📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA: Regole; a Diogneto ● PROFETI ● Concilio Vaticano II ● NUOVO TESTAMENTO

Contro chi promulga sentenze oppressive 1Guai a coloro che fanno decreti iniqui e scrivono in fretta sentenze oppressive, 2per negare la giustizia ai miseri e per frodare del diritto i poveri del mio popolo, per fare delle vedove la loro preda e per defraudare gli orfani. 3Ma che cosa farete nel giorno del castigo, quando da lontano sopraggiungerà la rovina? A chi ricorrerete per protezione? Dove lascerete la vostra ricchezza? 4Non vi resterà che curvare la schiena in mezzo ai prigionieri o cadere tra i morti. Con tutto ciò non si calma la sua ira e ancora la sua mano rimane stesa.

L'orgoglio dell'Assiria 5Oh! Assiria, verga del mio furore, bastone del mio sdegno! 6Contro una nazione empia io la mando e la dirigo contro un popolo con cui sono in collera, perché lo saccheggi, lo depredi e lo calpesti come fango di strada. 7Essa però non pensa così e così non giudica il suo cuore, ma vuole distruggere e annientare non poche nazioni. 8Anzi dice: «Forse i miei prìncipi non sono altrettanti re? 9Forse Calno non è come Càrchemis, Camat come Arpad, Samaria come Damasco? 10Come la mia mano ha raggiunto quei regni degli idoli, le cui statue erano più numerose di quelle di Gerusalemme e di Samaria, 11non posso io forse, come ho agito con Samaria e i suoi idoli, agire anche contro Gerusalemme e i suoi simulacri?». 12Quando il Signore avrà terminato tutta la sua opera sul monte Sion e a Gerusalemme, punirà il frutto orgoglioso del cuore del re d’Assiria e ciò di cui si gloria l’alterigia dei suoi occhi. 13Poiché ha detto: «Con la forza della mia mano ho agito e con la mia sapienza, perché sono intelligente; ho rimosso i confini dei popoli e ho saccheggiato i loro tesori, ho abbattuto come un eroe coloro che sedevano sul trono. 14La mia mano ha scovato, come in un nido, la ricchezza dei popoli. Come si raccolgono le uova abbandonate, così ho raccolto tutta la terra. Non vi fu battito d’ala, e neppure becco aperto o pigolìo». 15Può forse vantarsi la scure contro chi se ne serve per tagliare o la sega insuperbirsi contro chi la maneggia? Come se un bastone volesse brandire chi lo impugna e una verga sollevare ciò che non è di legno!

Il fuoco del Signore 16Perciò il Signore, Dio degli eserciti, manderà una peste contro le sue più valide milizie; sotto ciò che è sua gloria arderà un incendio come incendio di fuoco; 18besso consumerà anima e corpo e sarà come un malato che sta spegnendosi. 17La luce d’Israele diventerà un fuoco, il suo santuario una fiamma; essa divorerà e consumerà in un giorno rovi e pruni, 18ala magnificenza della sua selva e del suo giardino. 19Il resto degli alberi nella selva si conterà facilmente; persino un ragazzo potrebbe farne il conto.

Il ritorno di un resto 20In quel giorno avverrà che il resto d’Israele e i superstiti della casa di Giacobbe non si appoggeranno più su chi li ha percossi, ma si appoggeranno con lealtà sul Signore, sul Santo d’Israele. 21Tornerà il resto, il resto di Giacobbe, al Dio forte. 22Poiché anche se il tuo popolo, o Israele, fosse come la sabbia del mare, solo un suo resto ritornerà. È decretato uno sterminio che farà traboccare la giustizia. 23Sì, un decreto di rovina eseguirà il Signore, Dio degli eserciti, su tutta la regione.

Fine dell'incubo assiro 24Pertanto così dice il Signore, Dio degli eserciti: «Popolo mio, che abiti in Sion, non temere l’Assiria che ti percuote con la verga e alza il bastone contro di te, come già l’Egitto. 25Perché ancora un poco, ben poco, e il mio sdegno avrà fine. La mia ira li annienterà». 26Contro l’Assiria il Signore degli eserciti agiterà il flagello, come quando colpì Madian alla roccia di Oreb; alzerà la sua verga sul mare come fece con l’Egitto. 27In quel giorno sarà tolto il suo fardello dalla tua spalla e il suo giogo cesserà di pesare sul tuo collo.

La marcia contro il monte Sion Il distruttore viene da Rimmon, 28raggiunge Aiàt, attraversa Migron, a Micmas depone le sue armi. 29Attraversano il passo; a Gheba si accampano. Rama trema. Fugge Gàbaa di Saul. 30Grida con tutta la tua voce, Bat-Gallìm. Sta’ attenta, Làisa. Povera Anatòt! 31Madmenà è in fuga. Scappano gli abitanti di Ghebìm. 32Oggi stesso farà sosta a Nob, agiterà la mano verso il monte della figlia di Sion, verso la collina di Gerusalemme. 33Ecco, il Signore, Dio degli eserciti, abbatte i rami con il terrore, le punte più alte sono troncate, le cime sono abbattute. 34È reciso con il ferro il folto della selva e il Libano cade con la sua magnificenza.

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Approfondimenti

Contro chi promulga sentenze oppressive 10,1-4 Nell'attuale contesto l'invettiva contro coloro che moltiplicano con leggerezza decreti iniqui e sentenze oppressive, acquista particolare forza in quanto si staglia sullo sfondo del fuoco che attua il giudizio divino, distruggendo ogni ingiustizia e infedeltà. Per il genere letterario, però, la nostra pericope non appartiene alla sezione della «mano stesa» (il ritornello nel v. 4b è secondario). Essa è un'invettiva che in origine apparteneva alla serie dei «Guai» (cfr. 5, 8-24) e che riflette la prima predicazione del profeta, antecedente la “guerra siro-efraimitica”.

L'orgoglio dell'Assiria 10,5-15 Questo poema, che pone la potente Assiria sotto il giudizio del Signore, testimonia una concezione della storia interiormente illuminata e plasmata dalla fede in JHWH. Con l'aggiunta dei vv. 16-19, il redattore finale intese elaborare una unità che si estendeva dal v. 5 fino al v. 19, nella quale un detto «Guai» (vv. 6-15), come avviene generalmente, era seguito da una minaccia di giudizio (v. 16-19). Tuttavia questi ultimi versetti originariamente erano autonomi, dato che in essi si parla dell'Assiria in terza persona, mentre nella nostra unità la grande potenza imperiale è apostrofata direttamente. Se si prescinde dalle interpolazioni costituite dai vv. 10-11, dal v. 12 e dal v. 15b, non ci sono serie obiezioni all'autenticità della pericope. Il v. 9 suppone non solo la sconfitta di Samaria (722), ma anche quella di Carchemis, che avvenne nel 717 ad opera di Sargon. Il nostro poema, posteriore a questo evento, appartiene quindi a un periodo avanzato dell'attività isaiana. Invece è poco probabile che il testo sia da mettere in rapporto con l'invasione del 701 ad opera di Sennacherib, poiché il v. 11, nel quale si accenna a Gerusalemme, non è autentico. Nella sua forma originaria la pericope si articola in tre parti: l'Assiria secondo il disegno del Signore (vv. 5-6); l'Assiria secondo il proprio piano, antitetico a quello divino (vv. 7-9.13-14); l'impossibilità di questo progetto (v. 15a).

5-6. Nella prima parte l'autore si riferisce direttamente all'Assiria apostrofandola come strumento dell'ira divina. Il testo mette in parallelo i termini «furore» e «sdegno»: il primo connota il movimento interiore del cuore, il secondo la sua manifestazione esteriore mediante la parola che annuncia la sventura e la mette in moto nella storia. Israele, da parte sua, è connotato come nazione «empia» al punto che il Signore non lo indica più come «popolo mio» (secondo la locuzione propria della tradizione dell'alleanza), ma come «popolo con cui sono in collera» (stessa prospettiva anche in Os 1, 6.9).

7-14. La parte centrale (vv. 7-14) sviluppa il motivo del «Guai» iniziale: l'Assiria non pensa secondo il piano di Dio. In realtà il Signore la manda per «saccheggiare», «depredare» e «calpestare» il popolo, dunque come strumento di una prova che in definitiva mirava alla conversione e alla vita. L'Assiria, invece, si muove con l'obiettivo di «distruggere» e «annientare». Questo progetto si manifesta nella dichiarazione esplicita e arrogante del re (vv. 8-9.13-14). Si tratta di un monologo nel quale il monarca, vedendo i suoi ufficiali insediati come re vassalli, ricorda le sue conquiste (cfr. la lista del v. 9) per esaltare la propria potenza quale unico criterio del suo agire nella storia. In tal modo egli si arroga una prerogativa che appartiene solo al Signore, nelle cui mani è la vita di tutti i popoli e di tutti gli uomini. I vv. 10-11, nei quali si presenta la potenza assira mentre pone JHWH sullo stesso piano degli idoli, sottolineano la dimensione antidivina insita nella pretesadel re. Dalla preoccupazione antidolatrica, come pure dal vocabolario, risulta che si tratta di un'aggiunta deuteronomistica che risale al tempo dell'esilio o a quello immediatamente posteriore. Il v. 12 è un'aggiunta successiva. Il suo autore riprende motivi sia di Isaia (la condanna dell'orgoglio) che della «Visione» (il «monte Sion») per annunciare la punizione del re di Assiria. Questa aggiunta ebbe come conseguenza che la continuazione del discorso del re, opportunamente reintrodotta dalla causale «poiché ha detto», apparisse come la motivazione della minaccia qui annunciata. Letti sia come prosecuzione del v. 9, sia nell'attuale contesto, i vv. 13-14 lasciano percepire la ricchezza poetica e l'amara ironia di Isaia che descrive il re mentre abbatte con la forza di un gigante i regni e scova con la propria «Sapienza» le loro ricchezze. Il monologo culmina nel silenzio disumano («nessuno apriva il becco o pigolava») di tutta la terra, raccolta sotto la tirannia di un solo uomo (v. 14).

15. Il silenzio, però, è rotto dal v. 15a che da solo forma la terza parte del nostro poema. Con una domanda retorica, che riflette il sarcasmo proprio della tradizione sapienziale, il profeta afferma solennemente che l'Assiria è come una «scure» in mano a chi taglia o una «sega» in mano a chi l'adopera. L'impossibilità che lo strumento si vanti con chi se ne avvale contiene, in una forma concentrata, l'essenza della concezione isaiana sulla storia. Nessun popolo può superare l'ambito della funzione che gli compete e che per il credente ha il suo fondamento nel disegno stesso del Signore. Ogni “sconfinamento”, frutto dell'orgoglio che sviluppa nell'uomo la stoltezza di uguagliarsi a Dio, mette in moto i dinamismi dell'autodistruzione e porta la nazione colpevole a scomparire dalla scena della storia. Nel silenzio dei popoli oppressi germoglia il silenzio degli oppressori.

16-19. Un indizio della non autenticità della pericope è dato dal fatto che in essa si incontrano, reinterpretati, molti termini e concetti di Isaia. Così il v. 16 dipende da Is 17,4; l'espressione «rovi e pruni» (v. 17), solitamente riferita a Israele infedele (cfr. Is 5,6; 7,23.24.25; 9,17; 27,4), qui connota l'Assiria che invade Gerusalemme; inoltre il nostro brano presenta vari punti in comune con i testi postesilici di 4,3-5a e di 21,16-17. La sua composizione risale probabilmente agli ultimi anni dell'impero persiano. In questo caso l'Assiria è uno pseudonimo per indicare lo stesso impero persiano. Che la liberazione dalla sua dominazione fosse desiderata dalla comunità giudaica del tardo postesilio risulta confermato in modo chiaro dalla suggestiva confessione di Ne 9,36. Ne segue che la connessione del testo con i vv. 5-15, nonostante il rapporto formale tra “guai” e “minaccia”, è puramente redazionale.

17. Il Signore riceve qui, unico caso in tutta la Scrittura, il titolo «luce di Israele». Egli si manifesta come fuoco fiammeggiante, che si irradia e si diffonde dal santuario per divorare in un solo giorno «rovi e pruni», cioè la potenza che invade Gerusalemme e Giuda privandole della libertà.

18-19. Il redattore applica l'immagine del fuoco alla distruzione della foresta e dei frutteti, «dal midollo alla corteccia» (si tratta di un'espressione di totalità come quella di 9,13). Privo del suo esercito e delle fonti della sua ricchezza (in particolare il legname che si importava addirittura dalla lontana Anatolia), l'impero oppressore è ridotto definitivamente all'impotenza. Questo annuncio di speranza si conclude con la tenera immagine di un fanciullo che è in grado di contare «il resto degli alberi nella selva». Nel bambino, inerme, ma già in grado di prendere possesso delle cose, forse si adombrano metaforicamente i primi passi di un'umanità nuova.

20-23. La pericope è delimitata dalla formula «In quel giorno» (v. 20) e dalla formula del messaggero del v. 24 che segna l'inizio di un nuovo brano. Il nostro testo, che dovrebbe risalire alla fine della dominazione persiana, è un esempio di esegesi “midrashica” che riunisce insieme, a volte reinterpretandole, formule e reminiscenze di Isaia e di altre parti della Scrittura. Questo tipo di composizione a mosaico tradisce l'attività di un dotto scriba, anziché quella di un profeta o predicatore. Tuttavia il nostro autore ha saputo ripresentare per il suo tempo alcune istanze genuine dei profeti e in particolare di Isaia.

20-21. Il tema della nostra pericope è «il resto di Israele». Fin dall'inizio (v. 20) l'autore delinea la sua caratteristica fondamentale: il popolo superstite non si appoggerà più sulle potenze che lo hanno percosso, e dalle quali può ancora essere «percosso» (chiara reinterpretazione di 9, 12), ma unicamente sul Signore. Questo verbo, che incontriamo in una parola autentica di Isaia (cfr. 31, 1), connota qui l'atteggiamento di chi pone il Signore a fondamento della propria esistenza e si abbandona a lui con incondizionata fiducia. Esso è perciò equivalente al tema isaiano della fede (cfr. 7,9b) che rappresenta la caratteristica di una comunità che pone il proprio futuro unicamente nel Signore e nel suo aiuto.

22-23. I versetti sono una conferma dell'asserto che solo «un resto» ritornerà. Richiamandosi alla minaccia di 9,8-21 e al giudizio su Israele di 28,22 si sottolinea che il popolo di Israele non è automaticamente sottratto al giudizio che si abbatterà su tutta la terra e segnerà il trionfo della giustizia salvifica di Dio (cfr. v. 22b). La salvezza non è meccanicamente garantita dall'appartenenza fisica a Israele, ma dalla fede. Da essa scaturisce l'inizio di un mondo nuovo: il resto che si appoggia sul Santo di Israele.

24-27a. Anche questa pericope, che riprende e sviluppa l'annuncio salvifico della precedente, risale al tardo periodo persiano. Al popolo suo, che in base alla promessa dei vv. 20-23 si identifica con il resto, la parola del Signore rivolge un pressante appello alla fiducia e alla speranza. La fiducia, come si evince dal v. 24, libera dal timore della potenza che opprime (indicata con lo pseudonimo «Assiria»). La connessione della liberazione con la fine (molto imminente) dello sdegno del Signore (cfr. v. 25b) mostra che il nostro autore accoglie in pieno la concezione isaiana secondo cui la sventura del popolo è connessa con le sue infedeltà che suscitano l'ira del Signore. La fine dell'ira divina (v. 26), che si riverserà contro gli oppressori, porta il popolo a rivivere le esperienze salvifiche della liberazione dai Madianiti (cfr. 9,3 e Gdc 7,25) e quindi a comprendere la propria storia nella luminosa prospettiva dell'esodo. Allora, come afferma ancora più esplicitamente l'aggiunta del v. 27a, si realizzerà la promessa di 9,3, che sembrava smentita sia dall'esilio babilonese che dalla successiva dominazione persiana.

27b-34. A livello redazionale la nostra pericope descrive la minaccia che incombe sulla stessa Gerusalemme nel brevissimo tempo che precede l'avvento del «germoglio» (cfr. 11, 14) e, quindi, la fine dell'ira divina. Circa l'origine della pericope esistono diverse teorie, ma nessuna è conclusiva. Il messaggio del brano si articola in tre parti.

La prima (vv. 28-29a, con probabile inizio nel v. 27b) narra la marcia inarrestabile del nemico che da Rimmon giunge ad Aiat e arriva fino a Gheba.

La seconda (vv. 29b-31) descrive il panico e la fuga delle città vicine a Gerusalemme.

Infine il v. 32 presenta l'invasore che agita la mano contro «il monte della figlia di Sion».

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Il figlio che consolida il regno [8,23bIn passato umiliò la terra di Zàbulon e la terra di Nèftali, ma in futuro renderà gloriosa la via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti.] 1Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse. 2Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia. Gioiscono davanti a te come si gioisce quando si miete e come si esulta quando si divide la preda. 3Perché tu hai spezzato il giogo che l’opprimeva, la sbarra sulle sue spalle, e il bastone del suo aguzzino, come nel giorno di Madian. 4Perché ogni calzatura di soldato che marciava rimbombando e ogni mantello intriso di sangue saranno bruciati, dati in pasto al fuoco. 5Perché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà: Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace. 6Grande sarà il suo potere e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul suo regno, che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e per sempre. Questo farà lo zelo del Signore degli eserciti.

La mano stesa del Signore 7Una parola mandò il Signore contro Giacobbe, essa cadde su Israele. 8La conoscerà tutto il popolo, gli Efraimiti e gli abitanti di Samaria, che dicevano nel loro orgoglio e nell’arroganza del loro cuore: 9«I mattoni sono caduti, ricostruiremo in pietra; i sicomòri sono stati abbattuti, li sostituiremo con cedri». 10Il Signore suscitò contro questo popolo i suoi nemici, eccitò i suoi avversari: 11gli Aramei dall’oriente, da occidente i Filistei, che divorano Israele a grandi bocconi. Con tutto ciò non si calma la sua ira e ancora la sua mano rimane stesa. 12Il popolo non è tornato a chi lo percuoteva; non hanno ricercato il Signore degli eserciti. 13Pertanto il Signore ha amputato a Israele capo e coda, palma e giunco in un giorno. 14L’anziano e i notabili sono il capo, il profeta, maestro di menzogna, è la coda. 15Le guide di questo popolo lo hanno fuorviato e quelli che esse guidano si sono perduti. 16Perciò il Signore non avrà clemenza verso i suoi giovani, non avrà pietà degli orfani e delle vedove, perché tutti sono empi e perversi; ogni bocca proferisce parole stolte. Con tutto ciò non si calma la sua ira e ancora la sua mano rimane stesa. 17Sì, brucia l’iniquità come fuoco che divora rovi e pruni, divampa nel folto della selva, da dove si sollevano colonne di fumo. 18Per l’ira del Signore degli eserciti brucia la terra e il popolo è dato in pasto al fuoco; nessuno ha pietà del proprio fratello. 19Dilania a destra, ma è ancora affamato, mangia a sinistra, ma senza saziarsi; ognuno mangia la carne del suo vicino. 20Manasse contro Èfraim ed Èfraim contro Manasse, tutti e due insieme contro Giuda. Con tutto ciò non si calma la sua ira e ancora la sua mano rimane stesa.

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Approfondimenti

Il figlio che consolida il regno 8,23b-9,6 Il brano si presenta come un inno di ringraziamento, nel quale sono stati accolti motivi dell'ideologia regale di Gerusalemme (cfr. vv. 5-6). Alcuni esegeti attribuiscono il passo al profeta Isaia; altri invece lo ritengono una promessa messianica postesilica. Recentemente alcuni studiosi hanno messo l'origine del testo in rapporto con la redazione giosiana della «Visione» e quindi con l'attività redazionale della scuola deuteronomistica, già riscontrata in Is 7. Vari sono i motivi che orientano verso questa spiegazione. Anzitutto le connessioni verbali che uniscono Is 9,5.6 a Is 7,13.14.17 mostrano che il nostro testo è sorto in rapporto con la promessa dell'Emmanuele. Inoltre la dichiarazione solenne di 9,5 richiama la promessa di una pagina deuteronomistica che presenta la nascita di Giosia come l'evento nel quale tutte le tribù di Israele saranno nuovamente riunite nell'unico culto: «Ecco, nascerà un figlio nella casa di Davide, chiamato Giosia...» (1Re 13,2). Infine il richiamo all'intervento divino «al tempo di Madian» (9,3) situa il nostro testo nella prospettiva teologica della fiducia nel Signore che combatte per il suo popolo, prospettiva che l'opera deuteronomistica sviluppa emblematicamente nella narrazione della vittoria di Gedeone sui Madianiti (cfr. Gdc 7,1-22).

*9,1-2. L'evento della liberazione è descritto poeticamente, nel v. 1, come l'irrompere improvviso della «luce» (simbolo di libertà e di vita) nel luogo stesso dell'oscurità e delle «tenebre». Al motivo della luce viene connesso quello della «gioia» che costituisce il contenuto di una dichiarazione di fede (v. 2).

3-5a. Segue una triplice motivazione, enfatizzata dalla congiunzione “perché” ripetuta all'inizio di ogni versetto. Come insinua l'allusione alla vittoria di Gedeone (v. 3), la gioia si fonda anzitutto sulla prodigiosa liberazione operata dal Signore. La tirannia della dominazione straniera è indicata da tre termini («giogo», «sbarra», «bastone») che concorrono a ricreare il quadro dell'oppressione che è stata «spezzata» per sempre dall'intervento salvifico di Dio. La fine dell'oppressione, simboleggiata dal fuoco che brucia le rumorose calzature militari e i mantelli intrisi di sangue (v. 4), costituisce, a sua volta, la fonte di una gioia più intensa, perché più sicura. Infine il motivo-culmine della gioia è costituito dalla proclamazione del bambino nato e subito connotato come il figlio dato (v. 5a). La forma passiva del verbo «dare» (passivo teologico) presenta il figlio quale dono del Signore stesso che, in questo modo, si manifesta fedele alla sua promessa (cfr. Is 7,14). Se la liberazione divina moltiplica la gioia, essa trova il suo fondamento nella stessa fedeltà del Signore di cui il figlio nato è segno.

5b-6. Il v. 5b presenta due avvenimenti già compiuti (come si evince dalla tipica forma narrativa dei verbi ebraici): sulla spalla del «figlio dato» si è posato il segno della sovranità ed egli ha così ricevuto i titoli corrispondenti: «Consigliere ammirabile» (come Salomone), «Dio potente» (come Davide strumento delle vittorie di Dio), «Padre per sempre» (per la ricerca del benessere del popolo), «Principe della pace» (in quanto garante della libertà da ogni potenza nemica). In stretta connessione con il v. 5b, il v. 6 descrive la grandezza della sovranità e la perennità della pace che hanno come centro il trono di Davide e come ambito di irradiazione il suo regno: un regno consolidato nel diritto e nella giustizia e, quindi, in piena sintonia con le esigenze fondamentali del Signore e della sua parola.

La mano stesa del Signore 9,7-20 Il brano presenta il popolo che, nonostante le prove sempre più terribili abbattutesi su di lui, si è ostinato nel proprio orgoglio e ha rifiutato di convertirsi. L'annuncio del giudizio, che incontriamo qui, non costituisce comunque l'ultima parola su Dio e sul suo rapporto con Israele. Come si evince da Is 9,1-6, per la redazione finale della «Visione di Isaia» il futuro sarà il tempo della comunione dell'uomo con il Signore e, quindi, il tempo della vita, dell'amore, della pace. L'accesso a questo futuro, come si ripete nella nostra pericope, suppone che il popolo orienti la propria esistenza in modo totale, esclusivo e permanente al Signore; detto in altri termini, richiede la conversione. Il ritornello «Con tutto ciò non si calma...», che ricorre nei vv. 11.16.20, divide il testo in tre strofe. Come si è già visto, la composizione si concludeva probabilmente con una quarta strofa rappresentata da 5,25. Nello spostamento redazionale si è anche trasportata la pericope di 10, 1-4a dalla serie dei «Guai», cui originariamente apparteneva, alla posizione che essa occupa attualmente, dopo 9,30. L'aggiunta del ritornello in 10,4b testimonia un intento di armonizzazione redazionale che mira a porre 10, 1-4 nella stessa linea delle tre strofe precedenti. In realtà il brano di 10, 1-4 deve essere considerato a parte perché è un'invettiva («Guai»..., mentre le strofe di 9,7-30 e 5,25 sono una parenesi profetica sul giudizio di Dio nella storia. In esse, infatti, non si ha una minaccia o promessa che riguarda il futuro, ma una riflessione teologica sul passato, come si evince dall'uso del tempo narrativo nei vv. 10.11.13.15.17.19 del testo ebraico. L'autenticità della nostra pericope è sostenuta dalla maggior parte degli studiosi. Più difficile, invece, è la determinazione del tempo a cui essa risale.

7-11. La prima strofa del nostro poema (v. 7-11) inizia descrivendo la situazione del popolo che è stato raggiunto dalla parola profetica del giudizio. Il profeta, riferendosi al regno del Nord (cfr. v. 8), afferma che il Signore ha effettivamente mandato questa parola e gli Israeliti ne hanno sperimentato la temibile efficacia. La narrazione che segue (vv. 10-11a; verbi in forma narrativa) racconta l'azione di Dio nella quale si è rivelata la potenza del giudizio annunciato dalla parola. Le immagini rievocano le lotte sostenute nel sec. IX da Israele contro gli Aramei e i Filistei (cfr. Am 1,3-5.6-8) e delineano con forte realismo la gravità della situazione. Tanto più enigmatica, nella visione di fede del profeta, risulta allora la mancata conversione del popolo.

12-16. L'affermazione che «il popolo non è tornato a chi lo percuoteva» esprime con forza straordinaria che il Signore stesso manda le prove perché il suo popolo prenda coscienza della propria infedeltà e ritorni a lui. Questa sentenza è ulteriormente arricchita dalla frase parallela «non ha cercato il Signore degli eserciti». La locuzione «cercare il Signore» anticamente significava recarsi a un santuario per interrogare il Signore. Con i profeti, però, assunse un significato vitale. Insieme ad Amos, Isaia è tra i primi a situare la frase in un contesto altamente teologico (cfr. Is 31,1). In questa prospettiva «cercare JHWH» significa accogliere la parola mandata da Dio e riconoscere in tutti gli avvenimenti, comprese le prove, l'appello del Signore a una vita di giustizia e di fraternità; significa credere alla sua parola e sviluppare le scelte storiche della vita in sintonia con essa.

17-20. In un crescendo, che afferra progressivamente chi ascolta la presente pagina, la terza strofa (vv. 17-20) descrive con una metafora la situazione dell'iniquità che arde, consumando «rovi e pruni» (cfr. 5,6), dunque tutte le infedeltà e ingiustizie del popolo. Anche qui la situazione costituisce la premessa della narrazione, nella quale tutto è preda dell'incendio suscitato dal furore del Signore e lo stesso popolo diventa pasto del fuoco. Nei vv. 19-20 i bagliori del fuoco che tutto consuma appaiono come immagine di un odio spietato degli uni contro gli altri (per l'espressione «mangiare la carne» come metafora di accanita ostilità cfr. Sal 27,2; Gb 19,22) e di tribù tra di loro nell'assurdità di lotte fratricide che hanno portato la nazione allo sfacelo.

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Nasce un figlio dal nome simbolico 1Il Signore mi disse: «Prenditi una grande tavoletta e scrivici con caratteri ordinari: “A Maher-salal-cas-baz”». 2Io mi presi testimoni fidati, il sacerdote Uria e Zaccaria, figlio di Ieberechìa. 3Poi mi unii alla profetessa, la quale concepì e partorì un figlio. Il Signore mi disse: «Chiamalo Maher-salal-cas-baz, 4poiché prima che il bambino sappia dire “papà” e “mamma” le ricchezze di Damasco e le spoglie di Samaria saranno portate davanti al re d’Assiria».

Siloe e l'Eufrate 5Il Signore mi disse di nuovo: 6«Poiché questo popolo ha rigettato le acque di Sìloe, che scorrono piano, e trema per Resin e per il figlio di Romelia, 7per questo, ecco, il Signore farà salire contro di loro le acque del fiume, impetuose e abbondanti: cioè il re d’Assiria con tutto il suo splendore, irromperà in tutti i suoi canali e strariperà da tutte le sue sponde. 8Invaderà Giuda, lo inonderà e lo attraverserà fino a giungere al collo. Le sue ali distese copriranno tutta l’estensione della tua terra, Emmanuele. 9Sappiatelo, popoli: sarete frantumati. Ascoltate voi tutte, nazioni lontane, cingete le armi e sarete frantumate, cingete le armi e sarete frantumate. 10Preparate un piano, sarà senza effetti; fate un proclama, non si realizzerà, perché Dio è con noi».

La vera congiura 11Poiché così il Signore mi disse, quando mi aveva preso per mano e mi aveva proibito di camminare per la via di questo popolo: 12«Non chiamate congiura ciò che questo popolo chiama congiura, non temete ciò che esso teme e non abbiate paura». 13Il Signore degli eserciti, lui solo ritenete santo. Egli sia l’oggetto del vostro timore, della vostra paura. 14Egli sarà insidia e pietra di ostacolo e scoglio d’inciampo per le due case d’Israele, laccio e trabocchetto per gli abitanti di Gerusalemme. 15Tra di loro molti inciamperanno, cadranno e si sfracelleranno, saranno presi e catturati.

La rivelazione sigillata 16Rinchiudi questa testimonianza, e sigilla questo insegnamento nel cuore dei miei discepoli. 17Io ho fiducia nel Signore, che ha nascosto il suo volto alla casa di Giacobbe, e spero in lui. 18Ecco, io e i figli che il Signore mi ha dato siamo segni e presagi per Israele da parte del Signore degli eserciti, che abita sul monte Sion.

Appendici del memoriale 19Quando vi diranno: «Interrogate i negromanti e gli indovini che bisbigliano e mormorano formule. Forse un popolo non deve consultare i suoi dèi? Per i vivi consultare i morti?», 20attenetevi all’insegnamento, alla testimonianza. Se non faranno un discorso come questo, non ci sarà aurora per loro. 21Egli si aggirerà oppresso e affamato, e, quando sarà affamato e preso dall’ira, maledirà il suo re e il suo dio. Guarderà in alto 22e rivolgerà lo sguardo sulla terra ed ecco angustia e tenebre e oscurità desolante. Ma la caligine sarà dissipata, 23poiché non ci sarà più oscurità dove ora è angoscia.

Il figlio che consolida il regno (continua fino a 9,6) In passato umiliò la terra di Zàbulon e la terra di Nèftali, ma in futuro renderà gloriosa la via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti.

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Approfondimenti

Nasce un figlio dal nome simbolico 8,1-4 Isaia riporta, con il linguaggio proprio delle azioni simboliche (cfr. Ger 13,4; 25,15; 36,2.48; Ez 4,1.9; 5,1 e, soprattutto, Ez 37,16), la parola del Signore che gli ordina di scrivere su una tavoletta grande (forse per essere più facilmente visibile a tutti) l'espressione «A Mahèr-salàl-cash-baz». Il nome, per la cui formazione il profeta ha potuto ispirarsi a un modello egiziano, significa «Veloce alla preda, svelto al bottino», quindi allude alla rapidità di un invasione nemica.

3-4. Si indica il significato concreto del nome enigmatico. Dall'unione di Isaia con la propria moglie (chiamata profetessa) nasce un figlio al quale è dato il nome simbolico che nove mesi prima era stato scritto sulla tavoletta. La motivazione dell'ordine divino (v. 4) costituisce il culmine di tutto il brano. Prima che il bambino sia in grado di dire «babbo e mamma», il che coincide con la capacità di distinguere il bene dal male (cfr. 7,16), Damasco e Samaria saranno sottomesse all'Assiria.

Siloe e l'Eufrate 8,5-10 La celebre iscrizione di Siloe testimonia lo scavo effettuato al tempo di Ezechia per assicurare l'acqua a Gerusalemme. Si sono trovate, però, le tracce di due canali anteriori. A uno di questi si riferisce il nostro detto, che risale alla “guerra siro-efraimitica”, diretta contro Acaz, padre di Ezechia.

5-8. Appare ora la minaccia contro il popolo dell'alleanza (cfr. 7,17), ancora una volta indicato da JHWH come «questo popolo» (cfr. 6,9). Nei profeti la minaccia è preceduta o seguita da una proposizione causale con cui si indica il motivo del castigo preannunciato. Nel nostro brano il motivo è indicato all'inizio (v. 6) con l'immagine suggestiva del popolo che, nella sua superbia, rifiuta l'acqua tranquilla e dissetante di Siloe, una piscina alimentata dalla sorgente del Ghicon, l'unica a fornire d'acqua la città di Gerusalemme. Non accogliendo con fede la parola del Signore il popolo si chiude all'unica sorgente della sua libertà e salvezza. Il castigo, delineato con sensibilità artistica nei vv. 7-8a, si concretizza nell'immagine del Signore che gonfia le acque del fiume (l'Eufrate) in modo che esse, straripando impetuose e violente, inondino Giuda. Come esplicita l'aggiunta «cioè il re assiro con tutto il suo splendore» (forse della redazione giosiana), il dilagare inarrestabile delle acque è un'immagine poetica dell'invasione assira che rappresenterà una minaccia pericolosa per la stessa sopravvivenza del popolo. Tuttavia la descrizione delle acque che «giungono fino al collo», pur indicando l'estrema gravità della situazione, insinua che questa non costituirà la fine del popolo. Ciò è confermato dal v. 8b, dove l'Emmanuele si erge come l'unico baluardo del «suo» paese, che si trova sotto la minaccia sovrastante dell'esercito invasore. L'immagine delle «ali distese» non è qui una metafora militare, ma esprime l'incombere del pericolo che sovrasta con la sua ombra funesta l'intero paese.

9-10. Si tratta di una reintrepretazione apocalittica in cui l'Emmanuele diventa l'espressione della fede che confessa la presenza salvifica di Dio in mezzo al suo popolo. Questa fede orienta la comunità a guardare verso un futuro nel quale le genti che come combattono il disegno divino saranno ridotte all'impotenza e la salvezza dell'Emmanuele segnerà il fallimento di ogni piano antidivino.

La vera congiura 8,11-15 La pericope si presenta complessa sia nella forma che nel contenuto. Dopo l'introduzione, contenente la formula del messaggero (v. 11), segue un monito (vv. 12-13) e una minaccia (vv. 14-15). Il brano è sostanzialmente autentico e risale al periodo della “guerra sito-efraimitica”, tuttavia i vv. 14-15 hanno subito delle successive reinterpretazioni che non è più possibile individuare con sicurezza.

Nel v. 11 riveste particolare importanza l'accenno che Isaia fa alla propria esperienza interiore (“confessione profetica”). Egli si sente afferrato dalla potenza del Signore (per questo significato del termine «mano» cfr. 1Re 18,46; Dt 32,36 e, soprattutto, Ez 3,14) che gli impedisce di percorrere «la via di questo popolo».

12-13. Dal monito dei vv. 12-13 si evince che in Gerusalemme si era preparata una «congiura» (il termine ebraico denota propriamente un tradimento), sulla quale potevano contare il re di Aram e il re di Israele nel loro piano di sostituire il re Acaz con l'anonimo “Tabeelita”. Coerente con il suo annuncio ad Acaz, anche qui il proteta relativizza questo pericolo e invita il popolo a prendere coscienza della «santità» del Signore. Il nostro versetto forma così un'inclusione tematica con Is 6,3-5. Come il profeta nell'incontro con il Dio santo ha preso coscienza di essere “perduto”, così anche il popolo accogliendo il Dio santo prende coscienza del pericolo che incombe su di lui se non si convertirà alla fede.

14-15. La conseguenza dell'incredulità è delineata nella minaccia del v. 14, dove, con metafore sconvolgenti, si presenta il Signore come colui che cospira contro il suo popolo, divenendo «laccio e trabocchetto» per «gli abitanti di Gerusalemme» (cfr. 5,3). Il v. 15 sembra riflettere gli eventi della caduta di Gerusalemme (587) ed è quindi da ritenere un'aggiunta interpretativa.

La rivelazione sigillata 8,16-18 Il messaggio del profeta – indicato con i termini di «testimonianza» e «insegnamento» è legato e sigillato nei discepoli. La locuzione allude al fatto che Isaia interruppe la sua attività fino alla morte del re Acaz. La coscienza che la parola annunciata sia nel cuore dei discepoli e la consapevolezza di essere, con i propri figli, segno per i popolo rafforzano la speranza. Questa si fonda unicamente nel Signore «che abita sul monte Sion». Nel grido «Io sono perduto» (6,5) e nella confessione «Io ho ho fiducia e spero nel Signore» il memoriale, che qui giunge alla sua conclusione, racchiude l'itinerario interiore del profeta, un itinerario paradigmatico per ogni credente che sperimenta nel Signore colui che libera dalla morte e pone l'esistenza nella luce della speranza e nella gioia della vita.

Appendici del memoriale 8-19-23a 8,19-20. La sezione costituisce un'appendice al memoriale. Proprio l'atteggiamento del profeta, che in mezzo alla sventura persevera nell'attesa del Signore, offre l'occasione all'inserzione dei vv. 19-20. Obiettivo di questa aggiunta è condannare le pratiche magiche, in particolare la consultazione dei morti. Dal contesto risulta quindi che la necromanzia e la divinazione sono condannate in quanto il popolo deve attendere dal Signore la conoscenza del suo futuro e nel frattempo attenersi all'insegnamento profetico ricevuto. Le parole «rivelazione» e «testimonianza» del v. 20, disposte in forma chiastica rispetto al v. 16, s riferiscono qui a un testo scritto nel quale è contenuto il messaggio di Isaia.

21-23a. Questi versetti rappresentano l'aggiunta di un secondo redattore. Essi risalgono probabilmente a un periodo di poco posteriore alla caduta di Gerusalemme.

Il figlio che consolida il regno 8,23b-9,6 8,23b. Questo testo è sorto per celebrare Giosia come il figlio promesso da Isaia e, quindi, segno della fedeltà del Signore alle sue promesse. Quando si procedette all'inserzione di questo poema nel libro di Isaia si premise l'affermazione di 8,23b che rievocava la sottomissione delle regioni di Zabulon e di Neftali all'Assiria come evento del passato. In tal modo si affermava che la liberazione compiuta da Giosia altro non era che il futuro della salvezza divenuto ora realtà. La Via del Mare che unisce l'Egitto alla Mesopotamia, appare come il luogo nel quale si manifesta la salvezza del Signore che da Giuda si estende fino alle regioni estreme di Israele: a est del Giordano e alle due tribù settentrionali di Zabulon e Neftali, nella Galilea.

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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L'intervento presso Acaz 1Nei giorni di Acaz, figlio di Iotam, figlio di Ozia, re di Giuda, Resin, re di Aram, e Pekach, figlio di Romelia, re d’Israele, salirono contro Gerusalemme per muoverle guerra, ma non riuscirono a espugnarla. 2Fu dunque annunciato alla casa di Davide: «Gli Aramei si sono accampati in Èfraim». Allora il suo cuore e il cuore del suo popolo si agitarono, come si agitano gli alberi della foresta per il vento. 3Il Signore disse a Isaia: «Va’ incontro ad Acaz, tu e tuo figlio Seariasùb, fino al termine del canale della piscina superiore, sulla strada del campo del lavandaio. 4Tu gli dirai: “Fa’ attenzione e sta’ tranquillo, non temere e il tuo cuore non si abbatta per quei due avanzi di tizzoni fumanti, per la collera di Resin, degli Aramei, e del figlio di Romelia. 5Poiché gli Aramei, Èfraim e il figlio di Romelia hanno tramato il male contro di te, dicendo: 6Saliamo contro Giuda, devastiamolo e occupiamolo, e vi metteremo come re il figlio di Tabeèl. 7Così dice il Signore Dio: Ciò non avverrà e non sarà! 8aPerché capitale di Aram è Damasco e capo di Damasco è Resin. 9aCapitale di Èfraim è Samaria e capo di Samaria il figlio di Romelia. 8bAncora sessantacinque anni ed Èfraim cesserà di essere un popolo. 9bMa se non crederete, non resterete saldi”». 10Il Signore parlò ancora ad Acaz: 11«Chiedi per te un segno dal Signore, tuo Dio, dal profondo degli inferi oppure dall’alto». 12Ma Acaz rispose: «Non lo chiederò, non voglio tentare il Signore». 13Allora Isaia disse: «Ascoltate, casa di Davide! Non vi basta stancare gli uomini, perché ora vogliate stancare anche il mio Dio? 14Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele. 15Egli mangerà panna e miele finché non imparerà a rigettare il male e a scegliere il bene. 16Poiché prima ancora che il bimbo impari a rigettare il male e a scegliere il bene, sarà abbandonata la terra di cui temi i due re. 17Il Signore manderà su di te, sul tuo popolo e sulla casa di tuo padre giorni quali non vennero da quando Èfraim si staccò da Giuda: manderà il re d’Assiria». 18Avverrà in quel giorno: il Signore farà un fischio alle mosche che sono all’estremità dei canali d’Egitto e alle api che si trovano in Assiria. 19Esse verranno e si poseranno tutte nelle valli scoscese, nelle fessure delle rocce, su ogni cespuglio e su ogni pascolo. 20In quel giorno il Signore raderà con rasoio preso a nolo oltre il Fiume, con il re d’Assiria, il capo e il pelo del corpo, anche la barba toglierà via. 21Avverrà in quel giorno: ognuno alleverà una giovenca e due pecore. 22Per l’abbondanza del latte che faranno, si mangerà la panna; di panna e miele si ciberà ogni superstite in mezzo a questa terra. 23Avverrà in quel giorno: ogni luogo dove erano mille viti valutate mille sicli d’argento, sarà preda dei rovi e dei pruni. 24Vi si entrerà armati di frecce e di arco, perché tutta la terra sarà rovi e pruni. 25In tutti i monti, che erano vangati con la vanga, non si passerà più per paura delle spine e dei rovi. Serviranno da pascolo per armenti e da luogo battuto dal gregge.

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Approfondimenti

L'intervento presso Acaz 7,1-25 I fatti narrati e supposti da Is 7 si situano subito dopo l'estate del 734, quando Tiglat-Pilezer III sconfisse la Filistea, privando così il regno di Damasco e di Israele dell'appoggio importante di un alleato. Poiché Acaz, re di Giuda, si rifiutò di aderire al progetto di una nuova lega antiassira, i re arameo (Rezin) e quello di Israele (Pekach) unirono le loro forze per marciare contro Gerusalemme, deporne il re e insediarvi al suo posto «il figlio di Tabeel» (v. 6), uno sconosciuto personaggio favorevole al progetto della coalizione. Questa spedizione, comunemente conosciuta col nome improprio di “guerra siro-efraimitica”, costituisce lo sfondo del c. 7, uno dei più problematici nella storia dell'esegesi. Ammessa la storicità dell'incontro di Isaia con il re Acaz, occorre precisare che il testo del memoriale è stato rielaborato in prospettiva deuteronomistica (il racconto in terza persona sostituisce quello in prima, che dopo Is 6,11 ricompare solo in 8,1), tanto che non è più possibile separare la forma originaria dalla sua rielaborazione.

Un altro problema è quello dell'unità letteraria dei vv. 1-17. Al riguardo si registrano due correnti: una ritiene che in questi versetti si trovano due unità originariamente indipendenti (vv. 1-9 e vv. 10-17); l'altra, invece, vi scorge una sola unità in quanto i vv. 1-9 sono il presupposto indispensabile dell'annuncio del segno nei vv. 10-17. Probabilmente gli eventi narrati si sono verificati in circostanze diverse, come insinua la locuzione «Il Signore parlò ancora ad Acaz» del v. 10: l'invito alla fiducia è stato rivolto durante l'incontro avvenuto «al termine del canale della piscina superiore» (v. 3), mentre l'offerta del segno può essersi effettuata in un'altra occasione di poco posteriore, quando risultò evidente il rifiuto definitivo del re. I due fatti, però, sono stati disposti nel memoriale in modo da formare un'unità letteraria nella quale il primo evento è la premessa del secondo.

Un terzo problema, infine, è costituito dall'asserto del v. 14. Strutturalmente Is 7 si articola in tre parti: la parola rivolta al re (vv. 1-9), l'offerta del segno (v. 10-17), la minaccia dell'Assiria (vv. 18-25).

1-9. L'espressione «ma non riuscirono a espugnarla» (v. 1b), che anticipa la conclusione, pone il lettore nella condizione di comprendere che l'appello di Isaia alla fiducia non era avventato, ma fondato sulla parola del Signore. La notizia che l'esercito degli Aramei si è congiunto con quello di Israele (v. 2) costituisce il presupposto dinamico della narrazione. Con un elegante gioco di parole, tra «accamparsi» e «agitarsi», entra anzitutto in scena lo scompiglio che si impadronisce della «casa di Davide» e del suo popolo. Dal libro dei Re sappiamo che Acaz decise di ricorrere all'aiuto di Tiglat-Pilezer III. L'intervento di Isaia, narrato in questa pagina, si dirige appunto contro questo progetto, che avrebbe avuto come conseguenza un'ulteriore sottomissione di Giuda all'Assiria.

La parola che Isaia comunica al re risuona nei vv. 7-9 (ad eccezione del v. 8b). Essa assicura anzitutto: «Ciò non avverrà e non sarà» (v. 7b). Le capitali dei due regni alleati (cfr. vv. 8a e 9a) sono governate da re umani, mentre il capo di Gerusalemme è il Signore stesso che ha scelto Davide. La richiesta di aiuto all'Assiria, perciò, non è necessaria. In realtà il progetto di deporre la «casa di Davide» non potrà riuscire perché antitetico alla promessa divina (cfr. la tradizione di 2Sam 7). Solo il disegno di Dio e la parola, che lo manifesta, si realizzano sempre (cfr. Is 14,24; 40,8; 46,10). Tale annuncio di salvezza, però, richiede di essere accolto con fiducia. Mancando l'abbandono fiducioso nella parola del Signore l'uomo perde la propria sicurezza e diventa schiavo della sua paura. È questo il senso profondo del v. 9b dove il gioco creato da due forme verbali che derivano dalla radice 'mn (essere stabile, sicuro; da cui anche la formula liturgica “Amen”) può anche essere reso così: «Se non accettate la sicurezza (che viene dal Signore, che è il Signore stesso) non avrete nessuna sicurezza». La versione dei LXX, che rende la forma «se non accettate la sicurezza» con la locuzione «se non credete», mette significativamente in luce la fede in quanto atteggiamento esistenziale dell'uomo che si abbandona con fiducia al Signore (cfr. Sal 131,2) e alla sua parola di salvezza (cfr. Es 14,31).

10-17. Il re è invitato (v. 11) a chiedere un segno in tutti gli ambiti del dominio divino (indicati con l'antitesi bipolare «dal profondo degli inferi» – «lassù in alto»). Acaz, simulando religiosità per giustificare la propria incredulità, respinge la possibilità offerta dalla parola del Signore.

Al rifiuto perentorio di Acaz segue un'aspra invettiva di Isaia (v. 13), nella quale si condanna la «casa di Davide». La locuzione «mio Dio», mentre ci si attenderebbe «tuo Dio» (cfr. 2Sam 7,14 e Sal 2,7), mostra che il no di Acaz rappresenta il colmo della sua infedeltà. Il profeta parla di una donna che «concepirà e partorirà un figlio» (v. 14). Prima che questo figlio raggiunga la capacità di azioni coscienti (cfr. «rigettare il male e scegliere il bene»), il paese dei due re, che hanno gettato Acaz nel panico, sperimenterà l'invasione assira e la deportazione (per il regno di Israele, che nel 733 subì una forte riduzione del suo territorio, cfr. 2Re 15,29; per Damasco, che cadde l'anno dopo, cfr. 2Re 16,9). Allora la solenne affermazione del v. 7b risulterà confermata e apparirà la fedeltà di JHWH alla sua parola. Tuttavia il re, con la sua incredulità, ha attirato su di sé e sul popolo il giudizio. Il profeta lo annuncia prospettando giorni, «quali non vennero da quando Efraim si staccò da Giuda» (vv. 16-17). L'espressione, nella quale si riflette ancora la coscienza di un'unità persa da quasi due secoli con la divisione del regno alla morte di Salomone (931), allude probabilmente alle calamità connesse con la “guerra siro-efraimitica” e alla ribellione di Edom (cfr. 2Re 16,5-6). Dall'insieme di questi dati risulta che la «donna (vergine), di cui si parla al v. 14, è la moglie di Acaz. Ovviamente il re aveva conosciuto prima di Isaia la condizione della moglie che attendeva un figlio, il futuro erede al trono. Il segno, dato da Isaia al re, non consiste quindi nella predizione della nascita del figlio, ma nell'annuncio dell'imminente sventura che si sarebbe abbattuta sul regno di Giuda. In esso, tuttavia, si racchiude implicitamente un aspetto positivo: nonostante i giorni che stanno per venire, la dinastia davidica non sarà deposta e così apparirà la fedeltà del Signore alla sua promessa. Questo aspetto positivo fu subito posto in evidenza quando, realizzatasi la parola annunciata, il profeta scrisse il memoriale. In quell'occasione Isaia indico il tiglio con il nome simbolico di «Emmanuele» che significa «Dio (è stato/è/sarà) con noi». In tal modo la promessa che il piano di deporre la casa di Davide è destinato a fallire prende il sopravvento sull'annuncio del giudizio. L'attenzione del lettore si concentra sull'Emmanuele, in altri termini sul perdurare della dinastia davidica quale segno della presenza salvifica del Signore in mezzo al suo popolo. La fase scritta costituisce dunque l'inizio di quel cammino che porta la promessa di Is 7 a diventare il catalizzatore della speranza della Scrittura (cfr. 9,1-6; 11,1-4).

Anche il v. 15, che stona nel contesto del giudizio, riflette la reinterpretazione di un redattore che si aggancia al nome simbolico-salvifico di Emmanuele. Il davidide promesso, come insinua il motivo del cibo straordinario del bambino, sarà per il popolo segno della potenza e della salvezza del Signore.

18-25. Nella terza parte del c. 7 si trovano riuniti tre detti che iniziano con la formula solenne «Avverrà in quel giorno» (vv. 18-19; 21-22; 23-25). Da essi occorre distinguere il v. 20 che incomincia, invece, con la formula «In quel giorno».

I vv. 18-19 contengono probabilmente un detto di Isaia connesso con i fatti del 734-732. Con le immagini delle mosche e delle api il profeta annuncia il carattere improvviso, incontrollabile e molesto dell'invasione assira. Un glossatore, forse del tardo postesilio, ha interpretato in chiave allegorica le due immagini riferendole rispettivamente all'Egitto e all'Assiria.

Il v. 20, se si eccettua la glossa «cioè il re assiro», contiene un detto del profeta che, in origine, poteva trovarsi a conclusione della pericope dell'Emmanuele. Radere il capo e i piedi (cioè le parti intime) e strappare la barba costituivano gesti di somma ingiuria, che potevano costituire occasione di guerra. Chi, chiudendosi alla fede, si innalza nell'orgoglio delle proprie sicurezze, sarà veramente abbassato (cfr. 2,17). L'immagine, incontrata nel v. 15, della panna e del miele, ricompare nei vv. 21-22, dove si annuncia un'era di benedizione. La scarsità del bestiame è meravigliosamente compensata dal nutrimento abbondante che esso fornisce. Il cibo straordinario dell'Emmanuele sarà anche l'alimento che sosterrà «ogni superstite in mezzo a questo paese».

I vv. 23-25, da parte loro, sono costituiti da tre brevi sentenze di minaccia che riprendono e reinterpretano l'annuncio isaiano del giudizio: distruzione dei vigneti fonte di ricchezza (v. 23); impraticabilità dei luoghi (v. 24); scomparsa delle coltivazioni montane e loro riduzione a pascolo (v. 25). L'espressione «rovi e pruni», che ricorre in ogni versetto, formando così una triplice ripetizione, letterariamente si connette con la minaccia di 5,6 e conferisce alla piccola unità redazionale una cupa tonalità di desolazione e abbandono. L'accostamento della minaccia di Is 5,6-7 con l'annuncio del giudizio di Is 7 risponde a un preciso intento: assicurare che anche il castigo annunciato in Is 5,1-7 è solo un momento all'interno del disegno di Dio, il quale assicura la sua fedeltà alla casa di Davide e, quindi, un futuro di salvezza per il popolo dell'Emmanuele.

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Vocazione di Isaia 1Nell’anno in cui morì il re Ozia, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio. 2Sopra di lui stavano dei serafini; ognuno aveva sei ali: con due si copriva la faccia, con due si copriva i piedi e con due volava. 3Proclamavano l’uno all’altro, dicendo: «Santo, santo, santo il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria». 4Vibravano gli stipiti delle porte al risuonare di quella voce, mentre il tempio si riempiva di fumo. 5E dissi: «Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti». 6Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. 7Egli mi toccò la bocca e disse: «Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato». 8Poi io udii la voce del Signore che diceva: «Chi manderò e chi andrà per noi?». E io risposi: «Eccomi, manda me!». 9Egli disse: «Va’ e riferisci a questo popolo: “Ascoltate pure, ma non comprenderete, osservate pure, ma non conoscerete”. 10Rendi insensibile il cuore di questo popolo, rendilo duro d’orecchio e acceca i suoi occhi, e non veda con gli occhi né oda con gli orecchi né comprenda con il cuore né si converta in modo da essere guarito». 11Io dissi: «Fino a quando, Signore?». Egli rispose: «Fino a quando le città non siano devastate, senza abitanti, le case senza uomini e la campagna resti deserta e desolata». 12Il Signore scaccerà la gente e grande sarà l’abbandono nella terra. 13Ne rimarrà una decima parte, ma sarà ancora preda della distruzione come una quercia e come un terebinto, di cui alla caduta resta il ceppo: seme santo il suo ceppo.

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Approfondimenti

IL MEMORIALE DI ISAIA _6,1-9,6 I capitoli da 6,1 a 9,6 costituiscono un'unità, comunemente conosciuta come “memoriale di Isaia” Con questo scritto, composto in prima persona poco tempo dopo i avvenimenti della cosiddetta “guerra siro-efraimitica”, il profeta intese testimoniare, ai suoi discepoli e a tutto il popolo, l'autenticità della propria missione da parte del Signore e quindi la responsabilità dei capi che non avevano accolto la sua parola. Oggi la maggior parte degli studiosi ritiene che il memoriale originario si estendesse da 6,1 a 8,18. In 8,19-9,6 abbiamo aggiunte di diversa natura e importanza. Inoltre anche nella parte riconosciuta originaria si incontrano diversi interventi redazionali. Soprattutto nel c. 7 la rielaborazione deuteronomistica è stata così profonda che riesce per lo più difficile separare la parola del profeta dalla rielaborazione successiva. Infine sono state effettuate delle aggiunte in alcuni punti che si prestavano ad essere attualizzati per le necessità di epoche successive. Le più significative sono: 6,12-13; 7,1.8b.15.18-23; 8,9-10.

L'organicità del messaggio, qui sviluppato, si riflette nella stessa struttura letteraria della nostra unità. Il racconto della vocazione, posto all'inizio della raccolta (Is 6,1-13) e richiamato alla fine (8,11-18), forma una grandiosa inclusione. A sua volta la parte centrale (7,1-8,10), presenta un'organizzazione chiastica secondo il seguente schema:

a. Appello alla confidenza nel Signore (7,1-9) b. Transizione (7,10) c. Nascita dell'Emmanuele (7,11-17; altre glosse) c. Nascita di Mahèr-salàl-cash-baz (8,1-4) b. Transizione (8,5) a. Conseguenze per la mancata confidenza (8,6-8).

Un primo sguardo a questa struttura offre un prezioso orientamento. La vocazione di Isaia appare, anzitutto, tesa a rinnovare nel popolo l'atteggiamento esistenziale, e perciò concreto e dinamico, della fiducia nel Signore. Al tempo stesso il profeta non raccoglie il frutto della propria missione, ma deve constatare la persistente ostinazione dei capi, preoccupati solo delle proprie sicurezze sociali e politiche, e quindi sordi alla parola e al disegno del Signore.

Vocazione di Isaia 6,1-13 Per alcuni si tratta di un racconto di vocazione, mentre per altri la pericope contiene il racconto di un incarico particolare, relativo all'“indurimento” del popolo (vv. 9-10). La seconda opinione non convince. La pericope di Is 6 è legata al memoriale. La scelta redazionale di evidenziare il memoriale, incorniciandolo in una serie particolare di detti profetici, ha avuto come conseguenza che la nostra pagina venisse a trovarsi nell'attuale collocazione. Se si tiene presente la storia della tradizione, la nostra pagina appare caratterizzata dal motivo dell'uomo che è ammesso al consiglio divino. Tale fatto testimonia una concezione nella quale il profeta è compreso come messaggero di Dio. Si tratta di una tradizione che si situa parallela a quella rappresentata dalla narrazione della vocazione di Geremia. Quest'ultima, infatti, incentrata sull'evento della parola, riflette lo schema della chiamata di guide carismatiche, come risulta anche dall'affinità con i racconti della vocazione di Mosè (Es 3) e di Gedeone (Gdc 6). Il racconto della vocazione di Ezechiele (Ez 1-3), che fonde insieme gli elementi di entrambi le tradizioni, ma a livello formale, privilegia la struttura bipartita di Is 6 (visione-audizione) e costituisce un'ulteriore conferma che lo schema della nostra pagina venne inteso come narrazione vocazionale.

Comunemente la pagina di Is 6 è suddivisa in tre parti: teofania (vv. 1-5); consacrazione (vv. 6-7); missione (vv. 8-13; oppure 8-11 poiché i vv. 12-13 sono da ritenersi delle glosse successive). In realtà sotto il profilo letterario il testo consta soltanto di due parti: visione (vv. 1-7) e audizione (vv. 8-11). Esse sono chiaramente contrassegnate dalle forme verbali «io vidi» (v. 1) e «io udii» (v. 8). All'interno della prima parte troviamo le locuzioni «E dissi» (v. 5), «e disse» (v. 7) che circoscrivono un dialogo tra Isaia e il serafino. Analogamente, nella seconda parte, le stesse locuzioni, riprodotte due volte (prima nei vv. 8 e 9; quindi nel v. 11), registrano l'intensificarsi del dialogo tra il profeta e il Signore.

1-7. La struttura, appena individuata, permette di cogliere lo sviluppo organico del racconto. Isaia si trova nel tempio. Durante una celebrazione cultuale, come insinua l'acclamazione del v. 3, si verifica una esperienza decisiva per la vita del profeta e per la stessa tradizione biblica. Isaia si incontra con il Signore in un modo nuovo e personale. L'immagine del trono «alto ed elevato» (v. 1) e l'affermazione «i miei occhi hanno visto il re» (v. 5) racchiudono in un'inclusione il nucleo stesso della visione. Il profeta percepisce la regalità del Signore come elemento basilare nel rapporto del popolo con il suo Dio. Nella tradizione dell'Antico Oriente il re, secondo i lineamenti assunti dalla sua figura idealizzata, era la guida del popolo, l'amministratore della giustizia e, infine, il difensore dei deboli. L'esperienza isaiana si situa in questo orizzonte di salvezza e di speranza. Essa, però, sottolinea in modo speciale la potenza del Signore re. Ciò è anzitutto rimarcato dalla presenza dei «serafini». Infatti il loro stesso nome, che significa gli «incandescenti», orienta a contemplare il Signore nel simbolo del fuoco (v. 2). Inoltre nessuno dei serafini può vedere direttamente Dio (si copre il volto), anche se ognuno di essi sta alla sua presenza in atteggiamento di totale venerazione (si copre il corpo) e di pronta disponibilità al suo volere (si libra per attuare immediatamente la parola divina). Resi incandescenti dalla loro vicinanza a Dio, i serafini ne proclamano la santità (v. 3).

Con il termine «santo», che racchiude un concetto vitale per la fede biblica, si confessa il Signore in quanto pienezza di vita, di potenza, di amore e di fedeltà. Nei vv. 1-5 il vocabolario della pienezza ricorre tre volte, come il termine «santo» nel trisagio del v. 3. Nel v. 1 i lembi del manto divino (l'espressione allude al Dio nascosto, ma riconoscibile nelle sue manifestazioni) «riempiono» il tempio (luogo per eccellenza dell'incontro tra il popolo e il suo Dio). Nel v. 4 la casa del Signore «si riempie» di fumo, simbolo di una presenza che supera ogni conoscenza ed esperienza umana, Infine nel v. 3, che occupa evidentemente una posizione centrale, si proclama che la gloria del Signore «riempirà» tutta la terra. Con il termine «gloria» (kābôd) si connota la potenza del Signore che si manifesta nelle meraviglie delle sue opere e, al tempo stesso, porta il popolo a confessare il Dio santo nella grandezza del suo amore e nella munificenza della sua fedeltà. La locuzione «Signore degli eserciti» evidenzia il carattere salvifico della potenza divina che suscita la fiducia nelle prove e l'adorazione nella liturgia. La proclamazione del Signore «veramente santo» e «santo in grado sommo» (secondo il significato della triplice ripetizione) è dunque associata all'annuncio della manifestazione salvifica della sua gloria. La regalità del Signore delle schiere è l'epifania della sua santità nella storia del suo popolo e di tutta l'umanità. Perciò la presenza di Dio, che riempie il tempio, è preludio di quella presenza gloriosa, che costituirà “la pienezza di tutta la terra” (v. 3b).

Questa esperienza teofanica, evidenziata anche dal v. 4 con il motivo degli stipiti che vibrano e del fumo che, come nube, riempie il luogo della divina presenza (cfr. Es 19, 16.18), porta Isaia a percepire la verità della tradizione secondo cui nessun uomo può vedere Dio e rimanere in vita (cfr. Es 33, 20). Egli si sente perduto, soprattutto perché nell'incontro con il Signore ha la chiara coscienza di essere peccatore e di vivere in mezzo a un popolo peccatore (v. 5). “L'impurità” delle labbra non denota solo delle colpe connesse formalmente con la lingua, ma connota la situazione nella quale si trovano Isaia e il popolo, incapaci di accostarsi al Dio santo (cfr. Prv 10,6-32). La breve, ma ricca scena dei vv. 6-7 appartiene strutturalmente alla descrizione della visione, che si ispira forse a un rituale di purificazione connesso con l'altare dell'incenso, o l'altare d'oro (cfr. 1Re 8,48), e si sviluppa su un piano simbolico, il cui centro dinamico è ancora rappresentato dall'immagine del fuoco. L'altare, al quale nemmeno i ministri incandescenti del re possono avvicinarsi, è qui simbolo del Signore stesso, fuoco infinito di santità e di gloria, di vita e di amore. La parola, che svela il signiticato dell'azione (v. 7), dichiara che il fuoco (di JHWH) ha toccato le labbra del profeta e per questo la sua persona è liberata dalla colpa. Per Isaia l'incontro con il Dio santo si è convertito in sorgente di espiazione, dunque di vita. Per il popolo peccatore esiste tale possibilità? La seconda parte del racconto, l'audizione (vv. 8-11), dischiude la risposta a questo interrogativo.

8-11. La voce che Isaia ascolta riprende il motivo dell'uomo chiamato a partecipare al consiglio divino. La successione dei verbi «mandare» – «andare» è significativa: l'uomo può andare come profeta solo se è mandato dal Signore stesso (cfr. Es 3,10; Ger 1,7). L'espressione «Eccomi, manda me!» esprime la disponibilità interiore di Isaia che, introdotto dalla visione nell'esperienza del Dio santo, apre la propria esistenza alla missione che gli viene affidata. La risposta divina ne rappresenta la necessaria conferma (v. 9a), Il v. 9b non va inteso come una minaccia o un'invettiva e nemmeno come una “parola performativa” che realizza ciò che esprime. Il profeta deve chiamare il popolo ad «ascoltare» e «osservare». Tuttavia «questo popolo» non comprende e non conosce (nella relazione finale del libro il messaggio è stato significativamente richiamato all'inizio dell'opera, cfr. 1,2-3). In 9b abbiamo quindi la caratterizzazione del popolo che, nonostante l'annuncio della parola profetica, rimane refrattario all'esperienza del Signore e all'ascolto della sua voce. Questa dimensione viene approfondita nel v. 10 che presenta una struttura chiastica perfetta e che si può tradurre così:

Impingua il cuore di questo popolo, rendine sordi gli orecchi e accecane gli occhi, perché non veda con gli occhi, non ascolti con gli orecchi e non comprenda con il cuore.

Gli imperativi rivolti al profeta nel v. 10a non esprimono un comando (che sarebbe assurdo e del resto contraddetto dalla stessa attività profetica di Isaia), ma intendono rilevare che fin dal momento della vocazione-missione il Signore conosceva anticipatamente l'ostinato rifiuto del suo popolo. In altri termini il comando positivo dell'annuncio della parola (v. 9b) avrebbe avuto un effetto antitetico a quello voluto di portare il popolo a «conoscere» il Signore e a «comprendere» le sue vie. Il richiamo alla tradizione cultuale di Dt 29,3, che forse Isaia conosceva, spiega la ragione profonda dell'ostinazione del popolo. Questi non ascolta la voce del profeta, perché non celebra in modo autentico il culto del Signore (cfr. 1,11-17) e quindi non riceve dal suo Dio il cuore della sapienza, gli occhi della visione e gli orecchi dell'ascolto. L'espressione del v. 10c, che cade fuori della struttura chiastica, è una glossa. Essa, comunque, ha il pregio di offrire una profonda interpretazione della parola di Isaia in quanto vede nell'accoglienza del cuore nuovo, della visione e dell'ascolto l'espressione esistenziale della conversione (cfr. 1, 18).

La domanda di Isaia «Fino a quando, Signore?» (v. 11), che proviene dal linguaggio della lamentazione in favore del popolo (cfr. Sal 6,4; 74,10; 80,5; 90,13), mostra che per il profeta il giudizio non costituisce l'ultimo scopo dell'intervento di Dio nella storia del suo popolo. In questo contesto appare che la risposta non intende annunciare la fine di Israele, ma un momento culmine di prova, dopo il quale si verifica l'attesa svolta della salvezza.

12-13, Due aggiunte significative hanno attualizzato il messaggio di questa pagina. Con l'immagine del Signore che allontana gli uomini dal paese il v. 12 riferisce il giudizio di cui parla Isaia alla caduta del regno di Israele e alla deportazione in massa di gran parte della sua popolazione. Il v. 13ab applica il giudizio al regno di Giuda (la proporzione tra Giuda e Israele era di 1 a 10) e si riferisce quindi alla caduta di Gerusalemme. Invece il v. 13c descrive la «progenie santa» che si sviluppa sul ceppo rimasto dopo il giudizio. I vv. 12-13ab sono una reinterpretazione deuteronomistica del periodo di Giosia, mentre il v. 13c riflette la rilettura maturata al tempo di Esdra, quando i rimpatriati da Babilonia si consideravano la «progenie santa». Contrapponendosi alla popolazione rimasta nel paese, dopo la caduta di Gerusalemme, e che appariva impura per i suoi compromessi con le pratiche religiose cananee o di altri popoli deportati, i rimpatriati da Babilonia si ritenevano la «progenie santa», il resto che, purificato dalla prova, era destinato a un futuro grandioso secondo la promessa. Questa reinterpretazione positiva della progenie santa, che la comunità di Qumran alcuni secoli dopo applicava a se stessa, testimonia che le generazioni successive hanno saputo leggere nel racconto della vocazione di Isaia quell'apertura al futuro della salvezza, dalla quale esso era profondamente caratterizzato.

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Israele, la vigna del Signore 1Voglio cantare per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna. Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. 2Egli l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato viti pregiate; in mezzo vi aveva costruito una torre e scavato anche un tino. Egli aspettò che producesse uva; essa produsse, invece, acini acerbi. 3E ora, abitanti di Gerusalemme e uomini di Giuda, siate voi giudici fra me e la mia vigna. 4Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto? Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi? 5Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata. 6La renderò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni; alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia. 7Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi.

Raccolta di una serie di «Guai» 8Guai a voi, che aggiungete casa a casa e unite campo a campo, finché non vi sia più spazio, e così restate soli ad abitare nella terra. 9Ha giurato ai miei orecchi il Signore degli eserciti: «Certo, molti palazzi diventeranno una desolazione, grandi e belli saranno senza abitanti». 10Poiché dieci iugeri di vigna produrranno solo un bat e un homer di seme produrrà un’efa. 11Guai a coloro che si alzano presto al mattino e vanno in cerca di bevande inebrianti e si attardano alla sera. Il vino li infiamma. 12Ci sono cetre e arpe, tamburelli e flauti e vino per i loro banchetti; ma non badano all’azione del Signore, non vedono l’opera delle sue mani. 13Perciò il mio popolo sarà deportato senza che neppure lo sospetti. I suoi grandi periranno di fame, il suo popolo sarà arso dalla sete. 14Pertanto gli inferi dilatano le loro fauci, spalancano senza misura la loro bocca. Vi precipitano dentro la nobiltà e il popolo, il tripudio e la gioia della città. 15L’uomo sarà piegato, il mortale sarà abbassato, gli occhi dei superbi si abbasseranno. 16Sarà esaltato il Signore degli eserciti nel giudizio e il Dio santo si mostrerà santo nella giustizia. 17Allora vi pascoleranno gli agnelli come nei loro prati, sulle rovine brucheranno i grassi capretti. 18Guai a coloro che si tirano addosso il castigo con corde da tori e il peccato con funi da carro, 19che dicono: «Faccia presto, acceleri pure l’opera sua, perché la vediamo; si facciano più vicini e si compiano i progetti del Santo d’Israele, perché li conosciamo». 20Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro. 21Guai a coloro che si credono sapienti e si reputano intelligenti. 22Guai a coloro che sono gagliardi nel bere vino, valorosi nel mescere bevande inebrianti, 23a coloro che assolvono per regali un colpevole e privano del suo diritto l’innocente. 24Perciò, come una lingua di fuoco divora la stoppia e una fiamma consuma la paglia, così le loro radici diventeranno un marciume e la loro fioritura volerà via come polvere, perché hanno rigettato la legge del Signore degli eserciti, hanno disprezzato la parola del Santo d’Israele.

Lo sdegno del Signore contro il suo popolo 25Per questo è divampato lo sdegno del Signore contro il suo popolo, su di esso ha steso la sua mano per colpire; hanno tremato i monti, i loro cadaveri erano come immondizia in mezzo alle strade. Con tutto ciò non si calma la sua ira e la sua mano resta ancora tesa. 26Egli alzerà un segnale a una nazione lontana e le farà un fischio all’estremità della terra; ed ecco, essa verrà veloce e leggera. 27Nessuno fra loro è stanco o inciampa, nessuno sonnecchia o dorme, non si scioglie la cintura dei suoi fianchi e non si slaccia il legaccio dei suoi sandali. 28Le sue frecce sono acuminate, e ben tesi tutti i suoi archi; gli zoccoli dei suoi cavalli sono come pietre e le ruote dei suoi carri come un turbine. 29Il suo ruggito è come quello di una leonessa, ruggisce come un leoncello; freme e afferra la preda, la pone al sicuro, nessuno gliela strappa. 30Fremerà su di lui in quel giorno come freme il mare; si guarderà la terra: ecco, saranno tenebre, angoscia, e la luce sarà oscurata dalla caligine.

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Approfondimenti

Israele, la vigna del Signore 5,1-7 Questo «cantico d'amore» o «cantico dell'amato» è un capolavoro nel quale l'arte poetica e il messaggio profetico si fondono in una unità di straordinaria bellezza e di inesauribile ricchezza.

1-6. Il testo è dominato dalle esperienze e dalle immagini della vita agricola. Si narra l'assiduo lavoro del viticoltore, si descrivono le sue cure per custodire la vigna al tempo della vendemmia, cure che si concretizzano addirittura in opere straordinarie, come la costruzione di una «torre» di pietra invece di una semplice capanna di frasche (v. 2). Lo sviluppo del cantico dischiude presto un secondo livello. La poesia non canta un amore bucolico, ma una storia umana d'amore. Il motivo del lavoro insinua l'agire premuroso dell'innamorato pieno di attenzione verso l'amata, nell'attesa che il loro amore possa sviluppare i frutti attesi. L'amara sorpresa del viticoltore diventa così simbolo eloquente dell'accorata delusione dell'innamorato che constata la mancata corrispondenza al proprio amore. A questo punto, però, la minaccia dell'innamorato, che comanda alle nubi di non mandare più pioggia, rivela il terzo livello del cantico, la sua intenzionalità profetica. Il poema proclama il dramma dell'amore del Signore verso il suo popolo: amore che si manifesta nell'intensità appassionata della tenerezza sponsale e sperimenta l'amarezza di una non-corrispondenza, che si configura come infedeltà. La bellezza del poema si riflette anche nella costruzione artistica del testo. Il termine che conferisce alla composizione il suo carattere unitario e la sua tensione dinamica è il verbo «fare»: esso compare due volte nel v. 2 per indicare i frutti attesi e non corrisposti dalla vigna; due volte nel v. 4a per proclamare l'opera del Signore e due volte in 4b per rilevare lo stupore davanti alla mancanza dei frutti; infine una volta (v. 5) per annunciare la punizione che il Signore infliggerà alla sua vigna. Il v. 4 appare qui il punto ideale di convergenza di tutta la composizione, il centro interiore del poema. Anche il verbo «aspettare» svolge una funzione fondamentale nella nostra poesia. Esso si incontra nell'ultimo stico del v. 2. La descrizione dell'attesa appare a prima vista come la conseguenza normale di tutta l'attività descritta nella serie dei cinque verbi precedenti. La frase finale del v. 2 («ma essa fece uva selvatica») conferisce all'attesa un'improvvisa e imprevista tensione. Ora è l'uditore (o il lettore) della parabola che si trova coinvolto nell'attesa di conoscere la conclusione del racconto. Il verbo «aspettare» ricompare nel v. 4, cioè nel centro dinamico e strutturale del poema, per esprimere la sorpresa e lo sbigottimento davanti a un risultato opposto a quello giustamente atteso. Infine il nostro verbo ricorre nel v. 7, formando così una suggestiva inclusione con il v. 2.

7. Proprio in questo versetto il cantico svela il suo significato: l'attesa dell'uditore si scioglie e il popolo si incontra con la parola che annuncia il giudizio del Signore. In realtà il nostro poema appartiene al genere letterario del discorso di accusa. Più precisamente nei vv. 1-4 si incontrano gli elementi propri della requisitoria: la constatazione dell'esistenza di un rapporto vincolante tra il querelante e il querelato (proprietario-vigna; sposo-sposa; JHWH-Israele); il compimento del proprio impegno da parte del querelante; l'accusa per l'inadempienza del querelato e, infine, l'appello alla comunità giuridica perché sia arbitra nella querela. Il fatto che nei vv. 5-6 il proprietario stesso intervenga, emettendo la sentenza, al punto che i “giudici” diventano i “giudicati”, contribuisce ad accrescere la tensione narrativa già innescata dai verbi «fare» e «aspettare». Al culmine di questa tensione il v. 7 rivela l'identità dei protagonisti. Il proprietario è il Signore in quanto sposo, la vigna è la comunità in quanto sposa. L'“io” che intona il cantico (v. 1) è il profeta stesso che qui si presenta, in quanto “amico dello sposo”, nella suggestiva immagine di colui che prepara il tempo delle nozze. Infine con una frase scultorea si evidenzia il contenuto dell'attesa divina. Con un gioco di allitterazioni il profeta annuncia che il Signore attendeva il diritto, ma si è moltiplicato il delitto, si attendeva la giustizia, ma si è sviluppata l'ingiustizia nella forma violenta dell'oppressione.

Raccolta di una serie di «Guai» 5,8-24 La pericope, ben distinta dalla precedente, nell'attuale contesto si pone come commento alla requisitoria di 5,1-7. Essa in origine era costituita da una raccolta di sette «Guai», di cui sei contenuti nei nostri versetti, mentre il settimo, in seguito a una attività redazionale, venne a trovarsi in 10,1-3. Anche se i singoli detti nella maggior parte sono stati pronunciati da Isaia in circostanze diverse, la raccolta come tale risale all'epoca di Giosia. Il genere profetico dei detti «Guai» ha la sua lontana origine nel lamento funebre (cfr. 1Re 13,30; Ger 22,18; 34,5). Questa forma poteva essere usata anche in riferimento ai vivi. In questo caso si dichiarava che le persone nominate erano da piangere perché si trovavano già sotto il dominio della morte. Il detto, in simile contesto, è molto affine a una maledizione e attesta che, nella prospettiva biblica, “maledire” non significa tanto auspicare o attirare la sventura su una determinata persona, quanto dichiarare che essa si trova già nell'ambito della rovina e della morte. E inoltre significativo il fatto che, nell'uso profetico, dopo il grido segue non un sostantivo, ma un participio. È evidente che il profeta condanna non la persona, bensì ogni comportamento antitetico al disegno di Dio.

8-10. Secondo la tradizione antica di Israele, la terra apparteneva al clan che ne assicurava la distribuzione ai propri cittadini. Però l'instabilità economica e la tassazione eccessiva portavano facilmente i piccoli proprietari a forti indebitamenti per cui erano costretti a vendere le terre, riducendosi così allo stato di braccianti o schiavi. Il detto condanna coloro che speculano sulle strutture inique del sistema, trascurando ogni esigenza di giustizia e solidarietà pur di accrescere la loro ricchezza immobiliare. «Dieci iugeri» (v. 10): una vigna di ca. 20.000 mq produrrà solo 22 litri di vino (un bat). Un comer di seme produrrà solo un'efa (circa 9 kg), cioè la decima parte.

11-17. Questo detto si rivolge contro il mondo irresponsabile dei ricchi e dei capi che si dedicano al bere e alle feste. Gli elementi della sua struttura (grido e minaccia) presentano delle particolarità: il grido (v. 11) è ampliato con la descrizione del v. 12. A sua volta la minaccia è duplicata (cfr. v. 13 e v. 14: in ebraico iniziano con la stessa espressione «Perciò», mentre nella nostra traduzione troviamo:«Perciò» e «Pertanto»). Inoltre il v. 14 originariamente continuava con il v. 17, mentre i vv. 15-16 sono un'aggiunta postesilica che in questo contesto richiama il tema teologico dell' esaltazione del Signore già sviluppato nel c. 2. Il detto, che si ispira alla tradizione sapienziale (cfr. Prv 20,1; 23,29-35), condanna la classe dirigente perché trascorre il tempo nell'irresponsabilità e nell'ubriachezza. La severità del castigo minacciato (v. 13) mette in luce l'estrema gravità della colpa appena descritta. Il v. 14, forse di mano deuteronomistica, si inserisce in questo discorso con l'immagine degli «inferi» che dilatano le fauci per accogliere quanti vi cadono, colpiti dal giudizio di Dio. Da parte loro i vv. 15-16, richiamandosi al «giorno del Signore», annunciato nel c. 2, presentano una reinterpretazione del giudizio. Attraverso di esso l'uomo superbo si abbassa (quindi riconosce Dio e il suo disegno), mentre il Signore si manifesta nella sua gloria e santità, dunque come potenza che trasforma il suo popolo, perché viva nel diritto e nella giustizia. Infine il v. 17 afferma che la città, raggiunta dal giudizio di Dio, diventa un pascolo e un luogo di transito per i nomadi. Si tratta di un motivo (cfr. 17,2; 27,10; 32,14) che attesta la reale efficacia dell'intervento di Dio contro ogni forma di ingiustizia e di irresponsabilità.

18-19. Il profeta ha di mira i potenti di Gerusalemme che rifiutano di accogliere la parola profetica e con la loro ostinazione attirano su di sé il castigo. Dopo il grido di minaccia (v. 18) si descrive la colpa, mostrando, con ironia, l'arroganza di chi non crede alla parola e sfida il Signore a realizzare la sua opera e ad adempiere il suo disegno.

20. Per Isaia il bene è strettamente legato alla giustizia e, in particolare, alla protezione di quanti sono privi di ogni difesa. Il detto, quindi, prende direttamente di mira i responsabili della giustizia che non giudicano secondo verità, ma si lasciano corrompere dai regali (cfr. Am 2,6-7a; Dt 10,16-19).

21. Il detto ha di mira coloro che si ritengono dotati di sapienza e di discernimento e si basano su questa autocoscienza per non ascoltare la parola del Signore.

22-23. Mentre nei vv. 11-13 l'abuso del vino chiude gli uomini alla conoscenza del disegno del Signore, qui esso è condannato perché li spinge a violare le esigenze fondamentali della giustizia, per es. dichiarando innocente il colpevole. In tal modo essi tolgono al giusto la sua giustizia (v. 23) e così manifestano di essere agli antipodi del Signore, che «toglie» ogni sostegno a coloro che non praticano la giustizia e la fraternità (cfr. 3,1; 5,5 e la reinterpretazione di 3,18).

24. Il versetto ha la funzione di collegare la raccolta dei «Guai» con il v. 25 nel quale si annuncia, con l'immagine della mano tesa, l'effetto dell'ira del Signore contro il suo popolo. L'immagine del fuoco che «divora la stoppia» e la stessa erba illumina la sorte di coloro che non agiscono secondo il disegno del Signore. Il vocabolario e il contenuto mostrano che si tratta di una reinterpretazione recente, influenzata dalla concezione teologica del Cronista (cfr. 1,4).

Lo sdegno del Signore contro il suo popolo 5,25-30 La locuzione «Con tutto ciò non si calma la sua ira / e la sua mano resta ancora tesa», presente nel v. 25, si incontra anche nel poema di Is 9,7-20, dove svolge la funzione di ritornello (vv. 11.16.20). Questo dato orienta a ritenere, con la maggior parte degli studiosi, che il v. 25 apparteneva in origine al brano citato di 1s 9, brano che in base al suo ritornello può essere chiamato il poema della «mano tesa». Molto probabilmente il v. 25, che a noi è giunto in forma incompleta, si trovava alla fine del poema e aveva la funzione di introdurre la descrizione dell'arrivo degli invasori, chiamati dall'ira del Signore contro il suo popolo (5, 26-30). L'intervento redazionale, che anticipò l'ultima parte del poema nella posizione attuale, è frutto di una rivisitazione del messaggio di Isaia secondo precisi obiettivi. Anzitutto si volle dare un forte risalto alla raccolta di Is 6,1-8,23, chiamata “memoriale di Isaia”. Grazie alla posizione occupata ora da 5,25-30 il memoriale è messo in stretto rapporto con l'annuncio della minaccia assira che coinvolse, prima indirettamente (c. 7) e poi direttamente (c. 8), anche il regno di Giuda e la stessa città di Gerusalemme. In secondo luogo si intese affermare che la minaccia del profeta (cfr. Is 6, 11) si era adempiuta con l'invasione assira che pose fine al regno del Nord. Infine, facendo leva sul fatto che le minacce si erano già adempiute, ci si propose di rafforzare in tutti la fede nella promessa della salvezza, che Isaia aveva annunciato a Gerusalemme e alla casa di Davide (cfr. 7,7). Nel contesto attuale il v. 25 annuncia l'irrompere dell'ira del Signore come conseguenza delle numerose infedeltà descritte nella sezione dei «Guai». L'ira del Signore è un'immagine centrale nella «Visione di Isaia», come nell'insieme di tutta la Scrittura. Essa indica la situazione di un individuo e, soprattutto, di una comunità che, per una grave infrazione, non si trova più in comunione con il Signore. Poiché tale comunione è sorgente di vita, chi si situa fuori di essa entra con ciò stesso in un ambito dominato dalle potenze della morte che lo portano alla totale estinzione. In definitiva il tema dell'ira del Signore connota l'antiesi assoluta tra il disegno di Dio e le forze del male, tra la salvezza e la perdizione, tra la vita e la morte. Perciò l'ira può essere stornata solo eliminando la causa che l'ha suscitata. Soltanto più tardi, con Ezechiele, Israele prenderà coscienza che il peccatore è incapace di liberarsi dalle forze del male. Allora il concetto teologico dell'ira di Dio porterà la fede a confessare che il Signore, per essere fedele al suo amore, trasforma l'intimo dell'uomo con il dono del suo Spirito, liberandolo così da ogni iniquità e rendendolo partecipe della sua vita (cfr. Ez 36,24-28; Is 54, 4-13).

26-30. Il Signore è presentato nell'atto di rivolgersi «a un popolo lontano», per indicargli, con l'apposito segnale, il luogo dove accamparsi prima di sferrare l'attacco definitivo contro il suo popolo. Il rapido spostamento di un esercito agile e perfettamente armato (il cavallo e il carro erano emblemi di grande potenza militare), mentre richiama la straordinaria organizzazione dell'esercito assiro, a livello testuale evidenzia la potenza dell'ira del Signore che opera negli avvenimenti della storia umana.

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Giudizio e salvezza per Gerusalemme

Gerusalemme nella sventura 1Sette donne afferreranno un uomo solo, in quel giorno, e diranno: «Ci nutriremo del nostro pane e indosseremo le nostre vesti; soltanto, lasciaci portare il tuo nome, toglici la nostra vergogna».

Il giorno del germoglio 2In quel giorno, il germoglio del Signore crescerà in onore e gloria e il frutto della terra sarà a magnificenza e ornamento per i superstiti d’Israele. 3Chi sarà rimasto in Sion e chi sarà superstite in Gerusalemme sarà chiamato santo: quanti saranno iscritti per restare in vita in Gerusalemme. 4Quando il Signore avrà lavato le brutture delle figlie di Sion e avrà pulito Gerusalemme dal sangue che vi è stato versato, con il soffio del giudizio e con il soffio dello sterminio, 5allora creerà il Signore su ogni punto del monte Sion e su tutti i luoghi delle sue assemblee una nube di fumo durante il giorno e un bagliore di fuoco fiammeggiante durante la notte, perché la gloria del Signore sarà sopra ogni cosa come protezione, 6come una tenda sarà ombra contro il caldo di giorno e rifugio e riparo contro la bufera e contro la pioggia.

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Approfondimenti

La storia del regno di Giuda, la storia di Isaia e la sua “visione” della storia

Il Regno di Giuda si formò dopo la morte del re Salomone (circa 933 a.C.), quando il Regno di Giuda e Israele si scisse in due entità autonome: – il Regno di Israele a Nord, composto dalla maggior parte delle tribù ebraiche; – il Regno di Giuda a Sud, comprendente il territorio della tribù di Giuda, quello della tribù di Simeone (scomparsa e assorbita dalle altre due) e la maggior parte della tribù di Beniamino, oltre che numerosi membri della tribù di Levi, che non possedeva terra.

Numerosi Re degli Ebrei vi regnarono. Il regno gravitò attorno alla capitale Gerusalemme e al suo tempio. Tutti i re furono della dinastia davidica. Venne distrutto nel 587 a.C. quando il re babilonese Nabucodonosor conquistò Gerusalemme e deportò gran parte della popolazione ebraica.

Successivamente i Persiani conquistano Babilonia nel 538 a.C. anno in cui fu emanato il “Decreto di Ciro” che permette agli ebrei di ritornare a Gerusalemme. Inizia la costruzione del Secondo Tempio (il “Tempio di Salomone” che s'iniziò a costruire nel 967 a.C. e fu terminato nel 960 a.C. era stato distrutto dal babilonese Nabucodonosor II nel 586 a.C.). Fu completato nel 515 a.C. così come raccontato nel Libro di Esdra, e fu definitivamente distrutto nel 70 d.C. dal generale romano Tito.

Isaia, figlio di Amoz, visse a Gerusalemme nella seconda metà del VIII sec. a.C. Nell'anno della morte del re Ozia (o Azaria) – molto probabilmente il 740 a.C. – inizia la sua attività di profeta, in un periodo storico che coincide con l’avanzata dell’impero assiro verso ovest. La sua attività si puà suddividere in cinque periodi.

1. sotto il regno di Iotam (740-736) che si conclude con l'inizio della “guerra siro-efraimitica” ed è caratterizzato da una situazione politicamente ancora tranquilla ed economicamente prospera (capitoli 1-5). Muovendosi nella stessa linea di Amos e Osea, il profeta interviene cin energia in Gerusalemme per denunciare l'ingiustizia sociale come realtà inconciliabile con l'alleanza. Isaia comprende il pericolo che incombe sul popolo per le sue infedeltà e in modo particolare per l'orgoglio dei capi che non accolgono la parola di Dio. 2. la “guerra siro-efraimitica” (734-732) (capitoli 7-8). La parola del profeta manifesta in questa fase un pensiero destinato a svilupparsi nei secoli futuri: annuncia la regalità e la santità di Dio che guida gli eventi del mondo e attua la promessa di salvezza; richiama alla necessità della fede come fiducia in Dio che si esprime e si sviluppa in tutte le dimensioni dell'esistenza umana; afferma la permanenza della “casa di Davide”, garantita dalla fedeltà di Dio alla sua promessa. 3. dal 727 al 722. Isaia condanna la Filistea, che alla morte di Tiglat-Pilezer III istiga Giuda alla ribellione, e la Samaria che si era ribellata all'Assiria. 4. dal 716 al 711. Verso il 714, il Re di Babilonia inviò messaggeri al re Ezechia con l'intento di averlo come alleato (cf Is 39,1-2). Anche l'Egitto si mostra interessato a questa rivolta. Nel 713 la città filistea di Asdod si proclama indipendente dall'Assiria e si mette a capo di una coalizione nella quale entra anche il regno di Giuda. Isaia interviene per dissuadere il re di Giuda dal ribellarsi contro l'Assiria, che nel 711 con una rapida campagna militare sottomette Asdod. 5. dal 705 al 701 quando Ezechia si fece promotore di una vasta insurrezione appoggiata dall'Egitto (capitoli 28-31). Isaia mette in guardia Ezechia contro l'alleanza con l'Egitto che, secondo lui, si configurava come la ricerca di sicurezze umane in netta antitesi con la fiducia in Dio, unica fonte di salvezza. Infatti il redi Assiria devastò il regno di Giudae giunse a minacciare la stessa Gerusalemme. Davanti alla crudeltà della spedizione punitiva degli Assiri, Isaia pronunciò la sua condanna profetica.

Per Isaia la storia non è condizionata solo dalle forze politiche, economiche e belliche, ma è guidata dal Signore che dischiude agli uomini le vie della giustizia e della solidarietà. La tradizione successiva svilupperà, in un lungo processo, la formazione del libro che sarà intitolato “Visione di Isaia”.

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Il v. 4,1 è legato a 3,25-26, come nei due versetti conclusivi del capitolo precedente anche qui c'è la descrizione della sciagura che si abbatte sulla città di Gerusalemme. Avendo perso i propri mariti e familiari, caduti in battaglia, le donne cercano un uomo a ogni costo, disposte addirittura ad essere in sette a sposarlo. Il numero sette, benché simbolico, connota la situazione resa estremamente grave per la scomparsa della maggior parte degli uomini. La notizia che le donne sono pronte a rinunciare al diritto di essere mantenute dal marito (per l'espressione «pane» e «vesti» nel senso di sostentamento cfr. Dt 10, 18), conferisce al quadro un'atmosfera di angoscia e disperazione di particolare effetto. La minaccia di 3,1 si sta adempiendo.

Il giorno del germoglio 4,2-6 Il brano, costituito da alcune unità postesiliche, è stato inserito dopo l'annuncio del giudizio (3,1-4,1) per sottolineare che la sofferenza del momento presente è in funzione di un luminoso futuro di salvezza.

L'espressione «il germoglio del Signore» ricorre unicamente nel nostro testo al v. 2. La locuzione va intesa, insieme con la frase «il frutto della terra», come promessa di un periodo di fertilità della regione e abbondanza dei suoi prodotti. Certamente l'autore, con una costruzione stilistica basata sul parallelismo, orienta verso un futuro caratterizzato dalla salvezza divina. Inoltre il significato fondamentale del vocabolo «germoglio» è letterale; esso denota tutto ciò che produce la terra (cfr. Gn 19,25). Tuttavia il termine ha assunto anche una connotazione simbolica e come tale venne adoperato per indicare il nuovo Davide, che il Signore avrebbe suscitato secondo la promessa di Ez. 34, 23-24 (ispirata a sua volta dalla tradizione contenuta in 2Sam 7,1-17). I testi che parlano del nuovo Davide annunciano spesso la fertilità della terra come segno che nei “suoi” giorni finirà la maledizione minacciata (cfr. Gn 3,17-18; Dt 28,18.23-24), e inizierà un mondo nuovo, caratterizzato dalla divina benedizione (cfr. Sal 72, 9-17, in particolare il v. 16; Sal 132,11.13.15.17). Questo versetto costituisce, quindi, una preziosa testimonianza dell'attesa del nuovo Davide, che svolse un ruolo importante nella speranza della comunità giudaica del postesilio. La sua attuale collocazione, all'interno della «Visione di Isaia», illumina la promessa dell'«Emmanuele» (Is 7,14) e le relative reinterpretazioni di Is 9,5-6 e Is 11,1-4a, ponendole nel contesto della nuova Sion.

Nel v. 3 si presenta la condizione di coloro che sono «rimasti» in Sion: essi partecipano della “santità” divina e «saranno iscritti per restare in vita in Gerusalemme». La locuzione forse indicava originariamente coloro che erano nelle liste degli aventi diritto a risiedere in Gerusalemme. Essa, però, con il tempo giunse a significare coloro che sono fedeli all'alleanza e perciò non sono cancellati dal libro della vita, ma sono chiamati a partecipare per sempre della vita del Signore. I vv. 4-5a sembrano riferirsi alla riforma religiosa di Esdra (Esd 9-10; Ne 13,3.23-30). I vv. 5b-6 sono una glossa recente. Il motivo della protezione divina è ora specificato con le immagini della tenda che fornisce ombra contro il caldo e rifugio contro i temporali. Si tratta di metafore che alludono all'oppressione dei tiranni (cfr. 25,4-5). Esse sono un segno che la minaccia del giudizio non colpirà più la nuova Sion, ma si abbatterà definitivamente contro le potenze dell'ingiustizia e dell'oppressione.

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Giudizio e salvezza per Gerusalemme

Minaccia di anarchia 1Sì, ecco il Signore, il Signore degli eserciti, toglie a Gerusalemme e a Giuda ogni genere di risorsa, ogni risorsa di pane e ogni risorsa d’acqua, 2il prode e il guerriero, il giudice e il profeta, l’indovino e l’anziano, 3il comandante di cinquanta e il notabile, il consigliere e il mago astuto e l’esperto d’incantesimi. 4Io metterò dei ragazzi come loro capi, dei monelli li domineranno. 5Il popolo userà violenza: l’uno contro l’altro, individuo contro individuo; il giovane tratterà con arroganza l’anziano, lo spregevole il nobile. 6Perché uno afferrerà il fratello nella casa del padre: «Tu hai un mantello: sii nostro capo; prendi in mano questa rovina!». 7Ma lui si alzerà in quel giorno per dire: «Non sono un guaritore; nella mia casa non c’è pane né mantello. Non ponetemi a capo del popolo!». 8Certo, Gerusalemme va in rovina e Giuda crolla, perché la loro lingua e le loro opere sono contro il Signore, e offendono lo sguardo della sua maestà. 9La loro parzialità li condanna ed essi ostentano il loro peccato come Sòdoma: non lo nascondono neppure; disgraziati loro, poiché preparano la loro rovina. 10Beato il giusto, perché avrà bene, mangerà il frutto delle sue opere. 11Guai all’empio, perché avrà male, secondo l’opera delle sue mani sarà ripagato.

L'accusa del Signore 12Il mio popolo! Un fanciullo lo tiranneggia e delle donne lo dominano. Popolo mio, le tue guide ti traviano, distruggono la strada che tu percorri. 13Il Signore si erge per accusare, egli si presenta per giudicare il suo popolo. 14Il Signore inizia il giudizio con gli anziani e i capi del suo popolo: «Voi avete devastato la vigna; le cose tolte ai poveri sono nelle vostre case. 15Quale diritto avete di schiacciare il mio popolo, di pestare la faccia ai poveri?». Oracolo del Signore, il Signore degli eserciti.

Contro le nobili di Gerusalemme 16Dice il Signore: «Poiché si sono insuperbite le figlie di Sion, procedono a collo teso, ammiccando con gli occhi, e camminano a piccoli passi, facendo tintinnare gli anelli ai piedi, 17il Signore renderà tignoso il cranio delle figlie di Sion, il Signore denuderà la loro fronte». 18In quel giorno il Signore toglierà l’ornamento di fibbie, fermagli e lunette, 19orecchini, braccialetti, veli, 20bende, catenine ai piedi, cinture, boccette di profumi, amuleti, 21anelli, pendenti al naso, 22vesti preziose e mantelline, scialli, borsette, 23specchi, tuniche, turbanti e vestaglie. 24Invece di profumo ci sarà marciume, invece di cintura una corda, invece di ricci calvizie, invece di vesti eleganti uno stretto sacco, invece di bellezza bruciatura.

Gerusalemme nella sventura 25I tuoi prodi cadranno di spada, i tuoi guerrieri in battaglia. 26Si alzeranno lamenti e gemiti alle sue porte ed essa, disabitata, giacerà a terra.

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Approfondimenti

Giudizio e salvezza per Gerusalemme (Is 3,1-4,6) La sezione si articola nelle seguenti unità:

  • minaccia di anarchia (3,1-11);
  • intervento del Signore che esprime il suo dolore per la sorte del popolo e lo accusa delle proprie colpe (3,12-15);
  • sentenza che condanna l'orgoglio della nobiltà femminile di Gerusalemme (3,16-24);
  • descrizione della sciagura che si abbatte sulla città (3,25-4,1);
  • annuncio del giorno del «germoglio» che inaugura l'era della vita per il “resto”, rinnovato dal fuoco del Signore (4,2-6).

Minaccia di anarchia (3,1-11) Liberato dalle glosse e dalle aggiunte reinterpretative, il nostro brano presenta le caratteristiche tematiche ed espressive del profeta Isaia. Difficile è l'ambientazione storica di questo annuncio. Poiché il detto sembra riferirsi più a un disordine interno che a un nemico esterno, è possibile che risalga ai primi anni del regno di Acaz, quando il pericolo assiro non si era ancora affacciato all'orizzonte.

1-7 Isaia annuncia l'intervento del Signore che toglie a «Gerusalemme e Giuda» ogni sostegno e appoggio (v. 1). Con questa metafora, come risulta dai vv. 2-3 si indicano concretamente le guide sociali e religiose del popolo. Una glossa posta alla fine del v. 1 vede l'assenza di sostegno nella mancanza del cibo, reinterpretando così la parola del profeta in riferimento all'assedio di Gerusalemme nel 587. Il vocabolario isaiano racchiude una profonda prospettiva teologica. Il sostantivo «risorsa» deriva da una radice verbale che, in un contesto religioso, connota l'atteggiamento profondo della fede (cfr. Is 7,9b), con cui l'uomo si abbandona in modo incondizionato al Signore e alla sua parola (cfr. Is 10,20), o, inversamente, l'atteggiamento dell'incredulità, con cui l'uomo pone la sua sicurezza nei propri piani e nella propria forza (cfr. 30,12; 31,1). Togliendo ogni sostegno sul quale l'uomo poggia la garanzia del proprio futuro, JHWH mira a suscitare nel suo popolo la fede perché sappia scoprire il futuro che viene da Dio e porta la vita all'uomo.

La gravità della minaccia è accentuata nei vv. 4-7, dove si descrivono le conseguenze dell'intervento del Signore (di qui l'uso della prima persona nel v. 4). Nella situazione di caos che si viene a creare, il potere sarà assunto da ragazzi, privi di forza nell'azione e di esperienza politica. Come si evince dal parallelismo del v. 4, il paese sarà governato dal “capriccio”, dunque da ogni forma di arbitrio egoistico e irresponsabile.

8-9a In due versetti concisi ed efficaci il profeta presenta il crollo di Gerusalemme e la caduta di Giuda legati a una duplice causa: la ribellione contro Dio, perpetrata nelle parole e nelle opere (v. 8), e la parzialità nell'amministrazione della giustizia, un male così generalizzato che non è più necessario che rimanga nascosto; gli stessi responsabili – come si rileva con fine ironia – lo possono impunemente annunciare (v. 9a).

9b-11 Alla motivazione, ora seguono due aggiunte. Quella del v. 9b assicura che quanti si rendono colpevoli di ingiustizia saranno causa a se stessi della propria disgrazia. La seconda aggiunta (vv. 10-11) si ispira al v. 9b ed è caratterizzata formalmente dal parallelismo antitetico (giusto-empio). Quanto al messaggio, il v. 10 è affine a Sal 128,1 (dove si parla dell'uomo «che teme il Signore»), mentre il v. 11 ha un testo parallelo in Prv 12, 14b («ciascuno sarà ripagato secondo le sue opere»).

L'accusa del Signore (3,12-15) Entrambi gli stichi del v. 12, che forse è un frammento di un brano altrimenti sconosciuto, iniziano con la stessa espressione: al nominativo in 12a «Il mio popolo!» e al vocativo in 12b «Popolo mio». In questo modo il detto si muove in uno spazio caratterizzato dall'identità di Israele. Nel secondo stico il Signore si rivolge direttamente al suo popolo per illuminarlo: coloro che lo guidano sono dei “corruttori” e lo lasciano nella confusione circa la via da percorrere. Letto nell'attuale contesto, il nostro versetto sottolinea che si è compiuta la minaccia dei vv. 1-3 e, al tempo stesso, orienta a contemplare il cuore del Signore che, mentre annuncia il castigo, non gode della punizione che il popolo ha attirato su di sé, ma parla di lui e si rivolge a lui con la tenerezza del suo amore (cfr. la stessa prospettiva in Ger 31,20).

13-15 Il Signore sorge in giudizio non per condannare gli dei (Sal 82,2) o i nemici (Sal 77,18-23), ma si erge contro «gli anziani e i capi del suo popolo» (v. 14), perché, derubando i poveri, devastano la «vigna». La costruzione chiastica (voi – vigna // poveri – vostre case) mostra che la «vigna» è identificata con i poveri. Nella stessa linea teologica il chiasmo del v. 15a identifica i poveri, oppressi e derubati, con il «popolo» del Signore, in altri termini con la sua famiglia. Per questo JHWH giudica gli stessi anziani e i capi, come aveva un tempo giudicato il faraone d'Egitto quando era divenuto “l'oppressore” del suo popolo. Poiché l'identificazione tra il popolo, vigna, del Signore e i poveri presuppone la riflessione psot-esilica sugli “anawim” (cf. Sof 3,12-13a), questo versetto è da ritenersi una reinterpretazione del messaggio isaiano.

Contro le nobili di Gerusalemme (3,16-24) È una minaccia contro la superbia delle figlie di Sion, che precede il motivo su cui essa si fonda, che viene così introdotto in modo enfatico. Questo lascia intendere che l'agire di Dio non si sviluppa in modo arbitrario o dispotico, ma si realizza nella storia, secondo la parola rivelata al suo popolo. Il profeta descrive il comportamento delle «figlie di Sion» che «si sono insuperbite»: le loro manifestazioni, secondo Isaia, sono il segno di una orgogliosa autosufficienza che chiude il cuore all'ascolto del Signore e alla solidarietà umana. Nel v. 17 viene annunciato il castigo, ricorrendo al motivo del “contrappasso”. I vv. 18-23 sono stati introdotti con arte nel periodo postesilico: viene descritta l'azione di Dio che priverà le donne di Gerusalemme di ogni loro gioiello e veste preziosa. L'elenco degli “articoli” dell'eleganza femminile offre un quadro delle nobildonne di Gerusalemme nella società postesilica. Il v. 24 descrive il castigo e specifica il senso dell'azione di Dio. Il profeta sta immaginando che le nobili donne di Gerusalemme saranno condotte schiave come bottino di guerra, vestite poveramente e marchiate a fuoco come segno di appartenenza al loro nuovo padrone.

Gerusalemme nella sventura (3,25-26) Il v. 25 si rivolge a un “tu” femminile, identificabile con la città di Gerusalemme. Le porte della città erano il luogo nel quale i cittadini si riunivano e celebravano le loro assemblee... qui si descrive quello che succede quando Gerusalemme cade in mano ai nemici.

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Intestazione 1Messaggio che Isaia, figlio di Amoz, ricevette in visione su Giuda e su Gerusalemme.

Il pellegrinaggio dei popoli al Sion 2Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e s’innalzerà sopra i colli, e ad esso affluiranno tutte le genti. 3Verranno molti popoli e diranno: «Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri». Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore. 4Egli sarà giudice fra le genti e arbitro fra molti popoli. Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra. 5Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore.

L’esaltazione del Signore sull'orgoglio umano 6Sì, tu hai rigettato il tuo popolo, la casa di Giacobbe, perché rigurgitano di maghi orientali e di indovini come i Filistei; agli stranieri battono le mani. 7La sua terra è piena d’argento e d’oro, senza limite sono i suoi tesori; la sua terra è piena di cavalli, senza limite sono i suoi carri. 8La sua terra è piena di idoli; adorano l’opera delle proprie mani, ciò che hanno fatto le loro dita. 9L’uomo sarà piegato, il mortale sarà abbassato; tu non perdonare loro. 10Entra fra le rocce, nasconditi nella polvere, di fronte al terrore che desta il Signore e allo splendore della sua maestà, quando si alzerà a scuotere la terra. 11L’uomo abbasserà gli occhi superbi, l’alterigia umana si piegherà; sarà esaltato il Signore, lui solo, in quel giorno.

12Poiché il Signore degli eserciti ha un giorno contro ogni superbo e altero, contro chiunque si innalza, per abbatterlo, 13contro tutti i cedri del Libano alti ed elevati, contro tutte le querce del Basan, 14contro tutti gli alti monti, contro tutti i colli elevati, 15contro ogni torre eccelsa, contro ogni muro fortificato, 16contro tutte le navi di Tarsis e contro tutte le imbarcazioni di lusso. 17Sarà piegato l’orgoglio degli uomini, sarà abbassata l’alterigia umana; sarà esaltato il Signore, lui solo, in quel giorno.

18Gli idoli spariranno del tutto. 19Rifugiatevi nelle caverne delle rocce e negli antri sotterranei, di fronte al terrore che desta il Signore e allo splendore della sua maestà, quando si alzerà a scuotere la terra. 20In quel giorno ognuno getterà ai topi e ai pipistrelli gli idoli d’argento e gli idoli d’oro, che si era fatto per adorarli, 21per entrare nei crepacci delle rocce e nelle spaccature delle rupi, di fronte al terrore che desta il Signore e allo splendore della sua maestà, quando si alzerà a scuotere la terra. 22Guardatevi dunque dall’uomo, nelle cui narici non v’è che un soffio: in quale conto si può tenere?

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Approfondimenti

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)

Intestazione Il “titolo” di Is 1,1 «Visione che Isaia, figlio di Amoz, ebbe su Giuda e su Gerusalemme al tempo dei re di Giuda Ozia, Iotam, Acaz ed Ezechia» vale per tutto il complesso dei capitoli 1-39. In 2,1 si nota la presenza (problematica) di un secondo titolo (o intestazione): «Messaggio che Isaia, figlio di Amoz, ricevette in visione su Giuda e su Gerusalemme». L’intenzione di questo secondo titolo è di ribadire l’attribuzione della profezia di Is 2,2-5 (il pellegrinaggio dei popoli al Sion) al profeta Isaia, dal momento che il testo è presente quasi identico in Mi 4,1-3.

Il pellegrinaggio dei popoli al Sion Is 2,2-5 sottolinea l'importanza attribuita al tempio e alla sua funzione nella “nuova Gerusalemme”. L'espressione iniziale è una formula che introduce l'annuncio di un evento futuro all'interno della storia umana. Il Pellegrinaggio al tempio è motivato da una precisa finalità: ricevere “l'insegnamento” divino della rivelazione per attuarlo nella propria vita. Quando i popoli saliranno al monte del Signore, Egli come giudice ristabilirà l'ordine sconvolto e i popoli trasformeranno le armi (strumenti di morte) in utensili agricoli che consentono all'uomo di assicurarsi il cibo per la propria vita. L'insegnamento divino riguarda la pace, per questo i popoli non “impareranno/si eserciteranno” più la guerra... così la pace potrà durare per sempre. Il v. 5 marca la differenza tra Mi 4,1-3 e Is 2,2-5: la “casa di Giacobbe”, ovvero gli abitanti della regione di Giuda e della città di Gerusalemme (chiamati con un nome che sottolinea il legame che Dio ha stabilito con loro) sono invitati a camminare «nella luce del Signore». Questa espressione richiama l'importanza della parola del Signore che è fondamentale nell'esperienza della salvezza come itinerario compiuto nella luce della rivelazione. Solo così Sion potrà irradiare la pace su tutta l'umanità.

L’esaltazione del Signore sull'orgoglio umano L'espressione «casa di Giacobbe» aggancia questa sezione alla precedente (cf. v. 5 e v. 6): con un linguaggio vigoroso e poetico viene descritto «il giorno del Signore» nel quale Egli sarà esaltato e si manifesterà in tutta la sua gloriosa potenza contro ogni forma di superbia umana. Anzitutto la «casa di Giacobbe» si deve liberare dalle pratiche idolatriche che trovano invece un continuo e pericoloso incentivo nel commercio praticato con gli stranieri che abitano oltre i confini orientale e occidentale (i Filistei). Il territorio abitato dalla «casa di Giacobbe» (= «la sua terra») è descritto come colmo di ricchezze, accumulate con il commercio e pieno di cavalli. Questi animali provengono dagli incontri/scontri con gli “Ittiti” (antico popolo che abitava nei territori dell'attuale Turchia) e si diffusero nell'Antico vicino Oriente come simbolo di potenza economica e militare.

I vv. 12-17 riportano un detto del profeta Isaia che annuncia «il giorno del Signore». Sono individuate cinque realtà (ciascuna descritta con una coppia di termini) contro cui tale giorno è diretto:

  1. cedri e querce (simboli dell'elevatezza naturale);
  2. monti e colli (simboli dell'elevatezza urbana);
  3. torri e mura (simboli della sicurezza nelle proprie opere di fortificazione);
  4. navi e imbarcazioni (simboli dell'elevatezza cooerciale);
  5. l'orgoglio e l'alterigia degli uomini.

Le prime due coppie descrivono “il mondo creato” mentre le successive riguardano le realizzazioni tecniche dell'umanità e le conseguenti ricchezze accumulate grazie a queste.

Questa grandiosa descrizione del giorno del Signore presenta molti tratti comuni con il Sal 29 e si sviluppa secondo la traiettoria di un uragano che parte dal Libano, sradicandone gli alti alberi, investe la città di Gerusalemme, abbattendone le mura e le fortezze, si estende fino al mare, portando ovunque distruzione e rovina.

Il «giorno del Signore» si rivolgerà contro ogni forma di orgoglio, contro chi “sta in alto” cioè “si è elevato” ed è “superbo”. L'orgoglio umano è l'atteggiamento dell'uomo che si ritene “il dio” di sé stesso e agisce “indipendentemente” dalla volontà di Dio, senza cercare né accogliere l'insegnamento divino della Parola e della Legge.

Il «giorno del Signore» segna la fine di ogni superbia umana, che sarà «abbassata» e «piegata». Al tempo stesso si manifesterà l'esaltazione divina come fonte di sicura salvezza.

I vv. 18-22 descrivono la ricaduta “universale” del «giorno del Signore» che Isaia aveva annunciato e riferito alla «casa di Giacobbe» (in particolare alla caduta di Gerusalemme). Nel «giorno del Signore» scompariranno definitivamente tutti gli “idoli”: colti dal terrore per l'apparizione divina gli uomini fuggiranno, abbandonando tutti gli oggetti a loro cari, compresi gli idoli.

Il saggio che attende il «giorno del Signore» vive nella certezza che l'uomo (orgoglioso)sarà umiliato. Per questo non si lascia condizionare né dal suo potere, né dalle sue promesse.


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LIBRO DEL PROFETA ISAIA

Titolo 1Visione che Isaia, figlio di Amoz, ebbe su Giuda e su Gerusalemme al tempo dei re di Giuda Ozia, Iotam, Acaz ed Ezechia.

Accusa al popolo che ha abbandonato il Signore 2Udite, o cieli, ascolta, o terra, così parla il Signore: «Ho allevato e fatto crescere figli, ma essi si sono ribellati contro di me. 3Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende». 4Guai, gente peccatrice, popolo carico d’iniquità! Razza di scellerati, figli corrotti! Hanno abbandonato il Signore, hanno disprezzato il Santo d’Israele, si sono voltati indietro. 5Perché volete ancora essere colpiti, accumulando ribellioni? Tutta la testa è malata, tutto il cuore langue. 6Dalla pianta dei piedi alla testa non c’è nulla di sano, ma ferite e lividure e piaghe aperte, che non sono state ripulite né fasciate né curate con olio. 7La vostra terra è un deserto, le vostre città arse dal fuoco. La vostra campagna, sotto i vostri occhi, la divorano gli stranieri; è un deserto come la devastazione di Sòdoma. 8È rimasta sola la figlia di Sion, come una capanna in una vigna, come una tenda in un campo di cetrioli, come una città assediata. 9Se il Signore degli eserciti non ci avesse lasciato qualche superstite, già saremmo come Sòdoma, assomiglieremmo a Gomorra.

Le celebrazioni religiose senza giustizia sono inutili 10Ascoltate la parola del Signore, capi di Sòdoma; prestate orecchio all’insegnamento del nostro Dio, popolo di Gomorra! 11«Perché mi offrite i vostri sacrifici senza numero? – dice il Signore. Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di pingui vitelli. Il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco. 12Quando venite a presentarvi a me, chi richiede a voi questo: che veniate a calpestare i miei atri? 13Smettete di presentare offerte inutili; l’incenso per me è un abominio, i noviluni, i sabati e le assemblee sacre: non posso sopportare delitto e solennità. 14Io detesto i vostri noviluni e le vostre feste; per me sono un peso, sono stanco di sopportarli. 15Quando stendete le mani, io distolgo gli occhi da voi. Anche se moltiplicaste le preghiere, io non ascolterei: le vostre mani grondano sangue. 16Lavatevi, purificatevi, allontanate dai miei occhi il male delle vostre azioni. Cessate di fare il male, 17imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova». 18«Su, venite e discutiamo – dice il Signore. Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve. Se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana. 19Se sarete docili e ascolterete, mangerete i frutti della terra. 20Ma se vi ostinate e vi ribellate, sarete divorati dalla spada, perché la bocca del Signore ha parlato».

Futura purificazione di Gerusalemme 21Come mai la città fedele è diventata una prostituta? Era piena di rettitudine, vi dimorava la giustizia, ora invece è piena di assassini! 22Il tuo argento è diventato scoria, il tuo vino è diluito con acqua. 23I tuoi capi sono ribelli e complici di ladri. Tutti sono bramosi di regali e ricercano mance. Non rendono giustizia all’orfano e la causa della vedova fino a loro non giunge. 24Perciò, oracolo del Signore, Dio degli eserciti, il Potente d’Israele: «Guai! Esigerò soddisfazioni dai miei avversari, mi vendicherò dei miei nemici. 25Stenderò la mia mano su di te, purificherò come in un forno le tue scorie, eliminerò da te tutto il piombo. 26Renderò i tuoi giudici come una volta, i tuoi consiglieri come al principio. Allora sarai chiamata “Città della giustizia”, “Città fedele”». 27Sion sarà riscattata con il giudizio, i suoi convertiti con la rettitudine. 28Ribelli e peccatori insieme finiranno in rovina e periranno quanti abbandonano il Signore. 29Sì, vi vergognerete delle querce di cui vi siete compiaciuti. Arrossirete dei giardini che vi siete scelti, 30Sì, diventerete come quercia dalle foglie avvizzite e come giardino senz’acqua. 31Il forte diverrà come stoppa, la sua opera come una favilla; bruceranno tutte e due insieme e nessuno le spegnerà.

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Approfondimenti

(cf. MASSIMILIANO SCANDROGLIO, Introduzione ai Profeti – schede informative, Dispense ad uso degli studenti, Milano, 2021-2022)

IL LIBRO DI ISAIA L’ampiezza del materiale testuale, la varietà dei temi trattati, la ricchezza delle forme linguistiche, le divergenze contenutistiche e formali al suo interno... hanno condotto la ricerca esegetica a proporre una fondamentale tripartizione del libro di Isaia: – primo Isaia (capitoli 1-39); – secondo Isaia (capitoli 40-55); – terzo Isaia (capitoli 56-66).

In sostanza si possono individuare tre figure complementari: c'è un primo “Isaia”, il cui nome significa “Dio è salvezza/salva”, che suggerisce l’intensa collaborazione del profeta al piano salvifico divino, di cui è strumento prezioso. Lo stesso Siracide potrà così affermare: «Il Santo li ascoltò e li salvò per mezzo di Isaia» (Sir 48,20).

Questo “primo” Isaia probabilmente nacque a Gerusalemme intorno al 760 a.C. e visse nel periodo che va da Ozia a Ezechia (cf Is 1,1). Venne chiamato alla missione profetica nell’“anno in cui morì il re Ozia” (Is 6,1; 740/739 a.C.), a circa 20 anni di età.

Svolgerà così il suo ministero per circa 40 anni da protagonista della vita politica e religiosa della Gerusalemme di allora. Forse poco dopo la vocazione, si sposa con una donna di cui non conosciamo il nome, ma che in un’occasione viene chiamata “profetessa” (Is 8,3).

Da questo matrimonio nascono almeno due figli, ai quali Isaia impone nomi simbolici: Seariasub (“un resto ritornerà”), e Maher-salal-cash-baz (“bottino-pronto-saccheggio-prossimo”) (Is 8,18). In questo modo, come nel caso di Osea, è l’intera vita del profeta ad essere a servizio della missione di annuncio della Parola.

Sulla sua morte non abbiamo notizie certe. La tradizione lo vuole martire sotto l’empio re Manasse (ca. 701 a.C.?), uccisore di profeti (cf 2Re 21,16): secondo gli apocrifi Ascensione di Isaia e Vite dei profeti, il re lo avrebbe fatto segare in due per aver paragonato Gerusalemme a Sodoma e Gomorra (cf Is 1,10).

Isaia è uomo deciso, di azione. Lo si vede bene nella risposta ferma al momento della vocazione «Eccomi, manda me!» (Is 6,8). Questa risposta esprime una costante della sua vita, che emerge in particolare nei frequenti e intensi confronti con le autorità costituite, compreso il sovrano regnante. Le accuse nei riguardi delle élite sono giustificate dalla situazione drammatica della società giudaica del tempo, ben descritta in Is 1 con il ricorso al simbolismo del corpo malato (cf in part. v. 6).

Isaia è un contestatore del modo comune di pensare, capace di andare anche contro-corrente; un uomo di Dio che confronta l’umana sapienza con il messaggio che gli è stato consegnato. Il profeta è anche uomo di relazioni e di conoscenza; punto di riferimento per un gruppo di discepoli, che poi diverrà il nucleo della sua “scuola” (cf Is 8,16). Egli mostra familiarità con il tempio, l’ambiente di corte, i circoli aristocratici; conosce la geo-politica del tempo, le grandi tradizioni di Israele (in particolare l’elezione di Gerusalemme e della dinastia regnante), la conformazione della città santa, il suo tempio, le liturgie, come anche la vita quotidiana della campagna di Giuda... insomma, un uomo di cultura, chiamato ad essere profeta.

È stato detto di Isaia che è un personaggio aristocratico, politicamente conservatore, nemico di rivolte e di mutamenti sociali profondi. Ma nulla di tutto ciò ha un serio fondamento. Che il profeta sia nemico dell’anarchia e la consideri un castigo sembra evidente (cf Is 3,1-9). Ma questo non vuol dire che appoggi la classe alta. Dai primi poemi fino agli ultimi oracoli, dirige i suoi principali attacchi contro i gruppi dominanti: autorità, giudici, latifondisti, politici […] donne della classe alta di Gerusalemme. E quando difende qualcuno con passione, non si tratta di aristocratici, ma di oppressi, di orfani, di vedove (cf Is 1,17) del popolo sfruttato e traviato dai governanti (cf Is 3,12-15).

Il suo ministero profetico si è incrociato con diversi sovrani di Giuda, in particolare con Acaz ed Ezechia. Non è esplicitata nel libro la posizione di Isaia in relazione alla riforma religiosa di Ezechia (sempre che ci sia effettivamente stata...), ma si può immaginare una sua sostanziale approvazione.

Lo stile nel parlare (e nello scrivere) di Isaia è talmente variegato da renderlo un classico della produzione letteraria ebraica. Nel suo libro ritroviamo soprattutto oracoli (cf ad es. Is 1,2-9; 2,2.5), ma non mancano parabole (cf ad es. Is 28,23-29), resoconti biografici (cf ad es. Is 7,1; 20,1) e autobiografici (cf ad es. Is 6,8), allegorie (cf ad es. Is 5,1-7).

Il “primo” Isaia in molti capitoli riflette gli eventi dell’VIII secolo, con la presenza del dominio assiro, una vita sociale incentrata sulla figura del re, attorno al tempio, pervasa da un relativo benessere economico fonte di una sicurezza perfino spavalda, con acuti problemi nei rapporti tra i cittadini.

Il “secondo Isaia”, dopo la metà del VI secolo, vede emergere l’Unto di JHWH (45,1) con il passaggio dal dominio babilonese a quello persiano, considera la dinastia davidica come realtà del passato, conosce la triste situazione dell’esilio vissuta dal popolo tra timori, incredulità, ribellioni, indifferenza religiosa, insensibilità morale e rischio di cedere all’idolatria. Il Terzo Isaia si colloca bene nel tempo che segue l’editto di Ciro del 539 (cf 2Cr 36,23; Esd 1,2-4), che permise i vari ritorni protrattisi per un secolo circa; lascia inoltre intravedere il dissidio con i rimasti in patria, la religiosità superficiale, le controversie sul valore del tempio.

Allo stile conciso, pungente, polemico, minaccioso costituito in gran parte dall’oracolo del “primo” Isaia, subentra un linguaggio appassionato, solenne, sapienziale con varietà di generi letterari, senza che l’autore parli di sé, nel secondo Isaia: si passa così all’anonimia. A unità letterarie ampie e ben collegate subentrano piccoli brani quasi staccati che con difficoltà si possono ricondurre a un tutto organico.

Il “terzo” Isaia raccoglie brani suggestivi, poetici, di immediata comprensione, con aperture universalistiche, insieme a passi duri e zoppicanti come i tempi che riflettono, di limitato valore teologico: impossibile ritrovare un’unità in capitoli diversi per origine, linguaggio e contenuto.

Nel Primo Isaia prevale il giudizio su Gerusalemme e sui suoi abitanti, che lascia il posto alla salvezza in un futuro non precisato per l’intervento di un mediatore che ha i caratteri del re (messianismo regale).

Nel Secondo Isaia domina la consolazione, la certezza di un cambiamento e si profila la salvezza che proviene dalle sofferenze di un misterioso Servo. Da verità pacifica, anche se spesso inefficace nella vita, il monoteismo diventa conquista riflessa cui si giunge attraverso una serrata polemica con gli idoli; mentre la sofferenza da punizione si trasforma in mezzo di purificazione dei peccati.

Il Terzo Isaia decade spesso dai vertici teologici raggiunti dai primi due e risulta immerso in problemi religiosamente secondari, come il digiuno o il valore del tempio, anche se non è privo di slanci innovativi (Is 60; 61; 65,10ss).

Ci sono stati sviluppi recenti della ricerca esegetica sulla tripartizione del libro: si è passati dalla valorizzazione dell’autonomia di ogni singola componente al tentativo di riconoscere un “disegno redazionale” complessivo. Oggi si tende ad apprezzare l’unità del libro e le diverse connessioni fra le sue parti.


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