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Un giorno moriremo. E dopo l'ultimo respiro ci ritroveremo coscienti. Ma ciechi. Sordi. Muti. Senza alcun contatto. Non sentiremo, non saremo alcun corpo. Nessuna alterità. Ci chiederemo dove siamo, ma non avremo alcuna possibilità di chiederlo ad altri. Solo buio, silenzio e angoscia. Non vi saranno il giorno e la notte, il prima e il dopo, il qui e l'altrove. Saremo pura coscienza del nulla. In eterno. Non può essere, dici. Sarebbe troppo crudele. Non può finire così. Ma di fatto, vedi, tutto può essere, e questo incubo è certo più concreto e possibile del paradiso dei cristiani. Già questo mondo è talmente crudele che quando ce lo raccontavano, prima di nascere, protestavamo: no, non può essere, non può finire cosi.

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Ho davanti a me un ciottolo. Io sono io, il ciottolo è altro da me. E se dicessi che io sono anche questo ciottolo? Diresti che non è possibile, perché se così fosse dovrei sentire quel ciottolo esattamente come sento la mia mano o il mio piede. Ma io sono tante altre cose che non sento. Io non sento, a dire il vero, quasi tutto ciò che costituisce il mio corpo. Non sento le fibre dei miei muscoli, se non quando decido di muoverli; soprattutto, non sento le cellule, che pure sono me, non sento le molecole, non sento gli atomi. Una delle cellule che mi costituiscono non mi è meno estranea di questo ciottolo che è ora di fronte a me. Dirai ancora che c'è una differenza decisiva: la cellula, di cui non sono consapevole, è tuttavia dentro di me, mentre il ciottolo è fuori di me. E si intende: fuori da quel confine del mio corpo che è la mia pelle. Ma questa distinzione tra dentro e fuori è un fatto naturale o culturale? Non possiamo immaginare un essere umano che avverta la pelle come porta e non come confine? Come passaggio tra un dentro e un fuori che sono tuttavia entrambi dentro qualcosa di più grande? Non è solo per un pregiudizio culturale che diciamo di non essere questo ciottolo?

स य एषोऽणिमैतदात्म्यमिदꣳ सर्वं तत्सत्यꣳ स आत्मा तत्त्वमसि श्वेतकेतो इति भूय एव मा भगवान्विज्ञापयत्विति तथा सोम्येति होवाच ॥

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Vivere in pace pur sapendo che in tutti coloro che incontri c'è, nascosto ma pronto a venir fuori, un assassino. Vivere in pace pur sapendo che in te c'è, nascosto ma pronto a venir fuori, un assassino.

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Non c'è nulla che renda tollerabile la vita più della stima degli altri. Gli anni passano, le occhiaie si fanno pesanti, il corpo tutto diventa fragile, i ricordi sempre più lontani: il passato come una nebbia, il futuro una voragine. Ma pure siamo qui, ben piantati, sicuri di noi stessi: perché la stima ci circonda. Siamo qualcuno per gli altri. E' quella cosa che Carlo chiamava rettorica. Quando ero adolescente ero circondato da una disistima così profonda, che nemmeno sentivo di esistere. Ero un essere infinitamente umiliabile. Un nulla sociale, in quanto adolescente, in quanto adolescente proletario, in quanto adolescente proletario con idee strane per la testa. Uno con al collo un cartello che diceva “Sputatemi addosso”. E chi passava ne approfittava generosamente. Ho passato i successivi decenni a riflettere su quelle umiliazioni. Sono diventato comunista, poi anarchico. Ho odiato profondamente una società nella quale è possibile che qualcuno sia infinitamente umiliabile. Poi ho cominciato a sentirmi stimato. La rabbia s'è sfumata. S'è alzata, appunto, la nebbia. Quell'adolescente è un altro. Un me diverso da me, perduto nel suo labirinto degli anni Ottanta. Ma sapeva una cosa, quel mio me distante. Quello che ha saputo, ancora, Carlo. Che per un singolare caso, l'essere infinitamente umiliabile, spinto ai margini, nudo di sguardi apre una porta interiore dietro la quale c'è una infinita pienezza.

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Se tentassi un bilancio etico, per così dire, dovrei ammettere di aver fatto più male che bene. Non intenzionalmente: per ruvidezza, goffaggine, scarsa chiarezza con me stesso, scarsa capacità di comprendere l'altro, distrazione. Mi rendo conto, soprattutto, di aver probabilmente fatto più male alle persone cui più volevo bene, e alle quali avrei voluto dare il meglio di me. In qualche caso renderle addirittura felici. Ora penso che si debba piuttosto cercare di non fare il male. Dire all'altro: guardami, sono qui, sono un essere umano in difficoltà come tutti, ho una fottuta paura di morire, di invecchiare, di ammalarmi, ho un passato pieno di cose che fanno male e un futuro incerto, sono esposto a ogni impurità psicologica, mi ammalo di rabbia di tristezza di indolenza di noia, sono spesso confuso, il corpo mi fa male e mi sottrae ogni energia, a volte ho voglia di passare la frontiera, e per tutte queste ragioni non sono sicuro di riuscire a farti del bene; ma so con certezza che non voglio farti alcun male.

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Ti amo, dice l'uno. Ti amo, risponde l'altro. Nel ti amo dell'uno ci sono l'odore del fieno e dell'erba appena tagliata, il tepore di certe mattine d'estate, gli occhi buoni di un cane, la pioggia sui campi vista attraverso i vetri. Nel ti amo dell'altro ci sono i mille rumori della città che si risveglia, l'emozione delle prime carezze, la soddisfazione di chi ha appena segnato un gol decisivo, il senso di potere di chi ha ottenuto quello che voleva. Ognuno ha la propria personale costellazione del bene. Eppure credono di dire la stessa cosa, quando dicono ti amo. Pensano che questa cosa così personale, l'amore, possa essere al tempo stesso un universale, qualcosa che sta oltre l'io e il tu, e che unisce l'io e il tu. Si illudono di poter comprendere il bene che l'altro ha dentro, e di poter essere compresi. Ignorano che in realtà non esiste nessun bene, che anche quella cosa così personale è una menzogna: perché non esiste un io, non esiste un tu. Ignorano che il cosiddetto io non è che la scena d'un teatro, sulla quale compaiono numerosi attori: e quello che uno dice è contraddetto dall'altro. L'uno parla dell'odore del fieno, l'altro degli occhi buoni di un cane. Il terzo entra in scena sbraitando, e dileggia i primi due. Un quarto in un angolo guarda tutti e se la ride. Ti amo, dice l'uno. Ti amo, risponde l'altro. E si prendono per mano, pronti a recitare fino in fondo la loro tragica commedia degli equivoci.

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Ascesi del disgusto. Sazi di qualsiasi cosa, non volerne più: chiudere gli occhi ad ogni ente, negarlo, svuotarlo, porlo a una distanza infinita da sé. E così l'altro. Non cercare nulla, non volere nulla, non amare nessuno, non odiare nessuno, non desiderare nessuno. Essere vuoti e muti e assenti. E: non volere sé, non amare sé, non odiare sé, non desiderare sé. Porsi a una distanza infinita da sé stessi. (Nella vita sociale: essere sgradevoli, osceni, inopportuni; suscitare imbarazzo, irritare, deludere; sottrarsi.)

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C'è qualcosa in noi — di noi — che meriti di durare in eterno, al di fuori della rabbia?

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L'umanità non sarà salvata — se sarà salvata — dall'amore, che è sempre violento. Sarà salvata dalla solitudine. Dal sapere che siamo pianeti a distanza infinita, stelle spente gli uni per gli altri. Dall'accettazione del nulla freddo e buio che è tra me e te.

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Siamo la mosca nella bottiglia. Guardiamo attraverso il vetro il mondo di là, e ci sembra divino. Ma è solo un'altra bottiglia.

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