Troppacaffeina

Un romanzo epico e picaresco di eroi straccioni. A una lettura superficiale, i temi del libro sembrano essere le vicende di Danny e del suo gruppo di amici, la coesione di una piccola comunità, e infine la storia di un luogo, Pian della Tortilla. In realtà, credo che tutto questo sia un “depistaggio”, una maschera ingannevole indossata fin dall'incipit. Il vero protagonista è la casa di Danny, un “contenitore” vivo e disposto ad accogliere chiunque: personaggi, storie ed esistenze. La struttura del romanzo è simile a una raccolta di episodi “boccacceschi”: ogni capitolo ha un suo titolo che lo riassume e lo “spiega” al lettore, fornendogli così una chiave di lettura. A proposito di stile, è particolarissimo il legame che il narratore stabilisce proprio con il lettore: come un menestrello, Steinbeck racconta i personaggi e i loro aneddoti, gli mostra i luoghi, gli sussurra all'orecchio i pettegolezzi e le dicerie dei paisanos. Un elemento peculiare ed essenziale del romanzo è infine il richiamo a un misticismo popolare che pervade gli episodi in profondità: dalla devozione per i simboli dell'amicizia (la casa stessa è chiamata “talismano”) alla venerazione (quasi pagana) di San Francesco, santo-ipostasi della Natura.

”...ma tu, nella tua libreria, lo vendi?”

Spesso mi è stata rivolta questa domanda a proposito di qualche libro abietto, dozzinale, sconveniente, divisivo, nazifascista, ideologicamente totalitario, ovvero oggettivamente brutto. La risposta è sempre la stessa: sì, lo vendo (sempre che il libro sia disponibile, e che qualcuno me lo chieda).

Io faccio il libraio. Cioè vendo libri. Vendo il Manifesto del Partito Comunista di Marx? Sì. Vendo il Mein Kampf di Hitler? Sì. Vendo il libro di Giorgia Meloni? Sì. Anche quello di Matteo Renzi o di Enrico Letta? Sì. E quello di Roberto Saviano o di Michela Murgia o di Marcello Veneziani? Sì, sì e sì. Ripeto: io vendo libri. Tutti i libri. Anche se molti di questi non mi piacciono o non ne condivido il contenuto. Certo: è impossibile avere tutti i titoli a scaffale e la selezione dello scaffale ha a che vedere necessariamente con i miei gusti e la mia sensibilità, ma se sono disponibili dai fornitori, caro cliente, eccoti accontentato il prima possibile. Dirò di più: non giudico mai un lettore dai libri che decide di chiedermi. Non guarderò mai con disprezzo un cliente che vuole leggere Fabio Volo o Bruno Vespa (per dire un paio di autori che non mi piacciono). Ogni lettore fa un percorso personale. Soprattutto, ogni lettore ha una sua dignità nella scelta delle sue letture. Se qualcuno decide di acquistare l'ultimo Mario Giordano, non posso sapere per quale motivo intimo è arrivato a leggere proprio quel libro, proprio in quel momento della sua vita, non posso immaginare a che punto si trovi nel suo percorso di lettore, non so da quali altri libri arriva e, cosa ancora più importante, dove lo porterà la lettura di quel volume. E non posso pensare che tutti i lettori abbiano i miei gusti, oppure abbiano fatto il mio stesso percorso. Come libraio, il mio compito è duplice: aiutare le persone nella scelta del libro giusto (o esaudire le loro richieste*) e contemporaneamente procurarmi di che vivere. E poi non si sa mai. Pura ipotesi accademica: un antisemita simpatizzante del nazionalsocialismo tedesco, decide finalmente di leggere il capolavoro del suo idolo Adolf Hitler, viene nella mia libreria e me lo chiede. Se mi rifiutassi di venderglielo, potrebbe non scoprire mai che il Mein Kampf è in realtà un libro noioso, pesantissimo e delirante, ai confini dell'illeggibilità, e senza quella lettura potrebbe non cambiare mai idea nei confronti del nazismo (ripeto: pura ipotesi accademica). Paradossalmente, in linea teorica, c'è un'infinitesimale probabilità di salvare delle vite vendendo il Mein Kampf a un nazista.

È vero, anche se il mio mestiere è meraviglioso, sicuramente sto esagerando nella sovrastima della sua potenza, ma perché negarmi la possibilità di accarezzare segretamente quell'infinitesimale probabilità di cambiare qualcosa, nel mio piccolissimo, in questo brutto brutto mondo?

__________ *Una precisazione: non vendo tutto a tutti senza discrimine. Se un ragazzino o una ragazzina palesemente minorenne mi dovesse chiedere un libro del Marchese de Sade mi si porrebbe un problema etico, e vorrei indiscretamente sapere se ha intenzione di leggerlo, o di regalarlo a qualche adulto, o cos'altro. A costo di apparire antipatico, censuratore e autolesionista, credo che fra i doveri del mio lavoro ci sia anche quello di impegnarmi sempre con forza nello sconsigliare (ma non certo impedire) l'acquisto di un libro che so essere destinato a una persona a mio giudizio non adatta a quel tipo di lettura.

Cara Miù, è la prima volta che scrivo una lettera a un gatto. E, ti dirò la verità, non importa che tu non sappia leggere. So, infatti che voi animali capite ugualmente le cose percependo segnali e linguaggi che non sono fatti di parole. Tu lo sai, cara Miù: le parole sono quelle cose che noi umani amiamo usare per ingarbugliare tutto.

Ti sarai accorta, immagino, che da molto tempo non abito più a casa. Lo avrai capito dal fatto che, quando sporadicamente arrivavo a far visita, poi la sera, anziché sdraiarmi sotto le coperte del mio letto, me ne andavo via. Ecco, volevo rassicurarti sul fatto che non ho smesso di volerti bene, anche se adesso abito da un'altra parte, in un'altra casa. Sei sempre la mia gatta.

Ti ricordi, quando sei arrivata, come eri piccola? Io mi ricordo bene: eri un esserino tutto occhi e coda, tanto che io e mio fratello ti tenevamo in alto con una mano sola, come se fossi un trofeo appena vinto. Uno dei giochi più divertenti era prepararti la pallina di carta stagnola, farla rotolare sul pavimento e mollarti al suo inseguimento. A volte, prima di “sganciarti”, facevo anche finta di darti la carica, girandoti la coda come una manovella. Non ti sei mai accorta di nulla, concentrata com’eri sul tuo stroboscopico obiettivo. Un vero topo meccanico. Scusa per il paragone, che per una gatta dev’essere veramente umiliante, ma rende l’idea. Le palline di carta sono sempre state la tua passione e ossessione, tanto che ne hai immagazzinate a decine, nei tuoi nascondigli per la casa: sotto allo stereo, sotto al divano, sotto a qualunque cosa stesse ad almeno un centimetro dal pavimento. Poi, un giorno, al “padrone” viene in mente che deve pulire la casa, sposta lo stereo e cosa trova? Polvere. E gruppi di palline di carta. Palline di carta dappertutto.

Voi gatti siete furbi. L’umano tenta di addestrare il gatto e, alla fine del trattamento, risulta che il gatto ha addestrato l’umano. E questo non se ne è neanche accorto. Tu per esempio: ricordi la tua abitudine di arrivare la sera, non appena me ne andavo a dormire, e di esigere coccole, grattatine, carezze varie a suon di miagolii piccati e vibranti fusa? E poi? A dormire appallottolata sul mio braccio, che pretendevi fuori dalle coperte, tutto per te, un balcone su cui poggiare zampe e testolina pesantissime. E al mattino, al mio risveglio, non c’eri già più, perché eri a dormire da un’altra parte, su una poltrona, o addosso a qualcun altro (mio fratello). Sedotto, usato e abbandonato. Eppure. Sei sempre la mia gatta.

Sempre nervosa, tutta scatti, sempre all'erta, sempre di fretta. Anche nell'abbandonarci. Mia madre mi ha detto che hai fatto le valigie in fretta e furia. Mentre me lo diceva, povera mamma, piangeva al telefono. Io invece, ho resistito alle lacrime finché non ho riattaccato. Ancora adesso piango un po', perché mi manchi, anche se è passato tanto tempo. Non ho avuto neanche tempo di salutarti come meritavi, come meritava la nostra amicizia. Lo faccio ora con questa strana lettera, e ti sto parlando come se fossi ancora qui. Invece ti vedo: eccoti lassù. Le tue palline di carta adesso sono addirittura le stelle e i pianeti. Con quella tua zampina secca e tigrata ti starai divertendo un mondo a farli rotolare in giro per tutto il cielo. Dove nasconderai questi tuoi nuovi giochini?

Sei sempre la mia gatta.

Emanuele

P.S.: a proposito dell'addestramento, dovresti sapere che non riesco più a dormire senza mettere il braccio fuori dalle coperte.

La fretta e la velocità sono nemiche dei libri, della scrittura e della lettura. I libri hanno bisogno di essere notati, sfogliati, essere visti. Essi hanno una propria vita, che è fatta di tempi lunghi, che non sono i tempi delle case editrici, delle vetrine delle librerie e dei distributori. Il tempo dei libri è il tempo quasi fermo delle parole sulla pagina.

Siamo in un momento dell'anno, i mesi estivi, in cui gli arrivi delle novità editoriali si diradano piano piano. Torneranno in massa a settembre, prepotentemente, in previsione del Natale. Fino ad ora, però, ogni settimana i corrieri hanno fatto la fila davanti alla porta della libreria per consegnare scatoloni e scatoloni, vere cornucopie di nuovi titoli: narrativa, saggistica, libri per ragazzi, manuali, umorismo, gialli, thriller, romanzi rosa, albi illustrati per bambini, poesia, attualità, filosofia, eccetera eccetera eccetera. Una buona dose di tutta questa “merce” è un prodotto quasi inutile, poco curato nella veste editoriale e nei contenuti, paccottiglia dalla vita brevissima. Si calcola che in Italia si pubblicano mediamente 240 titoli al giorno. Duecentoquaranta. Al giorno. Naturalmente le librerie, specialmente le librerie indipendenti, sono costrette a fare una strettissima selezione dei libri da tenere a scaffale. Una selezione che terrà conto dell'importanza e della “vendibilità” di un testo, determinate dalla sua qualità, dai gusti della clientela abituale, dall'argomento che quel libro andrà a coprire, e così via. Questa selezione, nella maggior parte della fornitura, viene fatta dai librai mesi prima della pubblicazione, spesso avendo per ogni libro solo una scheda promozionale riassuntiva, una copertina provvisoria e una roboante presentazione da parte dei promotori (“Il nuovo Stephen King!”, “Centinaia di migliaia di copie vendute in Spagna!”, “Un grande thriller!”, “Presto la serie Netflix”, ecc...). Dopo 3 o 4 mesi, quando ormai ci siamo dimenticati di aver prenotato il nuovo Stephen King, ecco arrivare lo scatolone con il cosiddetto “lancio novità”. E capita che, rigirandoci il “grande thriller” tra le mani, ora trasformato da scheda promozionale a oggetto fisico ben definito, sfogliabile e valutabile nel suo pieno valore editoriale, ci domandiamo per quale motivo ne avevamo prenotato ben 3 copie. E poi ci ricordiamo della presentazione, considerando le aspettative infrante e sperando di venderne almeno una copia.

E poi ci sono titoli (molti interessantissimi) di emeriti sconosciuti che non fanno in tempo nemmeno a essere mai aperti, e annegano in un mare di altri volumi più recenti, più rutilanti, più facili, più famosi, più tutto. Così, dopo un breve periodo, il libro non più nuovo viene sostituito in vetrina da novità più recenti, passa all'interno della libreria, e dall'espositore interno poi passerà allo scaffale. La sua colorata copertina scomparirà alla vista e di lui si vedrà solo la costa con il titolo, l'autore e il piccolo logo della casa editrice. E avrà possibilità di essere venduto, prima di essere inesorabilmente reso, solo se qualche lettore avrà la pazienza di stare un po' di tempo tra le mensole e i ripiani, di curiosare negli angoli bui, di scorrere i volumi, di sottrarli alla polvere, di farli parlare, di interrogare la quarta di copertina e di farsi rapire. Il tempo dei libri è il tempo quasi fermo delle parole sulla pagina.

Oppure il libraio lo leggerà e, se gli sarà piaciuto, lo consiglierà ai clienti sperduti tra gli scaffali.

Grein è un uomo in fuga. In fuga dalle relazioni, dagli impegni, dalle decisioni. Grein, però, è anche un uomo diviso in due: da una parte la voglia di scappare e di essere libero, dall'altra il richiamo e la ricerca della devozione, del rispetto delle regole e della “rettitudine”. Grein è solo uno dei frammenti che costituiscono la grande epopea raccontata da Singer: il lungo e inesorabile tramonto di un popolo ebraico, sopravvissuto alla tragedia della guerra, che vive in una terra straniera e materialista. Una stirpe che ha ancora un legame viscerale con il Vecchio Continente, la sua antica casa abbandonata a causa del nazismo. Singer, in questa saga dai tratti corali, racconta di un popolo ebraico in cerca di sé stesso. I suoi personaggi sono continuamente travolti da un'esistenza fatta di allontanamenti, riavvicinamenti, e respingimenti, sempre alla ricerca di elementi comuni, che possano consentire alla comunità di sopravvivere nell'accogliente e difficile grembo del Giudaismo.

Qual è il “valore” di un libro? Dipende dal suo contenuto oppure i libri hanno “valore” in quanto tali? E cosa intendiamo per “valore”? Spesso siamo portati ad attribuire a un libro un valore che va al di là del suo prezzo di copertina: ci sono libri che abbiamo amato tantissimo (magari acquistati per quattro soldi), altri che ci dispiace aver prestato a qualcuno (dice il saggio: “chi presta un libro a un amico, perderà il libro e l'amico”), altri ancora sono lì su quello scaffale in attesa del loro momento. Ci sono diverse categorie di persone che, in modi diversi, apprezzano il “valore” di un libro. Il lettore compra i libri (o se li fa prestare dalla biblioteca) e li legge: il “valore” del libro è nelle sue parole, nelle sue frasi e nelle sue immagini (siano esse immagini letterarie o vere e proprie illustrazioni). Spesso il lettore è legato a uno o più scrittori preferiti, magari divora i libri di un particolare genere, li confronta tra loro e stabilisce anche personali gerarchie di qualità tra le varie “categorie” letterarie. Il collezionista (che a sua volta può essere anche un lettore, ma non è detto) apprezza il “valore” del libro nella sua essenza di oggetto: ama l'edizione rara, apprezza la fattura di una rilegatura fatta a mano, oppure gode nel vedere tutta la collana ben allineata sullo scaffale, con le coste dal colore uniforme, eccetera. Mentre il lettore ama leggere, il collezionista ama possedere. E poi c'è il libraio. Quella del libraio è una vita di contraddizioni: ama i libri, trae piacere dalla lettura (come un lettore), apprezza l'oggetto in quanto tale (come un collezionista), ma deve venderli; se non li amasse, non potrebbe venderli con successo. Il libraio quindi esercita il possesso sui (suoi) libri in modo temporaneo, effimero: deve essere pronto, in ogni momento, a separarsene. Solo così la sua attività potrà proseguire e prosperare: più libri vende, più libri potrà procurarsi per accontentare ancora più lettori e collezionisti.

Mi sono reso conto che a casa mia ci sono pochi volumi, molto pochi rispetto a quanti ci si potrebbe aspettare da una casa di un amante di libri. A malapena quelli che mi hanno regalato, quelli che qualche autore mi ha dedicato e quelli che fortemente ho voluto. Tra me e me penso che nella libreria in cui lavoro, la mia libreria, ci sono tutti i libri che voglio o di cui ho bisogno, ma non faccio altro che ingannare me stesso. Quei libri non sono miei: sono della libreria, sono a disposizione dei clienti che vorrebbero comprarli, quindi sono destinati ad altri scaffali, ad altri comodini, ad altre mani e ad altri occhi. Io, che li amo così tanto, in realtà non li posseggo e forse non li possiederò mai.

Non posso negarlo: subisco forte il fascino del sogno di risiedere in una mia biblioteca privata, un'immensa biblioteca da collezionista bibliofilo, un labirinto di scaffali, nel cui cuore è immerso un piccolo studio con la scrivania ingombra e disordinata di volumi aperti, matite, penne, appunti e carte sparse, con una comoda sedia girevole, e poi libri vecchi, libri nuovi, saggi, romanzi, manuali, tutti catalogati a puntino, e poi prime edizioni ingiallite, incunaboli eccezionalmente conservati, cinquecentine, manoscritti medievali, e poi altri libri, libri, libri ovunque, a portata di mano, ma anche negli irraggiungibili angoli, inaccessibili senza la pericolante scaletta scorrevole. Accarezzo, devoto, la loro carta, amici che non tradiscono, silenziosi e saggi, divertenti e leggeri, a volte stupidi, a volte noiosi, a volte sbagliati, scritti male, oppure capolavori della letteratura, delicati e turpi, folli e mistici. Tutti miei. Mi distraggo per un momento e il sogno svanisce. Forse è meglio così: è un sogno egoista. L'essenza del mio lavoro sta nel diffondere i libri, farli viaggiare dalla mia libreria verso altri lidi, in modo tale che le case dei miei clienti, siano essi lettori o collezionisti, si arricchiscano di nuovi, amati volumi. In fin dei conti, è come se la mia immensa biblioteca dei sogni fosse sparsa sugli scaffali di innumerevoli case.

Un uomo sta leggendo un libro. Forse un'avventura di esploratori tra i ghiacci, forse un manuale di fisica quantistica, forse una raccolta di favole per bambini. Non importa, è un libro qualsiasi. A un certo punto, si accorge che è tardi: deve smettere di leggere, per fare altre cose (cucinare, andare a prendere suo figlio a scuola, oppure è solo stanco e vuole guardare la televisione, anche questo non è importante). La cosa importante è il gesto che sta per fare per “tenere il segno”, per tornare in fretta al punto in cui è arrivato a leggere quando, nel prossimo futuro, riprenderà la lettura: prima di chiudere il libro e tornare alla sua vita, prende fra le dita l'angolo superiore della pagina e lo piega verso l'interno. La carta ha una sua memoria. È una memoria fisica, tattile, eterna. Lo sa bene chi pratica l'arte degli origami: una volta che la carta viene piegata, quel segno, quell'increspatura sulla superficie che fino a poco prima era liscia e immacolata, quella cicatrice lineare rimarrà per sempre. Si può cancellare un segno di matita, se la mano non è stata tanto pesante da scavare un solco con la punta di grafite, ma una piega non si cancellerà mai, per quanti sforzi si possano sprecare. Quindi, la carta ha una sua memoria. La materia cartacea è uno degli elementi che abbiamo ogni giorno sotto gli occhi: è ovunque, e per questo passa inosservato. Eppure, se solo ci si soffermasse un momento a soppesarne la sua essenza, il suo significato intrinseco, avendo consapevolezza della sua millenaria esistenza, potrebbe (o meglio, dovrebbe) essere oggetto di maggior devozione e rispetto. L'affascinante processo della sua fabbricazione racconta che ci fu un tempo in cui la carta, anche quel frammento di vecchia busta usata per annotare velocemente la lista della spesa, è stata qualcosa di vivo, di verde, di clorofillaceo. Una creatura che riempiva il mondo di ossigeno. E ora? Ora che la creatura è stata mutata in un sottilissimo foglio di cellulosa pressata ed essiccata, essa vive ancora, è un essere senziente, e ancora assolve l'incarico di diffondere ossigeno nel mondo: un ossigeno diverso, molecole di inchiostro organizzate in lettere e numeri, parole, verbi, frasi, concetti, racconti, storie e discorsi. Libri. Stampati sulla carta (o sul suo succedaneo digitale, comunque imitazione elettronica della carta), tali concetti e racconti hanno la possibilità di suscitare emozioni, infiammare animi, tramandare millenni, creare e abbattere intere civiltà. Ed esattamente come l'ossigeno che la clorofilla produce dall'anidride carbonica, le idee, i concetti e i racconti scritti sulla carta hanno il potere di restare, per essere letti da più e più occhi, per inebriare le menti (o ingannarle), nutrirle e infondervi vitalità, e come l'ossigeno sono anche altamente infiammabili. L'uomo che ha piegato l'angolo della pagina, in un gesto quotidiano e dissacrante, inconsapevolmente triangola la memoria fisica della carta, per aiutare la propria, che è labile e fallace, a ritrovare il giusto passo della memoria d'inchiostro, nel lungo viaggio che si percorre leggendo un libro.

A volte, la fantasia spiega la realtà meglio della razionalità. Questo libro dello scrittore cinese Cixin Liu, primo volume della trilogia “Memoria del passato della Terra”, racconta una storia colma di scienza e fisica quantistica, usando magistralmente l'inventiva propria dei grandi narratori di fantascienza come Isaac Asimov. La vicenda prende l'avvio dalle follie della Rivoluzione Culturale cinese della fine degli anni '60, in cui molti scienziati e intellettuali caddero vittima dell'ideologia. Cixin Liu imposta il romanzo costruendolo intorno all'ansia dell'uomo nell'indagare i limiti della scienza e della materia stessa, per cercare risposte a domande fondamentali: esiste la vita, là fuori, nell'universo? E se sì, come potremmo entrare in contatto con intelligenze extraterrestri? Quale potrebbe essere il nostro rapporto con “loro”? Quali conseguenze potrebbe avere nella nostra società l'impatto con una civiltà aliena? Cixin Liu ci dice che la risposta potrebbe non piacerci. Durante la lettura (avvincente e complessa), ho avuto l'impressione che questo libro sia caratterizzato da una forte “polarizzazione”: una rigorosa dualità, infatti, percorre tutti gli elementi fondamentali della trama, degli ambienti, dei personaggi e dei sistemi, proprio come il simbolo del Tao, in cui i due elementi opposti, il bianco e il nero, pur restando separati, si completano a vicenda, si attraggono e si compenetrano, pur restando distinti e separati. Non a caso, paradossalmente, la vera protagonista principale è la forza di gravità.

Un uomo scompare. Fine della trama. Sembra paradossale, ma ovviamente in un libro come questo (vincitore del Premio Strega nel lontano 1989) la trama non è l'elemento importante: fra le pagine si muovono (o restano fermi, in attesa) personaggi che arrivano dritti dalla Milano “da bere” degli anni '80, maschere di un'italianissima commedia dell'arte come l'amante dello scomparso, il fratello critico cinematografico fallito, la moglie, il pavido socio in affari, il potente industriale, lo psicanalista ciarlatano, eccetera. L'individualismo estremo pervade le personalità di ogni personaggio e i dialoghi si trasformano in specchi, in cui gli “attori” si riflettono l'un l'altro. Uno spaccato cupo, deprimente (sebbene satirico) di una società disinteressata alla sorte dell'altro, chiusa nella propria buia e triste solitudine materialista. I personaggi stessi, sempre pronti a giudicare malignamente gli interlocutori, scoprono di non sapere niente di quell'uomo svanito nel nulla. Quello che più salta all'occhio, durante la (faticosa) lettura del romanzo, è l'incedere della prosa: di aforisma in aforisma, infatti, la narrazione procede con continue frasi avversative, quasi a voler esprimere tutto e, subito dopo, il contrario di tutto, come in un lungo, estenuante esercizio di stile.