Gippo

Gippo – Un blog gestito dal Comitato Yamashita

Oggi è un po' come quando dovevo fare 30-40 flessioni a tutti i costi e non avevo il tempo... la tentazione è di saltare l'appuntamento del venerdì col blog ma no, non lo salto! La tentazione è pure quella di infilarci dentro un vecchio post che magari avevo scritto 15 anni fa e che avevo conservato alla bisogna ma no, non ci casco! Perché ho preso l'impegno di aggiornare il blog per riabituarmi a scrivere, non per postare roba di un tanto tempo fa.

Perché scrivere? Perché questa continua, costante ricerca della costanza, dell'impegno, della fatica, della determinazione? Risposta: perché mi fa bene. Al momento è come una droga, prendo la dose che mi fa stare tranquillo, poi un giorno magari capisco come fare a meno della droga e qual è il segreto per vivere felici e soddisfatti. E allora di cosa posso parlare nel poco tempo che posso dedicare a questa attività? Del libro che sto leggendo.

Premessa. Ho trascorso ANNI leggendo, se andava bene, un libro all'anno. Ricordo una volta che, per non fare la parte di quello che non aveva letto manco un libro, mi lessi un romanzetto Harmony raccattato dalla soffitta di mamma. Poi con la pandemia mi sono scatenato. Complice un sito che mi “rifornisce” di molti ebook e del mio Kobo reader, ho letto un sacco di roba. Tutti saggi e manuali. Anche e soprattutto libri di autoaiuto. Mi sono dato questa spiegazione: fin quando le cose andavano abbastanza tranquillamente, non sentivo il bisogno di informarmi, di acquisire frecce alla mia faretra. Quando mi è venuto a mancare un po' il terreno da sotto i piedi ho sentito invece la necessità di trovare nuove armi, di potenziare la sezione Ricerca e Sviluppo, di trovare un vantaggio competitivo. Così leggo tanto da qualche mese. Per me in fondo è un segnale positivo. Ah, sapete perché ogni tanto leggo roba “da femmine”? E' un'abitudine di quando consultavo materiale relativo all'arte del rimorchio a seguito della lettura un libro prestatomi da un amico: “The Game – La bibbia dell'artista del rimorchio” di Neil Strauss. Anni fa, cose da giovani, eh! Il consiglio era di leggere cose “da femmine” per capire meglio le femmine e i loro miti tipo il principe azzurro, il bello e dannato, il cucciolo da salvare, il delinquente da redimere, lo scontroso che si scioglie... quegli stereotipi lì. Per i romanzi mi sono sempre piaciute le scrittrici donne. Ma per i saggi no. Beh, forse è il caso di concludere la premessa...

Che libro sto leggendo? Dico almeno il titolo: “Ufo e extraterrestri” di Roberto Pinotti.

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Scrivere di se stessi non è necessariamente un'opera di narcisismo. Diceva Sartre che l'inferno sono gli altri e chiosava Tozzi che gli altri siamo noi. Quindi scrivere di se stessi non è opera di narcisismo ma anche una forma di interesse e di condivisione verso gli altri. A me piace molto la forma del blog perché è una sorta di dialogo silenzioso con l'altro, mentre il social è un dialogo molto più esplicito e, talvolta, banale. Paradossalmente capita che nel social il gusto della battuta e della replica renda il tutto molto più vuoto e insignificante. Nel blog invece il dialogo, pur essendo silenzioso, risulta più intenso. Ho vari blog dai quali amo passare per vedere se sono aggiornati e devo dire che spesso non sono d'accordo con quello che scrivono. Non li commento e non ci metto sopra un mi piace ma amo lo stesso visitarli per leggerli: è proprio questa la forma di dialogo silenzioso a cui faccio riferimento. Mi rendo conto che a volte gli autori gradirebbero un piccolo riscontro ma vedo che trovano altrove le risorse interiori per andare avanti e tanto mi basta. Il fatto che scrivere di se stessi vuol dire scrivere anche degli altri non vuol dire che non ci si possa, effettivamente, chiudere troppo negli angusti recinti della propria persona. Ma scrivendo è molto difficile: difatti pur essendo un'attività che si svolge da soli, scrivere è sempre rivolto, potenzialmente, al mondo e alla massa sterminata di potenziali lettori. E' quasi solo per questo che, sin dagli inizi, ho giudicato internet come qualcosa di buono. E ho notato che i problemi sono cominciati ad arrivare quando le persone si sono cominciate a fissare sulle identità, sulle immagini, sui video, sui profili. In una parola: sull'apparenza superficiale. Ma all'inizio era commovente ed anche eccitante aprire l'animo assieme a tutte quelle persone e dare voce ai propri pensieri con gli altri. Oggi viviamo fra due estremi che nascondono entrambi una minaccia. Richiudersi in se stessi, come accennavo, porta alla morte spirituale perché, se non si accettano gli altri, non possiamo certo accettarci noi. Io sono un liberale da un punto di vista delle idee economiche ma se per liberale intendiamo persone che pensano esclusivamente ai cazzi loro, come ormai si vede fare sempre più spesso, allora non c'è più speranza. Non dobbiamo essere amici di tutti, accogliere tutti, pensare che sono tutti buoni ma non dobbiamo nemmeno esistere solo noi. Dall'altro lato abbiamo un'altro minaccioso estremo che sfocia nel fascismo, nel comunismo, nel collettivismo, nel conformismo, nel branco: perdere la nostra individualità, la nostra originalità, la nostra idea personale sul mondo per aderire pedissequamente ad un'altra idea già bella e pronta e dal sicuro consenso. Un'idea che, inutile dirlo, non può che essere di natura nazista. Scrivere allora è un antidoto, non sempre viene bene e a volte si spurgano ansie e rancori senza arrivare a nulla di buono, ma è una cosa quasi sempre positiva almeno fintanto che si è sinceri anche nel mostrare con umiltà i nostri aspetti meno piacevoli, senza ripetere slogan o scimmiottare pose, frasi, comportamenti visti altrove. Per questo mi sto impegnando a scrivere, anche se a volte è faticoso.

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Oggi la prospettiva di riempire di caratteri un nuovo post mi sembra terribile, ma vale la pena cominciare, non si sa mai dove si va a finire e magari viene fuori qualcosa di inaspettatamente buono. Tra le idee da scrivere che premono di più ce ne sono varie emergono fra tutte le altre:

  • Fare un post per rispondere alle grandi domande “Chi siamo? Da dove veniamo? Dove stiamo andando?”. Si tratterebbe di una lunga dissertazione che, attraverso filosofi, scrittori, biologi evoluzionisti e complottisti, arriverebbe ad una possibile, sorprendente conclusione. Non vedo molti riferimenti in giro su questo tema. Gran parte della dissertazione verterebbe sulla teoria dell'evoluzione.

  • Fare un post per spiegare la situazione economica in modo semplice e un po' pop. Ne ho già fatto in passato uno sul denaro, una specie di storia economica a fumetti basata sulle teorie di Carl Menger, precursore della scuola economica austrica e autore di uno snello volumetto intotolato “Denaro” (anzi “Geld”). Se non lo faccio è perché il discorso economico è molto inquinato dalla politica e dalla propaganda. “Inquinato” è un bell'aggettivo che ho preso da un post di Kein Pfusch e che spiega bene la questione.

  • Fare un post narrativo fantastico su quella volta che mi iscrissi a Facebook con vero nome e vera foto per ritrovare una mia ex compagna di classe particolarmente anonima e avviare con lei una relazione basata su intenzioni serie (pezzo scherzoso con battutacce a sfondo sessuale).

  • Fare un post su quella volta che vari anni fa, su Twitter, mi spacciai per un account ufficiale di un partito politico e da lì sfruttai quella piattaforma privilegiata per capire alcune questioni sui social network e la politica “dalla periferia”, interagendo con bot e profili palesemente “stipendiati”. Sarebbe un post interessante ma che mi condurrebbe a parlare del Covid e delle sue conseguenze in termini complottisti. (Per questo non credo che lo scriverò mai).

La preghiera nel mese di maggio

Allora, adesso parlo di qualcosa. Stavo per elencare tra i post quello del papa che ha organizzato un periodo di preghiera nel mese di maggio per opporsi al Coronavirus. Ne parlo un po' qui, sinteticamente, visto che il mese di maggio è alle porte. Qualcuno, spesso orgogliosamente laico quando non ateo o agnostico, come sempre solleva delle polemiche dicendo che è una visione vecchia e medievale quella di pregare Dio perché ci liberi dalle epidemie ma io non sono d'accordo. Cosa c'è di più umile del chiedere cose che ci stanno a cuore come i bambini? Dimentichiamo Gesù che chiedeva di essere esentato dalla crocifissione (“Padre, allontana da me questo calice”) proprio ad un passo dall'evento? E lui, oltretutto, aveva più certezze di noi, era più inserito a livello divino. Anzi, era ed è proprio Dio. Quindi trovo umano e giusto pregare per ottenere qualcosa di terreno attraverso un intervento soprannaturale. Abbiamo già delegato troppo a Matteo Bassetti. Nessuno ha detto durante la pandemia che morire non è la cosa più terribile, perché ci aspetta la vita eterna. Allora, usiamola un po' più di coerenza noi cattolici. Chiediamo l'intervento di Dio e continuiamo a parlare del Paradiso e dell'Inferno se non vogliamo che l'ultima parola l'abbia sempre Matteo Bassetti. Quanto a voi, sporchi atei, diventate coerentemente nichilisti e cominciate a girare nudi per strada. Amen.

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Da quando ho deciso di ricominciare a scrivere in modo regolare continuano a venirmi alla mente un sacco di post su argomenti interessanti. Credo sia il famoso fenomeno della neuroplasticità del cervello, cioè il cervello, vedendo che ci si cimenta insistentemente in una attività specifica, si ingegna per farla nel migliore dei modi ed è come se drizzasse le antenne per trovare elementi utili anche contro la nostra volontà. E' lo stesso meccanismo per cui, quando vuoi comprare il modello di un'auto, continui a vederlo in giro un po' ovunque. Oppure quando, incinta, avvisti solo donne col pancione. Così mi vengono alla mente un sacco di argomenti significativi di cui parlare anche laddove la volontà mi invita invece a scrivere di cose poco intriganti allo scopo sfuggire alla logica dell'attenzione a tutti i costi.

Per questo ho pensato potesse essere utile, come esercizio, stilare una bella lista di attività noiose che mi aiutino a coltivare attivamente la noia. No, non ho detto gioia. Andy Wharol ha espresso bei concetti su questo tema, tipo: “E' vero che mi piace la noia ma questo non vuol dire che non mi annoi”. Oppure ha notato come sia strano che la gente si annoi durante novanta minuti di film o di spettacoli ma non si annoi a guardare per ore davanti a una finestra quando piove. Al di la di Wharol, fare i conti con la noia, accettandola, è ormai una necessità per tutti noi. E' allora vitale che questa piccola lista venga onorata a tutti i costi, dandole priorità anche rispetto alle cose importanti, urgenti e, soprattutto, interessanti. Perché è davvero tutto troppo interessante e di questo passo va a finire che si farà all'unanimità l'abbonamento a Netflix e non devo essere io a spiegare perché si tratta di una cosa contro natura.

Quando ho provato a buttar giù questa lista però, mi sono accorto subito di un errore di fondo: tutte le attività noiose da me segnate coinvolgevano la vista di schermi luminosi. Cose tipo: videogiochi bellici basati sugli esagoni o lettura di articoli religiosi dal sito dell'Avvenire. L'idea di schermo luminoso mi ha quindi fatto venire alla mente quando al mattino, riaccendendo il cellulare spento la sera prima, mi stupisca sempre di quanto appaia brillante. Le luci colorate sono quel che viene definito in gergo un “supernatural stimuli”, uno stimolo soprannaturale, non nel senso che riguarda i fantasmi, ma nel significato è oltre la natura, in un certo senso anche “contro”, come gli abbonamenti in massa ai siti di streaming. Per questo motivo spero di riuscire ad annoiarmi trovando nuove vie ed evitando un rischio comune quando si ricerca attivamente la noia, ovvero abbandonarsi alle attività fintamente noiose, in realtà piacevolmente stimolanti, quindi rilassanti, quindi... sí, interessanti.

Concludendo, questo post spiega come le cose interessanti possano diventare noiose e come le noiose possano diventare interessanti. Non è un gran post, in effetti. Obiettivo raggiunto, quindi. Hint: le ripetizioni aiutano.

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Vi siete mai trovati in una situazione in cui la vostra strategia, che avete perseguito per molti anni, andrebbe sottoposta ad una obiettiva analisi basata sui risultati? E vi è mai capitato che, dopo aver compiuto questa spassionata disamina, appurate senza ombra di dubbio che la vostra strategia ha prodotto risultati fallimentari? A quel punto ci sono due strade davanti: – O continuate a perseguire la vostra strategia in modo ancor più estremo perché pensate che magari c'è un “effetto soglia” che ne ha impedito la realizzazione effettiva; – O cambiate strategia, cominciando coll'adottare quella diametralmente opposta.

Gli psicologi di Palo Alto, inutile dirlo, sono sostenitori della seconda strada, difatti è troppo facile abbandonarsi al “more of the same” autoconvincendosi con uno di quei trucchetti mentali che ci piacciono tanto. Si limitano tutt'al più a dire che non sempre è facile capire l'opposto di una strategia e dove essa è fallimentare. Ad esempio: non riuscite a dormire. Però continuate ad andare a dormire presto per avere più tempo per addormentarvi e non avere alcuna pressione a prender sonno alla svelta. Strategia opposta: andate a dormire tardi. E non vi addormentate lo stesso. Allora forse l'elemento critico della vostra strategia non era l'andare a dormire presto. Per questo dovete analizzare la vostra strategia nel dettaglio: magari l'aspetto più evidente era che andavate a letto con le galline ma in realtà c'era dietro un rituale che si basava su altri fattori, tipo la tisana presa prima di coricarsi o la serie televisiva seguita nelle ore precedenti l'agognato sonno o, molto più sottilmente, il fatto che andando a dormire presto davate consistenza e importanza al problema dell'insonnia. In quest'ultimo caso, la strategia opposta è dunque quella di diventare un fottuto maestro zen. Io (come il resto dell'umanità, credo) mi trovo nella situazione di capire esattamente il problema specifico che rende la mia strategia fallimentare. E per farlo dovrei cominciare a tentare delle strategie opposte ma non è facile: alcune di esse mi terrorizzano. Forse si può fare una strategia opposta pian piano, in modo kaizen. Il saggio, d'altronde, dice: “se hai fretta rallenta”. E frattanto la rana bolle. Ci penserò su.

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Oggi è un giorno che mi tocca scrivere un post solo per onor di firma e non mi è possibile dilungarmi troppo. E allora vorrei scrivere, come indico nel titolo, un post neutrale e tranquillo, il che è l'obiettivo principale che ho da quando ho ricominciato a scrivere per il blog a cadenza regolare (cioè il martedì, il venerdì e la domenica). Sono partito apposta dalla dittatura sanitaria così potrò andare in calando con la provocazione e l'“engagement”. Perché faccio questo? Perché credo un po' nella magia della scrittura. E perché da qualche parte ho letto il seguente episodio che vi racconto. Lo faccio anche per il fatto che, esattamente sedici anni fa, avevo creato il mio primo blog e scritto la mia prima riflessione destinata ad essere pubblicata in rete. Non conservo il post con le esatte parole ma ricordo perfettamente che mi autoproclamavo uno sciamano e che, attraverso il blog, avrei aiutato tutti (me compreso) a scoprire il senso della vita. Buona lettura allora.

Lo sciamano della pioggia

Un villaggio chiama un sciamano per risolvere un grosso problema che li affligge: la siccità. Sono mesi che non piove e, al tempo in cui sono ambientate le vicende, non c'erano bar o ristoranti attrezzati per l'asporto o la consegna e nemmeno le app tipo Just Eat e i rider che caricano le pietanze come per magia e le portano direttamente a domicilio. Bisognava seguire tutta la filiera produttiva del cibo, cominciando dalla semina e proseguendo con la coltura che aveva, come processo di supporto imprescindibile, l'irrigazione a mezzo acqua piovana. Per questo motivo, capite bene che la mancanza di piogge poteva essere un grosso problema. Lo sciamano convocato per risolvere la questione, quando arriva nel villaggio, viene accolto da gente in preda ad un chiaro esaurimento nervoso. Molti lo vedono disperati come l'ultima spiaggia e un'ansia tremenda aleggia come una cappa opprimente in ogni casa e in ogni via. Nel villaggio poi non si parla d'altro che di siccità, meteo, cumulonembi, rosso di sera bel tempo si spera, rosso di mattina bel tempo si avvicina, cielo a pecorelle pioggia a catinelle. E' quindi con grande sorpresa e un pizzico di sconcerto che gli abitanti constatano come lo sciamano, per risolvere la questione, non faccia assolutamente nulla. Nè una danza, nè un rituale dotato di un minimo di fascino mistico-esoterico. No, semplicemente alloggia nell'abitazione che gli è stata assegnata, si alza la mattina presto, fa una passeggiata, fa quattro chiacchiere qua e là, mangia, rifa una passeggiata, richiacchera, rimangia e va a dormire. Insomma, fa una vita assolutamente normale e tranquilla. La gente comincia a perdere la pazienza e se non lo scaccia come mangiapane a tradimento è solo perché hanno visto Karate Kid e pensano che magari è una roba tipo “Dai la cera, togli la cera” che all'inizio non la capisci ma poi... E infatti, di lì a breve comincia a piovere. Grandi feste, lo sciamano ce l'ha fatta, le ragazze del villaggio gliela danno in segno di riconoscenza e infine lui, dopo un paio di gozzoviglie, se ne riparte solitario verso il tramonto col suo poncho e il suo sombrero.

Non vorrete mica che vi spieghi la morale, vero?

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Volevo chiarire un paio di concetti sulla dittatura sanitaria, dato che potrebbero originarsi dei fraintendimenti per quanto riguarda il mio ultimo post in merito. Da un lato ho l'impressione che qualcuno pensi che io scherzi ed evochi dittature sanitarie tanto per spararla grossa e attirare attenzione tipo Miguel Bosè, oppure con intenti provocatori. Dall'altro qualcuno potrebbe ritenere che io creda in modo acritico al concetto così come viene propagandato da una certa parte politica o movimento d'opinione. Siccome non tutti hanno la voglia di leggere un lungo post, farò un riassunto brevissimo di quanto dirò: mi ritrovo quasi appieno nelle idee di Jacques Ellul che parlava di una sorta di dittatura della tecnica: ebbene, io credo in una dittatura della tecnica che si esprime in una tecnica sanitaria (fra le altre) secondo le concezioni dell'autore citato, il quale non era un complottista ma semplicemente osservava come il cosiddetto “fenomeno tecnico” fosse una sorta di forza soprannaturale e incontenible che si sarebbe espansa al punto da costituire un rischio per l'uomo. Jacques Ellul era un francese e scriveva saggi molto lunghi. Siccome a me piace molto la tematica in oggetto, ne ho scaricato illegalmente vari ebook (ricordo sempre che questo è un blog di fiction e non dice sempre cose vere) ma, una volta capito il ragionamento di base, divengono chiari tutti i passaggi successivi e per tale motivo, di tutti i libri scaricati, non ne ho finito manco uno, quindi non posso dichiararmi d'accordo con le conclusioni dell'autore, non conoscendole. Però vuoi mettere citare Jacques Ellul?

Tornando alla dittatura sanitaria, vorrei specificare quindi che, nonostante io ami molto il complottismo e mi piaccia molto citare anche Stephen Gunn (autore di una serie di romanzi di azione a buon mercato) il quale asseriva per bocca del suo protagonista (“il Professionista”) che “puoi anche non essere paranoico ma questo non vuol dire che i complotti non esistano”, non ritengo che al momento ci siano elementi per ipotizzare un astuto piano di una elite mondiale che ha prodotto queste restrizioni alle nostre libertà (ma se avrete la pazienza di leggere i miei futuri post non escludo che asserirò anche l'esatto contrario).

Dirò di più: a me i coprifuoco piacciono. Il distanziamento sociale non mi pesa affatto, anzi. Credo che, se riapriamo, ripartiranno i contagi a rotta di collo (non che si siano fermati). Potrei indagare meglio sulla mortalità, sulla diffusione, sugli andamenti matematici ma so che mi mancheranno sempre dei dati per risolvere il problema nella sua interezza e per questo desisto. Però non posso fare a meno di notare una cosa. Questa è la prima epidemia che stiamo tentando di sconfiggere attraverso interventi centralizzati dello Stato e degli organismi sovranazionali. Ad esempio so, per aver giocato un pochino a Victoria 2 della Paradox, che fino al 1800 il mio paese faceva parte dello Stato Pontificio e che non c'era l'OMS. Nel 1900, con la spagnola, lo stato nazionale non era così omnipervasivo.

Come diceva Ellul, una delle tendenze della tecnica è quella della centralizzazione, che sia per sfruttare le economie di scala, per incrementare il potere contrattuale, per utilizzare risorse preziose e pericolose (tipo l'energia atomica), per proteggersi da forze ostili attraverso un monopolio organizzato della forza. Ma la centralizzazione, pur se più efficace, è inefficiente e produce un eccesso di analisi. E, come sappiamo, l'analisi è paralisi. Voglio citare Agamben stavolta. Agamben, parlando dell'architettura, la descrive come una facoltà disabilitante. Cioè, finché non conoscevamo l'architettura, costruivamo case anche senza le relative conoscenze. Ma una volta che siamo laureati in architettura, non costruiamo più case. La laurea in architettura è, in questo senso, disabilitante: provate a trovare un architetto che si è messo di buzzo buono a metter su un'abitazione mattone su mattone o tronco su tronco. Non l'ha fatto perché il progresso della tecnica gli impedisce di costruire con le grezze tecniche di un tempo che pure egli controllava e impiegava autonomamente di persona ma lo costringe a farlo con le tecniche moderne che lo escludono dalla realizzazione pratica e, in un certo senso, dal controllo diretto della situazione. Lo rendono, in una parola, dipendente da una struttura tecnica di supporto. Fate un bel balzo concettuale e trasferite il tutto a questa pandemia: quanti biologi conoscete che, pur sapendo tutto di virus e avendo lauree o esperienza di lavoratorio, hanno fatto qualcosa di pratico contro questo virus? Intendo: trovare una antidoto o una cura. Al massimo qualche test di laboratorio e il test è arrivato da qualche azienda farmaceutica con le istruzioni e i macchinari allegati. Prendete Matteo Bassetti: cosa ha fatto di pratico contro il virus? Niente, solo un po' di divulgazione in TV (qualcosa che si può apprendere tramite tecniche comunicative, ad esempio nella rinomatissima facoltà di Scienze della Comunicazione) oppure ha gestito l'ospedale (attraverso tecniche organizzative e burocratiche). Insomma, converrete tutti che Matteo Bassetti è un tecnico e non uno scienziato o un taumaturgo, e non è molto diverso in fondo da una massaggiatrice tailandese. Questa cosa della massaggiatrice tailandese non è per sminuire Bassetti ma perché recentemente ho rivisto Banzai con Paolo Villaggio sul Canale 34, dove il nostro andava da una specie di magnaccia delle massaggiatrici che prometteva belle ragazze con cui si poteva fare “tac-tac, pum, pum!” (e gesto a pugno chiuso e piegato con palmo che spinge ritmicamente in avanti a mimare l'atto sessuale). Ecco, Matteo Bassetti è come una massaggiatrice tailandese che ha la tecnica per fare tac-tac, pum, pum! Ragiono per paradosso, Jacques Ellul non ci sarebbe arrivato nei suoi saggi perché era un accademico, anche se brioso e anarcoide. Ma la morale del post è chiara: abbiamo delegato alla conoscenza tecnica specializzata troppe cose e questo crea frustrazione, spaesamento e, per chi crede nell'autonomia del giudizio e nell'intuito o nel raziocinio del singolo essere umano a contatto con la realtà e coi suoi simili, preclude, forse, una soluzione più semplice ed efficiente per la situazione in cui siamo finiti. Una soluzione basata sulla beata ignoranza forse, ma pur sempre una soluzione in cui l'essere umano ha l'idea (illusione?) di contare e fare qualcosa.

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Qualche estate fa mi trovavo a passare di fronte ad una serie di manifesti sconcertanti. O meglio, si trattava di manifesti assolutamente normali per il periodo dell'anno ma la loro concentrazione dava come risultato un effetto particolarmente curioso. Annunciavano concerti di tribute band, in particolare c'erano le tribute band di Battisti, di Dalla e dei Queen. Ora, come forse saprete, Dalla e Battisti sono morti e lo erano anche in quell'estate. Quanto ai Queen, non sono tutti morti ma la loro figura più iconica lo è sicuramente: parlo ovviamente di Freddy Mercury i cui baffoni, assieme ai ricciolotti di Battasti e agli occhialetti di Dalla, campeggiavano in bella mostra sulla locandina del concerto che tributava loro un omaggio. Più avanti avrei avuto modo di realizzare che la mia osservazione sui cantanti morti non era particolarmente originale e a questo proposito c'è il bel libro “Retromania” che analizza questo fenomeno di cui accenna oggi il presente post, ossia il costante sguardo al passato che caratterizza i nostri tempi postmoderni. In quel momento l'unica cosa che mi veniva in mente era un racconto di Stephen King intitolato “E hanno una band dell'altro mondo” in cui una coppia in auto finisce in un paese in cui si aggirano Elvis Presley e una serie di altre celebrità della musica tutte rigorosamente defunte. Dove sono capitati? All'inferno? Nel paradiso della musica? In un'altra dimensione?

Questo momento aha (definizione che viene dalla psicanalisi ma non solo, perché ormai è tutto pop) mi ha colto di nuovo l'altro giorno, allorquando passando di fronte ad un'edicola, vedo la copertina di TGM (aka The Games Machine, rivista italiana di videogiochi) su cui campeggia come titolo di richiamo... Diablo 2! Ma com'è possibile? – mi chiedo. Ho una copia di Diablo 2 in casa... Di più: ero sicuro che fosse uscito pure un terzo capitolo, Diablo 3, investito da una serie mastodontica di critiche e polemiche, tutte giuste tra l'altro. Forse la pandemia sta massacrando la nostra sanità mentale? Osservo meglio la cover e scopro altri due titoli citati: Mass Effect e... addirittura Wing Commander!

Mi torna allora in mente, come direbbe il Battisti nominato in apertura, che quando ho cominciato a scrivere questo blog avrei voluto pensare ed elaborare un nuovo concetto di videogioco indie e che avevo cominciato a fare riflessioni in merito. Poi ho finito col fare recensioni di roba della preistoria videoludica oppure col rimpiangere i bei tempi antichi. E allora mi sono detto: basta guardare al passato! Voglio vedere al futuro e voglio cominciare a recensire videogiochi nuovi e recentissimi! Non importa se non li gioco, prendo la recensione su Gamespot, la traduco in italiano col traduttore automatico, la cambio un po', ci faccio un paio di riflessioni personali che danno umanità e colore e il gioco è fatto. Il mio sarà di nuovo un blog di videogiochi che guarda al futuro. Ma ahimè, su Gamespot il titolo di punta è Diablo 2. E il recensore si abbandona alle sue stucchevoli riflessioni personali che danno il suo personale colore, tanto da farmi pensare: dove sono le fredde recensioni anglosassoni di una volta? Ma chi vi credete di essere? Se continuate così farete la nostra fine. E niente, bisogna continuare per l'ennesima volta a fare le cose tutte da soli.

P.S. Vi ricordate dei bei tempi andati quando in America, girando in automobile, ci si poteva perdere in qualche fottuta dimensione alternativa o casa stregata e la cosa aveva pure un minimo di realismo perché non c'era il cellulare?

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Ricomincio a scrivere per riprendere la mano. L'intenzione è quella di pubblicare con una certa regolarità, a giorni fissi, in particolare avevo pensato al martedì, al venerdì e alla domenica. Ho visto che su Writefreely, che ospita i miei scritti, è stato rimosso il limite di 500 parole e quello ancor più antico di 5000 caratteri. Questo non può che essere un bene perché impedisce che il potenziale scrittore si spaventi di fronte alla prospettiva della lunga dissertazione che l'attende e non cominci neppure a buttar giù mezza parola. Ad esempio, questa riflessione non è abbastanza lunga e significativa da meritare la qualifica di post? Direi di sì, anche se non la terminerò qui. E d'altronde se Agamben si può permettere di fare post corti, lui che è filosofo quindi produttore professionale di scritti e ragionamenti lunghi e ponderosi, perché non posso farlo io? Eppure diligentemente ho sempre seguito le regole anche quando, attorno a me, vedevo persone che pubblicavano boiatelle da pochi caratteri (“boiatelle” non contiene un giudizio di valore, solo di lunghezza). Forse è questo il mio problema di sempre: seguire le regole in modo troppo pedissequo. Però alla fin fine, vedendo che gli altri se ne fregano di seguirle e vedendo un cinismo di fondo per il quale tutti dicono “See, vabbè è cosi ma io faccio come mi pare!”... beh, forse seguire le regole in certi casi è un atteggiamento trasgressivo. Non in tutti, ovviamente. Questa, ad esempio, non è una riflessione che si può trasferire a cuor leggero anche al miglior modo di comportarsi nella dittatura sanitaria mondiale che stiamo vivendo. Difatti, in queste circostanze, non ho ben capito se seguire le regole in modo pedissequo può aiutarci o meno a uscire prima dalla situazione assurda in cui siamo: in pratica potremmo elabore la figura inedita di “accelerazionista della dittatura sanitaria”. Prendete quest'ultimo concetto scaturito su pagina dalla punta delle mie dita di dattilografo provetto (titolo di cui mi fregio avendo giocato molto a “Typing of the Dead”) senza abbinarlo a complottismo, destra, Qanon e compagnia cantante: se è stato istituito un coprifuoco vuol dire che c'è qualcosa che ci impedisce di vivere liberamente, qualcosa presente adesso in situazione di emergenza ma presente ovviamente anche prima, quando esistevano solamente le istituzioni democratiche liberali che forse tanto democratiche e liberali non erano. O forse, ad un certo punto, hanno smesso di esserlo senza che ce ne accorgessimo, sopraffatte dalla tecnica, dalla statistica, dall'informatica e dai media. D'altronde, come l'amico si vede nel momento del bisogno, anche le istituzioni democratiche e liberali si vedono nel momento dell'emergenza. Che bello terminare il post quando si sono terminate le cose da dire!

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E' molto tempo che non scrivo e ho pensato che ritornare a fare un post con l'avvento della primavera possa essere un buon viatico per la ripresa dell'attività del blog.

La tentazione è sempre quella di parlare dei massimi sistemi ma questo è nato come blog di videogiochi, per quanto non giochi più come un tempo (ma sempre più di un qualsiasi programmatore di shader che si droga con le sub-subroutine e si professa C++ evangelist). Per questo sarò costretto a continuare a parlare di questo argomento che un po' odio. Ma... odi et amo, diceva quello.

Così, rapido ed efficace, vi parlo del videogioco che ho provato ieri. Si tratta di Strike Fleet ed è nientemeno che un gioco della Lucasarts del 1988 di cui ho giocato la versione per DOS tramite emulatore.

Avete mai fatto la recensione di un videogioco?

Giocare ad un videogioco con lo spirito del recensore è una cosa molto diversa rispetto al giocarlo con lo spirito del giocatore. Come parte la schermata iniziale, il recensore si prepara a scrivere frasi del tipo: “La presentazione è già sciatta e sa di prodotto raffazzonato alla bell'e meglio”. Invece il giocatore si lascia prendere dalla meraviglia oppure fa “Mmmh...”. Interpretare il giocatore è più divertente ed è per questo che quando ieri ho provato la mia partita a “Strike Fleet” non avevo la minima idea che ne avrei fatto la recensione, pertanto ho goduto del titolo come un giocatore qualsiasi. Quindi quello che leggete oggi è, in effetti, un documento unico e irripetibile: una recensione scritta con uno “spirito da giocatore” preservato incontaminato da qualsiasi velleità di recensore. E' come una perla rara. E' come un'opera d'arte digitale resa unica dalla blockchain e comprata per milioni di dollari da non si sa chi (probabilmente Elon Musk).

Strke Fleet

Come parte la schermata iniziale, che non è malaccio per un gioco del 1988, la prima cosa che noto è che il mouse non è supportato. Anzi no, il mouse non si può usare (supportare è un verbo da recensore). E io penso: bene! Un gioco ostico sin dall'interfaccia! E poi è un gioco di guerra, non solo è normale che sia ostico ma anche doveroso. Un gioco per devoti, per maniaci. Ho sempre sognato di affezionarmi ad un gioco così. Ho sognato un giorno di poter rispondere a chi mi chiedeva “Hai una passione particolare?” con la bellissima frase dal forte valore identitario “Sì, sono un appassionato di Strike Fleet”. Strike Fleet è un gioco di battaglie navali e non è affatto una simulazione realistica in effetti, questo lo so dai commenti in rete. Se volessi trovare quello spirito identitario in una simulazione di guerra navale forse dovrei rivolgermi a Gary Grigsby's War in the Pacific – Admiral Edition però quello è già troppo mainstream per i miei gusti. Tuttavia il pensiero di innamorarmi di un videogioco e costruirci attorno un tassello identitario mi ha sempre intrigato. Così come mi ha intrigato sempre, sin dall'adolescenza, l'idea di trovare degli amici che condividessero la mia passione per Strike Fleet o chi per lui. Creare un club esclusivo, parlare delle caratteristiche tecniche degli incrociatori e delle fregate, discutere del calibro dei proiettili, analizzare le battaglie storiche. Ma niente, tutti appassionati di calcio e di fica, così ho dovuto adattarmi. Ma il cruccio mi è rimasto. Quando parte la schermata iniziale – dicevo – varie opzioni mi si presentano. Quella predefinita mi invita a giocare uno scenario. Uno scenario? Questa non è un'avventuretta da una botta e via! Questa è una lunga e romantica storia d'amore e comincia proprio ora, cliccando il tasto “Campagna”. Sarà una campagna epica e appassionante, dove le nostre navi viaggeranno oltre i propri limiti tecnici e i nostri uomini lanceranno il cuore oltre il proverbiale ostacolo. Sarà un'epopea bellica intrisa di eroismo, in cui tenderemo cuore, tendini e nervi a servire lo scopo anche quando saranno da tempo sfiniti. Clicco “Campagna” col petto in tumulto. Ho a disposizione tot punti e li devo distribuire tra navi leggere, medie e pesanti per andare a comporre la mia invincibile flotta. Fare tutto per tastiera è macchinoso. Un tasto per ciclare il tipo di nave e un'altro per ciclare il nome. Appaiono anche i nomi delle navi che sono state già inserite nella flotta e bisogna stare attenti a prendere quelle non ancora selezionate ma questo lo capisco dopo un minuto. Finalmente, lasciando tre punti non distribuiti, completo la compagine e arrivo alla mappa del mare. “Mmmh...” Non è un granché. La gestione tramite tastiera è un disastro. O forse non è un disastro ma... Provo a impostare una rotta. “Mmmh...” Non vedo manco delle piccole icone simboleggianti le navi che si muovono piano piano. Ma non è che è a turni? Boh, ma chissenefrega. E così cancello dall'hard-disk. Una grande storia d'amore morta sul nascere. Forse era meglio se affrontavo il gioco come recensore, almeno uno scenario l'avrei provato a completare... Ma continuerò a sognare perché la rosa più bella è quella che non colsi, questo si sa, si è sempre saputo e sempre si saprà.

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