tutte le attività noiose da me segnate coinvolgevano la vista di schermi luminosi. Cose tipo: videogiochi bellici basati sugli esagoni o lettura di articoli religiosi dal sito dell'Avvenire. L'idea di schermo luminoso mi ha quindi fatto venire alla mente quando al mattino, riaccendendo il cellulare spento la sera prima, mi stupisca sempre di quanto appaia brillante. Le luci colorate sono quel che viene definito in gergo un “supernatural stimuli”, uno stimolo soprannaturale, non nel senso che riguarda i fantasmi, ma nel significato è oltre la natura, in un certo senso anche “contro”, come gli abbonamenti in massa ai siti di streaming. Per questo motivo spero di riuscire ad annoiarmi trovando nuove vie ed evitando un rischio comune quando si ricerca attivamente la noia, ovvero abbandonarsi alle attività fintamente noiose, in realtà piacevolmente stimolanti, quindi rilassanti, quindi... sí, interessanti.

Concludendo, questo post spiega come le cose interessanti possano diventare noiose e come le noiose possano diventare interessanti. Non è un gran post, in effetti. Obiettivo raggiunto, quindi. Hint: le ripetizioni aiutano.

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