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DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

DOCUMENTI DEL CONCILIO VATICANO II Costituzione sulla sacra Liturgia SACROSANCTUM CONCILIUM (4 dicembre 1963)

CAPITOLO I – PRINCIPI GENERALI PER LA RIFORMA E LA PROMOZIONE DELLA SACRA LITURGIA

B) Norme derivanti dalla natura gerarchica e comunitaria della liturgia

L'ordinamento liturgico compete alla gerarchia 26 Le azioni liturgiche non sono azioni private ma celebrazioni della Chiesa, che è «sacramento dell'unità», cioè popolo santo radunato e ordinato sotto la guida dei vescovi [S. CIPRIANO, De cath. eccl. unitate, 7: ed. G. HARTEL, in CSEL, t. III, I, Vindobonae 1868, pp. 215-216. Cf. Ep. 66, n. 8, 3; ed. cit. t. III, 2, Vindobonae 1871, pp. 732-733]. Perciò tali azioni appartengono all'intero corpo della Chiesa, lo manifestano e lo implicano; ma i singoli membri vi sono interessati in diverso modo, secondo la diversità degli stati, degli uffici e della partecipazione effettiva.

Preferire la celebrazione comunitaria 27 Ogni volta che i riti comportano, secondo la particolare natura di ciascuno, una celebrazione comunitaria caratterizzata dalla presenza e dalla partecipazione attiva dei fedeli, si inculchi che questa è da preferirsi, per quanto è possibile, alla celebrazione individuale e quasi privata. Ciò vale soprattutto per la celebrazione della messa benché qualsiasi messa abbia sempre un carattere pubblico e sociale e per l'amministrazione dei sacramenti.

Dignità della celebrazione liturgica 28 Nelle celebrazioni liturgiche ciascuno, ministro o semplice fedele, svolgendo il proprio ufficio si limiti a compiere tutto e soltanto ciò che, secondo la natura del rito e le norme liturgiche, è di sua competenza.

Educazione allo spirito liturgico 29 Anche i ministranti, i lettori, i commentatori e i membri della «schola cantorum» svolgono un vero ministero liturgico. Essi perciò esercitino il proprio ufficio con quella sincera pietà e con quel buon ordine che conviene a un così grande ministero e che il popolo di Dio esige giustamente da essi. Bisogna dunque che tali persone siano educate con cura, ognuna secondo la propria condizione, allo spirito liturgico, e siano formate a svolgere la propria parte secondo le norme stabilite e con ordine.

Partecipazione attiva dei fedeli 30 Per promuovere la partecipazione attiva, si curino le acclamazioni dei fedeli, le risposte, il canto dei salmi, le antifone, i canti, nonché le azioni e i gesti e l'atteggiamento del corpo. Si osservi anche, a tempo debito, un sacro silenzio.

31 Nella revisione dei libri liturgici si abbia cura che le rubriche tengano conto anche delle parti dei fedeli.

Liturgia e condizioni sociali 32 Nella liturgia, tranne la distinzione che deriva dall'ufficio liturgico e dall'ordine sacro, e tranne gli onori dovuti alle autorità civili a norma delle leggi liturgiche, non si faccia alcuna preferenza di persone private o di condizioni sociali, sia nelle cerimonie sia nelle solennità esteriori.

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Approfondimenti

I Padri conciliari non si limitarono ad enunciare i “princìpi fondamentali” della liturgia, ma per l’inscindibile rapporto tra il principio teorico e lo svolgimento rituale, furono spinti a trattare anche dall’azione liturgica nella sua concretezza, perché nel rito lo Spirito e la Chiesa sposa agiscono congiuntamente attraverso i segni sensibili.

Nessun problema liturgico fu dimenticato. Tutti gli aspetti della liturgia vennero affrontati con coraggio e lungimiranza e di ognuno venne indicata la soluzione, nella genuina tradizione ecclesiale e sui fondamenti biblico-patristici, per venire incontro alle nuove esigenze dell’azione pastorale e allo scopo di favorire la formazione del popolo di Dio e la sua partecipazione pia, attiva, consapevole e comunitaria alla liturgia.

S.E. Mons. Piero Marini, Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie, 2004. =●=●=●=

«Il Concilio ha voluto vedere nella liturgia, un'epifania della Chiesa: essa è la Chiesa in preghiera. Celebrando il culto divino, la Chiesa esprime ciò che è: una, santa, cattolica e apostolica.

Essa si manifesta una, secondo quell'unità che le viene dalla Trinità (cfr. «Missale Romanum», Proefatio VIII de Dominicis «per annum»), soprattutto quando il Popolo santo di Dio partecipa «alla medesima Eucaristia, in una sola preghiera, presso l'unico altare, dove presiede il Vescovo circondato dal suo presbiterio e dai suoi ministri» («Sacrosanctum Concilium», 41). Nulla venga a spezzare e neppure ad allentare, nella celebrazione della liturgia, questa unità della Chiesa!

La Chiesa esprime la santità che le viene da Cristo (cfr. Ef 5,26-27), quando, raduna in un solo corpo dallo Spirito Santo (cfr. «Missale Romanum», Prex eucharistica II et IV), che santifica e dà la vita (cfr. «Missale Romanum», Prex eucharistica III; Symbolum Nicaenum Constantinopolitanum), comunica ai fedeli, mediante l'Eucaristia e gli altri sacramenti, ogni grazia ed ogni benedizione del Padre (cfr. «Missale Romanum», Prex eucharistica I).

Nella celebrazione liturgica la Chiesa esprime la sua cattolicità, poiché in essa lo Spirito del Signore raduna gli uomini di tutte le lingue nella professione della medesima fede (cfr. «Missale Romanum», Benedictio sollemnis in Dominica Pentecostes) e dall'Oriente e dall'Occidente essa presenta a Dio Padre l'offerta del Cristo ed offre se stessa insieme con lui (cfr. «Missale Romanum», Prex eucharistica III).

Infine, nella liturgia la Chiesa manifesta di essere apostolica, perché la fede che essa professa è fondata sulla testimonianza degli apostoli, perché nella celebrazione dei misteri, presieduta dal Vescovo, successore degli apostoli, o da un ministro ordinato nella successione apostolica, trasmette fedelmente ciò che ha ricevuto dalla Tradizione apostolica; perché il culto che rende a Dio la impegna nella missione di irradiare il Vangelo nel mondo.

Così è soprattutto nella liturgia che il mistero della Chiesa è annunciato, gustato e vissuto (cfr. «Allocutio ad eos qui interfuerunt Conventui Praesidum et Secretariorum Commissionum Nationalium de liturgia», 1, die 27 oct. 1984: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VII, 2 [1984] 1049)».

(SPIRITUS ET SPONSA, Lettera Apostolica di papa GIOVANNI PAOLO II del 4 dicembre 2003, nel 40° anniversario della Costituzione Sacrosanctum Concilium sulla Liturgia, 9).


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DOCUMENTI DEL CONCILIO VATICANO II Costituzione sulla sacra Liturgia SACROSANCTUM CONCILIUM (4 dicembre 1963)

CAPITOLO I – PRINCIPI GENERALI PER LA RIFORMA E LA PROMOZIONE DELLA SACRA LITURGIA

III – La riforma della sacra liturgia

21 Perché il popolo cristiano ottenga più sicuramente le grazie abbondanti che la sacra liturgia racchiude, la santa madre Chiesa desidera fare un'accurata riforma generale della liturgia. Questa infatti consta di una parte immutabile, perché di istituzione divina, e di parti suscettibili di cambiamento, che nel corso dei tempi possono o addirittura devono variare, qualora si siano introdotti in esse elementi meno rispondenti alla intima natura della liturgia stessa, oppure queste parti siano diventate non più idonee. In tale riforma l'ordinamento dei testi e dei riti deve essere condotto in modo che le sante realtà che essi significano, siano espresse più chiaramente e il popolo cristiano possa capirne più facilmente il senso e possa parteciparvi con una celebrazione piena, attiva e comunitaria. A tale scopo il sacro Concilio ha stabilito le seguenti norme di carattere generale.

A) Norme generali

L'ordinamento liturgico compete alla gerarchia 22 1. Regolare la sacra liturgia compete unicamente all'autorità della Chiesa, la quale risiede nella Sede apostolica e, a norma del diritto, nel vescovo. 2. In base ai poteri concessi dal diritto, regolare la liturgia spetta, entro limiti determinati, anche alle competenti assemblee episcopali territoriali di vario genere legittimamente costituite. 3. Di conseguenza assolutamente nessun altro, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica.

Sana tradizione e legittimo progresso 23 Per conservare la sana tradizione e aprire nondimeno la via ad un legittimo progresso, la revisione delle singole parti della liturgia deve essere sempre preceduta da un'accurata investigazione teologica, storica e pastorale. Inoltre devono essere prese in considerazione sia le leggi generali della struttura e dello spirito della liturgia, sia l'esperienza derivante dalle più recenti riforme liturgiche e dagli indulti qua e là concessi. Infine non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa, e con l'avvertenza che le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle già esistenti. Si evitino anche, per quanto è possibile, notevoli differenze di riti tra regioni confinanti.

Bibbia e liturgia 24 Nella celebrazione liturgica la sacra Scrittura ha una importanza estrema. Da essa infatti si attingono le letture che vengono poi spiegate nell'omelia e i salmi che si cantano; del suo afflato e del suo spirito sono permeate le preghiere, le orazioni e i carmi liturgici; da essa infine prendono significato le azioni e i simboli liturgici. Perciò, per promuovere la riforma, il progresso e l'adattamento della sacra liturgia, è necessario che venga favorito quel gusto saporoso e vivo della sacra Scrittura, che è attestato dalla venerabile tradizione dei riti sia orientali che occidentali.

Revisione dei libri liturgici 25 I libri liturgici siano riveduti quanto prima, servendosi di persone competenti e consultando vescovi di diversi paesi del mondo.

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Approfondimenti

Tratti dall'introduzione al Concilio Vaticano II delle Clarisse di Sant'Agata Feltria

In SC 23 viene espressa l’anima di ogni autentica riforma: un corretto e costante rapporto tra “sana tradizione” e “legittimo progresso”. È il programma che ci consegnano i padri conciliari, un programma orientato al passato, ma proiettato al futuro. È infatti vero che spesso si contrappongono tradizione e progresso, come se la tradizione si riferisse solo ad un passato, possibilmente da dimenticare perché vecchio, e il progresso fosse la vera anima del futuro. In questo modo si crea fra le due realtà una tensione che non conduce alla verità di ogni riforma. Le due realtà infatti si integrano e non possono stare l’una senza l’altra perché ogni sana tradizione porta con sé il progresso come un fiume che scorre porta con sé la sorgente da cui è nato. La parola stessa TRADIZIONE viene dal latino “TRADERE”, cioè CONSEGNARE. Ogni consegna si fonda su un passato, ma ha bisogno del futuro ed è così che la TRADIZIONE diviene quell’energia dinamica capace di trasformare la vita. Dunque, la liturgia voluta dal Concilio è una realtà viva perché accoglie nel tempo e nello spazio della Chiesa, popolo radunato, il Cristo sempre vivente e sempre veniente.

Indubbiamente il rinnovamento liturgico è il frutto più visibile di tutta l’opera conciliare. Le fonti da cui le radici della SC traggono origine sono la Scrittura e la Tradizione dei Padri. È dunque vano ogni tentativo di comprendere e interpretare la SC che non parta da queste due fonti. C’è infatti una intima connessione tra la conoscenza della Scrittura ed una reale possibilità di operare la riforma liturgica. È dalla Scrittura infatti che si attinge ogni nostra volontà di conversione vera e autentica. È la Scrittura che opera ogni “riforma”, così come in principio ha dato la “forma” all’uomo e al mondo: “Dio disse sia la luce: sia la luce”. La liturgia celebra lo stesso Mistero che la Scrittura contiene: vedi SC 24.


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CAPITOLO I – PRINCIPI GENERALI PER LA RIFORMA E LA PROMOZIONE DELLA SACRA LITURGIA

II – Necessità di promuovere l'educazione liturgica e la partecipazione attiva

14 È ardente desiderio della madre Chiesa che tutti i fedeli vengano formati a quella piena, consapevole e attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche, che è richiesta dalla natura stessa della liturgia e alla quale il popolo cristiano, «stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo acquistato» (1Pt 2,9; cfr 2,4-5), ha diritto e dovere in forza del battesimo. A tale piena e attiva partecipazione di tutto il popolo va dedicata una specialissima cura nel quadro della riforma e della promozione della liturgia. Essa infatti è la prima e indispensabile fonte dalla quale i fedeli possono attingere il genuino spirito cristiano, e perciò i pastori d'anime in tutta la loro attività pastorale devono sforzarsi di ottenerla attraverso un'adeguata formazione. Ma poiché non si può sperare di ottenere questo risultato, se gli stessi pastori d'anime non saranno impregnati, loro per primi, dello spirito e della forza della liturgia e se non ne diventeranno maestri, è assolutamente necessario dare il primo posto alla formazione liturgica del clero. Pertanto il sacro Concilio ha stabilito quanto segue.

Gli insegnanti di liturgia 15 Coloro che vengono destinati all'insegnamento della sacra liturgia nei seminari, negli studentati religiosi e nelle facoltà teologiche devono ricevere una speciale formazione per tale compito in istituti a ciò destinati.

L'insegnamento della liturgia 16 Nei seminari e negli studentati religiosi la sacra liturgia va computata tra le materie necessarie e più importanti e, nelle facoltà teologiche, tra le materie principali; inoltre va insegnata sia sotto l'aspetto teologico che sotto l'aspetto storico, spirituale, pastorale e giuridico. A loro volta i professori delle altre materie, soprattutto della teologia dogmatica, della sacra Scrittura, della teologia spirituale e pastorale abbiano cura di mettere in rilievo, secondo le intrinseche esigenze di ogni disciplina, il mistero di Cristo e la storia della salvezza, in modo che la loro connessione con la liturgia e l'unità della formazione sacerdotale risulti chiara.

Formazione liturgica dei chierici 17 Nei seminari e nelle case religiose i chierici ricevano una formazione spirituale a sfondo liturgico, mediante una opportuna iniziazione che li metta in grado di penetrare il senso dei sacri riti e di prendervi parte con tutto il loro animo, mediante la celebrazione stessa dei sacri misteri e mediante altre pratiche di pietà imbevute di spirito liturgico. Parimenti imparino ad osservare le leggi liturgiche, di modo che la vita dei seminari e degli istituti religiosi sia profondamente permeata di spirito liturgico.

Aiuto ai sacerdoti 18 I sacerdoti, sia secolari che religiosi, che già lavorano nella vigna del Signore, vengano aiutati con tutti i mezzi opportuni a penetrare sempre più il senso di ciò che compiono nelle sacre funzioni, a vivere la vita liturgica e a condividerla con i fedeli loro affidati.

Formazione liturgica dei fedeli 19 I pastori d'anime curino con zelo e con pazienza la formazione liturgica, come pure la partecipazione attiva dei fedeli, sia interna che esterna, secondo la loro età, condizione, genere di vita e cultura religiosa. Assolveranno così uno dei principali doveri del fedele dispensatore dei misteri di Dio. E in questo campo cerchino di guidare il loro gregge non solo con la parola ma anche con l'esempio.

Liturgia e mezzi audiovisivi 20 Le trasmissioni radiofoniche e televisive di funzioni sacre, specialmente se si tratta della santa messa, siano fatte con discrezione e decoro, sotto la direzione e la garanzia di persona competente, destinata a tale ufficio dai vescovi.

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Approfondimenti

Le disposizioni della Sacrosanctum Concilium sono state attuate con la pubblicazione dei libri liturgici e con opportune indicazioni e veramente si può dire che «i Pastori e il popolo cristiano nello loro grande maggioranza hanno accolto la riforma liturgica in uno spirito di obbedienza e anzi di gioioso fervore. Per questo bisogna rendere grazie a Dio per il passaggio del suo Spirito nella Chiesa, quale è stato il rinnovamento liturgico» (VICESIMUS QUINTUS ANNUS, Lettera Apostolica di papa GIOVANNI PAOLO II del 4 dicembre 1988, nel 25° anniversario della Costituzione conciliare “Sacrosanctum Concilium” sulla sacra Liturgia, 12).

Pertanto «la riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II può considerarsi ormai posta in atto, la pastorale liturgica invece costituisce un impegno permanente per attingere sempre più abbondantemente dalla ricchezza della liturgia quella forza vitale che dal Cristo si diffonde alle membra del suo Corpo che è la Chiesa» (VQA, 10).

La partecipazione attiva Nella prima fase di attuazione della riforma la partecipazione ha assunto necessariamente un aspetto prevalentemente esteriore e didattico, degenerato poi spesso in una sorta di partecipazionismo ad ogni costo e in tutte le forme. Ciò evidentemente può aver impedito e impedire di scoprire e di assimilare i valori e gli atteggiamenti profondi del Mistero. Per un’eccessiva reazione alla condizione di estrema passività in cui erano ridotti i fedeli nella partecipazione alla cosiddetta “Messa tridentina”, in questi ultimi decenni si è forse eccessivamente insistito sulla esteriorizzazione nella liturgia. Si è affermata la necessità di esprimere i sentimenti, di manifestare le emozioni, nel tentativo di conferire alla liturgia un clima per lo più di festa e di gioia. Ma la liturgia cristiana non è la semplice somma delle emozioni di un gruppo, né tanto meno il ricettacolo di sentimenti personali e collettivi. La liturgia è invece tempo e spazio per interiorizzare le parole che in essa si ascoltano e i suoni che si odono, per appropriarsi dei gesti che si compiono, per assimilare i testi che si recitano e si cantano, per lasciarsi penetrare dalle immagini che si osservano e dai profumi che si odorano.

Uno dei principali doveri della pastorale liturgica sarà dunque quello di rispondere al desiderio espresso in molti modi, a volte anche inarticolati, di ritrovare una liturgia che sia tempo meditativo di accoglienza e interiorizzazione della Parola di Dio ascoltata, meditata e pregata. Una liturgia che sia spazio orante nel quale fare autentica esperienza di incontro e riconciliazione con Dio, con se stessi e con la comunità cristiana alla quale si appartiene. Una liturgia che sia luogo in cui ogni credente è progressivamente plasmato dal mistero che celebra e dalla fede che confessa. Solo in questo modo l’assemblea liturgica potrà veramente divenire il grembo materno della Chiesa, così come i santi Padri e la liturgia stessa l’hanno compresa fin dalle sue origini. Quel grembo materno della Chiesa nella quale il cristiano nasce, cresce, è nutrito dalla Parola e dal Pane, per giungere alla statura dell’uomo perfetto.

È pertanto necessario ora che la pastorale liturgica fissi l’attenzione sull’essere nella celebrazione anziché sul semplice “fare” e quindi puntare sulla riscoperta della liturgia quale «forza vitale che dal Cristo si diffonde alle membra del Corpo che è la Chiesa» (VQA, 10) e come esperienza dello Spirito. In sintesi è necessario un salto di qualità per arrivare allo spirito genuino della liturgia.

S.E. Mons. Piero Marini, Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie, 2004. =●=●=●=

«Irrinunciabile, nell'educazione alla preghiera e in particolare nella promozione della vita liturgica, è il compito dei Pastori. Esso implica un dovere di discernimento e di guida. Ciò non va percepito come un principio di irrigidimento, in contrasto con il bisogno dell'animo cristiano di abbandonarsi all'azione dello Spirito di Dio, che intercede in noi e «per noi, con gemiti inesprimibili» (Rm 8, 26). Attraverso la guida dei Pastori si realizza piuttosto un principio di “garanzia”, previsto dal disegno di Dio sulla Chiesa ed esso stesso governato dall'assistenza dello Spirito Santo. Il rinnovamento liturgico realizzato in questi decenni ha dimostrato come sia possibile coniugare una normativa che assicuri alla Liturgia la sua identità e il suo decoro, con spazi di creatività e di adattamento, che la rendano vicina alle esigenze espressive delle varie regioni, situazioni e culture. Non rispettando la normativa liturgica, si giunge talvolta ad abusi anche gravi, che mettono in ombra la verità del mistero e creano sconcerto e tensioni nel Popolo di Dio. Tali abusi non hanno nulla a che vedere con l'autentico spirito del Concilio e vanno corretti dai Pastori con un atteggiamento di prudente fermezza». (SPIRITUS ET SPONSA, Lettera Apostolica di papa GIOVANNI PAOLO II del 4 dicembre 2003, nel 40° anniversario della Costituzione Sacrosanctum Concilium sulla Liturgia, 15).


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DOCUMENTI DEL CONCILIO VATICANO II Costituzione sulla sacra Liturgia SACROSANCTUM CONCILIUM (4 dicembre 1963)

CAPITOLO I – PRINCIPI GENERALI PER LA RIFORMA E LA PROMOZIONE DELLA SACRA LITURGIA

I – Natura della sacra liturgia e sua importanza nella vita della Chiesa

5 Dio, il quale «vuole che tutti gli uomini si salvino e arrivino alla conoscenza della verità» (1 Tm 2,4), «dopo avere a più riprese e in più modi parlato un tempo ai padri per mezzo dei profeti» (Eb 1,1), quando venne la pienezza dei tempi, mandò il suo Figlio, Verbo fatto carne, unto dallo Spirito Santo, ad annunziare la buona novella ai poveri, a risanare i cuori affranti [Cf. Is 61,1; Lc 4,18], «medico di carne e di spirito» [S. IGNAZIO D’ANTIOCHIA, Ad Eph. 7, 2; ed. F. X. FUNK, Patres Apostolici I, Tubingae 1901, p. 218], mediatore tra Dio e gli uomini [Cf. 1 Tm 2,5]. Infatti la sua umanità, nell'unità della persona del Verbo, fu strumento della nostra salvezza. Per questo motivo in Cristo «avvenne la nostra perfetta riconciliazione con Dio ormai placato e ci fu data la pienezza del culto divino» [Sacramentarium Veronense (Leonianum), ed. C. Mohlberg, Romae 1956, n. 1265, p. 162]. Quest'opera della redenzione umana e della perfetta glorificazione di Dio, che ha il suo preludio nelle mirabili gesta divine operate nel popolo dell'Antico Testamento, è stata compiuta da Cristo Signore principalmente per mezzo del mistero pasquale della sua beata passione, risurrezione da morte e gloriosa ascensione, mistero col quale «morendo ha distrutto la nostra morte e risorgendo ha restaurato la vita» [Cf. Messale romano, Prefazio pasquale I]. Infatti dal costato di Cristo dormiente sulla croce è scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa [Cf. S. AGOSTINO, Enarr. in Ps. 138, 2; Corpus Christianorum, 40, Turnholti 1956, p. 1991, e l’orazione dopo la seconda lettura del Sabato santo, nel Messale romano, prima della riforma della Settimana santa (nel Messale di Paolo VI, Orazione sopra le offerte della Messa Pro Ecclesia, B; ediz. italiana, Per la Chiesa universale, 2)].

La liturgia attua l'opera della salvezza propria della Chiesa

6 Pertanto, come il Cristo fu inviato dal Padre, così anch'egli ha inviato gli apostoli, ripieni di Spirito Santo. Essi, predicando il Vangelo a tutti gli uomini [Cf. Mc 16,15], non dovevano limitarsi ad annunciare che il Figlio di Dio con la sua morte e risurrezione ci ha liberati dal potere di Satana [Cf. At 26,18] e dalla morte e ci ha trasferiti nel regno del Padre, bensì dovevano anche attuare l'opera di salvezza che annunziavano, mediante il sacrificio e i sacramenti attorno ai quali gravita tutta la vita liturgica. Così, mediante il battesimo, gli uomini vengono inseriti nel mistero pasquale di Cristo: con lui morti, sepolti e risuscitati [Cf. Rm 6,4; Ef 2,6; Col 3,1; 2 Tm 2,11], ricevono lo Spirito dei figli adottivi, «che ci fa esclamare: Abba, Padre» (Rm 8,15), e diventano quei veri adoratori che il Padre ricerca [Cf. Gv 4,23]. Allo stesso modo, ogni volta che essi mangiano la cena del Signore, ne proclamano la morte fino a quando egli verrà [Cf. 1 Cor 11,26]. Perciò, proprio nel giorno di Pentecoste, che segnò la manifestazione della Chiesa al mondo, «quelli che accolsero la parola di Pietro furono battezzati» ed erano «assidui all'insegnamento degli apostoli, alla comunione fraterna nella frazione del pane e alla preghiera... lodando insieme Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo» (At 2,41-42,47). Da allora la Chiesa mai tralasciò di riunirsi in assemblea per celebrare il mistero pasquale: leggendo «in tutte le Scritture ciò che lo riguardava» (Lc 24,27), celebrando l'eucaristia, nella quale «vengono resi presenti la vittoria e il trionfo della sua morte» [CONCILIO DI TRENTO, Sess. XIII, 11 ott. 1551, Decr. De Ss. Eucharist., c. 5: CONCILIUM TRIDENTINUM, Diariorum, Actorum, Epistolarum, Tractatuum nova collectio, ed. Soc. Goerresianae, t. VII, Actorum, pars IV, Friburgi Brisgoviae 1961, p. 202 (Dz 1644; Collantes 9.142)] e rendendo grazie «a Dio per il suo dono ineffabile» (2Cor 9,15) nel Cristo Gesù, «a lode della sua gloria» (Ef 1,12), per virtù dello Spirito Santo.

Cristo è presente nella liturgia

7 Per realizzare un'opera così grande, Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche. È presente nel sacrificio della messa, sia nella persona del ministro, essendo egli stesso che, «offertosi una volta sulla croce [CONCILIO DI TRENTO, Sess. XXII, 17 sett. 1562, Dottr. De ss. Missae sacrif., c. 2: ed. cit., t. VIII, Actorum pars V, Friburgi Brisgoviae 1919, p. 960 (Dz 1743; Collantes 9.175)], offre ancora se stesso tramite il ministero dei sacerdoti», sia soprattutto sotto le specie eucaristiche. È presente con la sua virtù nei sacramenti, al punto che quando uno battezza è Cristo stesso che battezza [Cf. S. AGOSTINO, In Ioannis Evangelium Tractatus VI, cap. I, n. 7: PL 35, 1428]. È presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura. È presente infine quando la Chiesa prega e loda, lui che ha promesso: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io, in mezzo a loro» (Mt 18,20).

Effettivamente per il compimento di quest'opera così grande, con la quale viene resa a Dio una gloria perfetta e gli uomini vengono santificati, Cristo associa sempre a sé la Chiesa, sua sposa amatissima, la quale l'invoca come suo Signore e per mezzo di lui rende il culto all'eterno Padre. Giustamente perciò la liturgia è considerata come l'esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo. In essa, la santificazione dell'uomo è significata per mezzo di segni sensibili e realizzata in modo proprio a ciascuno di essi; in essa il culto pubblico integrale è esercitato dal corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal capo e dalle sue membra. Perciò ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun'altra azione della Chiesa ne uguaglia l'efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado.

Liturgia terrena e liturgia celeste 8 Nella liturgia terrena noi partecipiamo per anticipazione alla liturgia celeste che viene celebrata nella santa città di Gerusalemme, verso la quale tendiamo come pellegrini, dove il Cristo siede alla destra di Dio [Cf. Ap 21,2; Col 3,1; Eb 8,2] quale ministro del santuario e del vero tabernacolo; insieme con tutte le schiere delle milizie celesti cantiamo al Signore l'inno di gloria; ricordando con venerazione i santi, speriamo di aver parte con essi; aspettiamo come Salvatore il Signore nostro Gesù Cristo, fino a quando egli comparirà, egli che è la nostra vita, e noi saremo manifestati con lui nella gloria [Cf. Fil 3,20; Col 3,4].

La liturgia non esaurisce l'azione della Chiesa 9 La sacra liturgia non esaurisce tutta l'azione della Chiesa. Infatti, prima che gli uomini possano accostarsi alla liturgia, bisogna che siano chiamati alla fede e alla conversione: «Come potrebbero invocare colui nel quale non hanno creduto? E come potrebbero credere in colui che non hanno udito? E come lo potrebbero udire senza chi predichi? E come predicherebbero senza essere stati mandati?» (Rm 10,14-15). Per questo motivo la Chiesa annunzia il messaggio della salvezza a coloro che ancora non credono, affinché tutti gli uomini conoscano l'unico vero Dio e il suo inviato, Gesù Cristo, e cambino la loro condotta facendo penitenza [Cf. Gv 17,3; Lc 24,47; At 2,38]. Ai credenti poi essa ha sempre il dovere di predicare la fede e la penitenza; deve inoltre disporli ai sacramenti, insegnar loro ad osservare tutto ciò che Cristo ha comandato [Cf. Mt 28,20], ed incitarli a tutte le opere di carità, di pietà e di apostolato, per manifestare attraverso queste opere che i seguaci di Cristo, pur non essendo di questo mondo, sono tuttavia la luce del mondo e rendono gloria al Padre dinanzi agli uomini.

... ma ne è il culmine e la fonte 10 Nondimeno la liturgia è il culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia. Il lavoro apostolico, infatti, è ordinato a che tutti, diventati figli di Dio mediante la fede e il battesimo, si riuniscano in assemblea, lodino Dio nella Chiesa, prendano parte al sacrificio e alla mensa del Signore. A sua volta, la liturgia spinge i fedeli, nutriti dei «sacramenti pasquali», a vivere «in perfetta unione» [Messale romano, orazione dopo la Comunione della Veglia Pasquale e della domenica della Risurrezione (nel Messale di Paolo VI solo nella Veglia)]; prega affinché «esprimano nella vita quanto hanno ricevuto mediante la fede» [Messale romano, colletta del martedì nell’ottava di Pasqua (nel Messale di Paolo VI il giorno prima)]; la rinnovazione poi dell'alleanza di Dio con gli uomini nell'eucaristia introduce i fedeli nella pressante carità di Cristo e li infiamma con essa. Dalla liturgia, dunque, e particolarmente dall'eucaristia, deriva in noi, come da sorgente, la grazia, e si ottiene con la massima efficacia quella santificazione degli uomini nel Cristo e quella glorificazione di Dio, alla quale tendono, come a loro fine, tutte le altre attività della Chiesa.

Necessità delle disposizioni personali 11. Ad ottenere però questa piena efficacia, è necessario che i fedeli si accostino alla sacra liturgia con retta disposizione d'animo, armonizzino la loro mente con le parole che pronunziano e cooperino con la grazia divina per non riceverla invano [Cf. 2 Cor 6,1]. Perciò i pastori di anime devono vigilare attentamente che nell'azione liturgica non solo siano osservate le leggi che rendono possibile una celebrazione valida e lecita, ma che i fedeli vi prendano parte in modo consapevole, attivo e fruttuoso.

Liturgia e preghiera personale 12 La vita spirituale tuttavia non si esaurisce nella partecipazione alla sola liturgia. Il cristiano, infatti, benché chiamato alla preghiera in comune, è sempre tenuto a entrare nella propria stanza per pregare il Padre in segreto [Cf. Mt 6,6]; anzi, secondo l'insegnamento dell'Apostolo [Cf. 1 Ts 5,17], è tenuto a pregare incessantemente. L'Apostolo ci insegna anche a portare continuamente nel nostro corpo i patimenti di Gesù morente, affinché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale [Cf. 2 Cor 4,10-11]. Per questo nel sacrificio della messa preghiamo il Signore che, «accettando l'offerta del sacrificio spirituale», faccia «di noi stessi un'offerta eterna» [Messale romano, orazione sulle offerte del lunedì nell’ottava di Pentecoste (nel Messale di Paolo VI, sabato della II e VI settimana di Pasqua)].

Liturgia e pii esercizi 13. I «pii esercizi» del popolo cristiano, purché siano conformi alle leggi e alle norme della Chiesa, sono vivamente raccomandati, soprattutto quando si compiono per mandato della Sede apostolica. Di speciale dignità godono anche quei «sacri esercizi» delle Chiese particolari che vengono compiuti per disposizione dei vescovi, secondo le consuetudini o i libri legittimamente approvati. Bisogna però che tali esercizi siano regolati tenendo conto dei tempi liturgici e in modo da armonizzarsi con la liturgia; derivino in qualche modo da essa e ad essa introducano il popolo, dal momento che la liturgia è per natura sua di gran lunga superiore ai pii esercizi.

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Approfondimenti

Culmine e fonte: queste due parole sono state sufficienti a trasformare tutto l’universo celebrativo e a far diventare la liturgia una grande educatrice per i credenti al primato della fede e della grazia. È dalla liturgia che dipende la qualità di ogni vita spirituale come ha affermato Paolo VI nell’Angelus del 7 marzo 1965 parlando appunto della riforma liturgica ormai in atto in tutte le parrocchie: «Il bene del popolo esige questa premura da parte della chiesa, sì da rendere possibile la partecipazione attiva dei fedeli al culto pubblico della Chiesa. È un sacrificio che la Chiesa ha compiuto della propria lingua, il latino; lingua sacra, grave e bella, estremamente espressiva ed elegante. Ha sacrificato tradizioni di secoli e soprattutto sacrifica l’unità di linguaggio nei vari popoli, in omaggio a questa maggiore universalità, per arrivare a tutti. E questo perché sappiate meglio unirvi alla preghiera della Chiesa, perché sappiate passare da uno stato di semplici spettatori a quello di fedeli partecipanti attivi. Se saprete davvero corrispondere a questa premura della Chiesa, avrete la grande gioia, il merito, la fortuna di un vero rinnovamento spirituale».

Se tutto questo è vero è chiaro allora che la Chiesa si edifica in corpo di Cristo proprio nell’atto del celebrare. La stessa celebrazione è il momento costitutivo e costruttivo della Chiesa: da questo scaturisce che la preghiera, il rito, il sacramento, non sono solo il momento in cui si educa la comunità cristiana, ma il luogo in cui essa si costruisce, così come la nostra vita interiore. Così troviamo scritto in una preghiera sulle offerte del giorno di Pasqua: «Esultanti per la gioia pasquale, ti offriamo Signore questo sacrificio nel quale nasce e si edifica sempre la tua Chiesa».


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DOCUMENTI DEL CONCILIO VATICANO II Costituzione sulla sacra Liturgia SACROSANCTUM CONCILIUM (4 dicembre 1963)

PROEMIO

1 Il sacro Concilio si propone di far crescere ogni giorno più la vita cristiana tra i fedeli; di meglio adattare alle esigenze del nostro tempo quelle istituzioni che sono soggette a mutamenti; di favorire ciò che può contribuire all'unione di tutti i credenti in Cristo; di rinvigorire ciò che giova a chiamare tutti nel seno della Chiesa. Ritiene quindi di doversi occupare in modo speciale anche della riforma e della promozione della liturgia.

La liturgia nel mistero della Chiesa

2 La liturgia infatti, mediante la quale, specialmente nel divino sacrificio dell'eucaristia, «si attua l'opera della nostra redenzione» [Messale romano, orazione sopra le offerte della domenica IX dopo Pentecoste; nel Messale di Paolo VI, domenica II del Tempo ordinario], contribuisce in sommo grado a che i fedeli esprimano nella loro vita e manifestino agli altri il mistero di Cristo e la genuina natura della vera Chiesa. Questa ha infatti la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, fervente nell'azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e tuttavia pellegrina; tutto questo in modo tale, però, che ciò che in essa è umano sia ordinato e subordinato al divino, il visibile all'invisibile, l'azione alla contemplazione, la realtà presente alla città futura, verso la quale siamo incamminati [Cf. Eb 13,14]. In tal modo la liturgia, mentre ogni giorno edifica quelli che sono nella Chiesa per farne un tempio santo nel Signore, un'abitazione di Dio nello Spirito [Cf. Ef 2,21-22], fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo [Cf. Ef 4,13], nello stesso tempo e in modo mirabile fortifica le loro energie perché possano predicare il Cristo. Così a coloro che sono fuori essa mostra la Chiesa, come vessillo innalzato di fronte alle nazioni [Cf. Is 11,12], sotto il quale i figli di Dio dispersi possano raccogliersi [Cf. Gv 11,52], finché ci sia un solo ovile e un solo pastore [Cf. Gv 10,16].

Liturgia e riti

3 Il sacro Concilio ritiene perciò opportuno richiamare i seguenti principi riguardanti la promozione e la riforma della liturgia e stabilire delle norme per attuarli. Fra queste norme e questi principi parecchi possono e devono essere applicati sia al rito romano sia agli altri riti, benché le norme pratiche che seguono debbano intendersi come riguardanti il solo rito romano, a meno che si tratti di cose che per la loro stessa natura si riferiscono anche ad altri riti.

Stima per i riti riconosciuti

4 Infine il sacro Concilio, obbedendo fedelmente alla tradizione, dichiara che la santa madre Chiesa considera come uguali in diritto e in dignità tutti i riti legittimamente riconosciuti; vuole che in avvenire essi siano conservati e in ogni modo incrementati; desidera infine che, ove sia necessario, siano riveduti integralmente con prudenza nello spirito della sana tradizione e venga loro dato nuovo vigore, come richiedono le circostanze e le necessità del nostro tempo.

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Approfondimenti

Dopo i testi del Nuovo Testamento le Costituzioni del Concilio Vaticano II Il percorso di lettura quotidiana di un capitolo del Nuovo Testamento si è conclusa! Per non perdere l'abitudine e unirci al cammino della Chiesa che si prepara al Giubileo del 2025 affrontiamo ora la lettura delle Costituzioni del Concilio Vaticano II. Sono disponibili numerosi testi di approfondimento, quindi l'intenzione di questa proposta è di soffermarsi sulla lettura del testo, gli approfondimenti non saranno un commento puntuale ma un'aiuto alla contestualizzazione.

La Costituzione sulla Sacra Liturgia SACROSANCTUM CONCILIUM La SACROSANCTUM CONCILIUM (SC) rappresenta il primo documento conciliare pubblicato ed è apparsa nel corso del secondo dei quattro “periodi” in cui il Concilio è stato celebrato (ciascuno di essi corrisponde suppergiù all’autunno delle annate 1962-65). Non si era ancora chiarita l’indole precisa dei documenti da pubblicare, per cui essa risente dello stile della costituzione all’inizio dei suoi 7 capitoli, mentre nel seguito di ciascuno di essi assume i caratteri dell’applicazione pratica, cioè del decreto. Tale stile denota chiare differenze di contenuto, per cui occorre fare attenzione a tutt'e due le sue componenti: da una parte i princìpi fondamentali della riforma liturgica, dall’altra le varie disposizioni pratiche per l’applicazione concreta.

I princìpi teologici della SC I princìpi della Costituzione liturgica si possono suddividere in tre generi diversi, ed è bene considerarli in questo modo, dal momento che il Vaticano II li enuncia a tre livelli differenti. In ordine decrescente di importanza:

  1. generale, perché si rivolgono allo spirito profondo della liturgia da riformare;
  2. sacramentale, perché vanno al cuore delle celebrazioni liturgiche;
  3. liturgico in senso lato, dal momento che riguardano realtà che influiscono in modo indiretto, prossimo o remoto, sulle azioni liturgiche.

IL PROEMIO (1-4) Illustra la finalità di fondo della Costituzione, che verrà ribadita una ventina di volte nel corso del documento (11. 14. 19. 21. 26. 27. 30. 33. 42. 48. 54. 55. 56. 79. 100. 113-114. 118.121. 124): è quella di portare i fedeli a una piena, cosciente e attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche. Questo autentico “motivo ricorrente” di tutta la Costituzione rispecchia le intenzioni del vasto movimento liturgico che ha preceduto per due o tre generazioni il Concilio. Qui si presuppongono parecchie delle varie novità maturate poi in campo ecclesiologico ed ecumenico, che saranno introdotte dai vari documenti conciliari nei due anni seguenti; la SC le anticipa profeticamente e si limita a riassumerle, quale presupposto a tutto il documento.


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Parte descrittiva 1E mi mostrò poi un fiume d’acqua viva, limpido come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello. 2In mezzo alla piazza della città, e da una parte e dall’altra del fiume, si trova un albero di vita che dà frutti dodici volte all’anno, portando frutto ogni mese; le foglie dell’albero servono a guarire le nazioni.

Parte profetica 3E non vi sarà più maledizione. Nella città vi sarà il trono di Dio e dell’Agnello: i suoi servi lo adoreranno; 4vedranno il suo volto e porteranno il suo nome sulla fronte. 5Non vi sarà più notte, e non avranno più bisogno di luce di lampada né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà. E regneranno nei secoli dei secoli.

DIALOGO LITURGICO FINALE

6E mi disse: «Queste parole sono certe e vere. Il Signore, il Dio che ispira i profeti, ha mandato il suo angelo per mostrare ai suoi servi le cose che devono accadere tra breve. 7Ecco, io vengo presto. Beato chi custodisce le parole profetiche di questo libro». 8Sono io, Giovanni, che ho visto e udito queste cose. E quando le ebbi udite e viste, mi prostrai in adorazione ai piedi dell’angelo che me le mostrava. 9Ma egli mi disse: «Guàrdati bene dal farlo! Io sono servo, con te e con i tuoi fratelli, i profeti, e con coloro che custodiscono le parole di questo libro. È Dio che devi adorare». 10E aggiunse: «Non mettere sotto sigillo le parole della profezia di questo libro, perché il tempo è vicino. 11Il malvagio continui pure a essere malvagio e l’impuro a essere impuro e il giusto continui a praticare la giustizia e il santo si santifichi ancora. 12Ecco, io vengo presto e ho con me il mio salario per rendere a ciascuno secondo le sue opere. 13Io sono l’Alfa e l’Omèga, il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine. 14Beati coloro che lavano le loro vesti per avere diritto all’albero della vita e, attraverso le porte, entrare nella città. 15Fuori i cani, i maghi, gli immorali, gli omicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna! 16Io, Gesù, ho mandato il mio angelo per testimoniare a voi queste cose riguardo alle Chiese. Io sono la radice e la stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino». 17Lo Spirito e la sposa dicono: «Vieni!». E chi ascolta, ripeta: «Vieni!». Chi ha sete, venga; chi vuole, prenda gratuitamente l’acqua della vita. 18A chiunque ascolta le parole della profezia di questo libro io dichiaro: se qualcuno vi aggiunge qualcosa, Dio gli farà cadere addosso i flagelli descritti in questo libro; 19e se qualcuno toglierà qualcosa dalle parole di questo libro profetico, Dio lo priverà dell’albero della vita e della città santa, descritti in questo libro. 20Colui che attesta queste cose dice: «Sì, vengo presto!». Amen. Vieni, Signore Gesù. 21La grazia del Signore Gesù sia con tutti.

Approfondimenti

(cf APOCALISSE – introduzione, traduzione e commento di CLAUDIO DOGLIO © EDIZIONI SAN PAOLO, 2012)

Parte descrittiva Una formula di dimostrazione segna l'inizio di questa unità che riprende alcune immagini e ne introduce altre molto importanti. Un fiume caratterizza il giardino delle origini (cfr. Gen 2,10), ma l'immagine di acque che sgorgano dal tempio deriva da Ezechiele (47.1) ed è comune nell'apocalittica (cfr. Gl 4,18; Zc 14,8). Giovanni sostituisce il santuario con il trono divino e ribadisce la presenza congiunta dell'Agnello: come in 21,22.23 l'Agnello è nominato alla fine, in posizione enfatica. Qualche esegeta ha ipotizzato che si tratti di aggiunte: di fatto è da valorizzare che la redazione finale del testo insista nell'affiancare a Dio l'Agnello: essi costituiscono il nuovo santuario da cui sgorga il fiume che dona vita. In modo analogo, in mezzo alla città fruttifica anche l'albero della vita: si tratta di un particolare nuovo rispetto al quadro della splendida vegetazione descritto da Ez 47,12, modello profetico rielaborato; il riferimento evidente è al giardino di Eden (Gen 2,9; 3,24), all'albero della vita simbolo sapienziale che segna l'inizio della storia umana. Ciò che all'inizio è stato perduto, viene ridonato in pienezza. Ezechiele diceva che le foglie servivano come cura, Giovanni precisa che servono per curare le genti: significa che l'autore dell'Apocalisse immagina ancora l'esistenza di nazioni da guarire. Dunque la storia è in corso. I simboli della comunione con Dio, all'inizio e alla fine della Bibbia, esprimono lucidamente la parabola della vicenda umana: storia di peccato e di salvezza, di amicizia perduta e di comunione filiale ridonata.

Parte profetica Con l'annuncio del giorno escatologico tratto da Zc 14,11 si introduce l'adorazione eterna e luminosa tributata a Dio e all'Agnello dai suoi servi. Questi ultimi sono coloro che hanno assimilato la mentalità dell'Agnello e portano impressa nella loro vita la sua stessa persona: hanno il suo sigillo (cfr. 7,3; al contrario, gli empi recano sulla fronte il marchio col nome della bestia, cfr. 13.17). Nell'evento di Gesù Cristo, dunque, la novità si è realizzata: nel presente è donata alla sua Chiesa e, nel futuro, si compirà pienamente per tutta l'umanità. L'ultima visione dell'Apocalisse è, pertanto, una rilettura cristiana delle Scritture per esprimere la gioiosa celebrazione del paradiso ritrovato: l'autore, ispirandosi a Zc 14,6-9.16, ha rielaborato le immagini connesse alla festa delle Capanne per presentare la nuova realtà, la luce, che è Dio stesso (21,11.23;22,5),e l'acqua di vita (21,6;22,1). Gli uomini pellegrini giungono finalmente alla meta, possono vedere il volto di Dio e, nell'adorazione, condividono il suo potere regale (cfr. 5,10; 20,6).

DIALOGO LITURGICO FINALE L'opera si conclude come era iniziata: con un linguaggio liturgico e una struttura dialogica. L'intento di creare collegamento con il principio è evidenziato dalla ripetizione di alcune formule importanti: il ricordo della rivelazione (1,1 e 22,6), la definizione dell'opera come profezia (1,3 e 22,7.10.18.19), l'insistenza sulla testimonianza (1,2 e 22,16.18.20), l'affermazione del tempo vicino (1,3 e 22,10) e la presenza di beatitudini (1,3 e 22,7.14). Come nel dialogo liturgico introduttivo, l'ultima sezione del libro presenta una celebrazione simbolica in cui prendono la parola, oltre a Giovanni e all'assemblea, anche l'angelo interprete e Gesù stesso. Il testo è organizzato attorno ai personaggi e alle loro parole; l'insistenza è sulla natura profetica dell'opera; è l'ispirazione divina che dona ai fedeli la capacità di comprendere il senso della storia alla luce delle antiche Scritture e degli eventi pasquali di Gesù Cristo. Per questo motivo le parole del libro sono degne di fede e rivelatrici del progetto di Dio (cfr. 3,14; 19,9.11; 21,5). Il tema conduttore di questo dialogo finale è la venuta del Cristo e il tono è decisamente in crescendo. L'affermazione «Ecco, io vengo presto», la formula del Cristo risorto rivolta alle Chiese (cfr. 2,16; 3,11), è ripetuta tre volte (22,7.12.20) col verbo al presente e un avverbio di tempo per ribadire sia la presenza del Cristo già operante nella comunità sia la tensione al definitivo compimento.

Al v. 8 l'autore si presenta come Giovanni (cfr. 1,1.4.9), interprete di questa rivelazione: per la seconda volta (cfr. 19,9-10) racconta il suo tentativo di adorare l'angelo e la severa proibizione che gli è stata comunicata. In netta opposizione alle pratiche di un culto angelico, l'autore insegna che solo Dio deve essere adorato, mentre gli angeli sono «servi» della rivelazione divina così come Giovanni (1,1) e gli altri uomini (1,1; 22,6) che, guidati dallo spirito della profezia, hanno assimilato questa parola. L'angelo ordina a Giovanni di divulgare questa profezia, donata perché l'umanità ne tragga beneficio: conoscerla è l'occasione buona che risulta a portata di mano («il momento propizio infatti è vicino»; cfr. 1,3). Un ulteriore chiarimento si rende necessario per evitare illusioni, poiché la nuova realtà non significa eliminazione dei malvagi (v. 11): nonostante la novità annunciata, le cose sembrano continuare come prima; quattro tipi di persone, contrapposti a due a due, rappresentano questa opposta continuità, a livello sociale («l'ingiusto/il giusto») e a livello religioso («l'impuro/ il santo»). L'Apocalisse, infatti, offre la possibilità di comprendere il senso delle dinamiche storiche e comunica la certezza della soluzione divina già all'opera, ma riconosce anche il rispetto per le scelte storiche degli uomini.

Con una formula profetica (cfr. Is 40,10; 62,11) il Cristo annuncia (v. 12) che «la ricompensa» si identifica con la sua stessa persona: perciò la sorte di ciascuno è segnata e garantita in base alle proprie scelte nei confronti del Cristo (cfr. 14,13; 20,12.13). Egli si presenta (v. 13) con tre doppie e analoghe definizioni, tutte già comparse (cfr. 1,8.17; 2,8; 21,6), per ribadire la sua natura di Signore della storia che determina l'inizio, lo sviluppo e la meta di ogni cosa. La settima e ultima beatitudine del libro richiama la definizione dei salvati del sesto sigillo con un importante riferimento al battesimo. Ciò che era detto dell'evento sacramentale (7,14: «lavarono») ora viene ripreso nella sua continuità esistenziale (22,14: «lavano»). Da questo dono-impegno nasce la possibilità di mangiare dell'albero della vita (probabile l'allusione all'eucaristia) e di entrare nella nuova comunione con Dio. Il tema dell'ingresso nella città santa provoca la terza formula di esclusione (cfr. 21,8.27): si ribadisce l'interdetto a sette categorie simboliche di persone.

Gesù in persona riprende la parola per riaffermare l'origine divina di questa rivelazione e la sua destinazione alla comunità cristiana (v. 16) e, quindi, per garantire la completezza della profezia (vv. 18-19). Al termine del canone cristiano delle Scritture, tale solenne affermazione presenta Gesù Cristo come la pienezza della rivelazione che con lui si chiude, senza attendere nuove aggiunte e senza ammettere alcuna riduzione. Egli è punto di incontro e realizzazione dell'Antico Testamento e del Nuovo: viene prima di David («la radice»; cfr. Is 11,1.10 LXX) e ne continua l'opera («la stirpe»), porta a compimento la sua funzione regale («la stella»; cfr. Nm 24,17) inaugurando il giorno nuovo della Pasqua («stella luminosa del mattino»; cfr. 2.28). L'affermazione del Cristo suscita l'entusiasmo dell'assemblea liturgica: questa è la sposa, descritta poco prima (21,2.9), e il suo desiderio è mosso dallo Spirito di Dio che ha ricevuto. Ogni fedele che ascolta sente nascere il desiderio della venuta di Cristo, ma lo stesso invito è rivolto all'ascoltatore (cfr. Gv 7,37-39). Appare evidente il riferimento alla vita sacramentale della Chiesa con cui si afferma l'attuale possibilità, per chi lo desidera, di attingere gratuitamente alla sorgente di vita (cfr. 21,6: 22,1).

Per la terza volta (v. 20) il Cristo risorto, testimone degno di fede e garante della rivelazione, ripete l'impegno a venire senza indugio: a lui la comunità cristiana, soggetto implicito, risponde esprimendo il proprio assenso e il proprio desiderio. Così, nella dimensione della liturgia, passato, presente e futuro si rafforzano e si integrano: il Signore «venne» negli eventi fondamentali della sua Pasqua, «viene» nella vita della Chiesa lungo la storia, «verrà» per il compimento finale. La comunità che legge questa rivelazione ricorda, vive e attende. L'intera opera, iniziata come un'epistola indirizzata alla comunità cristiana (1,4), termina con una analoga formula epistolare, comune anche a Paolo (cfr. 2Cor 13,13; Gal 6,18; Fil 4.23). L'augurio estende a tutti la comunione con l'amore attivo («grazia») di Cristo.🔚


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L'ultima conseguenza dello scontro: la realtà della nuova Gerusalemme 1E vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. 2E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. 3Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. 4E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate». 5E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose». E soggiunse: «Scrivi, perché queste parole sono certe e vere». 6E mi disse: «Ecco, sono compiute! Io sono l’Alfa e l’Omèga, il Principio e la Fine. A colui che ha sete io darò gratuitamente da bere alla fonte dell’acqua della vita. 7Chi sarà vincitore erediterà questi beni; io sarò suo Dio ed egli sarà mio figlio. 8Ma per i vili e gli increduli, gli abietti e gli omicidi, gli immorali, i maghi, gli idolatri e per tutti i mentitori è riservato lo stagno ardente di fuoco e di zolfo. Questa è la seconda morte».

GERUSALEMME, LA SPOSA

Introduzione 9Poi venne uno dei sette angeli, che hanno le sette coppe piene degli ultimi sette flagelli, e mi parlò: «Vieni, ti mostrerò la promessa sposa, la sposa dell’Agnello». 10L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio. 11Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino.

Parte descrittiva 12È cinta da grandi e alte mura con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. 13A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e a occidente tre porte. 14Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello. 15Colui che mi parlava aveva come misura una canna d’oro per misurare la città, le sue porte e le sue mura. 16La città è a forma di quadrato: la sua lunghezza è uguale alla larghezza. L’angelo misurò la città con la canna: sono dodicimila stadi; la lunghezza, la larghezza e l’altezza sono uguali. 17Ne misurò anche le mura: sono alte centoquarantaquattro braccia, secondo la misura in uso tra gli uomini adoperata dall’angelo. 18Le mura sono costruite con diaspro e la città è di oro puro, simile a terso cristallo. 19I basamenti delle mura della città sono adorni di ogni specie di pietre preziose. Il primo basamento è di diaspro, il secondo di zaffìro, il terzo di calcedònio, il quarto di smeraldo, 20il quinto di sardònice, il sesto di cornalina, il settimo di crisòlito, l’ottavo di berillo, il nono di topazio, il decimo di crisopazio, l’undicesimo di giacinto, il dodicesimo di ametista. 21E le dodici porte sono dodici perle; ciascuna porta era formata da una sola perla. E la piazza della città è di oro puro, come cristallo trasparente. 22In essa non vidi alcun tempio: il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio. 23La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna: la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello.

Parte profetica 24Le nazioni cammineranno alla sua luce, e i re della terra a lei porteranno il loro splendore. 25Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, perché non vi sarà più notte. 26E porteranno a lei la gloria e l’onore delle nazioni. 27Non entrerà in essa nulla d’impuro, né chi commette orrori o falsità, ma solo quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello.

Approfondimenti

(cf APOCALISSE – introduzione, traduzione e commento di CLAUDIO DOGLIO © EDIZIONI SAN PAOLO, 2012)

L'ultima conseguenza dello scontro: la realtà della nuova Gerusalemme Questo quinto quadro(21,1-8) corrisponde al primo (20,1-3) nella presentazione di una «discesa», ma al contempo vi si contrappone perché descrive la novità assoluta creata dall'intervento escatologico di Dio. In questa ultima sezione ci si sofferma sugli effetti positivi dell'evento apocalittico. La pericope è frammentaria o antologica, ricca di molti elementi stilistici e teologici differenti, e costituisce un mosaico in miniatura che annuncia la splendida «buona notizia». Il primo e fondamentale proclama riguarda la realtà «nuova» che la Chiesa sperimenta e testimonia: la città-sposa – immagine della comunione con Dio resa possibile dal mistero pasquale – richiama la singolare originalità di Gesù Cristo. La formula d'apertura al v. 1 deriva dal finale di Isaia (Is 65,17; 66,22), così come l'immagine di una sposa che si prepara per le nozze (Is 61,10). L'antico profeta cercava di infondere coraggio ai rimpatriati dall'esilio babilonese, celebrando nella speranza una nuova grandezza di Gerusalemme, in via di faticosa ricostruzione. Giovanni ne riprende le immagini per annunciare, in prospettiva cristiana, il compimento delle sue attese. Oltre al cosmo, è nuova la storia, rappresentata dalla città e paragonata a una sposa. La «città santa» (Is 52,1) proviene direttamente da Dio, cioè non è una conquista dell'uomo. Dal trono divino proviene una voce che dichiara una serie di oracoli profetici, indicando nella nuova città l'inizio della realizzazione del progetto divino; si tratta di una sorta di liturgia cristiana in cui la comunità celebra l'efficace azione di Dio e, alla sua luce, interpreta la propria storia presente, esprimendo l'anelito alla pienezza futura. L'intervento di Dio in persona rende solenne questo vertice della rivelazione: egli ribadisce il messaggio, rivolgendo al profeta l'invito a metterlo per iscritto. Dopo la presentazione di se stesso, il Signore del cosmo e della storia descrive la propria azione e annuncia il premio concesso al vincitore. I versetti, dal tono tipicamente profetico, sono caratterizzati dai verbi al futuro: presentano, infatti, una realtà già iniziata, ma destinata a continuare e a crescere fino alla pienezza definitiva. Il quadro termina con una formula di esclusione che ribadisce il concetto di «seconda morte», identificata con il «lago di fuoco» (cfr. 19.14) ed elenca i tipi di persone che non possono ereditare i beni escatologici perché hanno rifiutato di accogliere la rivelazione di Dio.

GERUSALEMME, LA SPOSA L'ultima scena della sezione è ampia e complessa. Nonostante alcuni esegeti l'abbiano giudicato una disorganica compilazione di più fonti, il testo può essere ritenuto unitario e organico. Comprende due quadri principali (21,9-26; 22,1-5). introdotti da espressioni apocalittiche e articolati in parti espositive (con verbi al passato o al presente) e parti profetiche (con verbi al futuro); al centro, come uno snodo, è posta una formula di esclusione del male (21,27). Vertice dell'intera Apocalisse, questa scena celebra il risvolto positivo del giudizio di Dio sulla storia, già anticipato in 21,1-8: alla condanna della prostituta e alla distruzione di Babilonia (17,1) viene contrapposta la presentazione della sposa, la nuova Gerusalemme (21,9). Queste immagini, nate dalla liturgia, trovano il proprio ambiente vitale nella celebrazione liturgica, in quanto lode corale di una comunità che riconosce il dono della propria vita nuova e anela al compimento finale. La «città santa», negli oracoli profetici, era immagine perfetta del vertice finale e si prestava per descrivere e celebrare la realizzazione del progetto salvifico operato dal Cristo; Giovanni continua, quindi, la rilettura dell'Antico Testamento (cfr. Is 60-66, Ez 40-48, Zc 14), componendo un florilegio con vari simboli di relazione buona tra Dio e l'umanità: l'elezione del popolo, l'alleanza e l'eredità, le dodici tribù e i dodici apostoli, la presenza di Dio e le sue nozze, la figliolanza divina e la contemplazione del volto amato.

Introduzione Il versetto introduttivo ripete l'enfatica presentazione (cfr. 17,1) di un angelo interprete, appartenente al gruppo che ha versato le coppe (16,1- 21): in questo modo l'intera sezione (17,1-22,5) viene collegata a quel settenario, determinando la contrapposizione tra le due realtà descritte (la prostituta e la sposa, Babilonia e Gerusalemme). In rapporto antitetico con la prima scena (17,1-18), la visione ha qui per oggetto l'altra conseguenza del mistero pasquale simboleggiato dal versamento delle coppe: la preparazione della sposa per l'Agnello (cfr. 19,7; 21,2) e la fondazione di una nuova città santa da parte di Dio stesso. La descrizione è incentrata sulla realtà urbanistica, ma i termini che la introducono (21,9: «sposa, donna») sottolineano la metafora umana della relazione sponsale. Giovanni al v. 10 ripete la formula di Is 52,1 («la città santa», cfr. 21,2), ma non qualifica più la città come «nuova». Tuttavia il confronto inevitabile è con la «vecchia» Gerusalemme, simbolo del popolo, dell'alleanza con Dio e della stessa dimora divina tra gli uomini. Il veggente non descrive una realtà celeste e futura, distinta dall'attuale esperienza dei credenti: sembra piuttosto celebrare la novità dell'alleanza, ovvero il nuovo rapporto filiale con Dio, donato agli uomini da Dio stesso e già attualmente sperimentato, sebbene resti viva la tensione verso il pieno e finale compimento. La distruzione di Gerusalemme nell'anno 70 d.C. portò il giudaismo a rielaborare l'organizzazione religiosa; anche i discepoli di Gesù si trovarono di fronte a un evento terribile che chiedeva interpretazione. Forse, proprio come il profeta Ezechiele in esilio progettava la ricostruzione di Gerusalemme (Ez 40-48), il profeta Giovanni annuncia la realizzazione di nuova città per opera di Dio. L'introduzione della scena ricalca l'inizio dell'ultima parte del libro di Ezechiele (cfr. Ez 40,2): agli occhi della comunità cristiana la distruzione della città santa può essere apparsa come un segno della fine dell'antico mondo, corrotto e giudicato da Dio; allo stesso tempo, però, la predicazione del Vangelo a tutte le genti si propone come l'immagine di una realtà nuova, resa possibile dall'intervento escatologico di Dio in Cristo.

Parte descrittiva L'attenzione viene rivolta agli elementi simbolici della costruzione, secondo la forma delle antiche città: le mura, le porte e i basamenti. Rielaborando la scena della misurazione del tempio (cfr. 11,1-2), Giovanni usa il concetto di «misura» per indicare il progetto di una costruzione e per comunicare una valutazione della realtà attraverso i simboli numerici delle sue dimensioni. La formula enigmatica «secondo la misura in uso tra gli uomini adoperata dall’angelo» enfatizza il simbolismo: le misurazioni vengono proposte secondo i criteri umani e tuttavia, corrispondono a una realtà angelica, cioè sovrumana, e indicano qualcosa di più profondo e significativo. Le caratteristiche della città la qualificano come comunità profondamente unita al suo Signore, come dimora stessa di Dio. Infatti, descrivendo la città come un cubo (21,16), la si avvicina all'antico Santo dei Santi (cfr. 1Re 6,19-20), la parte più sacra del vecchio tempio. L'angelo interprete si occupa del materiale da costruzione: la preziosità dell'oro, del diaspro e delle perle alludono al mondo divino; l'allusione alle pietre preziose incastonate nel pettorale del sommo sacerdote accenna alla natura sacerdotale della nuova città. Il riferimento alle pietre preziose ha valore simbolico e proviene dal profeta che annunciava la ricostruzione di Gerusalemme dopo l'esilio (cfr. Is 54,11-12) e da un poema giudaico sul glorioso futuro della città (cfr. Tb 13,17). Ma l'elenco minuzioso delle dodici pietre preziose intende dire qualcosa di più: anche se l'ordine e i nomi non corrispondono perfettamente, vi si può riconoscere un richiamo al pettorale del sommo sacerdote (cfr. Es 28.15-21), come simbolo sacro delle tribù di Israele. Gli ultimi elementi descrittivi sottolineano due assenze importanti, tali da evidenziare un forte contrasto con la Gerusalemme storica: non ci sono più i luminari (cfr. Is 60,19-20), perché la luce è fornita direttamente dal Signore(21,23); ma soprattutto, nella città – a differenza del progetto di Ezechiele – non c'è più alcun luogo sacro, perché il Signore stesso è il santuario (21,22). Entrambi i versetti finali terminano con il riferimento all'Agnello in posizione enfatica: l'Agnello, cioè Gesù Cristo morto e risorto, è insieme a Dio santuario (cfr. Gv 2,19-21) e lampada. L'assoluta originalità di Gerusalemme sta proprio in questa nuova relazione con Dio attraverso la persona e il sacrificio esistenziale del Cristo, modello fondamentale che rischiara la comunità.

Parte profetica Alla lunga descrizione succede una breve pericope, caratterizzata dai verbi al futuro: si tratta di una collezione di citazioni profetiche che vengono date per compiute o in via di realizzazione. L'idea principale è quella del pacifico rapporto della nuova Gerusalemme con tutte le genti: mediante le immagini dell'antica liturgia di Israele per le feste di pellegrinaggio. Giovanni celebra il raduno universale dei popoli e indica la «novità» come la meta verso cui l'umanità intera tende (Is 60,3.5). Le porte, rivolte a ogni direzione (21,13), restano sempre aperte come chiaro segno di accoglienza; lo aveva già annunciato il profeta (Is 60,11), ma Giovanni ritocca e abbellisce questa formula con l'immagine di uno straordinario giorno ininterrotto senza più notte (cfr. Zc 14,7). La luce è il motivo dominante e l'incontro tra la gloria divina e la gloria delle nazioni rappresenta lo splendido ideale della possibilità di comunione tra Dio e l'umanità. La sezione è conclusa da una formula di esclusione (v. 27) che – secondo il modello già presente in 21,8 – annuncia l'interdetto a ogni realtà impura: mediante la ripresa di un detto profetico (cfr. Is 52,1) tale interdetto avvicina la città all'antico santuario; tuttavia, si precisa che l'impurità esclusa è morale, non rituale.


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LE CONSEGUENZE DELLO SCONTRO

La caduta di satana 1E vidi un angelo che scendeva dal cielo con in mano la chiave dell’Abisso e una grande catena. 2Afferrò il drago, il serpente antico, che è diavolo e il Satana, e lo incatenò per mille anni; 3lo gettò nell’Abisso, lo rinchiuse e pose il sigillo sopra di lui, perché non seducesse più le nazioni, fino al compimento dei mille anni, dopo i quali deve essere lasciato libero per un po’ di tempo.

L'intervento salvifico di Dio 4Poi vidi alcuni troni – a quelli che vi sedettero fu dato il potere di giudicare – e le anime dei decapitati a causa della testimonianza di Gesù e della parola di Dio, e quanti non avevano adorato la bestia e la sua statua e non avevano ricevuto il marchio sulla fronte e sulla mano. Essi ripresero vita e regnarono con Cristo per mille anni; 5gli altri morti invece non tornarono in vita fino al compimento dei mille anni. Questa è la prima risurrezione. 6Beati e santi quelli che prendono parte alla prima risurrezione. Su di loro non ha potere la seconda morte, ma saranno sacerdoti di Dio e del Cristo, e regneranno con lui per mille anni.

La battaglia escatologica 7Quando i mille anni saranno compiuti, Satana verrà liberato dal suo carcere 8e uscirà per sedurre le nazioni che stanno ai quattro angoli della terra, Gog e Magòg, e radunarle per la guerra: il loro numero è come la sabbia del mare. 9Salirono fino alla superficie della terra e assediarono l’accampamento dei santi e la città amata. Ma un fuoco scese dal cielo e li divorò. 10E il diavolo, che li aveva sedotti, fu gettato nello stagno di fuoco e zolfo, dove sono anche la bestia e il falso profeta: saranno tormentati giorno e notte per i secoli dei secoli.

L'estensione universale della salvezza 11E vidi un grande trono bianco e Colui che vi sedeva. Scomparvero dalla sua presenza la terra e il cielo senza lasciare traccia di sé. 12E vidi i morti, grandi e piccoli, in piedi davanti al trono. E i libri furono aperti. Fu aperto anche un altro libro, quello della vita. I morti vennero giudicati secondo le loro opere, in base a ciò che era scritto in quei libri. 13Il mare restituì i morti che esso custodiva, la Morte e gli inferi resero i morti da loro custoditi e ciascuno venne giudicato secondo le sue opere. 14Poi la Morte e gli inferi furono gettati nello stagno di fuoco. Questa è la seconda morte, lo stagno di fuoco. 15E chi non risultò scritto nel libro della vita fu gettato nello stagno di fuoco.

Approfondimenti

(cf APOCALISSE – introduzione, traduzione e commento di CLAUDIO DOGLIO © EDIZIONI SAN PAOLO, 2012)

LE CONSEGUENZE DELLO SCONTRO La comparsa di un angelo costituisce il consueto motivo strutturante che determina l'inizio della sesta scena, in parallelismo con la seconda (18,1): anche il movimento descritto è identico. Proprio perché è la sesta, questa è la scena più sviluppata delle altre. Molteplici sono le immagini che si susseguono nella sezione, dando l'impressione di confusione. Gli elementi formali e contenutistici, però, permettono di suddividerla in cinque quadri, disposti in modo parallelo e concentrico. I primi quadri sono dominati da un numero difficile da interpretare: «i mille anni» (20,2.3.4.5.6.7). Tutta l'esegesi della sezione dipende dal significato che si attribuisce a questo simbolo. Nonostante le innumerevoli divergenze, le opinioni degli esegeti si riducono a due: le interpretazioni a carattere cronologico-letterale e le interpretazioni simbolico- spirituali. L'idea di un regno terreno del Cristo della durata reale di mille anni fu condivisa da molti scrittori cristiani fino al III-IV secolo: condannata nel 341 dal concilio di Efeso, è riemersa in alcuni movimenti medievali e in sette fondamentaliste moderne. L'interpretazione simbolica e spirituale risale a Origene e Agostino ed è quella generalmente sostenuta. Giovanni sembra presentare l'influsso potente del Cristo sulla storia; ma, intendendo i mille anni come indicazione simbolica del periodo che va dalla risurrezione di Cristo fino alla sua venuta gloriosa, molti particolari del testo restano di difficile comprensione o propongono suggestioni uniche nel Nuovo Testamento e non recepite nella tradizione teologica cristiana. Leggendo, invece, la cifra come ulteriore rappresentazione dell'intervento divino nell'antica alleanza, pur rimanendo incerti alcuni particolari, l'insieme della sezione acquista una ragionevolezza teologica e riprende, in sintesi, il messaggio di salvezza già più volte proposto.

La caduta di satana Alle immagini precedenti si aggiunge l'angelo che incatena il satana: è il segno dell'azione di Dio che limita i guasti causati dalla ribellione dell'umanità. L'immagine della «chiave dell'abisso» richiama l'inizio della quinta tromba (9.1) e la presentazione del drago come l'antico serpente demoniaco (20.2) allude chiaramente al secondo segno (12,9). Sembra, dunque, che in questo quadro si parli di nuovo della sconfitta primordiale di satana e della sua caduta. Il «millennio» si può così interpretare come il primo atto salvifico di Dio nell'antica alleanza. Tutto è teso al compimento di questo periodo millenario e una nota teologica dell'autore afferma la necessità salvifica dello scioglimento di satana: l'attenzione è chiaramente rivolta a un evento decisivo ancora da compiersi.

L'intervento salvifico di Dio La pericope è costruita come rielaborazione della visione di Dn 7,9-10 in cui si presenta la corte celeste: perciò il suo significato dipende da questo riferimento. Coloro che si siedono non sono presentati e nemmeno la loro funzione è descritta; viene soltanto detto, con un tipico “passivo divino” che Dio ha concesso loro il ristabilimento della giustizia. Giovanni inserisce nel suo quadro di storia della salvezza le figure dei martiri antichi, violentemente uccisi perché credevano in Dio, speravano nel Messia (cfr. 1,9; 12,17; 19,10) e non si conformavano alla mentalità corrotta dominante (cfr. 13,12-17). Come gli uccisi sotto l'altare ricevono la veste bianca – segno di partecipazione alla risurrezione (6,11)– e come i due testimoni vengono rialzati da uno spirito di vita (11,11), cosi di questi «giustiziati» si dice che «vissero e regnarono» con il Cristo (giacché il Messia esiste e opera anche prima della sua comparsa storica),a differenza degli altri morti che devono aspettare il compimento del tempo (i mille anni),cioè l'intervento decisivo del Cristo. Questa situazione, particolare è riservata a pochi, è definita «prima risurrezione», anticipo di quella definitiva e universale. A conclusione del brano appare la quinta beatitudine dell'opera, riservata a chi può partecipare alla «prima risurrezione»: la loro situazione li mette al sicuro dal fallimento totale che, con formula diffusa nella letteratura targumica, Giovanni chiama «seconda morte» (cfr. 2,11). Costoro sono definiti anche «santi» (cfr. Dn 7,27) e si dice che svolgono una mediazione sacerdotale in vista del Regno, proprio come i cristiani (cfr. 1,6;5,10).

La battaglia escatologica La scena centrale non inizia con una formula di visione, ma riprende e sottolinea l'espressione di compimento (20.3.5). La liberazione di satana coincide con l'organizzazione della guerra finale: in contrapposizione ai «mille anni» dell'azione divina. L'opera satanica è però ridotta a un «breve tempo» (20,3). La scena ripresenta immagini già incontrate e intende ritornare sull'evento evocato come combattimento escatologico, cioè finale e decisivo (cfr.16,14. 16: 17,14; 19,19). L'esito dello scontro, determinato da un intervento di Dio, simboleggiato da un fulmine che distrugge i nemici (cfr. Ez 38,22; 39,6), segna la disfatta definitiva di satana (il diavolo è punito con supplizio infinito insieme alle sue creature storiche, cfr. 19.20) e si riferisce probabilmente, come le precedenti immagini analoghe, all'evento pasquale. La scena deriva dal poemetto di Ez 38-39, che ha già fornito l'immagine degli uccelli convocati a banchetto (Ap 19.17-18.21): secondo tale riferimento l'obiettivo della guerra è Gerusalemme che, tuttavia, non viene nominata: più che della città storica, si tratta di un simbolico resto fedele, vittima dell'oppressione demoniaca. Sotto il velo delle immagini apocalittiche si può intravedere il mistero pasquale del Cristo, vertice di una storia di amore e di morte: il Messia affronta lo scontro con l'impero delle tenebre e, morendo, vince.

L'estensione universale della salvezza La formula di visione che apre il quarto quadro rimanda in modo simmetrico all'inizio del secondo (20,4). Le due scene risultano analoghe, ma le differenze nei particolari sono notevoli: alla molteplicità si oppone un solo trono, alle sole anime degli uccisi si contrappongono tutti i morti, senza alcuna distinzione. Come nel secondo quadro, viene qui proposto lo svolgimento di un giudizio, secondo li modello di Dn 7,9-10: il trono divino, simbolo del governo cosmico («grande»), è finalizzato a donare la vita («bianco»): i morti che vi stanno innanzi sono ritratti nella posizione dei viventi (cfr. 7,9; 15,2). Alla luce di Gv 12,31 («Ora c'è il giudizio di questo mondo, ora il principe di questo mondo sarà cacciato fuori») si può intendere il giudizio come allusione agli effetti della morte e risurrezione di Cristo che segna la sconfitta del potere demoniaco. Il mare, infatti, insieme alle figure mitiche della «Morte» e del «Mondo-dei-morti», evoca il primordiale mostro acquatico, simbolo demoniaco del caos: essi non hanno più il potere di trattenere i morti nella prigione degli inferi, perché il Cristo risorto è colui che ora ne detiene le chiavi (cfr. 1,18) e può aprirne le porte. Inoltre la passione e la risurrezione comunicano agli uomini il dono della vita divina: costituiscono, perciò, il fondamento del giudizio e della salvezza, per tutta l'umanità.


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Intermezzo lirico 1Dopo questo, udii come una voce potente di folla immensa nel cielo che diceva: «Alleluia! Salvezza, gloria e potenza sono del nostro Dio, 2perché veri e giusti sono i suoi giudizi. Egli ha condannato la grande prostituta che corrompeva la terra con la sua prostituzione, vendicando su di lei il sangue dei suoi servi!». 3E per la seconda volta dissero: «Alleluia! Il suo fumo sale nei secoli dei secoli!». 4Allora i ventiquattro anziani e i quattro esseri viventi si prostrarono e adorarono Dio, seduto sul trono, dicendo: «Amen, alleluia». 5Dal trono venne una voce che diceva: «Lodate il nostro Dio, voi tutti, suoi servi, voi che lo temete, piccoli e grandi!». 6Udii poi come una voce di una folla immensa, simile a fragore di grandi acque e a rombo di tuoni possenti, che gridavano: «Alleluia! Ha preso possesso del suo regno il Signore, il nostro Dio, l’Onnipotente. 7Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a lui gloria, perché sono giunte le nozze dell’Agnello; la sua sposa è pronta: 8le fu data una veste di lino puro e splendente». La veste di lino sono le opere giuste dei santi. 9Allora l’angelo mi disse: «Scrivi: Beati gli invitati al banchetto di nozze dell’Agnello!». Poi aggiunse: «Queste parole di Dio sono vere». 10Allora mi prostrai ai suoi piedi per adorarlo, ma egli mi disse: «Guàrdati bene dal farlo! Io sono servo con te e i tuoi fratelli, che custodiscono la testimonianza di Gesù. È Dio che devi adorare. Infatti la testimonianza di Gesù è lo Spirito di profezia».

L'intervento della parola di Dio 11Poi vidi il cielo aperto, ed ecco un cavallo bianco; colui che lo cavalcava si chiamava Fedele e Veritiero: egli giudica e combatte con giustizia. 12I suoi occhi sono come una fiamma di fuoco, ha sul suo capo molti diademi; porta scritto un nome che nessuno conosce all’infuori di lui. 13È avvolto in un mantello intriso di sangue e il suo nome è: il Verbo di Dio. 14Gli eserciti del cielo lo seguono su cavalli bianchi, vestiti di lino bianco e puro. 15Dalla bocca gli esce una spada affilata, per colpire con essa le nazioni. Egli le governerà con scettro di ferro e pigerà nel tino il vino dell’ira furiosa di Dio, l’Onnipotente. 16Sul mantello e sul femore porta scritto un nome: Re dei re e Signore dei signori.

L'esito dello scontro 17Vidi poi un angelo, in piedi di fronte al sole, nell’alto del cielo, e gridava a gran voce a tutti gli uccelli che volano: 18«Venite, radunatevi al grande banchetto di Dio. Mangiate le carni dei re, le carni dei comandanti, le carni degli eroi, le carni dei cavalli e dei cavalieri e le carni di tutti gli uomini, liberi e schiavi, piccoli e grandi». 19Vidi allora la bestia e i re della terra con i loro eserciti, radunati per muovere guerra contro colui che era seduto sul cavallo e contro il suo esercito. 20Ma la bestia fu catturata e con essa il falso profeta, che alla sua presenza aveva operato i prodigi con i quali aveva sedotto quanti avevano ricevuto il marchio della bestia e ne avevano adorato la statua. Ambedue furono gettati vivi nello stagno di fuoco, ardente di zolfo. 21Gli altri furono uccisi dalla spada che usciva dalla bocca del cavaliere; e tutti gli uccelli si saziarono delle loro carni.

Approfondimenti

(cf APOCALISSE – introduzione, traduzione e commento di CLAUDIO DOGLIO © EDIZIONI SAN PAOLO, 2012)

Intermezzo lirico La parentesi celebrativa è particolarmente estesa e si divide in due parti principali: un inno di lode e un dialogo didascalico. L'inno viene cantato da una folla numerosa, probabilmente da identificare con il grande coro dei salvati (cfr. 7,9); costruito in modo ricercato, con numerosi riferimenti interni al libro, il canto si struttura in cinque strofe che, ritmate dal ritornello «alleluia» (al v. 5 manca l'espressione ebraica «alleluia», ma compare la sua traduzione: «lodate il nostro Dio»), sono disposte in ordine parallelo e concentrico.

La prima strofa (vv. 1-2) celebra la condanna della città-prostituta, oggetto delle tre sezioni precedenti (17,1-18,24) e si contrappone simmetricamente alla quinta strofa (vv. 6-8), dominata dall'annuncio della città-sposa. Anzitutto l'inno riconosce a Dio una presenza («gloria») potente e operante per il bene («salvezza»): i suoi interventi nella storia («sentenze») rivelano la sua intenzione («veri») e ristabiliscono l'ordine («giusti»). Vengono ripresi liricamente i termini del giudizio divino verso la donna corrotta (cfr. 17,1: 18,8.20): a lei viene imputata la responsabilità di rovinare il mondo con la sua corruzione (come gli angeli decaduti: cfr. 11,18) e di versare il sangue dei servi di Dio (cfr. 18.24). La sua condanna ha fatto giustizia, perché Dio «chiede conto» del sangue versato, cioè rivendica i diritti delle vittime (cfr. 6,10).

La seconda strofa (v. 3) ripete l'«alleluia» e, con l'immagine delle macerie fumanti (cfr. Is 34,10), ribadisce che l'intervento divino è definitivo.

Nella strofa centrale (v. 4) compaiono nuovamente i ventiquattro anziani e i quattro esseri viventi che, ripetendo il gesto di prostrazione e adorazione come nella celebrazione dell'Agnello (5,8.14), nel sesto sigillo durante il canto dei redenti (7,11) e nella settima tromba, celebrano il compimento del mistero (11,16). Questo inno è, così, collegato con gli altri canti e si evidenzia l'unicità del mistero celebrato.

La quarta strofa (v. 5), breve e interlocutoria, corrisponde alla seconda: è attribuita a una voce imprecisata, legata al trono di Dio, simbolo del governo del mondo. In essa l'invito alla lode è rivolto a tutti i timorati di Dio con una formula che era già comparsa nell'inno della settima tromba (11,18); anche là, infatti, si celebrava il giudizio e la salvezza: giudizio per chi rovina il mondo e salvezza per chi ha il timore di Dio.

La quinta (vv. 6-8), infine, corrisponde in modo inclusivo alla prima: è la stessa folla numerosa che intona il canto e, in opposizione alla rovina della prostituta, l'oggetto della celebrazione riguarda la preparazione della sposa.

Il canto è giustificato da due cause: l'inaugurazione del regno messianico, che rimanda all'inno della settima tromba (cfr. 11,17), e la celebrazione delle nozze tra l'Agnello e la «sua sposa», tema che occuperà l'ultima sezione (cfr. 21,2; 21,9-22,5). L'invito alla gioia del v .7 («rallegriamoci ed esultiamo») riprende alla lettera la formulazione, nella Settanta, di Sal 117(118),24 che celebra il giorno del Signore. Il collegamento è importante per il riferimento a un giorno speciale fatto da Dio (cfr. 1,10): in esso si riconosce l'evento decisivo della Pasqua in cui Gesù si è rivelato come Signore per il mondo intero e come sposo per la sua comunità.

L'intervento escatologico dell'Agnello divino, dunque, distrugge il mondo corrotto e fa passare l'umanità (la donna)dalla condizione di «prostituta» a quella di «sposa», rendendola capace di un'autentica comunione con Dio (le nozze).

L'ultima parte del v. 8 è una nota esplicativa: l'abito che alla sposa è dato di indossare può essere riconosciuto come l'effetto della redenzione operata da Gesú Cristo, che ha messo l'umanità nella giusta relazione con Dio. Le «opere che rendono giusti i santi», identificate con l'abito della sposa, si contrappongono alle «iniquità» della prostituta (18,5): perciò, in contrapposizione alla «condanna» della prostituta (19,2), si potrebbe parlare di «assoluzione» della sposa, intendendola come azione divina che redime dai peccati, donando una nuova e buona possibilità di relazione.

Il dialogo didascalico (19,9-10). Qualcuno invita l'autore ascrivere la quarta delle sette beatitudini presenti nell'opera e la sottolinea con enfasi per evidenziare l'importanza della rivelazione; probabilmente si tratta di un angelo, ma non è presentato per non rompere la struttura settenaria. La reazione adorante di Giovanni verso questa figura viene seriamente proibita: solo Dio deve essere adorato perché gli angeli sono «servi» della rivelazione divina, cosi come lo sono Giovanni e le altre persone che, guidate dallo spirito della profezia, hanno mantenuto viva la «testimonianza» nei confronti del Messia.

L'intervento della parola di Dio Al centro della sezione, preceduta eseguita da tre angeli, in modo simmetrico all'organizzazione di 14,6-20, compare una figura simbolica chiaramente identificabile con Gesù Cristo. La solita formula di visione introduce l'unità, dedicata alla descrizione del personaggio: la ripresa di molti elementi già incontrati e la collocazione nella struttura generale portano a considerare la pericope come l'ennesima descrizione dell'intervento di Dio nella storia attraverso la persona e l'opera di Gesù Cristo.

La descrizione della scena richiama da vicino altre tre figure cristologiche (1.12-16; 6,1-2; 14,14). I valori delle immagini si ripetono: il cavallo è segno di una potenza storica, connotata in modo positivo dal colore della risurrezione («bianco»): il cavaliere (letteralmente: «colui che vi è seduto sopra») assume un atteggiamento di autorità e viene descritto con i titoli attribuiti al Cristo risorto (cfr. 1,5: 3,14): «Degno di fede» cioè accreditato nei confronti di Dio e «Veritiero» in quanto rivelatore nei confronti dell'umanità.

Nuovi sono i riferimenti alla capacità di giudicare e di combattere. L'insistenza sul suo nome lo presenta come noto, eppure inconoscibile: però, grazie al titolo «Parola di Dio» l'identificazione diviene chiara. Appare ovvio il riferimento al prologo di Giovanni (Gv 1,1.14), per cui questa figura viene presentata come il «rivelatore». Un altro riferimento importante si può riconoscere nell'immagine con cui il libro della Sapienza evoca l'intervento di Dio nella liberazione dall'Egitto (cfr. Sap 18,14-16),offrendo una colorazione pasquale alla scena.

Il «cavaliere», dunque, compie la redenzione del nuovo esodo. Inoltre la sua azione, caratterizzata dal giudizio e segnata dal sangue, rinvia ancora all'evento pasquale in cui il Messia ha dimostrato l'autentica signoria divina. Infatti la seconda parte della descrizione di «Parola (lógos) di Dio» si sofferma soprattutto sulle azioni.

La sua parola ha la forza tagliente di una spada (cfr. 1,16) ed è questa l'arma che usa per il combattimento.

Lo scettro che regge è di ferro, secondo l'immagine di Sal 2,9 e lo caratterizza come il pastore messianico (cfr. 12,5), destinato a pascere tutti i popoli.

Infine il terzo nome che viene proposto («Re dei re e Signore dei signori») riprende il titolo già dato all'Agnello (17,14) proprio nel contesto in cui si annunciava la guerra contro i dieci re e la loro sconfitta.

Nel contesto simbolico dell'ultima sezione e al centro di essa, Giovanni richiama, dunque, il ruolo determinante del Cristo nel suo mistero di morte e risurrezione, presentandolo attraverso l'immagine tipica delle apocalissi: un combattimento tra due opposti schieramenti. Dalla sua battaglia escatologica (cioè quella decisiva degli ultimi tempi) derivano il giudizio e la salvezza.

L'esito dello scontro La vista di un altro angelo segna l'inizio di una nuova scena, che corrisponde simmetricamente alla terza (18,21-24); a quel gesto simbolico di distruzione coincide questa immagine con cui si vuole evocare l'esito dello scontro tra la Parola (logos) e la bestia.

L'autore ha suddiviso la visione in quattro quadri: il primo e l'ultimo (vv. 17-18.21b) formano la cornice simbolica del banchetto; i due centrali (vv. 19.20-21a) accennano alla preparazione e all'esito dello scontro. L'angelo è descritto in atteggiamento maestoso: lo «stare in piedi» e la posizione («nel sole») lo qualificano come vivente, partecipe dello splendore solare che caratterizza il Cristo risorto (cfr. 1,16).

Egli formula un invito agli uccelli del cielo, riproducendo un particolare del poemetto apocalittico contro Gog e Magog, simbolo dei nemici di Israele che verranno distrutti dall'intervento di Dio (Ez 38-39). Questo macabro convito, in contrasto con la festa di nozze dell'Agnello, sottolinea ancora una volta il duplice e opposto effetto dell'intervento divino nella storia.

Un rapido schizzo descrive i due schieramenti: da una parte il simbolo del potere corrotto, attorniato da coloro che concretamente lo esercitano nella storia: dall'altra la Parola (logos) di Dio in persona.

Con una sobrietà insolita per il genere apocalittico, Giovanni accenna soltanto a una «guerra», senza dilungarsi in descrizioni minuziose. Subito, infatti, si concentra sull'esito dello scontro che vede l'esercito bestiale neutralizzato. La fine dei poteri corrotti consiste nell'essere precipitati nella fossa infuocata e nauseante, mentre i potenti della terra vengono annientati dalla parola del Cristo, simboleggiata dalla spada. L'ultimo tratto descrittivo fa inclusione con l'inizio della scena e constata l'avvenuto banchetto.


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L'annuncio e il lamento 1Dopo questo, vidi un altro angelo discendere dal cielo con grande potere, e la terra fu illuminata dal suo splendore. 2Gridò a gran voce: «È caduta, è caduta Babilonia la grande, ed è diventata covo di demòni, rifugio di ogni spirito impuro, rifugio di ogni uccello impuro e rifugio di ogni bestia impura e orrenda. 3Perché tutte le nazioni hanno bevuto del vino della sua sfrenata prostituzione, i re della terra si sono prostituiti con essa e i mercanti della terra si sono arricchiti del suo lusso sfrenato». 4E udii un’altra voce dal cielo: «Uscite, popolo mio, da essa, per non associarvi ai suoi peccati e non ricevere parte dei suoi flagelli. 5Perché i suoi peccati si sono accumulati fino al cielo e Dio si è ricordato delle sue iniquità. 6Ripagàtela con la sua stessa moneta, retribuitela con il doppio dei suoi misfatti. Versàtele doppia misura nella coppa in cui beveva. 7Quanto ha speso per la sua gloria e il suo lusso, tanto restituitele in tormento e afflizione. Poiché diceva in cuor suo: “Seggo come regina, vedova non sono e lutto non vedrò”. 8Per questo, in un solo giorno, verranno i suoi flagelli: morte, lutto e fame. Sarà bruciata dal fuoco, perché potente Signore è Dio che l’ha condannata». 9I re della terra, che con essa si sono prostituiti e hanno vissuto nel lusso, piangeranno e si lamenteranno a causa sua, quando vedranno il fumo del suo incendio, 10tenendosi a distanza per paura dei suoi tormenti, e diranno: «Guai, guai, città immensa, Babilonia, città possente; in un’ora sola è giunta la tua condanna!». 11Anche i mercanti della terra piangono e si lamentano su di essa, perché nessuno compera più le loro merci: 12i loro carichi d’oro, d’argento e di pietre preziose, di perle, di lino, di porpora, di seta e di scarlatto; legni profumati di ogni specie, oggetti d’avorio, di legno, di bronzo, di ferro, di marmo; 13cinnamòmo, amòmo, profumi, unguento, incenso, vino, olio, fior di farina, frumento, bestiame, greggi, cavalli, carri, schiavi e vite umane. 14«I frutti che ti piacevano tanto si sono allontanati da te; tutto quel lusso e quello splendore per te sono perduti e mai più potranno trovarli». 15I mercanti, divenuti ricchi grazie a essa, si terranno a distanza per timore dei suoi tormenti; piangendo e lamentandosi, diranno: 16«Guai, guai, la grande città, tutta ammantata di lino puro, di porpora e di scarlatto, adorna d’oro, di pietre preziose e di perle! 17In un’ora sola tanta ricchezza è andata perduta!». Tutti i comandanti di navi, tutti gli equipaggi, i naviganti e quanti commerciano per mare si tenevano a distanza 18e gridavano, guardando il fumo del suo incendio: «Quale città fu mai simile all’immensa città?». 19Si gettarono la polvere sul capo, e fra pianti e lamenti gridavano: «Guai, guai, città immensa, di cui si arricchirono quanti avevano navi sul mare: in un’ora sola fu ridotta a un deserto! 20Esulta su di essa, o cielo, e voi, santi, apostoli, profeti, perché, condannandola, Dio vi ha reso giustizia!».

Il gesto simbolico 21Un angelo possente prese allora una pietra, grande come una màcina, e la gettò nel mare esclamando: «Con questa violenza sarà distrutta Babilonia, la grande città, e nessuno più la troverà. 22Il suono dei musicisti, dei suonatori di cetra, di flauto e di tromba, non si udrà più in te; ogni artigiano di qualsiasi mestiere non si troverà più in te; il rumore della màcina non si udrà più in te; 23la luce della lampada non brillerà più in te; la voce dello sposo e della sposa non si udrà più in te. Perché i tuoi mercanti erano i grandi della terra e tutte le nazioni dalle tue droghe furono sedotte. 24In essa fu trovato il sangue di profeti e di santi e di quanti furono uccisi sulla terra».

Approfondimenti

(cf APOCALISSE – introduzione, traduzione e commento di CLAUDIO DOGLIO © EDIZIONI SAN PAOLO, 2012)

L'annuncio e il lamento La comparsa di un altro angelo, unita alla formula abituale di transizione, segna l'inizio di una nuova scena, non più descrittiva ma lirica. L'inizio della nuova scena è segnato da formule consuete. In particolare l'immagine dell'angelo che scende dal cielo fa inclusione tra questa seconda scena e la sesta (20,1) che inizia in modo molto simile. La caduta di Babilonia, tema di tutta la sezione, era già stata annunciata dal secondo angelo nel settenario che precedeva le coppe (14,8); il secondo angelo riprende ora lo stesso annuncio e altre voci si aggiungono alla sua per commentare l'evento; tra questi due annunci sta l'evento in sé, evocato al versamento della settima coppa (16,19). Nel comporre questa sezione, Giovanni si è ispirato ad alcuni poemi anticotestamentari e ne ha tratto immagini e formule significative.

Annuncio della caduta di Babilonia (18,1-3). La discesa di un angelo possente indica un benevolo intervento rivelatore di Dio: il suo arrivo, infatti, rischiara la terra, come il ritorno della «gloria» nel tempio ricostruito (cfr. Ez 43,2); egli proclama la fine di Babilonia con un mosaico di citazioni profetiche.

Invito ad abbandonare la città (18,4-8). Un'altra voce intona una nuova strofa del poema: il tema è indicato da un duplice imperativo: «uscite» e «rendete». I primo comando riguarda la distinzione del popolo di Dio rispetto alla città peccatrice, in modo da non partecipare alla sua condanna, mentre il secondo riguarda la retribuzione del male e la punizione dell'arroganza umana che si mette al posto di Dio. Si celebra qui ciò che era stato annunciato al versamento della settima coppa (16,19): Babilonia è punita per le sue «iniquità», mentre Gerusalemme sarà rivestita di «opere che rendono giusti» (19,8). L'acausa della severa punizione è indicata anche nell'orgoglio con cui la simbolica Babilonia si è messa al posto di Dio (v. 7): con una citazione di Is 47,7-9 viene espresso il superbo pensiero di chi si sente sicuro e invincibile.

Lamento corale (18.9-20). Quest'ultima parte del poema assume la forma di lamento e si ispira alle composizioni di Ezechiele sulla caduta della città d iTiro e del suo orgoglioso re (Ez 26-28). Il profeta, indicando nella vicenda del re di Tiro, glorioso e decaduto, una parabola della vicenda umana, riprendeva molti altri oracoli che annunciavano interventi divini contro la tracotanza e l'infedeltà di Israele, sposa di YHwH (cfr. Os 2,3-25). Giovanni riprende le stesse immagini e gli stessi generi letterari per rinnovare l'annuncio di un'azione divina contro l'umanità peccatrice. Un ritornello di lamento (vv. 10.16.19), introdotto da un duplice «guai» che esprime compianto e commiserazione, non minaccia. Tale ripetizione permette di individuare tre strofe intonate da cori diversi: prima i re della terra (18,9-10), poi i mercanti della terra (18, |1-17a), infine i marinai (18,17b-20). La prima strofa, più sintetica, presenta gli elementi che si ripeteranno anche nelle altre due: gli spettatori si fermano lontano, piangono e si lamentano, commiserando la sorte della grande città. I re celebrano soprattutto la potenza della città ,qualificata come «forte»; tuttavia è giunto per lei il «giudizio» di condanna e si stupiscono per la sua fine «in un'ora sola». Nonostante l'influsso di Ez 26,16-17, il linguaggio è tipicamente giovanneo. La seconda strofa è molto più ampia e sviluppa, prima del lamento vero e proprio, il motivo del lusso e della ricchezza. Il dolore dei commercianti è dovuto, soprattutto, alla perdita di un ottimo cliente (cfr. Ez 27.36), come lascia intravedere l'elenco abbondantissimo di oggetti commerciali nei vv. 12-13 (cfr. Ez 27,12-25). Al contesto letterario originale del brano di Ezechiele sono dovute le immagini commerciali e marinare, che non hanno un particolare valore simbolico per la situazione a cui fa riferimento l'opera. Il v. 14 identifica nella «bramosia» (o «concupiscenza») la causa di tutti i problemi. L'oggetto del desidero è il lusso e l'abbondanza di cose (cfr. Ez 27,12.13.22.36): perciò il lamento dei mercanti riguarda la ricchezza della città (cfr. 17,4) e sottolinea proprio lo stupore per il fatto che tanta opulenza sia divenuta, all'improvviso, un deserto. Nella terza strofa ritorna la domanda blasfema (cfr. 13,4) che intende collocare la grande città al posto di Dio stesso. Il lamento della gente di mare dipende ancora dal modello biblico (cfr. Ez 27,27-30) e ripete la medesima delusione: nonostante la ricchezza, la città è divenuta un deserto. L'ultimo versetto (v. 20) non appartiene più al lamento dei marinai, ma è privo di inquadramento narrativo: si tratta di un frammento lirico che esce dal precedente schema letterario ed evidenzia la funzione corale interpretativa. Sembra quasi un intervento della stessa comunità liturgica che celebra l'evento in cui Dio ha fatto giustizia. L'invito alla gioia riprende l'inno di vittoria che aveva interrotto la visione della caduta di satana (cfr. 12,12); anche in questo caso personaggi celesti sono invitati a gioire per l'intervento di Dio contro il male.

Il gesto simbolico La presenza di un terzo angelo è indizio strutturale per segnare l'inizio di una nuova breve scena. La composizione è evidente: un altro angelo riprende i motivi precedenti, commentando liricamente un'azione simbolica di carattere profetico. Si tratta, infatti, di un gesto simile a quello ordinato da Geremia a Seraya: leggere il rotolo contenente il poema contro Babilonia e poi gettarlo nell'Eufrate, dicendo: «Così affonderà Babilonia!» (Ger 51,60-64). Al gesto segue una strofa di commento in cui, con abilità letteraria e poetica, l'autore insiste sulla ripetizione (sei volte) della formula «non... più», per evidenziare la conclusione della vita cittadina, caratterizzata da varie relazioni. Le immagini, scelte con cura, sono tratte quasi tutte da carmi profetici (cfr. Is 24,8; Ez 26,13), ma l'idea ispiratrice sembra derivare dalle insistenti immagini con cui Geremia (Ger 7,34; 16,9; 25,10) annunciava l'intenzione divina di far cessare ogni vita nella città di Gerusalemme; originale è il richiamo all'assenza degli artigiani. La fine della città corrotta viene imputata alla «magia», che è deformazione della religione, pretesa illusoria e demoniaca di avere un dominio su Dio. In tal senso Babilonia «si è prostituita», ha deformato la relazione con Dio divenendo, cosi, strumento satanico per ingannare il mondo. L'ultimo versetto non si rivolge più alla città caduta; si tratta piuttosto di una glossa esplicativa, di un intervento interpretativo dell'autore per caratterizzare più fortemente la causa della distruzione e introdurre il tema che segue: l'azione divina, infatti, rappresenta il giudizio sul sangue versato dal potere corrotto (19,2) e si realizza, paradossalmente, proprio nello spargimento del sangue dell'Agnello (cfr. 5,9; 7,14; 19,13).


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