Gippo

Gippo – Un blog gestito dal Comitato Yamashita

Penso si sia giunto il momento di parlare in tutta tranquillità di videogiochi italiani. Mi sono sempre chiesto come mai non ci sia stata una fioritura di videogiochi italiani nel corso della lunga storia videoludica. Mi sono domandato perché non sia nata una corrente, un movimento, una linea espressiva chiaramente legata al nostro bel paese e in grado di modificare o quantomeno influenzare la forma del videogioco così come la conosciamo oggi. Tanto per intenderci, mi interrogo nello specifico sul perché non si sia mai originato un filone tipo gli spaghetti-western o le commediacce anni ’70 per il cinema, cioè non solo una corrente creativa capace di catturare l’attenzione mondiale e diffondersi al grande pubblico ma anche una serie di titoli capaci per lo meno di attrarre un po’ di aficionados nostrani in virtù di una serie di riferimenti locali, tipo personaggi, usi e costumi dialettali (vedi cinepanettoni, sempre per il cinema) o giochi di parole intraducibili (alla maniera dei film di Ciccio e Franco o Totò). Invece nulla o quasi. Sì, qualche titolo automobilistico o motociclistico ma siamo lontani dal dire che siamo entrati da protagonisti, o quantomeno da espressivi caratteristi, nel media-videogioco. Perché? Proverò a rispondere con un paio di riflessioni.

1. Il videogioco si presta poco a caratterizzazioni di qualsiasi tipo

Se ci pensate, non è che le caratterizzazioni nazionali abbiano avuto un impatto molto potente sulla forma dei videogiochi. Ad esempio, avete in mente il tipico videogioco francese? O il tipico videogioco norvegese? In realtà ci sono solo grandi successi isolati che spesso non si distinguono affatto da una produzione statunitense o inglese. Se Clash Royale, per il mobile, fosse stato ideato da un manipolo di programmatori canadesi, anziché dai finlandesi della Supercell, non ci saremmo affatto stupiti. L’unica eccezione sono forse i giapponesi per due ordini di motivazioni: a) hanno avuto fortuna col genere del gioco di ruolo con combattimento a turni alla Final Fantasy al punto da considerarlo quasi “cosa loro” (difatti adesso è chiamato J-Rpg); b) hanno trasmesso l’estetica manga e anime, che tanta fortuna ha avuto in patria e all’estero, nel mondo videoludico. Al di là di questo, la dinamica di gioco obbliga nella maggior parte dei casi a regole stringenti. Solo videogiochi come le avventure grafiche o le visual novel potrebbero sfuggire a queste regole. Ma parliamo di un genere considerato abbastanza di nicchia e, non casualmente, molto più vicino al media cinematografico rispetto a tutto il resto della produzione. Questa difficoltà a fornire di caratterizzazioni nazionali o, in generale, culturali ci porta ad un’altra domanda. Posto che non abbiamo potuto, come italiani, personalizzare l’esperienza di gioco, come mai non è stato possibile creare “grandi successi italiani”? Risponderò dicendo che…

2. Il videogioco si è trasformato troppo presto in una impresa ad alta intensità di capitale

Finché il prodotto videogioco poteva essere sfornato da un paio di giovani volenterosi in un proverbiale garage in provincia di Seattle, gli sviluppatori italiani hanno avuto qualche speranza. Ma creare un videogioco da vendere voleva e vuol dire aprire una partita iva, cioè mettersi nelle mani del nostro Fisco, un’entità paragonabile ad una divinità bizzarra e mutevole. Questo ha generato una selezione avversa alla radice: solo coloro che non sanno far di conto hanno scelto negli anni passati di avviare un’impresa (perché di questo si tratta) che sbarcasse il lunario cercando di vendere videogiochi. Videogiochi che, tra parentesi, sono tra le cose storicamente più piratate e “condivise” fra i giovani. Quando i due ragazzi del garage non sono stati più sufficienti a sfornare un prodotto che potesse andare incontro al mercato, con l’ingresso del 3D e delle megaproduzioni, allora l’Italia è uscita direttamente dai giochi. Mentre all’estero, ad esempio nel mondo anglosassone, i videogiochi venivano incentivati e finanziati in vario modo in quanto rappresentanti di un settore innovativo, qui da noi vigeva un silenzio che solo recentemente qualche tardivo intervento governativo ha cercato di interrompere. Diciamo pure che il fenomeno indie ha dato l’illusoria sensazione, negli anni passati, che bastasse far uscire una pretenziosa boiatella dichiaratamente non mainstream per diventare sviluppatori professionisti di giochi, attirando una schiera di ragazzotti senza arte né parte e facendo enormemente crescere delusioni e frustrazioni. Insomma, il videogioco non è sfuggito nel nostro paese alle dinamiche di tutti gli altri settori economici. A quanto pare oggigiorno, se lo Stato non finanzia, le cose non esistono. Si può cambiare questo andazzo pericoloso ma a costo di grandi sacrifici o di miracoli, tipo singolarità tecnologiche, magiche o mistico-esistenziali. Al momento però è così.

3. Il videogioco sconta la crisi del nostro sistema culturale

Parliamoci chiaro: cosa abbiamo prodotto di recente come biglietto da visita nel mondo a parte Paolo Sorrentino che imita a modo suo Federico Fellini (già uno che viaggiava tanto di nostalgia)? Poco o nulla – è ancora la risposta. Questo perché la cultura, come diceva Henri Laborit, non è quella bella parola che ci vogliono far credere ma è la cultura dei dominanti sui dominati. E noi, come Italia, siamo evidentemente dominati. Intendiamoci bene: non voglio fare il nazionalista perché non c’è nulla che mi disgusti di più. Però, a livello culturale almeno, dominati lo siamo. Forse lo siamo per mancanza di entusiasmo, di fantasia, di stimoli. Ma l’umore, detto tra noi, non è particolarmente buono dalle nostre parti e l’atto creativo richiede molta energia. Vedo l’effetto di questa dinamica anche sulla mia persona. La crisi del videogioco non è forse il sintomo più evidente di tutto questo e probabilmente è sbagliato utilizzare una riflessione sul videogioco per allargare il discorso ad una crisi generale della genialità, dell’immaginazione, della prospettiva futura. Ma questo è un blog di videogiochi e se si vuole capire quel che accade al centro bisogna prima analizzare la periferia (come dicevano quelli) ovvero i fenomeni minori, i piccoli dettagli, le constatazioni insignificanti. Come il fatto che l’Italia non è la campione mondiale della produzione di videogiochi di successo. Per colpa degli Illuminati di Baviera.

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Non ero più stato a passeggiare vicino alla vecchia palestra. Mi era sempre piaciuta quella zona, leggermente sopraelevata rispetto alla statale, una sorta di mini-quartiere residenziale nascosto al traffico grazie al dislivello e alla strada in salita. Gli edifici più grandi e ormai dismessi li preferisco perché testimoniano la fine di un'era in cui pensavamo che avremmo potuto erigere impunemente mastodontiche cattedrali personali nella convinzione di vivere in uno Stato democratico e liberale. Per un po' era stato bello: si poteva fare qualunque cosa e nessuno ti rompeva le scatole. Poi era arrivata la burocrazia, erano giunte le tasse sugli immobili, era arrivata la crisi.

Ma la crisi passerà, stringete i denti, abbiate coraggio, siate imprenditori di voi stessi.

Però la crisi non passava. E siccome tutti non ci si poteva mettere a spacciare la droga, qualcuno si organizzava per realizzare il suo sogno. Un sogno strano, che comportava sempre il faticare, possibilmente in una attività professional lavorativa degna di questo nome. Un'attività in attivo, altrimenti si sarebbe chiamata passività. E così ecco che piccole combriccole di personal trainer, giovani e bellissimi, sodi e atletici, si univano in forma di cooperativa o associazione per affrontare il mercato in espansione del wellness/fitness. Tra questi, l'associazione che gestiva la vecchia palestra. Avevo letto qualche anno fa la triste fine della palestra. C'erano lavori da fare, non si poteva più andare avanti con le infiltrazioni. Ma il proprietario non voleva collaborare. Aggiungiamoci la crisi (ma passerà!) e la diminuzione degli introiti. Due calcoli freddi (Ma è il tuo sogno! Ci vuole coraggio! Sii imprenditore di te stesso!) e subito appariva evidente che la spesa era improba. Paola fece un bellissimo e struggente post su Facebook sulla fine del suo sogno, anche se forse non si chiamava nemmeno Paola. Comunque, pur non avendola mai vista, Paola la immaginavo con due glutei sodissimi, non per sminuire le sue toccanti riflessioni con una sessualizzazione fantastica ma per fare da contrappeso alla loro mestizia, in una sorta di equilibrio fra yin e yang.

Arrivando vicino alla palestra getto uno sguardo verso la vecchia officina. C'era dentro una volta un'auto d'epoca, arrugginita e senza finestrini, ma adesso non c'è più. C'era anche un piccolo congegno di quelli che si trovavano nei luna park degli anni 80-90, un accricco che stampava fogliettini in cui veniva rivelata l'affinità sessuale di coppia dietro versamento di monetina. A quel tempo non sapevo che esistesse una cosa chiamata affinità sessuale di coppia, anche se guardare Edvige Fenech nuda mi provocava formicolii al basso ventre che non mi sapevo spiegare. Comunque nemmeno quel congegno c'è più, sparito con tutta la sua magia cialtrona, tipo le inserzioni che vendevano gli occhiali a raggi X. O il conte Dante e la famigerata tecnica della mano velenosa.

L'officina è stata ripulita, riverniciata, rimessa a nuovo, svuotata. Lasciare i vecchi cimeli pare brutto in questi ultimi anni di cosmesi in putrefazione, allora meglio dare una mano di vernice, ristabilire il giusto decoro, anche quando non c'è più nulla da decorare. Passo avanti e la palestra è ancora lì. Almeno lei sembra la stessa. I vetri sono sempre sporchi ma trasparenti e dentro scorgo ancora il baretto e qualche tavolino spoglio e scolorito dove i soci dell'associazione, nonché clienti, potevano degustare un caffè. Ma sobbalzo di fronte ad una visione: una ragazza diafana, dai lunghi e lisci capelli corvini, appare da dietro il bancone e mi sorride. Rimango a bocca aperta e non riesco a muovermi mentre la vedo avvicinarsi alla porta a vetri per aprirla. Ha una tuta in acetato con una strana fantasia che sembra il tipico motivo di un kimono giapponese. “Salve!” mi dice “Entri, prego”. La voce è calda e vellutata e io, superando il mio imbarazzo, decido di obbedirle. “E' un frequentatore abituale di questa palestra?” “Degli esterni di questa palestra, sì” dico con sincerità “Un po' meno degli interni...” Lei mi guarda atteggiando una smorfia perplessa inclinando il capo, poi mi sorride. E rimane in silenzio. Mi sento a mio agio, stranamente, inspiegabilmente a mio agio, e osservo al di fuori dei vetri scoloriti. Solo una volta sono entrato in quella palestra per informarmi sulla tariffa mensile. Ero deciso a frequentarla perché mi sembrava il buon viatico per un cambio radicale della mia vita. Mi piaceva anche la ragazza al bancone ma non era la stessa anche se era comunque mora. La nuova ragazza mora è più magra e il suo corpo non emana una grezza fisicità come la receptionist di un tempo, ma una inspiegabile, leggera, elegante sensualità. “Non sono la stessa” dice lei e in quel momento non rifletto appieno sull'implicazione di quell'osservazione. Cioé che mi ha letto il pensiero. Ho l'improvviso, impellente bisogno di interrompere il silenzio. “Quando c'era il lockdown, mi ero ripromesso che, non appena fossero ripartite le palestre, mi sarei iscritto.” “Ma non l'hai fatto” osserva lei con durezza, dandomi irriguardosamente del tu “E adesso ci sono nuove guerre, nuove emergenze, nuove cose che debbono occuparci la mente.” “Ma non si può fare più nulla?” chiedo io con una montante angoscia. Perché questa conversazione sta diventando all'improvviso così spiacevole? Non dovrebbe fare qualcosa per attrarre il suo cliente? Perché vuol farmi sentire in colpa anziché blandirmi, coccolarmi e vendermi un abbonamento? Ma forse ragiono coi pensieri di un'altra epoca. Un'epoca passata in cui si era imprenditori di se stessi e con coraggio si realizzavano i propri sogni con la PNL. Un'epoca in cui c'era una fortissima necessità di cantati e ballerini e si allestivano talent show alla bisogna. Ancora una volta la ragazza mora sembra intuire ciò che penso, il mio disorientamento, e mi sorride lievemente, raddolcendo i lineamenti che si erano fatti all'improvviso austeri. Mi prende la mano destra con la sua sinistra e usa l'altra mano per accarezzarmi delicatamente il dorso col suo palmo. Non sono più abituato a questo contatto così intimo con una sconosciuta. “Vieni” mi dice con voce leggera. Trascina la mia mano con dolcezza nella zona degli attrezzi, lontano dalla vista della strada. Si siede sul bordo di una panca e mi mette a sedere di fronte a lei, come due fidanzatini sul muretto. Mi sembra di aver già vissuto quel momento ma non ricordo quando. E nel frattempo i suoi capelli sono diventati ricci. “Ma come...” “Tu hai una specie di passione per le ragazze ricce, no? Quelle ricce ovunque...” Arrossisco come uno scolaretto alla sfacciataggine dell'affermazione. Lei mi appoggia la mano sulla guancia e mi chiede: “Mi dai lo smartphone?” “Vuole controllarmi il green pass?” chiedo, senza il coraggio di rinunciare ancora a darle del lei. La sua risata mi spiazza. “Ah! Ah! Ah! Il green pass!” Non indago oltre e obbedisco. Lei prende lo smartphone e impone la mano sullo schermo. Poi me lo restituisce. “Ora va meglio” dice. Osservo il telefono e c'è solo uno schermo blu con lo screensaver della parola che rimbalza sui bordi. La parola però è in caratteri che non riesco a decifrare. Cirillico? Tailandse? Ripongo allora lo strumento, sapendo che sarà inservibile da ora in poi. Nel farlo, sulle pareti della palestra scopro fotografie che non avevo notato al primo ingresso, vip che forse hanno frequentato la struttura. Miguel Bosè, Enrico Montesano, Pippo Franco. “Stai facendo qualcosa per questa situazione?” mi chiede. Mi giro. I suoi capelli sono di nuovo lisci. “A che proposito?” D'un tratto capisco le foto. Ma non mi esce nessuna parola di bocca. Così parla lei. “Non devi distrarti” mi dice “E' tutto collegato ma non come pensi. Cerchi responsabili, piani, progetti ma cosi facendo perdi di vista la sostanza, che è molto più semplice. Devi osservare questa palestra. Non è diverso da un prestigiatore che agita una mano mentre il trucco si realizza nell'altra.” Rifletto su quello che mi ha detto. Osservo meglio la palestra attorno a me e al posto dei vip negazionisti c'è la foto del conte Dante e vari schemi con la descrizione della sua famigerata tecnica della mano velenosa. Dalla bocca mi partono spontanee una gragnuola di domande. “Ma... non capisco. Dovrei avere una specie di intuizione? Sta tentando di illuminarmi con strane metafore? Sono forse come Neo di Matrix? E Matrix non era solo una complessa allegoria sul cambio di sesso dei fratelli Wachowsky?” Lei non risponde. Nel frattempo si è girata di spalle. Poi, lentamente, la vedo voltarsi verso di me, con espressione impassibile. “Non hai capito un cazzo.” dice serafica. Sospira e si degna di spiegarmi. “Devi osservare la palestra. Che è chiusa. E' tutto molto semplice in effetti...” Di fronte al mio sguardo perplesso prosegue, con tono paziente: “Ricordi quando la prima ditta per la quale hai lavorato stava per fallire? Ad un certo punto era chiaro ed evidente, specie per chi stava in amministrazione. Eppure si facevano ancora le cene aziendali. Si pensava ancora di superare un momento difficile. Si parlava del fatto che la crisi potesse essere un'opportunità. I tuoi titolari non avevano una particolare predisposizione per la letteratura, erano persone pratiche come tutti gli imprenditori. Ma se avessero avuto una formazione accademica nelle lettere ti avrebbero spiegato che crisi deriva dal greco e vuol dire crescita.” “Quante cazzate si dicono...” “Già, ricordi com'era a quelle feste?” “Ballavano tutti” rispondi. “Ballavano come dei matti. Ricordi il camionista con la venditrice tedesca?” “Come sai...” “Non importa come so.” “Ricordo che mi chiese chi fosse quella venditrice e io glielo spiegai. Ricordo che era un po' forte di fianchi ma a lui non importava anzi...” “Anzi...” “Anzi, si buttò in pista verso la venditrice tedesca ripetendo il suo ultimo commento sul suo fisico.” “Che era?” Non rispondo. Come un flashback cinematografico rivedo il camionista che avanza a saltelli tipo l'Alberto Sordi de “Il medico della mutua” (solo a ritmo più rapido) lanciando il suo grido di guerra coperto dalla musica: “E' una chiappona arraposaaa!”. Di fianco l'amministratore prestanome, scatenato con sua moglie, prima di darle il benservito per la assai più giovane receptionist. C'era una sorta di disordinata energia sessuale nell'aria. Ma poi s'era capito che non si poteva continuare così, come se niente fosse. E i più “fedeli” avevano cominciato ad abbandonare la nave. Il titolare pensava che il mondo fosse improvvisamente impazzito. Il tutto era stato rapido, la nave si era inabissata in fretta. “Capisci ora?” mi chiede la ragazza. “Capisco” le dico “La palestra è chiusa. Da circa cinque anni.” “Esatto. Da prima del Covid.” “Prima del Covid.” ripeto a pappagallo. “Da prima della dittatura sanitaria.” “Prima della dittatura sanitaria.” “Da prima della guerra.” “Prima della guerra.” “Da prima degli alieni, dell'applicazione pratica dei viaggi nel tempo, della scoperta della nuova forma di energia libera e inesauribile per la quale Nikola Tesla fu ucciso.” “Eh?” “Lascia perdere” mi dice ridendo. Ma guarda te se una ragazzetta deve prendermi in giro così impunemente... Ancora immersa nelle sue risate, la vedo scomparire pian piano, senza che ci possa fare nulla. Anche stavolta la sacca temporale si è riassorbita. Controllo di nuovo il mio telefono: inutilizzabile. Ma in un angolo del display c'è una sorpresa. E' rimasto attaccato un capello (?) riccio.

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Devo ammettere una cosa: quello che sta avvenendo con questa pandemia mi ha sorpreso. In particolare, pur essendo per mia natura paranoico e, diciamolo pure, complottista, non mi aspettavo di trovare sacche così compatte di persone restie ad accettare supinamente la “versione ufficiale”. Un'altra cosa che non mi aspettavo è che questo malcontento fosse tutto attratto e incanalato, su internet, da una destra più o meno estrema che mischia, nell'analisi spesso fallace dei dati della pandemia, storie di adenocromo, sacrifici satanici, vergini marie che profetizzano e più ne ha più ne metta. A tutti coloro che sono attratti dalla destra voglio dire: non dovete preoccuparvi se questa è una dittatura sanitaria mentre voi la preferite militare! Accontentatevi per ora! L'importante è che un uomo forte o un'elite forte siano giunti al comando e, se siete destrorsi sinceri, sappiate che con l'Autorità avete il dovere morale del rispetto in virtù del valore gerarchico. I vostri avi davano la vita in guerra per il Duce e voi starnazzate come papere se dovete fare uno o due adempimenti burocratici! Mi direte: sì ma sono culattoni. E allora? Sono i più forti e hanno ragguinto il vertice della gerarchia, sicuramente anche grazie ad una investitura di tipo divino: credere, obbedire combattere! Se mai un giorno vi imponessero di prenderlo nell'orefizio anale, ricordare che i vostri avi hanno dato la vita per il Duce e a voi è richiesto solo un piccolo orefizio usato in modo alternativo. Il problema piuttosto è il mio che sono vagamente anarcoide... Detto questo, vorrei capire cos'è questo malcontento. E' una roba creata per essere incanalata meglio, come è accaduto con il Movimento Cinque Stelle, oppure è qualcosa di reale e concreto, un cambio di prospettiva sincero che riguarda la gente comune e che rischia di andare fuori controllo per portare qualcosa di nuovo alla nostra società? Non so che dire in proposito. Però so che di tanto in tanto succede che bisogna votare per dire se Ruby Rubacuori è oppure no la nipote di Mubarak. Pare che siano tutti d'accordo e se non lo sei la gente ti guarda in cagnesco come se fossi Celine Dion che si nutre del sangue dei bambini agonizzanti e terrorizzati per promuovere il progetto MkUltra.

Mi raccomando, dai, mi sembra naturale che Ruby sia la nipote di Mubarak!

Poi, ad un certo momento, di punto in bianco si scopre che Ruby non è più la nipote di Mubarak, anzi, lo si è sempre saputo. A questo scopo vorrei raccontarvi una storia di quando facevo le scuole medie.

Racconto calcistico d'infanzia

Quando facevo le scuole medie, diciamo al primo anno, passavo tutti i pomeriggi estivi a giocare a calcio nel campo di fianco alla chiesa. Ora, seguendo le telecronache calcistiche e interpretandole male (o forse interpretandole a vantaggio di taluni in certi frangenti), era venuta fuori una obbrobriosa regola. Cioé: se la squadra avversaria si ferma tutta assieme ritenendo che ci sia un fallo, anche il giocatore in possesso di palla è costretto a fermarsi, sebbene magari sia diretto verso la porta avversaria e non voglia alcun fallo fischiato, nè a favore, nè contro. Se la squadra avversaria invece continua come se nulla fosse, si da il vantaggio. Ho sempre protestato per questa regola: non aveva alcun senso, nemmeno in prima media. Poi un giorno, in terza media, dopo che avevo cambiato un po' il giro, mi ritrovo a giocare con gli amici del campetto dopo tanto tempo. Provo ad applicare la fantomatica regola, fermandomi, e mi becco una pletora di insulti dai miei compagni di squadra. Nel frattempo la regola era scomparsa ma, non avendoli più frequentati, non me n'ero reso conto.

Succede in continuazione

Succede anche al lavoro. Ad esempio ho lavorato per una persona che pensavo avesse problemi psicologici (eufemismo per dire che in ruoli di potere si comportava da pazzo psicopatico) ma dicevano tutti che era un genio. Poi, quando le cose sono cominciate ad andar male, l'hanno trattata tutti come un pazzo psicopatico, al che lui mi confessò “Ma il mondo mi sembra impazzito!”.

Succede, un giorno Ruby è nipote, l'altro giorno non lo è più. Nel frattempo può capitare che anche chi votava che Ruby era nipote sapendo che non era vero, si era convinto strada facendo e ci restava male. Io ci sono rimasto sempre un po' male anche se non mi sono mai convinto. A mio avviso non si dovrebbe nemmeno porre la questione se Ruby sia o meno la nipote di Mubarak (basta consultare l'anagrafe). Tuttavia ho sempre la consapevolezza che un giorno le cose cambieranno. Purtroppo ci sono un paio di fattori che cospirano contro di noi: 1) Non conosciamo i tempi e spesso le cose cambiano senza che ce ne accorgiamo oppure passa troppo tempo prima che si ristabilisca la verità; 2) Nel frattempo sorgono nuove Ruby che richiedono, ahinoi, una nuova presa di posizione.

Spero che la metafora sia chiara. Anzi, no.

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Vi è mai capitato di leggere un titolo in cui si annuncia la fine di un fenomeno che è andato per la maggiore in passato e ora non è più tanto sulla cresta dell'onda?

A me questi articoli piacciono molto. Ricordo ad esempio “Il blog è morto, viva il blog!”. Mi piacciono talmente tanto queste riflessioni che le cerco proprio nel motore di ricerca: Facebook è morto, Twitter è morto, Internet è morto, Bitcoin è morto ecc.

Come mai questa morbosa attenzione verso la fine dei fenomeni alla moda? Credo che si tratti di un processo di elaborazione del lutto: si attesta definitivamente il decesso per passare oltre. E talvolta la fretta di attestare il decesso nasconde la gran voglia di passare oltre, oppure, più semplicemente, la curiosità di capire cosa viene dopo, chi o cosa prenderà il posto del defunto. Ovviamente ho cercato anche il necrologio del videogioco.

Dire oggi che il videogioco è morto – su questo sono d'accordo tutti – non equivale a dire che nessuno gioca più ai videogame. E' però la constatazione della crisi creativa che ha investito questo media e, in parte, anche la definitiva attestazione del fatto che è rimasto subordinato ad altri media dei quali sembrava dovesse prendere il posto. Di seguito vorrei quindi spiegare le due ragioni per le quali secondo me il videogioco è morto.

1. Non nascono più nuove cose

Ho letto su un forum in inglese (a proposito: il forum è morto, viva il forum!) l'osservazione di un utente il quale sosteneva che il videogioco, inteso come media creativo, fosse morto nel 2007. Cioè dal 2007 in poi è andata sempre peggio, nessuna novità, niente che facesse battere il cuore, fine dell'hype. Non so cosa abbia indotto questo utente a collocare in quella data il decesso ma le sue osservazioni collimano in modo quasi sorprendente con le mie. Io colloco la fine della curiosità nei confronti del mondo videoludico proprio a cavallo tra il 2007 e il 2008 (e anche se non gliene frega niente a nessuno, rivelerò che quegli anni sono stati a mio avviso decisivi sia a livello personale, sia per la storia dell'umanità, anche se molti non se ne sono del tutto resi conto). Nel mio caso la fine della curiosità ha assunto il nome di un gioco ben preciso: “Spore” di Will Wright (quello di SimCity). Uscito nel 2008 aveva risvegliato l'hype per via del fatto che si era presentato inizialmente come un “simulatore di evoluzione”, un videogioco quindi ambiziosissimo. Tuttavia, una volta viste le prime schermate, mi sono subito reso conto che era una robina troppo carina graficamente per assolvere il suo compito di rivoluzionario simulatore dell'evoluzione. Verso la metà degli anni '00 il videogioco assume una forma ben codificata. Questa forma diviene sostanza. La rivoluzione indie proverà a cambiare qualcosa ma il suo unico scopo sarà, alla fine, trovare una nuova forma, una diversa stilizzazione. Io non dubito che piccoli geniacci del game development creino anche oggi delle gemme nascoste ma il punto è proprio questo: le gemme restano nascoste, hanno un'ambizione limitata, attestano una generale saturazione degli spazi creativi e riempiono solo quelle piccole nicchie lasciate scoperte. Ormai è stato tutto esplorato e l'unica cosa che rimane da fare è solo qualche remake o enhanced edition.

2. Il videogioco ha perso contro altri media di più immediata fruizione

Lessi una volta un'intervista dello sviluppatore Chris Taylor (Total Annihilation e Dungeon Siege). Parlando di nuove idee, diceva al giornalista che secondo lui era stato lasciato inesplorato un particolare settore videoludico: quello dei giochi da praticare “rilassati”, ad esempio mentre stai facendo qualcos'altro tipo guidare il trattorino falciaerba. Anche qui ci troviamo intorno alla metà degli anni '00. Gli “idle game” sullo smartphone dovevano ancora venire, quindi onore al merito per l'intuizione. Però il punto è un altro. Se dobbiamo giocare per rilassarci e distrarci, magari per spegnere il cervello... beh, ci sono media che lo fanno meglio. La TV ad esempio. Da quando ho conosciuto la potenzialità del videogioco, l'ho sempre considerata come una cosa vecchia, destinata ad essere soppiantata. Il videogioco ha l'interattività! – mi dicevo. Sbagliavo. L'ho cominciato a capire quando la gente ha preso a commentare con gli hashtag televisivi su Twitter. Anche la TV ha acquistato (pur di riflesso) l'interattività ed è stata una interattività molto più libera e aperta grazie ai social. O meglio: è stata un'illusione di interattività molto più coinvolgente per chi aveva voglia di spegnere il cervello. Poi si è passati di recente alla libertà di scegliere la propria serie preferita fra un numero sterminato di serie TV. Parliamoci chiaro: le serie televisive odierne creano molto più hype di un qualsiasi videogioco (no, non cito Squid Game). Spararsi una puntata è molto più rilassante che superare un quadro. Non so se è mai stato detto: internet è diventato un alleato della Tv e un nemico dei videogiochi. Di quelli single player sicuramente.

Cosa viene adesso?

Cosa c'è dopo il videogioco? Sempre il videogioco. Gli sviluppatori indipendenti o mainstream continuano a produrre e sfornare giochi e la gente continua giocarli. Non voglio nemmeno accennare a quale forma obbrobriosa si debbano conformare oggi i progetti videoludici per poter avere una minima possibilità economica.

Forse personalmente pago la mia formazione antica e demodé. Per me il videogioco era quando mi compravano PC Game Parade. Leggevo di tutti i nuovi giochi e sbavavo di fronte alle schermate sulla rivista. Provavo le demo e speravo di trovare un modo per sbloccare con un hack una sottospecie di gioco completo, operando con l'editor esadecimale. Per me il gioco è sempre stato attesa, speranza, immaginazione. Pensavo: chissà se un giorno sarò talmente ricco da potermeli comprare tutti?

Beh, quel momento è arrivato. Sono talmente ricco da potermeli comprare tutti (poco conta che siano tutti abandonware gratuiti, tutti software scaricabili illegalmente o tutti titoli acquistabili a modico prezzo) ma non ho il tempo, la voglia, la curiosità, la fantasia di giocarli. Sì, ripensandoci il videogioco è proprio morto. Grazie per i bei momenti vissuti assieme. Da domani mi occupo di uncinetto.

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Quella che segue è una storia a fumetti che ho postato in un altro sito...

USAGI (SAILOR MOON) E MARIO DRAGHI: L'INIZIO DI UN AMORE?

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Usagi (Sailor Moon) e il nostro premier Mario Draghi si guardano sorridenti. Io vedo complicità nell'aria e voi? Forse è la nascita di una tenera e improbabile amicizia...

USAGI E MARIO DRAGHI: PICNIC E INSICUREZZE

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L'intesa tra i due cresce: difatti hanno deciso di fare un picnic assieme per conoscersi meglio. I due presto assumono teneri atteggiamenti che lasciano intendere qualcosa di più di un'amicizia... Ma si sa, la strada dell'amore è costeggiata di dubbi e gelosie. Forse memore di passate brucianti esperienze, Usagi esprime le sue insicurezze di ragazza che si confronta con le sue coetanee. Mario Draghi, in un certo senso la rassicura... Ma sono le sue parole del tutto sincere?

USAGI E MARIO DRAGHI: IL TRIANGOLO NO!

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Usagi e Mario Draghi sono finalmente una coppia! Il sabato pomeriggio lo trascorrono al centro cittadino passeggiando in su e in giù, salutando conoscenti, osservando vetrine mentre lei fa progetti e lui annuisce, come una qualsiasi coppia di fidanzati. Tuttavia Usagi continua ad avere il tarlo della gelosia. E questo tarlo ha un nome, un volto, una faccia e un abito da combattente alla marinara: Sailor Mercury! Ma cosa vuole quella smorfiosa? D'altronde nemmeno Mario Draghi sembra del tutto indifferente... Tag “Netorare” in vista?

USAGI E MARIO DRAGHI: CHE BARBA CHE NOIA, CHE NOIA CHE BARBA

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La relazione tra Usagi e Mario Draghi diventa matura. Ora sono una coppia vera, che vive ormai insieme! Potremmo chiamarli gli Usaghi o i Dragi (alla maniera dei Ferragnez) avendo cura di differenziare la pronuncia in giapponese o in italiano per distinguerla da quella dei cognomi singoli. Certo, la convivenza non è tutta rose e fiori e la stanchezza è sempre dietro l'angolo! Lui passa troppo tempo col cellulare in mano (è per lavoro, dice) e lei, come al solito, è gelosa. Ma noi auguriamo loro di andare avanti e di avere una vita felice assieme, a dispetto delle difficoltà e delle perplessità altrui. Specie quelle di certe gatte nere...

FINE

Gippo for Comitato Yamashita

Con la pandemia ho scoperto il filosofo Giorgio Agamben, che ha mostrato, fra i pochi e fra i primi, un profilo critico nei confronti della gestione della pandemia, soprattutto per quanto riguarda la limitazione delle libertà. Il suo modo di scrivere mi è subito piaciuto, il che non vuol dire che approvi tutto quello che ha scritto nè tantomeno che ne condivida l'approccio filosofico. Però mi piace molto il modo in cui argomenta e ho letto tutti i suoi passati post, anche quelli pre-pandemia. Il fatto che racconti cose interessanti si evince dagli spunti che ne ho ricavato per le mie curiose ricerche sul web. Ad esempio ha citato un antropologo olandese che mi ha portato dritto dritto ad una teoria di Mauro Biglino (sì, quello che dice che nella Bibbia si descrivono gli alieni Elohim e non Dio, ma la teoria in questione è diversa e molto più interessante). Oppure mi ha portato ad approfondire la questione della Tecnica come forza totalitaria, da cui le letture (parziali) di Jacques Ellul.

Perché allora oggi cito Agamben? Perché in uno dei suo post c'è lo spunto per il mio post odierno. Dice il filosofo: troppo rapidamente abbiamo sostituito la nostra cultura contadina millenaria con la cultura della fabbrica e dell'operaio. Io dico che ha ragione ma non perché la cultura contadina andava salvata in toto o parzialmente: difatti la trovo insopportabilmente retrograda e servile, asfissiante a dispetto degli spazi aperti della campagna. Con il tempo ho sempre più idiosincrasie nei confronti della cultura in genere, poiché spesso, come dice Henri Laborit, è la cultura dei dominanti sui dominati. Però, al di là della cultura contadina, è l'accettazione troppo rapida di quella industriale e (sì, mi tocca dirlo) capitalista che va stigmatizzato. E c'è un motivo molto valido per dire questo: perché la stessa rapidità con la quale è stata adottata questa nuova cultura non corrisponde alla velocità con cui oggi essa viene “mollata”, smobilizzata, abbandonata, a causa del suo fallimento imminente. Negli anni 50 del secolo scorso, si poteva diventare impiegati del catasto, impiegati di banca, fumettisti, cantanti, piccoli o medi imprenditori e, col raggiungimento dell'obiettivo, che era comunque difficile da conseguire (ma in certi casi un po' meno) si era sicuri di conservare la posizione per tutta la vita. Oggi è tutto un girare, un ricercare, un affannarsi, un sapere/saper-fare/saper-essere, un turbinio di occasioni da cogliere che durano lo spazio di un soffio. Oggi mancano i soldi un po' dappertutto. Perché i tempi sono rapidi e le cose vanno in malora in fretta. E allora... Quanto tempo deve ancora passare prima che la massa di persone che dovrebbe collaborare al raggiungimento degli obiettivi della società si rompa definitivamente le scatole e si sieda in panciolle o si metta a spacciar droga o decida di vivacchiare ai margini delle istituzioni e della burocrazia? Poco, davvero. Già ora esiste una forbice che si allarga sempre più tra chi sta dentro e chi sta fuori. E tanti giovani scelgono volontariamente di stare fuori. Ma anche tanti anziani. Si lasciano andare, non si interessano di burocrazia incomprensibile, nè di tecnologie a loro astruse.

Per la verità, tutte queste riflessioni mi erano venute in mente osservando la mia libreria di videogiochi. Tanti DVD degli anni '00 di questo millennio. Ho pensato che un tempo c'erano delle aziende che creavano i videogiochi. Beh, ci sono ancora oggi ma... boh, non so, mi sembra tutto cambiato troppo in fretta. C'ho un po' voglia di tirarmi fuori ma mica te lo consentono... Ma soprattutto è una domanda quella che tutti si pongono: Cosa c'è fuori?

Gippo for Comitato Yamashita

L'estate è finita. Dice un vecchietto alla fine del manga “Touch” da cui è stato tratto il cartone animato “Prendi il mondo e vai”: “Come li invidio i giovani, amano e vengono amati, lasciano e vengono lasciati ma per loro l'estate arriva sempre, più e più volte...”

Ecco, questa estate è passata, un anno se ne va, sto diventando grande ecc. Ho già parlato del fatto che questa estate ho rivisto “I laureati” di Pieraccioni e ho anche accennato con un racconto fantastico alla mia vaccinazione, adesso è venuto il momento di parlare d'altro.

Paperissima sprint

Quest'anno, per la prima volta, ho visto tutte le sere “Paperissima sprint”. Lo voglio scrivere perché da lunedì ricomincerà “Striscia la notizia” che non mi piace affatto. Ma ho scoperto che “Paperissima sprint” è invece una trasmissione bellissima! Ho anche scoperto per la prima volta le veline e Brumotti, mentre il Gabibbo lo conoscevo già.

Amilcareee?! Dobbiamo stare vicini vicini... Capoccione! Momenti da... briiiividooo!!!

Le veline sono due, una mora e una bionda. Non è che siano delle ragazze che come le vedi fai esclamazioni libidinose però con il tempo ho imparato ad apprezzarle. La bionda, che poi è tinta, in realtà ha origini africane, è una peperina ricca di energia in tutto ciò che fa e dice mentre la mora ha una bella eleganza, sia nelle movenze, sia nelle espressioni, sia nella voce, sempre vellutata e mai sguaiata. In questo scenario anche Brumotti, il funambolo ciclista, risulta simpatico. Per il resto, non credo che debba spiegare come funziona Paperissima: si succedono uno dietro l'altro una serie di filmati a base di comportamenti buffi di animali o bambini oppure “epic fail”, gente che salta, si tuffa, prova evoluzioni o acrobazie varie che, immancabilmente, finiscono in modo catastrofico ma divertente. I filmati si susseguono incalzanti, interrotti solo da un paio di sketch comici col Gabibbo, Brumotti, Shaila e Mikaela, gag veramente stupide ma in senso buono, c'è una generale consapevolezza della loro stupidità senza però quel nocivo compiacimento di chi vuol fare il trash a tutti i costi. Inutile dire che la ragion d'essere principale sono i filmati ma anche il contesto e la confezione sono coerenti e piacevoli. E, a proposito dei filmati, li ho guardati con divertimento ma mi sono anche fatto contagiare un po' dalla leggerezza che trasmettono per via dell'ambientazione tipica. Lo scenario base, salvo rare eccezioni, è quello della vacanza e del tempo libero, deltaplani, sci d'acqua, skateboard, tuffi. Spesso gli scenari sono tipicamente americani, grandi case su viali alberati, aria da telefilm anni 80-90. Oppure mare, spiaggia, sole. Non ci sono connotazioni sessuali ma talvolta si vedono delle belle ragazze. Spesso si susseguono serie di clip tematiche: disastri sotto l'albero di natale, scivoloni in piscina, incidenti nelle gare di bici. Le voci di commento sono fondamentali, se ci si pensa, ma in realtà, se non si è come me che devo fare un post su Paperissima, non ci si pensa affatto, si integrano alla perfezione. Mi è davvero piaciuto quest'anno Paperissima. Purtroppo però da domani non andrà più in onda e anche le veline cambieranno definitivamente.

L'estate dei ricordi

E così, con la fine dell'estate, mi è venuto in mente che avevo fatto una visual novel e che era ambientata in quel paesaggio chiamato estate. Un paesaggio che da un po' di anni a questa parte mi è cominciato a mancare. Vorrei fare con Jerry Calà un paio di discorsi sull'estate, lui si reputa un vero e proprio professionista di questa stagione, in un certo senso ha scelto di associarvi la sua vita professionale. Non solo ha girato una serie di film vacanzieri ma ha coniato una battuta che mi rimbalza in testa ad ogni bella stagione: “Che estate di merda... parliamone!”. Poi ha anche girato un film ambientato in Costa Smeralda e chiamato “Vita Smeralda” che è una specie di inno all'estate così come l'ha conosciuta lui: in pratica a trombare e a far festa con l'amico Umberto Smaila. Ci sono anche lì un paio di frasi significative, talmente significative che Calà le ribadisce con scritta in sovraimpressione alla fine del film, tipo che l'estate non è una stagione ma uno stato mentale o che in estate avviene tutto più velocemente. Francamente non me le ricordo perfettamente e non ho voglia di ricercarle, perché adesso, forse, è il caso che parli della mia estate fantastica: “L'estate dei ricordi”. Appunto.

L'estate dei ricordi

Credo fosse il 2003. Ma di sicuro mi sbaglio. Avevo comprato Darkbasic in una libreria. Un Dvd con il linguaggio per programmare i videogiochi. Poi avevo scaricato la mia prima visual novel. Era un po' zozza in effetti: “Three sisters”. Era la classica visual novel giapponese, un po' “harem” (cioè con un sacco di ragazze con cui copulare) e ammetto di essere rimasto molto colpito. Non tanto per i disegni zozzi o le situazioni erotiche quanto per la capacità dell'autore di mischiare un registro alto (il thriller, i buoni sentimenti, la trama incalzante) con un registro più basso (essenzialmente le scopate). E poi mi era piaciuto moltissimo il modo in cui le immagini statiche, brutte in effetti, si mischiavano bene con i file midi della musica e con il testo, creando un'esperienza non troppo diversa da quella cinematografica ma decisamente più a buon mercato e alla mia portata. Ecco perché, con la mia copia di Darkbasic in mano, mi misi subito a programmare un motore per visual novel. E una volta programmato, a differenza di quanto sarebbe avvenuto negli anni a venire, mi misi subito a creare un contenuto valido per metterlo in moto, il fottuto motore. Era così, con questa ispirazione, che era nata “L'estate dei ricordi”, il cui inizio citava un po' l'incipit di “Three sisters”, evocando subito quel sentimento così inscindibilmente collegato all'estate: la nostalgia.

Altre estati, altri tempi

Ma non c'era solo questo. Erano altri tempi, con una diversa speranza. Sapevamo tutti che l'informatica sarebbe stata la vincitrice e dovevamo solo capire come sfruttare questa profezia facile facile. A me sarebbe piaciuto creare un videogioco di successo, non necessariamente nel garage di casa. La visual novel poteva essere una strada interessante, mi piaceva scrivere ma a quei tempi non ero capace di disegnare. Chissà, forse ho imparato per potermi autoprodurre il materiale per quella visual novel. Fatto sta che mi buttai sulla storia. Una storia fantascientifica, senza trascurare però l'harem con cui copulare. Alla fine la completai, anche se presi un po' troppo gusto alla narrativa delle scopate. La salvai su un hard disk, che poi cascò e si ruppe. Ma un paio di anni fa mi ritrovai una copia di backup su un Cd, solo che quel Cd non aveva la copia completa ma solo il lavoro fatto a metà. Però, adesso che ci penso, questo paragrafo si chiama “Altre estati, altri tempi” e sto chiaramente andando fuori tema.

Altre estati, altri tempi (2)

L'entusiasmo con cui avevo completato quella visual novel mi ha fatto pensare alla passione dei videogiochi dell'adolescenza. Perché – mi chiedevo quando ero più giovane – perché le persone quando raggiungono una certa età non sono più in grado di apprezzare i videogiochi? Perché diventano così prosaiche e pragmatiche da ritenere i videogiochi una perdita di tempo? In realtà bisognerebbe farsi un'altra domanda cioè: perché ai giovani i videogiochi piacciono tanto? Così mi sono messo a pensare al gioco più assurdo a cui ho giocato: “Tornado” della Digital Integration. Basta dire che per poter volare con quel simulatore di volo bisognava considerare le tre configurazioni dell'apertura alare e selezionarle a seconda della velocità espressa in nodi. Cioè, dovevo avere sottomano (o ricordare a memoria) uno specchietto da cui, verificando la velocità, avevo informazioni su quanto tenere aperte le ali dell'aereo. Perché perdere tutto quel tempo e quella concentrazione per quella inutile complicazione? E perché oggi non ci riuscirei più? Semplice, quando giocavo a Tornado, ancora non ero sicuro del fatto che non avrei mai guidato nella mia vita un esemplare di quell'aereo. Così come non ero ancora sicuro, quando giocavo ad Hardball 5, che non avrei mai giocato a baseball. Così come quando giocavo a Great Courts 2 non potevo prevedere (e come avrei potuto?) che non sarei mai diventato un campione di tennis.

L'imbuto

Diceva un mio amico che la vita è come un imbuto e pian piano le possibilità si stringono come le sue pareti e vieni trascinato giù. L'ho sempre rifiutata come una visione pessimista e deprimente ma ammetto che c'è del vero. E così, tornando all'Estate dei Ricordi, avrei voluto riprenderla in mano, col mio metodo Kaizen, e portarla avanti tra flessioni e righe di storia. Ma non funziona così. Sto ad un punto diverso dell'imbuto e non ho quell'entusiasmo, quell'oceano di possibilità che mi si spalancava tanti anni fa, quando la scrissi tutta di getto. Ma sono ottimista e non credo alla metafora dell'imbuto. Se l'oceano si trasforma in uno stretto mulinello, credo che si debba cambiare oceano.

Pieraccioni aveva ragione

Ragion per cui, amici, non scriverò più la storia de “L'estate dei ricordi” così come mi ero imposto di farlo. Non lo farò, ma non perché il mondo è saturo di videogiochi o perché questo oceano informatico è diventato un piccolo gorgo asfittico. Non lo farò perché è giusto dar ragione a Pieraccioni. Pensavo di sfangarla, di essere diverso da lui ma alla fine siamo animi affini, proprio in quanto esseri umani di mezza età. Non tutti infatti hanno la forza d'animo di Jerry Calà (e la sua libidine!). E sento, qui ed ora, la voce del mio mentore toscano che risuona un po' paternalistica, mentre si rivolge ai suoi coinquilini che non vogliono crescere (e indirettamente anche a me) quasi alla fine de “I laureati”:

“Ragazzi, basta con la ricreazione. La campanella... DLENDLENDLENDLEN! ...e l'è bella che sonàta!”

Hai ragione Leonardo, scusa, non si scappa a questo momento. Scusa anche perché non ricordo se facevi DLENDLENDLEN o DRINDRINDRIN ma ho rivisto “I laureati” già quest'estate e per ora non me la sento di rivederlo.

Alla prossima estate, bischeri!

Gippo for Comitato Yamashita

E così l'altro giorno sono andato a farmi la terza dose di vaccino per poter aggiornare il Green Pass. Giunto al centro vaccinale non vedo molta gente, ci sono solo alcuni ragazzi e qualche ragazza. Col foglio della mia prenotazione, mi presento di fronte ad un'infermiera molto giovane e carina, con la divisa tutta rosa e una scollatura a forma di cuore al centro del petto. Sakura

Per un attimo mi chiedo se non sia una cosplayer piuttosto che un'infermiera. Lei sembra leggere le mie perplessità e mi mostra un tesserino sorridendomi, strizzando l'occhio e passandosi velocemente la punta della lingua lungo tutta l'arcata del labbro superiore. Le sorrido anch'io pure se i dubbi mi rimangono, ma solo nel subconscio. “Allora” mi dice “terza dose, giusto? Che vaccino vuole stavolta?” “Dunque” rispondo “alle prime due ho preso Pfizer che praticamente è il vaccino di Bill Gates, a questo turno lei cosa mi consiglia?” “Che ne dice di questo nuovissimo vaccino israeliano? Gli israeliani fanno sempre molto figo quando si tratta robe all'avanguardia, specie se uno pensa che il mondo sia dominato da una elite pluto-giudaico-massonica. L'esercito israeliano è una macchina da guerra micidiale. Il Krav Maga è una tecnica militare terribile e letale che pratica pure la Canalis. Il Mossad conosce tutto e tutti e influenza i maggiori eventi mondiali. Poi, a tempo perso, usano pure i golem e hanno un contatto privilegiato con Dio, che, come ci spiega Biglino, in realtà sono gli Elohim cioè gli alieni.” “No, grazie, io sono un sincero democratico e penso che gli israeliani non siano diversi da tutti gli altri stronzi che ci sono in giro nel mondo.” “Ah, ma lei è un democratico ma anche un disincantato!” replica l'infermiera, notando la crudezza del termine utilizzato per designare genericamente l'assemblea globale delle nazioni. “Da un po' di tempo a questa parte mi fido solo della scienza e dei numeri. Analizzando tutti i protocolli sanitari di tutti i vaccini esistenti al mondo, la mia scelta cadrebbe oggi sul misconosciuto vaccino del Camerun.” “Wow!” “Ho qualche dubbio sull'indipendenza dei loro analisti sanitari, anche alla luce della subdola propaganda del loro dittatore pluridecennale Paul Biya, ma chi sono io per giudicarli dopo aver visto all'opera Rocco Casalino?” “Non è certo un vaccino molto popolare...” “Credo che la sua diffusione a livello mediatico sia stata frenata soprattutto da ragioni di marketing: difatti il nome 'Bingo Bongo' non ispira di suo particolare fiducia.” “Già, è un po' come tentare di vendere negli Stati Uniti un vaccino russo chiamato 'Sputnik'!” “Ehi, questo è già stato fatto!” “Ah sì, è vero...” Restiamo per un po' in silenzio, poi l'infermiera rompe gli indugi e caccia da un frigorifero una fialetta di vaccino 'Bingo Bongo'. Quindi estrae il liquido verdastro che c'è all'interno con una siringa. Vedendomi nervoso, l'infermiera allarga un po' con la mano la scollatura a forma di cuore di modo che, sbirciandone un capezzolo, possa tranquillizzarmi. La cosa funziona, così può procedere coll'infilarmi l'ago nello spazio fra le sopracciglia, nel chakra del terzo occhio. “Ho dimenticato di dirle i possibili effetti collaterali e reazioni avverse, comunque ho visto che era abbastanza informato in merito...” “So benissimo che potrei sperimentare allucinazioni aventi come protagonista qualche divinità trickster della tradizione animista africana.” “Esatto, se accade non si preoccupi, è tutto normale.” “Certo...” “Ad ogni modo una mia amica ha fatto un vaccino pellerossa ed ha subìto la visita di una divinità trickster indiana, tale Kokopelli, associato alla fertilità, che l'ha messa incinta.” “Sono sicuro che i costi superino comunque i benefici.” “Certamente! Ora si accomodi là e attenda quindici minuti. Poi torni di nuovo qua.” “Come mai?” chiedo preoccupato. Ricordavo delle prime due dosi che dopo i quindici minuti in attesa di effetti avversi, in assenza di problemi si poteva andar via direttamente. “Sorpresa!” mi risponde l'infermiera strizzandomi di nuovo l'occhio e facendo una conturbante linguetta. Mi accomodo fiducioso. Attesi i quindici minuti di rito, torno dall'infermiera. “Qualche reazione particolare?” mi chiede lei. “Beh, non so se si è trattato di un'allucinazione, sembrava così reale... comunque lo spirito del fiume Benue mi ha portato con sè oltre le nuvole e mi ha mostrato i futuri domini del presidente Paul Biya: il Camerun governerà su tutte le nazioni del mondo!” “Ed... ecco... lo spirito del fiume Benue le ha per caso asportato la milza?” “Mio Dio, no!” “Generalmente è la prima cosa che fa quando trasporta qualcuno sopra le nuvole” “N-non lo sapevo, se lo avessi saputo...” “E' un effetto collaterale che conosciamo in pochi. Mi scusi, non gliel'ho detto perché magari ci poteva ripensare!” “Certo che ci avrei ripensato!” “Ma la milza è inutile!” “Ma che discorsi sono!” L'infermiera capisce di averla fatta grossa. Per farsi perdonare si solleva leggermente la divisa, mostrando delle mutandine semitrasparenti. Quando cambia discorso, mi sono già dimenticato tutto. “Arriviamo ora alla sorpresa!” dice tutta giuliva “Con la terza dose il Green Pass glielo aggiorniamo direttamente noi e non deve ricevere SMS nè compilare moduli online, nè stampare astrusi file pdf!” “Ma veramente non è che la cosa mi desse così tanti grattacapi...” dico un po' deluso, aspettandomi una sorpresa più piacevole. “Lei è un osso duro” ribatte chinandosi sulla mia guancia e leccandomela lascivamente. “Molto duro...” aggiunge passando una mano birichina tra le mie gambe. “O-ok, è una bellissima sopresa!” dico. Tutta sorridente mi porge un Green Pass già avvolto in una plastichina trasparente. Gli do uno sguardo volante. “Ehi, qui non c'è scritto da nessuna parte che si tratta di un certificato di vaccinazione! Anzi, la parola 'vaccino' non c'è proprio!” “Già, era proprio una brutta parola, vero? No-vax, no-vaccino, una parola divisiva...” “Si ma...” “Al suo posto c'è una definizione più congrua ed accattivante, in linea con le recenti tendenze alla gamification. Suvvia, dia un'occhiata lei stesso.” Vedo meglio il mio Green Pass e comincio a leggere ad alta voce:

Il giocatore Gippo ha acquisito un segnalino protezione virus. Un giocatore che abbia acquisito un segnalino protezione virus ha una percentuale ridotta del X% di contrarre un virus Covid e una percentuale ridotta del Y% di subire un danno critico da virus Covid, dove X ed Y sono definiti dalle recenti pubblicazioni scientifiche selezionate dal Game Master e calano ad ogni turno di un ammontare definito sempre dal Game Master. Quando X e Y raggiungono 0, il giocatore deve fare una nuova dose.

“Ma che è?! E' una fottuta carta di Magic the Gathering?!? Mi state prendendo per il...” e vorrei inveire ma l'infermiera è stranamente tutta nuda, a parte il cappellino e lo stetoscopio che continua ostinatamente a passare dal capezzolo destro al sinistro e viceversa, lamentando languidamente: “Uuuh! Che brividi!”. Dimentico quello che stavo dicendo. “Allora è d'accordo con me? Vaccino era una parola brutta. Ma soprattutto inadatta.” “Sì, inadatta, sono d'accordo” dico. Mi accompagna all'uscita, sempre nuda. Una volta tornato a casa, mi accorgo che ho un nuovo tatuaggio a forma di antilope sulla spalla destra. Dev'essere un effetto collaterale del vaccino, pardon, del “segnalino protezione virus”. Domani manderò un'e-mail all'Istituto superiore della Sanità Camerunense per consentire loro di aggiornare il protocollo sanitario. Perché sono un cittadino di grande senso civico. Già che ci sono, mi farò pure una radiografia per controllare se ho ancora la milza.

Gippo for Comitato Yamashita

Qualche giorno fa ho rivisto “I laureati”, film di Pieraccioni del 1995, così ho pensato che non ci fosse niente di meglio che ricominciare a scrivere per il blog ripartendo proprio da qui.

Non dobbiamo sottovalutare Pieraccioni e la sua opera. Scrivo questo perché le mie prime impressioni su di lui non furono buone. Nel 1995 (ma probabilmente lo vidi almeno un paio di anni più tardi) ero ancora alla ricerca di qualche maitre à pensèr che potesse rappresentare una bussola o un'ispirazione, un qualcuno alla Nanni Moretti di Ecce Bombo, una personalità estrosa, originale, controcorrente e geniale a cui ispirarmi. Pieraccioni non era e non è nulla di tutto questo. Tuttavia ciò non è motivo valido per il quale la sua filmografia vada snobbata. Voglio chiarire meglio il punto sulla personalità. Se voi guardate questo film, quasi all'inizio trovate una citazione di Salinger: il personaggio di Pieraccioni si chiede, di fronte a Ceccherini, dove vanno le anatre dopo che il laghetto d'inverno si ghiaccia. Penso che sia una roba abbastanza mainstream però, per chi non lo sapesse, è la stessa domanda che si pone il protagonista de “Il giovane Holden”, romanzo di formazione per eccellenza. Ora questa citazione, in bocca a Pieraccioni, sembra una specie di bestemmia per motivi di carisma che non sto a spiegarvi subito. Fare questo genere di riflessioni di fronte ad un Ceccherini qualsiasi senza specificarne la fonte è ciò che i millennial, intrisi dell'odierno gergo corrotto dalla perfida Albione, identificherebbero come un momento cringe. Eppure è chiaro che Pieraccioni vorrebbe proprio ambire al ruolo di piccolo e umile maitre a penser e lo si capisce dai brevi spiegoni che mette in bocca al personaggio del professor Galliano, suo ex professore di filosofia che, con la voce fuori campo del protagonista pieraccioniano, dà rapide e non autorevoli lezioni di vita e di tassonomia (ad esempio: “Dicesi imbuto cosmico quel momento nel quale ecc. ecc.”).

Pieraccioni e filosofia, dicevamo. Quel genere di filosofia spiccia che praticano gli estroversi per rimorchiare. La filosofia è roba da introversi, materia praticata peraltro con moderazione e coscienza della sua pericolosità. Pieraccioni è chiaramente un animatore turistico che non vuole ammetterlo: l'unico atto di umiltà, a cui però rinuncerà nel corso dei suoi film successivi, è quello di delegarne le funzioni al citato personaggio di Galliano interpretato dallo stralunato Alessandro Haber (anzi, “Stralunato Alessandro Haber”: è proprio il nome completo di questo attore) ma si tratta di una delega fatta a denti stretti, con rancore e risentimento, tanto che nel corso del film il regista Pieraccioni si vendicherà invidioso su di lui mettendoglielo letteralmente in culo (ma ci ritorneremo).

La storia de “I laureati” parla di quattro “fuori corso” trentenni che... non vogliono crescere. Eh già. In quegli anni andava di moda il mantra dei trentenni che non vogliono crescere che poi si sarebbe trasformato nel mantra dei quarantenni che non vogliono crescere, poi sarebbero diventati i bamboccioni, poi i giovani “choosy”, poi sarebbe venuto Grillo e avrebbe fatto una delle rarissime cose giuste che ha fatto, ovvero lasciar intendere, nel suo stile colorito, che forse se i giovani si comportano così è perché c'è anche una scelta economica razionale di base. Però allora andava di moda dire che i trentenni non volevano crescere ed era tutto un proliferare di film ambientati in due camere e un tinello dove venivano presentati i trentenni che non volevano crescere e i trentenni di allora erano veramente incazzati per questa storia, assieme a quell'altra che raccontava, attraverso gli editoriali delle riviste femminili, che l'uomo degli anni '90 era “troppo micio e poco macho”. Fortunatamente anche questa narrazione è entrata in crisi, stavolta a causa del fenomeno del femminicidio, e tutte le redattrici che scrivevano che l'uomo era “troppo micio e poco macho” sono state arrestate per apologia di reato e, dopo un percorso di rieducazione, trasformate in femministe e/o attiviste LGBTQ+. Ma dicevamo dei quattro fuori corso protagonisti della trama. Questi erano interpretati da: Leonardo Pieraccioni, Massimo Ceccherini, Rocco Papaleo e Gianmarco Tognazzi. Ora, io ho letto una recensione su MyMovies dove c'è proprio un'osservazione giusta: questi attori, con l'eccezione di Tognazzi, non si allontaneranno mai più dai personaggi interpretati in questo film. Ed è verissimo. Massimo Ceccherini interpreta un folle e sboccato cabarettista che al momento cruciale si lascia scappare una bestemmia ed è curioso sapere che verrà addirittura squalificato per una bestemmia durante una futura edizione de “L'isola dei famosi”. Rocco Papaleo è il solito terrone lucano orgoglioso di esserlo. Ma due parole in più merita proprio Leonardo Pieraccioni. Interpreta con costanza quello immaturo che vuole crescere (ma non troppo) e per farlo non trova altra strada che innamorarsi e fare sul serio con la ragazza madre di turno. Seriamente, il personaggio Pieraccioni durante i suoi film incontra un sacco di ragazze madri, comunque già ingravidate, spesso insicure dell'identità del padre del bambino, ad esempio ne “Il paradiso all'improvviso”, ne “Il pesce innamorato”, in “Ti amo in tutte le lungue del mondo”. Particolare un po' inquietante: la ragazza recentemente morta in fabbrica in un incidente con una pressa a Montemurlo era anche lei una ragazza madre e aveva fatto la comparsa in un film di Pieraccioni. Questa costante simboleggia un po' la sospensione di Pieraccioni tra modernità e tradizione, elemento questo che traspare in numerosi dettagli ed episodi presenti nel film. Pieraccioni si rende conto che la famiglia tradizionale e specialmente il ruolo del padre non sono più gli stessi di un tempo (la Cucinotta, di cui si innamora, accoglie la notizia di una gravidanza con padre incerto come se niente fosse) ma vorrebbe probabilmente tornare a quell'idea, difatti le sue storie sono sempre serie, mai una botta e via, e le modernità degli atteggiamenti femminili rappresentano sempre inevitabilmente una remora da superare prima di buttarsi in qualcosa che fa evidentemente (e naturalmente) paura. Altro episodio significativo in tal senso è quello che vede protagonista Tosca D'Aquino, che in questo film non fa ancora il suo mitico “Piripìììì!!” poggiando il pollice sulla punta del naso e sventolando in chiusura le altre dita. Tosca (“la napoletana”) attira maschi solitari per fargli fare cose a tre col suo partner. Coinvolge dapprima Papaleo, che rifiuterà sdegnato nel suo abituale atteggiamento da terrone lucano orgoglioso e benpensante. Poi riuscirà nell'intento col professor Galliano, il quale sarà inizialmente entusiasta e poi... Qui si consuma la vendetta di Pieraccioni-regista sul professore di filosofia, a cui il buon toscanaccio Leonardo, in un patto faustiano, dà quel carisma e autorevolezza che sente di non avere, in cambio della verginità anale del povero docente. Oggi quell'episodio appare quasi insopportabilmente moralistico, dopo lustri di Youporn, Xhamster, Pornhub ed Hentai.

Vorrei fare anche un breve inciso per il personaggio di Giammarco Tognazzi, che è un po' un pesce fuor d'acqua ma è al contempo interessante per vari spunti storici. Tognazzi è sposato con la figlia di un imprenditore ma si scopa la cognata più giovane e carina. Che poi, sua moglie non è che sia male: si tratta di Elisabetta Cavallotti, attrice che quattro anni più tardi girerà alcune scene veramente bollenti in “Guardami” di Davide Ferrario, in cui interpreterà il declino di una pornostar che si ammala gravemente. Di quest'ultimo film ho impresse, marchiate a fuoco nella mia memoria, le lapidarie e sprezzanti parole di Tinto Brass allorquando chiesero un suo parere in merito ovvero: “Non sono interessato al genere porno-oncologico!”. Ho impresse anche la scena dell'esibizione erotica dal vero al Misex e la Cavallotti che fa un bocchino a Flavio Insinna, ma non saprei dire se il pene è veramente il suo oppure di una controfigura oppure uno di quei falli realistici di plastica che giravano anche nei film del citato e compianto Brass. Tornando a Tognazzi ne “I laureati” mi commuove sentirlo affermare che, nonostante abbia un cellulare intestato alla ditta del padre, non se la sente di chiamare a casa, per dimostrare che “non se ne approfitta”. Ecco, anche questo catapulta il film nel documento d'epoca.

Il personaggio di Pieraccioni, simpatico e perbene, è quello che alla fine del film ricorda a tutti che la ricreazione è finita e che non possono continuare a vivacchiare così, e devono crescere. Devono, magari dopo l'“ultima bischerata”. Ma è chiaro che sta convincendo più se stesso che Ceccherini. Anzi, no, forse sta convincendo Rita Rusic, ex moglie del produttore Vittorio Cecchi Gori, che ha puntato su di lui. Insomma, Pieraccioni, duole dirlo, non suona sincero e tutti i film successivi stanno lì a testimoniarlo. Doveva semplicemente ammettere di essere un animatore turistico più evoluto anziché un filosofo introverso. Ci proverà fuori tempo massimo ne “Il professor Cenerentolo” con una comicità meno impegnata e sociologica, a base di nani e, marginalmente, ballerine.

Leggendo questa recensione, forse penserete che sia stato un po' critico con Pieraccioni. Magari invidio la sua fortuna. In realtà c'è davvero qualcosa che invidio a Pieraccioni e voglio dirlo senza falsi pudori e senza privarlo della verginità anale: l'amicizia con Carlo Conti e Giorgio Panariello. Sarebbe piaciuto anche a me avere almeno un amico col quale vivere un'avventura professionale del genere condividendo la stessa passione (non necessariamente nel mondo dello spettacolo) in modo da sostenersi a vicenda. Comunque Pieraccioni, al di là dei limiti, non è da sottovalutare, la sua coerenza è commovente e spero che questa recensione vi faccia riflettere.

Gippo for Comitato Yamashita

Oggi è un po' come quando dovevo fare 30-40 flessioni a tutti i costi e non avevo il tempo... la tentazione è di saltare l'appuntamento del venerdì col blog ma no, non lo salto! La tentazione è pure quella di infilarci dentro un vecchio post che magari avevo scritto 15 anni fa e che avevo conservato alla bisogna ma no, non ci casco! Perché ho preso l'impegno di aggiornare il blog per riabituarmi a scrivere, non per postare roba di un tanto tempo fa.

Perché scrivere? Perché questa continua, costante ricerca della costanza, dell'impegno, della fatica, della determinazione? Risposta: perché mi fa bene. Al momento è come una droga, prendo la dose che mi fa stare tranquillo, poi un giorno magari capisco come fare a meno della droga e qual è il segreto per vivere felici e soddisfatti. E allora di cosa posso parlare nel poco tempo che posso dedicare a questa attività? Del libro che sto leggendo.

Premessa. Ho trascorso ANNI leggendo, se andava bene, un libro all'anno. Ricordo una volta che, per non fare la parte di quello che non aveva letto manco un libro, mi lessi un romanzetto Harmony raccattato dalla soffitta di mamma. Poi con la pandemia mi sono scatenato. Complice un sito che mi “rifornisce” di molti ebook e del mio Kobo reader, ho letto un sacco di roba. Tutti saggi e manuali. Anche e soprattutto libri di autoaiuto. Mi sono dato questa spiegazione: fin quando le cose andavano abbastanza tranquillamente, non sentivo il bisogno di informarmi, di acquisire frecce alla mia faretra. Quando mi è venuto a mancare un po' il terreno da sotto i piedi ho sentito invece la necessità di trovare nuove armi, di potenziare la sezione Ricerca e Sviluppo, di trovare un vantaggio competitivo. Così leggo tanto da qualche mese. Per me in fondo è un segnale positivo. Ah, sapete perché ogni tanto leggo roba “da femmine”? E' un'abitudine di quando consultavo materiale relativo all'arte del rimorchio a seguito della lettura un libro prestatomi da un amico: “The Game – La bibbia dell'artista del rimorchio” di Neil Strauss. Anni fa, cose da giovani, eh! Il consiglio era di leggere cose “da femmine” per capire meglio le femmine e i loro miti tipo il principe azzurro, il bello e dannato, il cucciolo da salvare, il delinquente da redimere, lo scontroso che si scioglie... quegli stereotipi lì. Per i romanzi mi sono sempre piaciute le scrittrici donne. Ma per i saggi no. Beh, forse è il caso di concludere la premessa...

Che libro sto leggendo? Dico almeno il titolo: “Ufo e extraterrestri” di Roberto Pinotti.

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