Negli anni passati, molti negozi hanno chiuso. Mi piaceva mesi fa passeggiare davanti a quei locali, le serrande ancora abbassate, con un senso di sollievo e di speranza.
“Bene” pensavo “questa assurda fase economica è passata, adesso pian piano ne comincerà una nuova, una in cui saremo tutti più felici e consapevoli”.
Non era il discorso di chi pregusta la fine del capitalismo dal volto disumano. Sapevo bene infatti che la GDO, la Grande Distribuzione Organizzata, con le sue catene e i suoi centri commerciali, aveva cannibalizzato tutti i piccoli negozietti, magari riciclando qua e là i soldi da ripulire della malavita, anch'essa Organizzata.
In tema d'aprire un negozio, pensavo sempre all'esperienza della figlia di alcuni nostri amici. Vari anni fa si reputava di sistemare la propria discendenza aprendo degli esercizi commerciali, solo che quando l'ha fatto la figlia dei nostri amici era già evidente che si trattava già di tutta un'altra fase storica: più che l'idea di “sistemare” c'era l'idea del “passatempo” e della “attività di copertura”, ovvero un'alternativa prestigiosa al lavorare, se non addirittura uno sciupio di risorse a mo' di status symbol.
“Che fa tua figlia?”
“Ha un negozio.”
Oggi un negozio è troppo costoso come alternativa al lavorare e assorbe troppe risorse anche come status symbol. Meglio altri giochi di ruolo.
Se tua figlia vuole aprire un esercizio occorre considerare il settore “estetista e parrucchiera”. Tuo figlio invece può rilevare un bar o comunque qualcosa nel settore “food” (anzi, poteva: aspettiamo come va questa faccenda dei coprifuochi).
Insomma, oggi bisogna tenere sempre un occhio, se non due, al mercato. E anche tenendoceli non è detto che vada bene, perché la concorrenza è tosta e la crisi permanente. Dentro al negozio poi, ci devi lavorare e parecchio; niente spazio per boutique fai da te, tenute con la signorilità dello stilista di moda de noantri.
Poi, certo, c'è chi ce la fa con un'idea nuova, un buon senso degli affari, un certo impegno, qualche spicciolo a fondo perduto... ma tristemente non si parla manco più di start-up con la frequenza di una volta.
Con queste penose considerazioni in testa passeggio pigramente, l'altro giorno per le strade del mio quartiere, quando vedo, quasi come un fungo comparso dalla sera alla mattina, un nuovo negozio.
E' una splendida giornata e nell'aria c'è un'atmosfera serena. Il cielo è limpido e sgombro di nubi. E' una delle classiche ottobrate piene di sole, dono gratuito che la natura ancora ci riserva, nonostante tutto.
Sbircio oltre la vetrina: c'è una ragazza dai lunghi capelli neri dietro un bancone collocato al centro dell'esercizio, che è ampio e luminoso quasi quanto il cielo del mattino.
Il negozio vende cialde per il caffè. Le mensole, non troppo stipate, mostrano questo tipo di merce declinato in una serie di marche diverse e colorate.
Non so perché ma sento improvvisamente il bisogno di entrare.
“Buongiorno!” mi dice la ragazza volgendosi completamente nella mia direzione.
Mi sorride in modo aperto ed elegante.
“Buongiorno.” rispondo io. La bellezza del suo sorriso non può che spingere anche me a mostrare lo stesso segno di cordialità.
“Sono felice che sia entrato...” dice lei, la carnagione diafana e liscia come porcellana, il vestito di seta fiorata. E' gentile ma non affettata e sembra sinceramente contenta del mio ingresso.
“La ringrazio...” faccio un po' imbarazzato.
Mi guardo intorno. Valuto per un attimo l'idea di comprare qualche cialda per il caffè ma mi sentirei in imbarazzo a fare una cosa del genere solo per compiacerla. Non provo alcuna tensione sessuale ma solo uno strano, calmo benessere. Poi, anche se è bellissima, mi sembra quasi un sacrilegio abbozzare un flirt e rovinare quella sensazione. Decido allora di dirle cosa mi ha spinto ad entrare.
“Vede, io passavo di qui. Questo è il mio quartiere... in realtà ho una moka e compro il caffè al supermercato e ne ho pure una grossa scorta e... ecco, sono passato di qui, ho visto questo negozio nuovo e m'è venuta la curiosità di visitarlo.”
“Ha fatto benissimo” risponde lei senza abbandonare per un attimo l'atteggiamento amichevole “Capisco bene le sue intenzioni, lei desiderava accoglierci come nuovi ospiti.”
“Sì, proprio così!” dico io, felice di essere stato ben interpretato “Accogliervi come nuovi ospiti. Ecco, vi do il benvenuto!” esclamo colto da un maldestro entusiasmo.
“Grazie” replica lei divertita.
A forza di sorridere e guardare il suo sorriso, mi porto improvvisamente la mano alla guancia.
“Non ho la mascherina!” esclamo “Mi scusi ma stamattina avevo proprio dimenticato di indossarla però dovrei averla da qualche parte, qui, in una tasca...”
Armeggio un po' affannosamente con le mani nelle varie tasche del giubbetto, prima di rendermi conto che neanche lei indossa una mascherina. La guardo in viso e scopro che non ha mai tolto dalla bocca il suo sorriso gentile. Mi osserva solo con l'aria di chi si chiede: 'Ma quanto ci mette ad accorgersene?'
Quando legge nel mio sguardo che ho realizzato, riprende a parlare.
“Potremmo sederci qui sotto, nascosti dal bancone. Ho due piccoli sgabelli, così nessuno ci vedrà da fuori.”
“Ma così è come se lasciasse il negozio incustodito! E poi non ha altro da fare, non deve almeno mostrare di lavorare? Come le ho detto, io non intendo comprare cialde, quindi tecnicamente non sarei nemmeno un cliente...”
“Il negozio non sarà incustodito. Posso percepire chi entra, anche da qui dietro. Se chiacchieriamo un po' sotto il bancone il tempo passerà, per me, in modo più piacevole.”
Mi sento lusingato vedendola disporre due piccoli sgabelli pieghevoli molto bassi dietro il bancone. Mi invita con un gesto delicato della mano e si siede assieme a me con una grazia quasi ultraterrena.
“Non ha altro modo di passare il tempo?” le chiedo, ancora un po' insicuro “Che so... uno smartphone?”
Lei ridacchia allegra a quella domanda.
“No.” mi risponde infine “Non ho smartphone. Ovviamente.”
Cosa c'è di così ovvio? La guardo e per la prima volta colgo nei suoi occhi un guizzo strano, come una irridente compassione nei miei confronti. Dura un attimo.
“Da quanto tempo avete aperto?”
“Da stamattina.”
“E non avete fatto una festa di inaugurazione? Ah, no, scusi... dimenticavo le restrizioni...”
“Non è per quello” dice lei.
“Per che cos'è allora?”
“Lo sai bene.” scandisce calcando le parole e fissandomi negli occhi.
Cosa dovrei sapere?
Seduti io e lei su quei bassi sgabelli sembreremmo, ad una occhiata superficiale, come due bambini dell'asilo che fanno i loro giochi segreti. Siamo totalmente isolati dal mondo esterno, nessuno può guardarci e sentirci. Il suo tono improvvisamente assertivo mi mette addosso un inspiegabile imbarazzo.
Nel suo sguardo sembra ora esserci una nuova consapevolezza e una inedita determinazione.
“Smartphone... Non possiamo usare nessuna tecnologia che possa interfacciarsi con la loro” mi spiega “Dobbiamo ignorarli.”
Le sue parole sono come uno schiaffo. Mi guardo attorno come per cercare una via di fuga ma quel bancone mi sembra enorme.
“Guardami!” mi dice lei autoritaria riportando il mio sguardo sul suo viso.
Le sue parole cominciano a farmi paura, una paura lontana e indefinita. Soprattutto perché mi pare di poter comprenderne, seppur molto vagamente, il senso. Lei si accorge del mio disagio e il suo viso si raddolcisce. Posa una sua mano sulla mia.
“Abbiamo aperto questo negozio senza dichiararlo a nessuno” continua a spiegarmi pazientemente “Vediamo cialde di caffè ma non solo e non sempre. Se qualcuno dovesse denunciarci o segnalarci alla polizia municipale saremmo d'un tratto chiusi. Ma solo per un po'. Poi riapriremmo. E io sarei qualcun'altra. E il negozio non sarebbe più un negozio di cialde di caffè. Il punto è non esistere. Non interfacciarsi. L'acciaio, la plastica e il silicio sono materiali diabolici, l'unica via è di evitarli e usare qualcos'altro.”
“Io... io non ti capisco.”
“Dobbiamo nasconderci” continua imperterrita “Ci scoprono, ma cosa trovano? Un fantoccio. Un simulacro. Una scatola vuota. Però dobbiamo esserci, forse non sempre e non solo nello stesso posto, ma esserci. Poi sparire. E tornare di nuovo.”
“Cosa...”
“Dobbiamo preparare il futuro. Loro ormai hanno fallito. Ma questo è il momento più difficile. Non si tireranno indietro così facilmente. Sono disperati. Venderanno cara la pelle. Per questo dobbiamo esserci, preservare, presidiare, ma continuare a nasconderci e intanto costruire quello che verrà dopo...”
“Ma... chi siete? E chi sono loro?” dico con la testa sempre più confusa per quell'incalzante successione di frasi sibilline.
“Chi siamo, vorrai dire...” mi corregge includendo anche me nella sua misteriosa fazione.
Il tono di voce si è fatto ora più basso e più caldo. La ragazza sposta la sua mano su, verso il mio braccio, con un gesto languido. Le sue labbra sono socchiuse e le sue pupille umide e dilatate.
“Forse, uno di questi giorni, potremmo trascorrere insieme dei momenti di tenerezza” mi dice in un sussurro.
In quel momento entra un uomo vestito di una strana tuta argentea (una tuta argentea?), il volto stravolto da un terribile senso d'urgenza, le movenze nervose e concitate.
“Svelti, stanno arrivando! Dobbiamo sparire!” urla.
“Sono già qui?” chiede lei con sguardo allarmato.
Subito si gira verso di me.
“Sono già qui!!!” grida “Fuggi! Non farti trovare!”
“Eh?” dico.
“Fuggi, svelto!”
Mi spinge fuori dal negozio con una forza insospettabile e io comincio a correre al grido dei suoi “scappa! scappa!” con l'intenzione di non voltarmi. Ma non posso non farlo.
La guardo, il vestito mosso dalla leggera brezza di ottobre, i lunghi capelli corvini che scivolano sul collo esile.
“Che ne sarà di te?” chiedo ansioso.
“Non preoccuparti per me” risponde lei “Riassorbiremo la sacca temporale. Ma adesso va via!”
Stavolta corro, stranamente rassicurato, e non mi giro più indietro.
Il giorno successivo, torno dov'era il negozio di cialde. Più nulla. Chiuso.
La sacca temporale si era riassorbita.
Ma continuerò a passare di lì.
Gippo for Comitato Yamashita