📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

Esortazioni agli schiavi 1Quelli che si trovano sotto il giogo della schiavitù, stimino i loro padroni degni di ogni rispetto, perché non vengano bestemmiati il nome di Dio e la dottrina. 2Quelli invece che hanno padroni credenti, non manchino loro di riguardo, perché sono fratelli, ma li servano ancora meglio, proprio perché quelli che ricevono i loro servizi sono credenti e amati da Dio. Questo devi insegnare e raccomandare.

I falsi maestri 3Se qualcuno insegna diversamente e non segue le sane parole del Signore nostro Gesù Cristo e la dottrina conforme alla vera religiosità, 4è accecato dall’orgoglio, non comprende nulla ed è un maniaco di questioni oziose e discussioni inutili. Da ciò nascono le invidie, i litigi, le maldicenze, i sospetti cattivi, 5i conflitti di uomini corrotti nella mente e privi della verità, che considerano la religione come fonte di guadagno. 6Certo, la religione è un grande guadagno, purché sappiamo accontentarci! 7Infatti non abbiamo portato nulla nel mondo e nulla possiamo portare via. 8Quando dunque abbiamo di che mangiare e di che coprirci, accontentiamoci. 9Quelli invece che vogliono arricchirsi, cadono nella tentazione, nell’inganno di molti desideri insensati e dannosi, che fanno affogare gli uomini nella rovina e nella perdizione. 10L’avidità del denaro infatti è la radice di tutti i mali; presi da questo desiderio, alcuni hanno deviato dalla fede e si sono procurati molti tormenti.

L’uomo di Dio 11Ma tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. 12Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni. 13Davanti a Dio, che dà vita a tutte le cose, e a Gesù Cristo, che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato, 14ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo, 15che al tempo stabilito sarà a noi mostrata da Dio, il beato e unico Sovrano, il Re dei re e Signore dei signori, 16il solo che possiede l’immortalità e abita una luce inaccessibile: nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo. A lui onore e potenza per sempre. Amen.

Il ministro e i ricchi appartenenti alla casa di Dio 17A quelli che sono ricchi in questo mondo ordina di non essere orgogliosi, di non porre la speranza nell’instabilità delle ricchezze, ma in Dio, che tutto ci dà con abbondanza perché possiamo goderne. 18Facciano del bene, si arricchiscano di opere buone, siano pronti a dare e a condividere: 19così si metteranno da parte un buon capitale per il futuro, per acquistarsi la vita vera.

Esortazione conclusiva 20O Timòteo, custodisci ciò che ti è stato affidato; evita le chiacchiere vuote e perverse e le obiezioni della falsa scienza. 21Taluni, per averla seguita, hanno deviato dalla fede. La grazia sia con voi!

Approfondimenti

(cf LETTERE A TIMOTEO – Introduzione, traduzione e commento a cura di CARMELO PELLEGRINO © EDIZIONI SAN PAOLO, 2011)

Esortazioni agli schiavi L’autore presenta due ingiunzioni parallele: agli schiavi in generale (6,1) e poi, in particolare, a quelli che hanno padroni cristiani (6,2), ma in entrambe l’indicazione è proprio quella di rendere ai padroni l’onore appro­priato.

I falsi maestri Sono tre le principali accuse che vengono mosse a chi propu­gna il falso insegnamento: orgoglio, ignoranza e faziosità. L’eretico è presentato anzitutto come un pallone gonfiato (6,4; cfr. 1Cor 4,6-18.19), la cui accecante superbia ricorda quella dei maestri saccenti che avevano causato divisioni nella comunità di Corinto. La seconda accusa (6,4) evidenzia una contraddizione nel comportamento: il falso maestro non sa proprio nulla, eppure si avventura in questioni oziose e in vere e proprie battaglie verbali con altri; ricorda, perciò, i sedicenti dottori della Legge di 1,6-7 che non capiscono quello che dicono né ciò di cui sono tanto sicuri. Per indicare l’ultima delle tre distorsioni, l’autore recupera la metafora della salute (6,4; cfr. 1,10): rifiutando le «sane» parole del Signore Gesù l’eretico «è malato» di vaniloquio e cade in sterili contese.

L’uomo di Dio Dopo aver proferito la censura ai falsi maestri, l’autore passa a esortare Timoteo. Con il primo imperativo si ingiunge a Timoteo di evitare «le cose» cattive appena menzionate. Con altri tre comandi gli si prescrive una linea di condotta. Il primo di questi tre ulteriori imperativi riguarda il perseguimento di sei qualità morali (6,11). Sono diversi i modi in cui si potrebbero leggere, ma è preferibile vederli come binomi: la «giustizia» rimanda al concetto di «pietà», la fede va in coppia con l'amore (cfr. 1,5), di cui la pazienza e la mitezza rappresentano degli aspetti particolari (cfr. 2Tm 2,25; 3,10; Tt 3,2). Con il secondo imperativo si esorta al buon combattimento della fede (6,12a), mentre con il terzo al perseguimento della vita eterna (6,12b). C’è una connotazione ministeriale: l’autore applica a Timoteo il sintagma «uomo di Dio» (6,11) che nell’AT qualificava diversi perso­naggi, per lo più leader del popolo e profeti; frequentemente veniva applicato a Mosè. Questa espressione tornerà in 2Tm 3,17. In 6,15-16 il discorso confluisce in una dossologia contenente sette frasi che designano Dio. Alcuni titoli e qualifiche che affiorano qui gli sono stati già riferititi nel c. 1, soprattutto nella dossologia di 1,17 («Re», «unico», «eterno», «invisibile»; cfr. anche «beato» in 1,11). Si rafforza così l’in­clusione tra inizio e fine della lettera. Invece, il titolo «Signore» è attribuito a Dio solo in 6,15, mentre in 1,2 era applicato a Cristo; analogamente i titoli «Re dei re» e «Signore dei signori» sono riferiti qui a Dio, ma altrove (Ap 17,14 e 19,16) descrivono Cristo. Alcuni di questi titoli venivano attribuiti agli imperatori e a figure eroiche; menzionando l’immortalità, però, l’autore chiarisce la differenza assoluta che sussiste tra i dominatori terreni e l’unico Sovrano eterno, definito già in 1,17 «incorruttibile». Nell’AT la «luce inaccessibile» indica la sfera del divino (Es 33,17-23); le teofanie e le epifanie bibliche sono sovente accompagnate da fulgore splendido e fenomeni simili. Pure nel NT Dio è definito «luce» senza tenebre (1Gv 1,7). L’impossibilità umana di vedere Dio, fortemente enfatizzata in 1Tm 6,16 con ben due espressioni, è concetto tipicamente biblico (Es 33,20; Gv 1,18), peraltro già enunciato in 1,17. La dossologia del c. 1 è evocata anche dall’attribuzione a Dio dell’«onore», per la sua estensione eterna e per la chiosa di sapore liturgico (cfr. 2Tm 4,18); in 6,16, però, il secondo termine non è «gloria» (come in 1,17) bensì «potenza».

Il ministro e i ricchi appartenenti alla casa di Dio Il riferimento all’attaccamento al denaro dei ministri eretici (6,5b-10) induce l’autore a fornire alcune istruzioni ai ricchi che fanno parte della «casa di Dio». L’autore si è accorto che, nel descrivere il peccato dei falsi maestri, ha enfatizzato l’aspetto negativo della ricchezza. Ritiene quindi di doverne precisare l’uso buono, a cui aveva alluso evocando il valore del sapersi accontentare con semplicità di spirito (6,6). Il discorso si allarga, pertanto, a tutti i membri delle comunità. È evidente che tra i cristiani dei primordi non dovevano mancare indi­vidui facoltosi. La brevità dell’istruzione suggerisce che queste indicazioni siano già note, per cui all’autore basta richiamarle in termini generali. La ricchezza come tale non viene messa in discussione, né si pone la questione del motivo per cui, nel mondo, alcune persone siano ricche e altre povere. Piuttosto, dopo aver bollato l’attaccamento al denaro come la «radice di tutti i mali» (6,10), si esorta il ministro a rammentare ai cristiani benestanti di essere pronti a dare (6,18). Nello sviluppo del pensiero cristiano, questa verrà identificata come la funzione sociale della proprietà. Anche in tal caso, non si tratta di sovvertire realtà in sé legittime e anzi naturali, ma di umanizzarle ed emendarle da elementi corruttivi. Per chi si affida a Lui, il Signore non dà solo il necessario, ma elargisce in sovrappiù, sia per la terra sia per il cielo. Chi spera in Lui, oltre a beneficiare della sopravvivenza, sperimenta la gioia di usufruire «con abbondanza» dei beni terreni (6,17) e ottiene l’acquisto della vita eterna (6,19). All’orizzonte si stagliano due distorsioni già incontrate nella lettera: da un lato, l’ascetismo che vorrebbe vietare il godimento dei doni di Dio (4,3-5); dall’altro, l’uso immorale dei beni, radicato nell’autosufficienza cattiva che esclude Dio e nella smania da accumulo (6,3-10). A tali deviazioni l’autore oppone il modello positivo: il cristiano facol­toso si impegnerà a condividere generosamente i propri beni, abbondando a sua volta in opere buone.

Esortazione conclusiva Questa esortazione completa l’inclusione con il c. 1 e sintetizza le ingiunzioni, positive e negative, formulate dall’autore nell’intero corpo della lettera. Della sezione 1,18-20 si evoca anche il problema generale del combattimento della fede a favore della verità e a impedimento delle eresie, il «deposito» che Ti­moteo deve custodire è, infatti, ciò che gli è stato affidato, ossia il Vangelo, l’intera predicazione apostolica nella sua autenticità. Rispetto a 1,18, qui viene aggiunta la sfumatura dell’invito alla perseveranza, come è da attendersi nelle fasi conclusive di uno scritto. La conclusione dello scritto è breve e priva di saluti o messaggi da o per de­ terminate persone, come avviene invece negli altri testi paolini, a eccezione della lettera ai Galati dove però tale assenza è motivata dal contesto polemico.


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1Non rimproverare duramente un anziano, ma esortalo come fosse tuo padre, i più giovani come fratelli, 2le donne anziane come madri e le più giovani come sorelle, in tutta purezza. 3Onora le vedove, quelle che sono veramente vedove; 4ma se una vedova ha figli o nipoti, essi imparino prima ad adempiere i loro doveri verso quelli della propria famiglia e a contraccambiare i loro genitori: questa infatti è cosa gradita a Dio. 5Colei che è veramente vedova ed è rimasta sola, ha messo la speranza in Dio e si consacra all’orazione e alla preghiera giorno e notte; 6al contrario, quella che si abbandona ai piaceri, anche se vive, è già morta. 7Raccomanda queste cose, perché siano irreprensibili. 8Se poi qualcuno non si prende cura dei suoi cari, soprattutto di quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele. 9Una vedova sia iscritta nel catalogo delle vedove quando abbia non meno di sessant’anni, sia moglie di un solo uomo, 10sia conosciuta per le sue opere buone: abbia cioè allevato figli, praticato l’ospitalità, lavato i piedi ai santi, sia venuta in soccorso agli afflitti, abbia esercitato ogni opera di bene. 11Le vedove più giovani non accettarle, perché, quando vogliono sposarsi di nuovo, abbandonano Cristo 12e si attirano così un giudizio di condanna, perché infedeli al loro primo impegno. 13Inoltre, non avendo nulla da fare, si abituano a girare qua e là per le case e sono non soltanto oziose, ma pettegole e curiose, parlando di ciò che non conviene. 14Desidero quindi che le più giovani si risposino, abbiano figli, governino la loro casa, per non dare ai vostri avversari alcun motivo di biasimo. 15Alcune infatti si sono già perse dietro a Satana. 16Se qualche donna credente ha con sé delle vedove, provveda lei a loro, e il peso non ricada sulla Chiesa, perché questa possa venire incontro a quelle che sono veramente vedove. 17I presbìteri che esercitano bene la presidenza siano considerati meritevoli di un duplice riconoscimento, soprattutto quelli che si affaticano nella predicazione e nell’insegnamento. 18Dice infatti la Scrittura: Non metterai la museruola al bue che trebbia, e: Chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. 19Non accettare accuse contro un presbìtero se non vi sono due o tre testimoni. 20Quelli poi che risultano colpevoli, rimproverali alla presenza di tutti, perché anche gli altri abbiano timore. 21Ti scongiuro davanti a Dio, a Cristo Gesù e agli angeli eletti, di osservare queste norme con imparzialità e di non fare mai nulla per favorire qualcuno. 22Non aver fretta di imporre le mani ad alcuno, per non farti complice dei peccati altrui. Consèrvati puro! 23Non bere soltanto acqua, ma bevi un po’ di vino, a causa dello stomaco e dei tuoi frequenti disturbi. 24I peccati di alcuni si manifestano prima del giudizio, e di altri dopo; 25così anche le opere buone vengono alla luce, e quelle che non lo sono non possono rimanere nascoste.


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Gli inganni degli eretici e indicazioni per il buon ministro 1Lo Spirito dice apertamente che negli ultimi tempi alcuni si allontaneranno dalla fede, dando retta a spiriti ingannatori e a dottrine diaboliche, 2a causa dell’ipocrisia di impostori, già bollati a fuoco nella loro coscienza: 3gente che vieta il matrimonio e impone di astenersi da alcuni cibi, che Dio ha creato perché i fedeli, e quanti conoscono la verità, li mangino rendendo grazie. 4Infatti ogni creazione di Dio è buona e nulla va rifiutato, se lo si prende con animo grato, 5perché esso viene reso santo dalla parola di Dio e dalla preghiera. 6Proponendo queste cose ai fratelli, sarai un buon ministro di Cristo Gesù, nutrito dalle parole della fede e della buona dottrina che hai seguito. 7Evita invece le favole profane, roba da vecchie donnicciole.

L'allenamento nella vera fede Allénati nella vera fede, 8perché l’esercizio fisico è utile a poco, mentre la vera fede è utile a tutto, portando con sé la promessa della vita presente e di quella futura. 9Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti. 10Per questo infatti noi ci affatichiamo e combattiamo, perché abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente, che è il salvatore di tutti gli uomini, ma soprattutto di quelli che credono. 11E tu prescrivi queste cose e inségnale.

Diventare esempio ai fedeli 12Nessuno disprezzi la tua giovane età, ma sii di esempio ai fedeli nel parlare, nel comportamento, nella carità, nella fede, nella purezza. 13In attesa del mio arrivo, dèdicati alla lettura, all’esortazione e all’insegnamento. 14Non trascurare il dono che è in te e che ti è stato conferito, mediante una parola profetica, con l’imposizione delle mani da parte dei presbìteri. 15Abbi cura di queste cose, dèdicati ad esse interamente, perché tutti vedano il tuo progresso. 16Vigila su te stesso e sul tuo insegnamento e sii perseverante: così facendo, salverai te stesso e quelli che ti ascoltano.

Approfondimenti

(cf LETTERE A TIMOTEO – Introduzione, traduzione e commento a cura di CARMELO PELLEGRINO © EDIZIONI SAN PAOLO, 2011)

Gli inganni degli eretici e indicazioni per il buon ministro Si presenta subito una duplice contrapposizione interna:

a) tra lo Spirito Santo, da cui promana la profezia, e gli «spiriti» ingannatori (4,1); b) tra le azioni suggerite da questi spiriti che sono «menzogneri» e quelle di coloro che conoscono la «verità» (4,3).

La profezia sembra evocare le parole di Gesù (Mt 24,10; Mc 4,17; 13,21-23), ma non fa direttamente riferimento al suo insegnamento. L’annunciatore di essa forse è proprio Paolo, sulla scia di quanto narrato in At 20,29-31, o qualcun altro dei profeti cristiani, il cui ruolo era assai rilevante nelle comunità dei primordi. In Ef 3,1-5 si asserisce che il «mistero» di Cristo è stato ora rivelato «per mezzo dello Spirito» proprio agli apostoli e ai profeti, considerati il fondamento della Chiesa (Ef 2,20). Ciò che soprattutto conta in 1Tm 4,1 è che la profezia, pur guardando al futuro, sembra già pienamente attiva nell’oggi di chi scrive. Già in 1,3b-4a, l’autore aveva presentato gli artefici e le vittime dell’in­segnamento falso; inoltre, in 1,5 aveva rimarcato che l’obiettivo della carità può essere raggiunto attraverso una fede «sincera», «non ipocrita». Proprio la menzo­gna e l’ipocrisia caratterizzano nuovamente gli eretici in 4,1-3: il loro eloquio ha una parvenza di verità ma, in realtà, è in profonda contraddizione con essa (4,3); la loro condotta è quella di chi ha ormai anestetizzato la coscienza. Come in 2,14 (cfr. 3,6), anche qui l'origine dell’inganno è diabolica. Già in 2Cor 11,14 Paolo mette in guardia dal diavolo, cioè da colui che è capace di mascherarsi da «angelo di luce», qualificato in Gv 8,44 come il «padre della menzogna». Nel v. 3 si precisa il contenuto degli insegnamenti deviati: l’astensione dal matrimonio e, quindi, da ogni attività sessuale, oltre che da alcuni cibi. Per sostenere il suo pensiero, in 4,3 l’autore evoca il libro della Genesi, laddove si afferma che il cibo è stato creato per il nutrimento dell’uomo (Gen 1,29; 2,9.16; 3,2; 9,3; cfr. anche Dt 26,11). Le ricorrenti allusioni alla Genesi si spiegano anche per l’uso strumentale che gli eretici ne facevano (cfr. 1,4; 2,15). Diversamente da quanto essi insegnano, a Dio piace la partecipazione dei credenti al cibo che Egli stesso ha procu­rato, venendo così incontro alle loro esigenze. Il soddisfacimento di tali esigenze deve poi generare il loro rendimento di grazie, che attinge certamente alla pratica giudaica di ringraziare Dio al momento dei pasti (cfr. anche Rm 14,6; 1Cor 10,16.30). I cibi possono essere quindi consumati perché sono stati creati da Dio. Ma un’ulteriore motivazione affiora in 4,5: nessun cibo è impuro, e quindi nessun cibo è da rigettarsi, perché esso è santificato e reso commestibile dalla parola di Dio e dalla preghiera. II brano si conclude con una duplice esortazione: in senso positivo, si invita Timoteo a proporre i corretti insegnamenti sul matrimonio e sui cibi ai «fratelli» (4,6), cioè ai membri della Chiesa minacciati dall’eresia; in prospettiva negativa, invece, gli si ingiunge di rigettare le dottrine degli oppositori (4,7a; cfr. già 4,1). Ciò renderà manifesto che Timoteo è un «buon» servo di Cristo Gesù, cioè nutrito del «buon» insegnamento, qui qualificato con due espressioni sinonimiche che fanno riferimento alla sua permanente formazione spirituale (4,6b). La bontà del ministro di Cristo, pertanto, è misurata dalla bontà di ciò che egli continuamente impara e insegna. La sua «buona dottrina» richiama il «buon deposito» (2Tm 1,14) e si contrappone all’insegnamento cattivo. La conclusione del brano è un invito a Timoteo perché non perda il suo tempo in sciocchezze, per dedicarsi invece a ciò che merita applicazione.

L'allenamento nella vera fede Ciò a cui Timoteo deve piuttosto applicarsi è la “pietà”. Si entra così in un secon­do brano, incentrato sulla metafora dell’esercizio fisico, che succede alla metafora del nutrimento (4,6). Il fatto che la salvezza sia un dono non esclude, anzi implica, lo sforzo spirituale: al dono segue il compi­to di dedicarsi alla fede e alla morale. L’autore spiega l’esortazione all’allenamento spirituale con un’espressione proverbiale: siccome «l’esercizio fisico è utile a poco», occorre piuttosto dedicarsi a ciò che è utile a tutto, cioè alla condotta virtuosa. Non si tratta di mettere in pratica particolari misure ascetiche – il cui uso eterodosso è stato seccamente rigettato in 4,3 – ma di impegnarsi nella conoscenza del Vangelo e nel comportamento conseguente, controllando le proprie tendenze cattive. Questa disciplina porta con sé la salvezza, per cui essa è utile «a tutto», cioè all’intero snodarsi della «vita» cristiana, sia presente che futura: Dio è il «vivente» (4,10), per cui è in grado di offrire garanzie sulla vera «vita», già su questa terra e per l’eternità. Tale convinzione motiva l’impegno generoso dei ministri. In 4,10, il binomio di verbi «combattere» e «affaticarsi», presente anche in Col 1,29, reitera la metafora atletica inaugurata in 4,7b ed evidenzia la sfumatura missionaria e universale del brano: l’autore intende incoraggiare Timoteo e i leader delle comunità a lavorare con zelo perché il Dio della loro speranza è colui che vuole tutti salvi. Tuttavia, solo quelli che crederanno saranno effettivamente salvati; pertanto, è necessaria l’assidua fatica dei ministri, strumento attraverso cui essi svolgono la funzione di santificazione dei fedeli, conducendoli alla salvezza.

Diventare esempio ai fedeli Timoteo deve governare, santificare e istruire i membri della Chiesa benché la sua gio­ vaneetà, certamente inferiore ai quarant’anni, potrebbe screditarlo dinanzi agli altri fedeli. È una situazione inconsueta e divergente rispetto alle buone norme dei tempi, in cui non era contemplato che persone giovani potessero esercitare autorità su anziani. Tale istantanea sembra cogliere il momento in cui, nella Chiesa dei primordi, il sistema degli «anziani» stava per essere rimpiazzato dal sistema episcopale e il riconoscimento di autorità basato sull’età veniva progressivamente sostituito da quello radicato nella scelta di matrice apostolica. Nel giovane Timoteo, l’adempimento di questo imbarazzante compito avreb­be potuto provocare riluttanza; d’altro canto, tra i fedeli si sarebbero potute avere reazioni di disprezzo e derisione. Per questo, il nostro autore incoraggia l’uno e, implicitamente, ammonisce gli altri. Qualcosa di analogo si riscontra in 1 Corinzi, laddove Paolo invita i cristiani di Corinto a non mancare di riguardo a Timoteo (16,10-11). Qui però l’incoraggiamento a non lasciarsi intimidire è ac­compagnato dall’invito a guadagnarsi la stima dei fedeli attraverso l’esempio.

Le principali virtù che l’autore ha finora caldeggiato tornano in questa esor­tazione: anzitutto, Timoteo dovrà esercitare la «carità», che sovente compare quale primario riferimento di condotta, in connessione con la «fede» (cfr. 1,5). La vera novità di questo brano è l’invito alla «purezza», qui elemento di raccordo e di sintesi tra la «carità» e la «fede», che rende Timoteo causa di «santificazione», specialmente per l’esemplarità della condotta casta. Un’ana­loga indicazione tornerà in 5,2, in riferimento al comportamento da adottare con le donne «più giovani», e in 5,22, sempre sotto forma di invito rivolto a Timoteo. Il requisito della «purezza» lascia intravedere un collegamento tra il ministro di Cristo e le figure sacerdotali dell’AT. La purezza rituale era una via maestra attraverso cui il levita custodiva se stesso nell’appartenenza a Dio. I ministri di Cristo non riproducono la separazione giudaica, che allontanava i sacerdoti dal popolo, per farli essere esclusivamente proprietà di Dio, poiché essi sono vicini alle membra del corpo di Cristo. Tuttavia, i frequenti riferi­menti alla purezza ribadiscono l’importanza di custodirsi da contaminazioni morali, cristianizzando il concetto anticotestamentario di sacerdozio. Ciò che nell’AT era soprattutto purezza rituale esteriore, in 1 Timoteo diventa pulizia interiore, morale, distanza dalle macchie peccaminose di impurità che sovente Paolo elenca e denuncia.

Timoteo viene invitato dall’au­tore alla lettura, all’esortazione e all’insegnamento «fino al mio arrivo» (4,13). Dall’espressione si deduce che proprio queste sarebbero state le attività a cui si sarebbe dedicato Paolo se fosse stato presente; inoltre, si sottintende la persistenza dell’autorità paolina anche in mancanza dell’Apostolo. Il riferimento è, anzitutto, alla «lettura» pubblica della Legge e dei Profeti (At 13,15; 2Cor 3,14), mutuata dalla sinagoga; ma pure le lettere di Paolo e gli scritti apostolici dovevano già rientrare tra i testi letti in assemblea (1Ts 5,27; Col 4,16; cfr. Ap 1,3). Con questo invito l’autore caldeggia la fruizione regolare dei testi, più che l’abilità nel maneggiarli. Proprio tale fruizione, da parte di Timoteo, costituisce la base per le altre due attività (cfr. Rm 12,7), riguardanti rispettiva­ mente la condotta morale e la retta fede. Infatti, l’autore raccomanda la pubblica «esortazione», che ha di mira lo stile di vita degli ascoltatori: con l’esposizione dei testi, i destinatari del ministero di Timoteo potranno richiamare alla memoria i comandamenti divini e saranno da lui incoraggiati alla loro osservanza. Inoltre, l’autore raccomanda al discepolo l’«insegnamento», cioè la diffusione della sana dottrina, con cui egli si opporrà alle falsità degli eretici.

Il dono che Timoteo non dovrà trascurare (4,14) ha a che fare con l’azione dello Spirito Santo, concesso a tutti i credenti (Tt 3,5), ma particolar­mente attivo nel ministro proprio tramite uno specifico carisma (2Tm 1,6-7.14), funzionale alla sua missione. Il conferimento di tale dono è associato con una particolare circostanza pub­blica, quella che verrà codificata nel rito di ordinazione, qui caratterizzata da due attività: anzitutto, una parola profetica che ha indicato in Timoteo il destinatario di tale dono (cfr. 1,18); quindi, l’imposizione delle mani, con cui nell’AT si accompagnava la trasmissione dell’autorità o l’elargizione di benedizioni e guarigioni (Nm 27,18-23; Dt 34,9). Anche nel NT questo gesto indica una be­nedizione (Mc 10,16), accompagna l’atto di guarire qualcuno (Mc 5,23; 6,5) o il conferimento di autorità in vista di una missione (At 6,6; 13,3); viene usato, inoltre, per comunicare il dono dello Spirito (At 8,17-19; 19,6). In 1Tm 4,13 l’azione fisica va intesa come semplice occasione esteriore esprimente l’azione interiore compiuta da Dio; più stringente ed essenziale sembra essere il senso strumentale dell’azione di Paolo, indicata nel brano di 2 Timoteo.

Al termine, l’autore rimarca la necessità di ren­dere visibile a tutti il proprio «progresso» spirituale e aumentare l’effetto positivo della propria influenza pastorale. Per ottenere questo obiettivo, però, sarà anche necessario vigilare su se stessi e sul proprio insegnamento, sforzandosi di perse­verare nell’osservanza delle cose caldeggiate dall’Apostolo. Solo così Timoteo raggiungerà lo scopo ultimo del suo ministero: la salvezza per sé (2,15; cfr. Fil 2,12) e per gli altri: la negligenza pasto­rale di Timoteo potrà infatti causare la perdizione sua e di coloro ai quali egli è stato mandato!


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Il vescovo 1Questa parola è degna di fede: se uno aspira all’episcopato, desidera un nobile lavoro. 2Bisogna dunque che il vescovo sia irreprensibile, marito di una sola donna, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, 3non dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro. 4Sappia guidare bene la propria famiglia e abbia figli sottomessi e rispettosi, 5perché, se uno non sa guidare la propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio? 6Inoltre non sia un convertito da poco tempo, perché, accecato dall’orgoglio, non cada nella stessa condanna del diavolo. 7È necessario che egli goda buona stima presso quelli che sono fuori della comunità, per non cadere in discredito e nelle insidie del demonio.

I diaconi 8Allo stesso modo i diaconi siano persone degne e sincere nel parlare, moderati nell’uso del vino e non avidi di guadagni disonesti, 9e conservino il mistero della fede in una coscienza pura. 10Perciò siano prima sottoposti a una prova e poi, se trovati irreprensibili, siano ammessi al loro servizio. 11Allo stesso modo le donne siano persone degne, non maldicenti, sobrie, fedeli in tutto. 12I diaconi siano mariti di una sola donna e capaci di guidare bene i figli e le proprie famiglie. 13Coloro infatti che avranno esercitato bene il loro ministero, si acquisteranno un grado degno di onore e un grande coraggio nella fede in Cristo Gesù.

Come comportarsi nella casa di Dio 14Ti scrivo tutto questo nella speranza di venire presto da te; 15ma se dovessi tardare, voglio che tu sappia come comportarti nella casa di Dio, che è la Chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della verità. 16Non vi è alcun dubbio che grande è il mistero della vera religiosità: egli fu manifestato in carne umana e riconosciuto giusto nello Spirito, fu visto dagli angeli e annunciato fra le genti, fu creduto nel mondo ed elevato nella gloria.

Approfondimenti

(cf LETTERE A TIMOTEO – Introduzione, traduzione e commento a cura di CARMELO PELLEGRINO © EDIZIONI SAN PAOLO, 2011)

Benché sembri che questa sezione non abbia connessione con ciò che precede, una lettura globale dei cc. 2-3 consente di notare che l’autore sta parlando dell’ordinamento nella Chiesa. Per questo, dopo il riferimento alle norme di con­dotta delle donne (2,9-15), con le quali ha evocato l’insegnamento eretico, passa a elencare i requisiti di un buon vescovo (3,1-7), cioè proprio di colui che deve vigilare sulla sana dottrina, e poi dei diaconi (3,8-13).

Il vescovo La fase che viene illustrata nelle Pastorali è di transizione verso un consolidamento istituzionale. L’organizzazione nei primordi era piuttosto informale; l’insorgere delle eresie impose successivamente un processo di istituzionalizzazione in cui furono stabiliti pastori con l’incarico di insegnare e preservare fedelmente la sana dottrina. Le tre lettere Pastorali illustrano le fasi cruciali di tale processo: in esse al vescovo viene riconosciuta una funzione di vigilanza, di governo spirituale o di presidenza nella Chiesa locale. Il suo ruolo è ancora in evoluzione rispetto a quello attestato successivamente negli scritti di Ignazio di Antiochia (ca. 110 d.C.), ma presenta già i tratti che poi contribuiranno a definire l’identità del vescovo pastore di una diocesi.

Perché la testimonianza cristiana sia efficace è necessario che il pastore cristiano goda di buona fama all’esterno della comunità: perciò, il primo aggettivo che qualifica il vescovo è «irreprensibile». Una condotta visibil­mente ineccepibile vale come argomento indiretto di persuasione nei confronti dei non battezzati. Segue poi una lunga serie di virtù sociali, con cui l’autore intende insistere su due aspetti: l’importanza della maturità umana per lo svolgimento del ministero; il fatto che il governo delle comunità deve essere ben condotto: per questo, esige persone di alta moralità. Nei vv. 4-5 l’autore offre un criterio: può guidare la comu­nità chi, essendo sposato, ha dimostrato di saper dirigere la propria famiglia, cioè il nucleo domestico che, nel mondo antico, comprendeva sia i figli sia gli schiavi. Si sta introducendo l’idea della Chiesa come «casa di Dio» che sarà esposta in 3,15. I vv. 6-7 contengono gli ultimi due requisiti; sono tenuti insieme dal duplice riferimento al «diavolo» e dalla stessa struttura della frase: entrambi i versetti, infatti, presentano un requisito che viene poi spiegato con una finalità, in cui compare il verbo «cadere». Anzitutto, il vescovo non deve essere un neo-convertito: chi non ha ancora dato buona prova di sé nella fede (cfr. 3,10) corre il rischio di infatuarsi del potere, inorgogliendosi; proprio questo vizio viene attribuito agli eretici in 6,4, dove ha a che fare con il loro falso insegnamento. Tale difetto fa cadere nello stesso giudizio di condanna che il diavolo riceve da Dio (Mt 25,41) e nel conseguente castigo. L’elenco di requisiti del buon vescovo, infine, culmina nell’ultima qualità, già anticipata indirettamente nel v. 2 («irreprensibile»): è necessario che egli riceva buona testimonianza da «quelli di fuori», cioè dai non cristiani. La stima goduta all’esterno è misurata sulla base dei pregi elencati in 3,2b-5. La caduta su una o più di queste qualità crea l’occasione perché il vescovo perda credibilità, elemento indispensabile al suo ministero, a motivo della portata universale della missione della Chiesa (2,1-6; 4,9-11). Tale discredito lo espone infatti all’influsso del diavolo, che per antonomasia è l’«accusatore» (Ap 12,10), il principale deva­statore della buona fama e promotore della pubblica condanna. Le qualità dei vv. 6-7, quindi, fanno da sintesi: all’interno della comunità, il vescovo dovrà essere di provata virtù; all’esterno, dovrà godere della stima suscitata da una condotta notoriamente ineccepibile. Il test per esaminare l’irreprensibilità del candidato a ogni livello sarà costituito dal vaglio dell’intera gamma di questi requisiti.

I diaconi Conformemente alla sequenza attestata in Fil 1,1, dopo il vescovo, l’autore cita i diaconi. L’ordine della menzione e la maggiore brevità rispetto alla trattazione del vescovo, inducono ad attribuire ai diaconi un ruolo subordinato. Già nel giudaismo il capo della sinagoga era coadiuvato da un uomo che svolgeva mansioni di servizio. Questa suddivisione di incarichi fu mutuata dalla Chiesa, in cui probabilmente il vescovo sovrintendeva alle varie comunità che si riunivano nelle case private, mentre il diacono svolgeva la mansione di suo assistente in una particolare comunità. Come per il vescovo, l’autore non si attarda a spiegare la funzione svolta dai diaconi, ma descrive le doti che essi devono possedere. I diaconi devono essere fondamentalmente «dignitosi» (v. 8; cfr. 3,4), cioè godere di quella rispettabilità che l’autore auspicava per tutti i cristiani (2,2) e che ha un’origine divina. Ciò significa che non devono essere insinceri – dicendo una cosa e pensandone un’al­tra, oppure riferendo una cosa a qualcuno e un’altra cosa a un’altra persona – ma moderati nel bere vino e nemici del guadagno disonesto (cfr. 3,3). Quest’ultimo monito rimarca la responsabilità di trasparente amministrazione dei ministri che, come rilevato, doveva essere un’urgenza diffusa nella Chiesa dei primordi (cfr. 1Pt 5,2), a giudicare dagli abusi dei falsi maestri (1Tm 6,5-10; Tt 1,11). Pure i diaconi possono convolare a nozze una sola volta (cfr. 3,2). Se sposati, anch’essi devono anzitutto guidare bene la propria famiglia (cfr. 3,4-5). L’autore sottintende la medesima analogia riferita al vescovo: avendo governato in modo adeguato la propria casa, i diaconi sapranno dirigere con saggezza anche la comunità ec­clesiale. Pertanto, doveva essere loro riconosciuta una certa autorità, per lo più in riferimento all’annuncio del Vangelo e all’assistenza dei poveri. Per questo era necessario che anche i diaconi fossero persone di provata virtù. E quanto viene espresso nel v. 10, facendo eco alla proibizione di scegliere come vescovo un «neofita» (v. 6). Lo stile dell’autore qui si fa più impersonale e solenne rispetto alla trattazione sul vescovo; così sarà anche nel v. 12, dopo la parentesi sulle “diaconesse”. La prova a cui l’eventuale diacono sarà sottoposto ne deve verificare l’«irreprensibilità», cioè la sua idoneità a entrambi i livelli di fede e di morale. La griglia valoriale di riferimento per esaminarlo è costituita dai requisiti dei vv. 8-12, come già rilevato per il vescovo. I diaconi devono inoltre custodire il «mistero della fede» (v. 9) – cioè il sano insegnamento, il cui contenuto verrà spiegato in 3,14-16 – dalle perversioni ere­tiche, in una «coscienza pura». L’accento della frase cade proprio su quest’ultima espressione, peraltro evocata già in 1,5, sempre in connessione con la «fede». La coscienza del diacono è «pura» se egli esercita una condotta coerente al credo che professa, nella coniugazione di ortodossia e ortoprassi.

Dopo l’avvio (3,8-10) la trattazione sui diaconi viene interrotta dai requisiti delle «donne» (3,11), su cui l’autore si era già soffer­mato a lungo in 2,9-15, per poi proseguire subito dopo (3,12-14). Questo singolare filo logico, in ragione anche della lista seguente dei requisiti, induce a riconoscere in queste figure femminili il ruolo delle “diaconesse”, attestato esplicitamente in Rm 16,1. Nella Chiesa primitiva esse svolgevano, presso le donne credenti, mansioni di servizio precluse agli uomini, quali l’assistenza delle catecumene che dovevano immergersi nell’acqua battesimale. La breve menzione loro riservata fa notare la limitatezza del ruolo rispetto ai colleghi uomini. Tuttavia, le qualità delle “diaconesse” richiamano quanto emerso nei precedenti elenchi. Anche loro dovranno essere anzitutto «dignitose» (cfr. 3,8; anche 3,2): tale fondamentale attributo viene spiegato dai requisiti specifici della veridicità e della sobrietà (cfr. 3,8). Infine, mentre ai diaconi viene notificata la custodia del «mistero della fede», che si attua soprattutto con l’insegnamento, le loro colleghe donne sono piuttosto esortate all’esercizio della virtù corrispettiva: dovranno essere «fedeli in tutto», fedeli e affidabili in ogni aspetto della vita concreta.

Come comportarsi nella casa di Dio L’autore spiega il motivo per cui sta scrivendo «queste cose»: comunicare al discepolo l'ordinamento della Chiesa. Per definire la Chiesa, qui e in 2Tm 2,19-21, si impiega la metafora della «casa», istituzione all’epoca fortemente segnata dalla concezione patriarcale. Lo scopo di questa metafora è quello di affermare che la Chiesa è la dimora divina e che i suoi componenti sono in un rapporto familiare tra loro e con Dio. La permanenza del Dio vivo impone ai frequentatori della «casa» una condotta conseguente. I suoi membri hanno una duplice responsabilità: essi sono chiamati a un comportamento adeguato e allo sforzo missionario volto a difendere tale verità dagli attacchi degli eretici. Proprio il contenuto di tale verità evangelica viene suc­cintamente ripercorso nel v. 16. La verità evangelica, già definita «mistero della fede» (v. 9), viene ora descritta come «mistero della pietà». In ultima analisi, tale «mistero» – cioè, questa realtà nascosta, ora rivelata da Dio – si identifica con Cristo. Ma l’espressione è qui specificata dal concetto di «pietà», che indica l’intera esistenza cristiana, specchio fedele, nella pratica, della conoscenza di Dio. Possiamo individuare un generico ordine cronologico di questa confes­sione di fede: incarnazione (il cui riferimento è inclusivo di un rimando implicito alla pre-esistenza e alla morte di Cristo), risurrezione di Cristo, manifestazione della signoria di Cristo sulle creature angeliche, Cristo annunciato e creduto uni­versalmente, Cristo esaltato nella gloria.


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Preghiera ecclesiale, preghiera universale 1Raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, 2per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio. 3Questa è cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, 4il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità. 5Uno solo, infatti, è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, 6che ha dato se stesso in riscatto per tutti. Questa testimonianza egli l’ha data nei tempi stabiliti, 7e di essa io sono stato fatto messaggero e apostolo – dico la verità, non mentisco –, maestro dei pagani nella fede e nella verità.

Uomini e donne nella preghiera comunitaria 8Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo mani pure, senza collera e senza polemiche. 9Allo stesso modo le donne, vestite decorosamente, si adornino con pudore e riservatezza, non con trecce e ornamenti d’oro, perle o vesti sontuose, 10ma, come conviene a donne che onorano Dio, con opere buone. 11La donna impari in silenzio, in piena sottomissione. 12Non permetto alla donna di insegnare né di dominare sull’uomo; rimanga piuttosto in atteggiamento tranquillo. 13Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; 14e non Adamo fu ingannato, ma chi si rese colpevole di trasgressione fu la donna, che si lasciò sedurre. 15Ora lei sarà salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con saggezza.

Approfondimenti

(cf LETTERE A TIMOTEO – Introduzione, traduzione e commento a cura di CARMELO PELLEGRINO © EDIZIONI SAN PAOLO, 2011)

Preghiera ecclesiale, preghiera universale Si raccomanda la preghiera per tut­ti, motivandola con l’universale volontà salvifica di Dio che si è resa manifesta nell’auto-donazione di Cristo e ha raggiunto i pagani grazie all’annuncio di Paolo, primo fruitore di tale benevolenza (cfr. 1,16). Secondo l'autore della lettera il primo mezzo per combattere l’eresia è la preghiera della Chiesa.

Il brano è segnato fin dall’inizio da un’evidente nota di totalità e universalismo. I quattro termini che descrivono la preghiera in questo brano vogliono significare ogni possibile forma di petizione e hanno come beneficiari «tutti gli uomini». Con questa precisazione si compie un passo in avanti straordinario ri­spetto al giudaismo, in cui la preghiera per altri era intesa per lo più a favore dei correligionari (ma cfr. la preghiera per le autorità pagane: Esd 6,10). Il concetto viene ribadito nei vv. 1-6 attraverso la quadruplice ripetizione del termine «tutti»; tale insistenza induce a ravvisare un intento polemico nei confronti dei falsi mae­stri, le cui eresie dovevano annoverare anche forme di esclusivismo giudaizzante: solo coloro che seguivano le loro dottrine avrebbero potuto conoscere la verità ed essere salvati! Tale atteggiamento sarebbe dilagato in seno alla Chiesa più tardi attraverso le sette gnostiche.

Dopo il v. 1 la linea logica del discorso continua con il v. 3. Il v. 2 appare piuttosto come una digressione, in cui l’autore specifica una particolare categoria di persone per le quali pregare: i re e tutti coloro che sono costituiti in autorità. Nel tono generalizzante del brano, questa precisazione sorprende. La preghiera per chi governa compariva già nel giudaismo della dia­spora, poiché assicurava al popolo prosperità sotto la dominazione pagana, a cui garantiva una certa lealtà; ciò, inoltre, evitava di dover tributare culto divino al governante. Nel NT la preghiera per le autorità è ben attestata (Rm 13,1-7; 1Pt 2,13-17; cfr. anche Tt 3,1) ed è connessa con la convinzione che il governo civile della società sia voluto da Dio. Il messaggio apostolico non mirava a destabi­lizzare l’ordine sociale, così come la cittadinanza dei cristiani non escludeva la dimensione civile e la novità evangelica non proponeva un modello specifico di organizzazione statale. La supplica per i governanti è pertanto finalizzata a pro­piziare l’adempimento della naturale funzione del governo, cioè l’assicurazione del bene comune, qui significato dai due sinonimi che descrivono una vita «calma e tranquilla» (v. 2). Bisogna pregare perché i responsabili della cosa pubblica garantiscano le condizioni che permettono a «tutti» di usufruire della salvezza e della conoscenza della verità (v. 4). In una società ove siano tutelate la giustizia e l’ordine sociale (Rm 13,1-7), i cristiani possono testimoniare in modo aperto e visibile, offrendo l’accesso ai beni salvifici; viceversa, nei conflitti viene seminato l’odio, che è nemico della propagazione della verità. Questi elementi indicano che, nel contesto storico dell’autore, la persecuzione da parte dello Stato restava un rischio concreto (2Tm 1,8; 2,3; 3,12).

È giusto pregare così – cioè a beneficio di tutti, delle autorità in particolare – perché piace a Dio! D’altron­de, Egli è il «salvatore nostro» (v. 3), cioè colui che libera e preserva dalla distruzione: non può che avere a cuore la salvezza di tutti (v. 4). I cristiani, con l’offerta sacrificale della loro preghiera, hanno la responsabilità di offrire l’occasione perché tale piano salvifico divino a favore dell’intera umanità si dispieghi.

L’affermazione di un solo Dio per Giudei e Gentili dimostra che i pagani hanno uguale accesso a Dio (cfr. anche 1Cor 8,6; Gal 3,20; Ef 4,5-6); il senso polemico potrebbe avere come bersaglio l’esclusivismo giudaizzante. Ciò è confermato anche dal carattere generalissimo della mediazione di Cristo, posta tra Dio e «gli uomini». Cioè, l’argomento dell’unicità come con­ ferma dell’universalità viene reiterato dalla menzione dell’unico mediatore, realtà che affonda le sue radici nell’unico Dio. In forza della sua morte, Cristo stabilisce una nuova relazione tra Dio e l’umanità. Almeno implicitamente, egli deve essere correlato con le due parti in causa. L’enfasi sull’umanità di Cristo («l’uomo Cristo Gesù») esprime chiaramente la sua appartenenza a una delle due parti in questione ma, soprattutto, introduce il v. 6, cioè il rimando alla redenzione guadagnata da Gesù con il dono di sé sulla croce. La sua umanità, quindi, significa la sua sofferenza salvifica. L’apostolato di Paolo, presentando fedel­mente la verità di Dio, può condurre a salvezza i suoi ascoltatori provenienti dal paganesimo.

Uomini e donne nella preghiera comunitaria L’annuncio della volontà salvifica universale di Dio, anticipato in 1,16 e pre­ sentato nella sezione 2,1-7, introduce all’applicazione generale delle prescrizioni di 2,8-15 che riguardano esplicitamente tutti, uomini e donne. È possibile suddivi­dere questa sezione in due brani:

  • v. 8, in cui si presentano indicazioni agli uomini relative alla condotta da assumere nell’assemblea cultuale (ma che arrivano a coinvolgere tutta la vita),
  • vv. 9-15, in cui l’autore rivolge indicazioni alle donne, tra cui la proibizione dell’insegnamento, supportandola con un riferimento alla precedenza della creazione di Adamo e con una menzione del peccato di Eva.

Nei vv. 11-12 l’autore si sofferma sull’atteggiamento che la donna deve assumere nei confronti dell’uomo nell’assemblea cultuale: in breve, essa deve imparare (v. 11) e non può insegnare (v. 12). La cornice storica e il contesto delle Pastorali permettono di comprendere tali prescrizioni, agevolando anche l’interpretazione di certe espressioni distanti dalla nostra sensibilità.

Alcune donne delle prime comunità si erano dimostrate ozio­ se, pettegole e curiose (5,13-14), facendosi facilmente circuire dai falsi dottori (2Tm 3,6). Anche il divieto del matrimonio imposto dagli eretici (1Tm 4,3) aiuta a spiegare l’enfasi paolina sulla generazione dei figli, quale privilegiata via alla salvezza per la donna, peraltro strettamente collegata alla santificazione (1Tm 2,15).

Vi erano dunque delle tendenze di emancipazione femminile arbitraria – forse incoraggiate dal culto pagano della dea Artemide che proprio a Efeso aveva il suo cuore pulsante – che avevano indotto alcune donne delle comunità a ripudiare il matrimonio e la generazione dei figli. Fondamento pretestuoso per tale atteggiamento poteva essere una lettura distorta dei primi capitoli della Genesi.

Ciò che l’autore intende reprimere non è quindi il mondo femminile ma l’eresia, che qui è vista attecchire tra le donne, mentre prima e dopo viene notificata tra gli uomini. Sia la perturbazione di origine maschile sia quella di matrice femminile danneggiano la comunione dell’assemblea liturgica. Pertanto, la proibizione di insegnare rivolta alle donne non va intesa in senso assoluto, ma è relativa alle particolari circostanze dei destinatari; infatti, altrove l’autore esorta le donne anziane ad avviare le giovani all’amore familiare da «maestre di bontà» (Tt 2,3) e riconosce alle vedove uno specifico ruolo (1Tm 5,9-16).

Oltre alla dialettica imparare/insegnare, anche il ri­chiamo al «silenzio» aggancia la prescrizione positiva del v. 11 a quella negativa del v. 12, dove la proibizione dell’insegnamento alle donne è rinforzata dall’espressione «in piena sottomissione». Non si tratta di una sottomissione ai mariti bensì ai mae­stri: si descrive, infatti, l’atteggiamento o la postura appropriata all’apprendimento, implicante l’accettazione dell’insegnamento e dell’autorità del catecheta, che è un maschio.

L’autore aggiunge al precedente divieto di insegnare anche la proibizione a «dominare» sull’uomo che, quindi, riguarda la natura dell’insegnamento. Ciò induce a ritenere che vi fosse qualche forma di insegnamento femminile, probabil­mente propagato con arroganza; contro questa pratica reagisce 1 Timoteo.

Per suffragare le sue ingiunzioni, l’autore di 1Timoteo ricorre a un argomento rabbinico: il primo prevale sul successivo. Ora, l’uomo è stato creato per primo rispetto alla donna; dunque, l’uomo prevale sulla donna. Poteva trattarsi di una risposta a un argomento di parte femminile, che rimarcava l’espressione di Gen 3,20 dove Eva è definita «la madre di tutti i viventi». Alcune donne potevano così affermare la loro superiorità rispetto agli uomini. Paolo conosce bene questi ragionamenti. In 1Cor 11,12 egli rileva la pari dignità tra i sessi e la loro subor­dinazione a Dio proprio su questa scia: «Se infatti la donna deriva dall’uomo, anche l’uomo ha vita dalla donna, e tutto proviene da Dio». In 2Cor 11,3, inoltre, aveva fatto riferimento proprio al peccato di Eva: «E temo che, come il serpente nella sua malizia ha ingannato Eva, così i vostri pensieri vengano traviati dalla semplicità e dalla purezza che c’è in Cristo». D’altronde, in 1Tm 1,4 l’autore aveva già contrastato «miti e genealogie» che potevano coinvolgere un uso strumentale della Genesi nelle contese dottrinali tra uomini. Analogamente, è assai probabile che l’argomento di 2,13-14 miri a confutare argomentazioni artificiose sui primi capitoli biblici, questa volta di matrice femminile.


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Indirizzo e saluto 1Paolo, apostolo di Cristo Gesù per comando di Dio nostro salvatore e di Cristo Gesù nostra speranza, 2a Timòteo, vero figlio mio nella fede: grazia, misericordia e pace da Dio Padre e da Cristo Gesù Signore nostro.

I falsi insegnamenti 3Partendo per la Macedonia, ti raccomandai di rimanere a Èfeso perché tu ordinassi a taluni di non insegnare dottrine diverse 4e di non aderire a favole e a genealogie interminabili, le quali sono più adatte a vane discussioni che non al disegno di Dio, che si attua nella fede. 5Lo scopo del comando è però la carità, che nasce da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera. 6Deviando da questa linea, alcuni si sono perduti in discorsi senza senso, 7pretendendo di essere dottori della Legge, mentre non capiscono né quello che dicono né ciò di cui sono tanto sicuri.

Il vero ruolo della Legge 8Noi sappiamo che la Legge è buona, purché se ne faccia un uso legittimo, 9nella convinzione che la Legge non è fatta per il giusto, ma per gli iniqui e i ribelli, per gli empi e i peccatori, per i sacrìleghi e i profanatori, per i parricidi e i matricidi, per gli assassini, 10i fornicatori, i sodomiti, i mercanti di uomini, i bugiardi, gli spergiuri e per ogni altra cosa contraria alla sana dottrina, 11secondo il vangelo della gloria del beato Dio, che mi è stato affidato.

La vicenda personale di Paolo 12Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, 13che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, 14e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù. 15Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. 16Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna. 17Al Re dei secoli, incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen.

Il rinnovamento del ministero di Timoteo 18Questo è l’ordine che ti do, figlio mio Timòteo, in accordo con le profezie già fatte su di te, perché, fondato su di esse, tu combatta la buona battaglia, 19conservando la fede e una buona coscienza. Alcuni, infatti, avendola rinnegata, hanno fatto naufragio nella fede; 20tra questi Imeneo e Alessandro, che ho consegnato a Satana, perché imparino a non bestemmiare.

Approfondimenti

(cf LETTERE A TIMOTEO – Introduzione, traduzione e commento a cura di CARMELO PELLEGRINO © EDIZIONI SAN PAOLO, 2011)

Le lettere “Pastorali” Le due lettere a Timoteo e la lettera a Tito sono definite «Pasto­rali» perché comunicano direttive per l’organizzazione e la con­ dotta delle comunità cristiane. Dal XVIII secolo è invalso l’uso di nominarle così e di considerarle insieme, soprattutto in forza delle profonde analogie di stile, dottrina, condizioni di tempo e di luogo, nonché di linguaggio e teologia.

Timoteo Le tre lettere Pastorali hanno un destinatario individuale; a ecce­zione di Filemone e 3 Giovanni, tutte le altre lettere del Nuovo Te­stamento presentano un destinatario collettivo. Il nome «Timoteo» significa «colui che onora Dio». Dalle pagine del Nuovo Testamento è possibile tracciare un profilo biografico di questo prezioso colla­boratore di Paolo. Nasce a Listra, a circa 200 km a nord-ovest di Tarso, città d’origine dell’Apostolo, da padre pagano e madre ebrea (At 16,1); di essa, in 2Tm 1,5 si dà il nome, Eunice, unitamente a quello di Loide, nonna di Timoteo, donne di cui l’autore loda la «fe­de sincera». Benché ebrea, la madre di Timoteo non doveva essere osservante: infatti, non aveva fatto circoncidere il figlio alla nascita. Doveva però aver aderito alla fede cristiana, dal momento che At 16,1 la definisce «credente», mentre attribuisce al figlio la qualifica di «discepolo». Timoteo, quindi, non apprende il cristianesimo da Paolo ma nell’alveo della propria famiglia. Il fatto che l’Apostolo lo definisca spesso «figlio», sia nelle lettere indiscusse che nelle altre, non dovrebbe coinvolgere la sua paternità nella fede, ma ve­rosimilmente riguarda la sua generazione al ministero. Secondo gli Atti, Paolo, passando da Listra insieme a Sila all’inizio del secondo viaggio missionario (intorno al 49 d.C.), fa circoncidere questo gio­vane «a causa dei Giudei che si trovavano in quelle regioni», dal momento che «tutti sapevano che suo padre era greco» (At 16,3). In quella circostanza, lo aggrega a sé come collaboratore, avviando le imprese missionarie durante le quali vengono raggiunte Troade, Filippi, Berea, Tessalonica, Atene, Corinto, Efeso. L’Apostolo gli assegna praticamente il ruolo di suo vicario in importanti missioni: da Corinto lo invia a Tessalonica (1Ts 3,1-2); da Efeso lo manda in Macedonia (At 19,22) e a Corinto ( 1Cor 4,17); da Corinto, Timoteo parte verso Troade per attendere Paolo che vi sarebbe passato al termine del terzo viaggio missionario, diretto a Gerusalemme (At 20,24). In Eb 13,23 si riferisce una carcerazione di Timoteo e il successivo rilascio. Egli è anche co-mittente di ben sei epistole pao­line (2 Corinzi, Filippesi, Colossesi, 1-2 Tessalonicesi, Filemone); il fatto poi che la tradizione abbia conservato due lettere indirizzate personalmente a lui dall’Apostolo indica che questi lo teneva in grandissima considerazione anche come pastore. Eusebio di Cesarea lo citerà come primo episcopo di Efeso (Storia della Chiesa 3,4), dove sarebbe morto martire intorno al 97, sotto l’imperatore Nerva. Le sue reliquie sono venerate nella cattedrale di Termoli.

I falsi insegnamenti Con il v. 3 si entra nel corpo della lettera. Diversamente dagli scritti paolini indiscussi, non troviamo a questo punto il tipico ringraziamento ma una rapida evocazione dell’incarico affidato a Timoteo a Efeso, finalizzato a impedire inse­gnamenti diversi e, in ultima analisi, a ristabilire la carità. Il fatto di rimanere a Efeso, per Timoteo, è legato alla respon­sabilità di guida della comunità, espletata anzitutto attraverso l’opposizione alle insorgenti eresie. Il primo compito di Timoteo è quello negativo di impedire i falsi insegnamenti: non dovranno essere proferiti e non si dovrà dare loro retta. Il contesto polemico sembra richiamare le intrusioni dei giudaizzanti combattute nella lettera ai Galati, pur senza espliciti riferimenti alla questione centrale di quella lettera (la circoncisione). Gli insegnamenti diversi sono infatti caratterizzati da un approccio speculativo ai libri sacri d’Israele sfruttati come fonti di «miti e genealogie»: questi plurali dispregiativi indicano la natura fallace delle dottrine trasmesse (v. 4). L’ordine che Timoteo deve rivolgere ai falsi maestri ha come unico «fine» la carità. Esso viene specificato attraverso le diverse qualità elen­cate nel v. 5. Dopo aver illustrato positivamente le qualità della carità cristiana, l’autore passa al negativo, descrivendo l’apostasia di coloro che le hanno rigettate. La motivazione che anima il comportamento degli eretici è quella di ritenersi «dottori della Legge». La loro pretesa, cioè quella di insegnare le prescrizioni dell’AT, è buona, ma è seccamente contraddetta dalla condotta incoe­rente e dalla loro totale ignoranza, espressa in modo enfatico dal doppio negativo che dà luogo a una sorta di progressione: essi non capiscono «né quello che dicono né ciò di cui sono tanto sicuri».

Il vero ruolo della Legge Nel v. 8 l’autore fornisce la sua comprensione della Legge dell’AT. Per farlo, evoca affermazioni paoline (Rm 7,12.16), precedute da due formule che introdu­cono tradizioni didattiche ormai note. L’insegnamento di Paolo è quindi già considerato patrimonio comune. Implicitamente, l’autore sta dichiarando che la distanza dalla tradizione apostolica paolina discredita di fatto i falsi insegnamenti degli eretici. La Legge è considerata «buona» perché è capace di condurre a risultati positivi dal punto di vista etico; il problema è piuttosto l’applicazione che se ne fa. Infatti, la Legge, avendo come finalità la condanna dell’ingiusto, toma utile se la si usa in modo appropriato, cioè se viene utilizzata per regolare la vita dei malvagi e non, come fanno gli eretici, per ricavarne dottrine fantasiose (1,4) e produrre regole ascetiche fuorvianti (4,3). La lista di vizi (vv. 9-10), oltre che richiamare le trasgressioni legali dell’AT, sembra presentare un vero e proprio codice criminale. I dieci peccati della lista presentano una generica correlazione con le trasgressioni del Decalogo (Es 20): i primi quattro vizi rispecchiano le violazioni dell’onore da rendere a Dio, condannate dai primi comandamenti del Decalogo. Gli altri sei vizi corrispondono in maniera quasi pun­tuale alle restanti prescrizioni del Decalogo, a partire dal confronto con il quarto comandamento: il disonore procurato ai genitori, la soppressione della vita altrui, la fornicazione e il peccato di sodomia, il furto di esseri umani che si perpetra nel traffico di schiavi, la menzogna. Non compare il riferimento conclusivo al peccato di cupidigia, ma sono attestati i disordini sessuali, rappresentati nei primi due termini del v. 10, peraltro piuttosto frequenti nella cultura classica. Nell’antichità greca la pederastia era praticata con fini non primariamente sessuali ma pedagogici, tuttavia, soprattutto nel mondo romano, la si giudicava spesso come l’inizio dell’immoralità. In ambito giudaico questa pratica era invece inesorabilmente bollata come «abominio» (Lv 18,22), al punto da far meritare persino la condanna a morte (Lv 20,13; cfr. anche Gen 19; Gdc 19,23).

Come avviene praticamente sempre nelle lettere Pastorali, si precisa che quello annunciato dall'apostolo, oltre a essere il Vangelo di Dio, è anche il Vangelo di Paolo perché gli è stato affidato, secondo quanto notificato già in 1Cor 1,17; 9,17; Gal 2,7. Nel nostro contesto, l’accento non poggia sull’incarico missionario di Paolo, bensì sulla responsabilità a lui assegnata di custodire fedelmente il Vangelo a fronte dei dilaganti errori. L’espressione introduce così un riferimento personale alla vicenda dell’Apostolo che fa da ponte per la successiva sezione.

La vicenda personale di Paolo Paolo si riferisce alla sua fase pre-cristiana con termini nettamente negativi: oltre che un persecutore, egli è stato anche un bestemmiatore, un violento, il primo dei peccatori. Tutto ciò al fine di evidenziare, ben due volte, la misericordia ottenuta. Scegliendo Paolo, Cristo aveva proletticamente visto che quest’uomo avrebbe potuto rispondere in maniera fedele; il contesto induce a riferire questa fedeltà al «sano» insegnamento avversato dai falsi maestri. L’efficacia della sua missione era pre-vista dal Signore Gesù, per cui egli può conoscere qualcuno come potenzialmente affidabile e destinarlo per il ministero. Questa capacità di scrutare l’avvenire appartiene a Dio e conferma la tendenza delle Pastorali a riconoscere a Cristo attributi divini. Alla condotta disdicevole del Paolo pre-cristiano, Dio ha risposto usandogli «misericordia»: per motivare tale sconcertante iniziativa, poco congruente rispetto a una logica rigidamente retributiva, l’autore ricorre al tema del peccato involontario, commesso per ignoranza della volontà di Dio; in tal modo, riesce ad accentuare ancora una volta il contrasto con i falsi maestri, i quali, invece, dovrebbero conoscere bene il volere di Dio, eppure deviano deli­beratamente rigettando la fede (1,19; 2Tm 2,17-18). Nel v. 14 il soggetto diventa la «grazia del Signore nostro». L’autore può de­scrivere nel dettaglio l’esperienza della misericordia, a partire dal verbo in forma superlativa, inusuale nella lingua standard ma tipica nell’incedere di Paolo, so­vente incline a forzare il linguaggio pur di esprimere la straordinarietà dell’azione di Dio in Cristo. L’espressione: «questa parola è degna di fede» toma ripetutamente nelle Pastorali. Si tratta di una formula tradizionale che introduce con solennità un insegnamento ufficiale. In 1,15 e in 4,9 essa è raffor­zata da una qualifica di alto credito: «(è degna) di essere accolta da tutti», cioè pienamente e universalmente. La verità che merita tale accoglienza è l’annuncio della salvezza realizzata da Cristo. L’azione salvifica di Cristo reca beneficio ai peccatori, tra i quali l’autore dichiara di essere «il primo». Questa attribuzione è in linea con la personalità auto-affermativa di Paolo. Se nel v. 13 il riferimento alla «misericordia» evocava il passato peccami­ noso dell’Apostolo, nel v. 16 lo sguardo è proiettato verso il futuro, allo scopo ultimo di questa iniziativa di benevolenza espressa dal passivo divino: offrire un esempio a coloro che d’ora innanzi si sarebbero accostati a Cristo con fede al fine di avere la vita eterna. Sia la «misericordia» che la «magnanimità» sono declinazioni dell’amore di Cristo e ricorrono nell’epistolario paolino con aggettivi che ne evidenziano la straordinaria grandezza e la sua dimostrazione compiuta da Dio. Il passaggio si chiude con una dossologia che svela Dio come ultimo artefice di quanto avvenuto nella storia della salvezza e nell’espe­rienza personale di Paolo. La connotazione fortemente cristocentrica dell’intero brano viene così bilanciata in senso teologico.

Il rinnovamento del ministero di Timoteo Questi versetti conclusivi del c. 1 si agganciano all’incarico già evocato in 1,3- 5, prima che l’autore si soffermasse sulle devianze eretiche e l’uso della Legge (1,6-11) oltre che sulla sua personale esperienza (1,12-17). Si tratta di una rac­comandazione al discepolo; analoghe esortazioni, spesso conclusive di sezioni dottrinali, sono frequenti nelle Pastorali.

Diversamente dalle altre lettere paoline, nel v. 20 si citano nomi di oppositori. Le altre lettere però sono destinate a intere comunità; la lettura assembleare poteva suggerire il silenzio sull’identità dei rivali, mentre il carattere privato delle Pastorali, destinate a singoli collaboratori, ben si combina con la men­zione confidenziale degli avversari. L’autore si è già riferito a loro mantenendo il riserbo: si tratta di «alcuni» (1,3.6.19) che hanno deviato dalla sana dottrina. Ora, pescandoli dal mucchio, ne nomina due: Imeneo e Alessandro. Non c’è motivo valido per ritenere che siano nomi fittizi: l’autore li cita come esempi di apostasia, il suo avvertimento ha maggior effetto se si tratta di casi ben conosciuti. Pertanto, tale riferimento non è una mera digressione: il naufragio dottrinale di personaggi noti e forse ancora influenti sta a significare proprio la pertinenza della raccomandazione apostolica. Nel contesto del c. 1, pieno di riferimenti agli errori dei «dottori della Legge» (1,6-7), la loro menzione induce a ritenere che si tratti di due ministri. Il verdetto che viene comunicato su di loro è molto severo: Paolo li ha conse­gnati a Satana, come è avvenuto con l’incestuoso di 1Cor 5,5. Per entrambi i brani, l’enfasi dell’autore poggia sull’autorità apostolica, ma, mentre in 1 Corinzi si tratta di un procedimento ecclesiale che vede la partecipazione a distanza dell’Apostolo («assente nel corpo ma presente nello spirito», 1Cor 5,3), in 1Tm 1,20 è il solo Paolo a infliggere la pena. Tuttavia, anche nel nostro versetto il verbo «consegna­re» al passato evoca un fatto storico in cui tutta la comunità può essere stata coinvolta. L’uso di questo verbo richiama la vicenda di Giobbe che Dio consegna a Satana (Gb 2,6). Ma mentre lì si trattava di un giusto messo alla prova dal Signore attraverso una concessione a Satana, qui abbiamo a che fare con una misura disciplinare su due colpevoli. Lo scopo è pedagogico: «perché imparino a non bestemmiare più»; nelle altre due occorrenze delle Pastorali (2Tm 2,25; Tt 2,12-13) questo verbo ha sempre a che fare con la conversione di chi deve imparare e con la sua salvezza. Anche nel v. 20, quindi, lo scopo è la purificazione dal peccato in vista della salvezza. Ciò che colpisce è che qui, come anche in 1Cor 5,5, Satana, cioè il nemico di Dio, viene visto addirittura come agente dell’azione correttiva del Signore, il quale mantiene il controllo assoluto della situazione. La rivelazione biblica non è di indole dualistica: le forze del male non sono divinità contrapposte al Dio d’Israele; anzi, egli se ne può persino servire per i suoi fini di giustizia e salvezza.


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Richiesta di preghiere 1Per il resto, fratelli, pregate per noi, perché la parola del Signore corra e sia glorificata, come lo è anche tra voi, 2e veniamo liberati dagli uomini corrotti e malvagi. La fede infatti non è di tutti. 3Ma il Signore è fedele: egli vi confermerà e vi custodirà dal Maligno.

Dichiarazione di fiducia 4Riguardo a voi, abbiamo questa fiducia nel Signore: che quanto noi vi ordiniamo già lo facciate e continuerete a farlo. 5Il Signore guidi i vostri cuori all’amore di Dio e alla pazienza di Cristo.

Una comunità ordinata e solidale 6Fratelli, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, vi raccomandiamo di tenervi lontani da ogni fratello che conduce una vita disordinata, non secondo l’insegnamento che vi è stato trasmesso da noi. 7Sapete in che modo dovete prenderci a modello: noi infatti non siamo rimasti oziosi in mezzo a voi, 8né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato duramente, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi. 9Non che non ne avessimo diritto, ma per darci a voi come modello da imitare. 10E infatti quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuole lavorare, neppure mangi. 11Sentiamo infatti che alcuni fra voi vivono una vita disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione. 12A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità. 13Ma voi, fratelli, non stancatevi di fare il bene. 14Se qualcuno non obbedisce a quanto diciamo in questa lettera, prendete nota di lui e interrompete i rapporti, perché si vergogni; 15non trattatelo però come un nemico, ma ammonitelo come un fratello.

Epilogo 16Il Signore della pace vi dia la pace sempre e in ogni modo. Il Signore sia con tutti voi. 17Il saluto è di mia mano, di Paolo. Questo è il segno autografo di ogni mia lettera; io scrivo così. 18La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con tutti voi.

Approfondimenti

(cf 1-2 TESSALONICESI – nuova versione, introduzione e commento di RINALDO FABRIS © FIGLIE DI SAN PAOLO, 2014)

Richiesta di preghiere Dalla preghiera-auspicio per i tessalonicesi si passa alla richiesta di pregare per i mittenti della lettera, perché la loro missione di proclamatori della parola del Signore abbia successo, superando gli ostacoli degli avversari della fe­de (2Ts 3,1-2). Con una breve dichiarazione si riprende il tema della fedeltà del Signore, che confermerà i credenti sottraendoli all'azione del maligno (2Ts 3,3). Al Signore Gesù Cristo è attribuito il ruolo di confermare e proteggere la co­munità dei fedeli dagli assalti del «maligno».

Dichiarazione di fiducia L'appello alla preghiera per la diffusione e l'accoglienza della parola del Signore si chiude con una dichiarazione di fiducia nei confronti dei destinatari e una preghiera-auspicio per la loro fede e perseveranza. La dichiarazione di fiducia è anche un tacito invito a perseverare nell'impegno che giustifica la fiducia di chi detta la lettera. Il fondamento ultimo della fiducia nei rapporti fra i credenti è la relazione vitale con il Signore, espressa con una formula paolina: «nel Signore».

Rispetto al brano precedente dagli accenti tipici del genere apocalittico, l'unità letteraria di 2Ts 2,13-3,5 è percorsa dai toni caldi della preghiera e dell'esortazio­ne. Il tema dell'amore è presente in tutto il brano e il motivo del rendimento di grazie è l'amore del Signore verso i fratelli. Il fondamento della consolazione eterna e dell'attesa di una buona speranza è l'amore di Dio Padre. Nella preghiera conclusiva si chiede che il Signore guidi i cuori dei credenti all'amore di Dio. Al­ l'amore che viene da Dio e si attua nell'elezione e nella chiamata, quelli che hanno accolto il vangelo rispondono con l'amore verso Dio. L'elezione da parte di Dio avviene nella santificazione dello Spirito, che sigilla l'adesione di fede alla verità del vangelo. In tal modo, la preghiera di ringraziamento assume un ritmo trinitario. Nel clima di preghiera riconoscente e fiduciosa si traccia l'intero percorso dell'esperienza di fede: dall'elezione al possesso della gloria. Il punto di partenza è la chiamata mediante l'annunzio del vangelo da parte dei predicatori della parola del Signore. Tra la chiamata iniziale, nella quale si manifesta l'elezione del Signore, e la salvezza finale o gloria si attua l'impegno dei fedeli in ogni opera e parola buona. Il loro stile di vita è caratterizzato dalla perseveranza che ha in Cristo il suo punto di riferimento. Quelli che hanno accolto il vangelo tengono saldamente le tradizioni date, sia a voce sia per iscritto, dai predicatori. Essi possono contare sulla fedeltà del Signore, che li conferma e li custodisce dal maligno. Con la loro pre­ghiera, i fedeli che hanno accolto la parola del Signore partecipano alla sua corsa trionfale, chiedendo che i predicatori del vangelo siano liberati dagli uomini corrot­ti e malvagi. In questo brano di transizione si intravedono lo statuto teologico di una comunità credente e il suo stile di vita contraddistinto dalla perseveranza.

Una comunità ordinata e solidale L'ultima parte della 2Tessalonicesi è costituita da una serie di esortazioni e disposizioni data dal­l'autore, che scrive a nome di Paolo, per far fronte al rischio di disordine e confu­sione provocati da alcuni cristiani della comunità locale, che rifiutano di mante­nersi con il proprio lavoro (2Ts 3,6-15). Questa sezione conclusiva della lettera è contrassegnata dalle disposizioni ed esortazioni riguardanti il caso di chi si comporta in modo disordinato, rifiutan­do di lavorare per guadagnarsi da vivere. I mittenti intervengono in modo autorevole e deciso, dando disposizioni di carattere pratico e disciplinare. Questi tali devono essere isolati, perché non si attengono alla «tradizione» ricevuta dai predicatori del vangelo, che, con il loro esempio, hanno dato loro questa norma: «Chi non vuole lavorare, neppure man­gi» (2Ts 3,10b). Mentre tutta la comunità non deve desistere dal fare il bene, nei confronti del gruppo degli «irregolari» si stabilisce che se un membro della co­munità non accetta le disposizioni riguardanti il lavoro per guadagnarsi da vivere, va segnalato, messo al bando, interrompendo con lui ogni rapporto; tuttavia deve essere trattato come un «fratello», membro della comunità, non come un estra­neo o nemico (2Ts 3,13-15). Nella ricostruzione di carattere socioculturale si cerca di spiegare il fenome­no del rifiuto di lavorare da parte di alcuni cristiani di Tessalonica e il conseguente parassitismo comunitario, facendoli risalire sia alla disistima per il lavoro manuale diffusa nell'ambiente greco-romano, sia allo sfruttamento, da parte di alcuni cri­stiani poveri, del sistema di patronato-clientela presente nella società romana. Nelle disposizioni e norme date per disciplinare il caso dei cristiani «irregolari» a Tessalonica non vi sono elementi decisivi e sicuri per ricostruire il fenomeno nelle sue motivazioni socioculturali e nel suo sviluppo storico. Nell'ipotesi della pseu­depigrafia non si può escludere che si tratti di una situazione fittizia, che serve all'autore per presentare e attualizzare il messaggio di Paolo sul tema del lavoro ordinato e responsabile nella comunità cristiana. In conclusione, nell'ultima parte della lettera l'autore, sia con gli interventi autoritativi sia con le istruzioni e le esortazioni, vuole promuovere e consolidare la scelta di lavorare in modo responsabile, in un clima di comunità fraterna, ordinata e solidale.

Epilogo Dopo una serie di istruzioni e disposizioni sugli «irregolari», la lettera si avvia alla conclusione con un'invocazione al «Signore della pace», con il saluto autografo di Paolo e la formula di congedo: «La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con tutti voi» (2Ts 3,16-18). L'espressione «di mia mano» è una specie di firma, con la quale si autentica e si dà legittimità allo scritto epistolare (cfr. Fm v. 19). All'autore della 2Tessalonicesi l'uso del formulario tradizionale paolino non basta. Egli richiama l'attenzione su questo marchio di autenticità, che contrassegna ogni lettera scritta da Paolo. Questa riven­dicazione troppo insistente sull'autenticità della 2Tessalonicesi la rende sospetta!

Le istruzioni e disposizioni autorevoli della parte finale della 2Tessalonicesi sono riassunte in modo icastico nella regola attribuita a Paolo: «Chi non vuole lavorare, neppure mangi». Non si tratta di un principio astratto, ma di una norma ben precisa, data dai predicatori del vangelo a Tessalonica, per contrastare il grup­po degli sfaccendati, che si rifiutano di lavorare per mantenersi. Non si dice qual è la ragione di questo comportamento che crea disordine e confusione nella comuni­tà. Invece, si richiama la tradizione autorevole trasmessa non a parole, ma con l'esempio. Infatti. Paolo e i suoi collaboratori, durante la loro permanenza a Tessa­lonica per annunziare il vangelo, hanno lavorato duramente per non farsi man­ tenere dalla comunità cristiana locale. Con la regola del lavoro si raccomanda un modello di comunità cristiana ordi­nata e solidale. Il disordine non deriva solo dal parassitismo di quelli che non vo­gliono lavorare, pretendendo di farsi mantenere dalla comunità. Questi sfaccendati creano confusione e contrasti nella comunità perché sono dei ficcanaso, che si in­tromettono nelle faccende altrui. L'autore della lettera, che scrive a nome di Paolo, propone uno stile di vita apprezzato anche negli ambienti profani: vivere in modo tranquillo, guadagnandosi da vivere con il proprio lavoro. Su questo sfondo si com­prende la norma disciplinare, che prevede l'esclusione dalla comunità di chi si ri­fiuta di mantenersi con il proprio lavoro. Si tratta di un'esclusione temporanea con lo scopo di favorire il ravvedimento del fratello che vive in modo disordinato.

Nell'epilogo della 2Tessalonicesi, a parte la preoccupazione di affermarne l'autenticità paolina, il messaggio si concentra attorno a due termini, che rimanda­no all'intestazione iniziale: la pace e la grazia. La pace, piena e permanente, è un dono invocato dal Signore nella preghiera. Anche la grazia proviene dal Signore, riconosciuto e invocato con un formulario di matrice liturgica: «Il Signore nostro Gesù Cristo». La lettera si chiude con una formula di benedizione-congedo, che riecheggia quella dell'assemblea cristiana.


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La venuta del Signore 1Riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e al nostro radunarci con lui, vi preghiamo, fratelli, 2di non lasciarvi troppo presto confondere la mente e allarmare né da ispirazioni né da discorsi, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia già presente. 3Nessuno vi inganni in alcun modo! Prima infatti verrà l’apostasia e si rivelerà l’uomo dell’iniquità, il figlio della perdizione, 4l’avversario, colui che s’innalza sopra ogni essere chiamato e adorato come Dio, fino a insediarsi nel tempio di Dio, pretendendo di essere Dio. 5Non ricordate che, quando ancora ero tra voi, io vi dicevo queste cose? 6E ora voi sapete che cosa lo trattiene perché non si manifesti se non nel suo tempo. 7Il mistero dell’iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo colui che finora lo trattiene. 8Allora l’empio sarà rivelato e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà con lo splendore della sua venuta. 9La venuta dell’empio avverrà nella potenza di Satana, con ogni specie di miracoli e segni e prodigi menzogneri 10e con tutte le seduzioni dell’iniquità, a danno di quelli che vanno in rovina perché non accolsero l’amore della verità per essere salvati. 11Dio perciò manda loro una forza di seduzione, perché essi credano alla menzogna 12e siano condannati tutti quelli che, invece di credere alla verità, si sono compiaciuti nell’iniquità.

Pre­ghiera di ringraziamento e invito alla perseveranza 13Noi però dobbiamo sempre rendere grazie a Dio per voi, fratelli amati dal Signore, perché Dio vi ha scelti come primizia per la salvezza, per mezzo dello Spirito santificatore e della fede nella verità. 14A questo egli vi ha chiamati mediante il nostro Vangelo, per entrare in possesso della gloria del Signore nostro Gesù Cristo. 15Perciò, fratelli, state saldi e mantenete le tradizioni che avete appreso sia dalla nostra parola sia dalla nostra lettera. 16E lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio, Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza, 17conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene

Approfondimenti

(cf 1-2 TESSALONICESI – nuova versione, introduzione e commento di RINALDO FABRIS © FIGLIE DI SAN PAOLO, 2014)

La venuta del Signore Il secondo capitolo della lettera si apre con una messa in guardia nei confronti di quelli che turbano la comunità cristiana, dicendo che il giorno del Signore è già arrivato. Contro questi fautori di allarmismi apocalittici, l'autore – che s'identifica con Paolo – ricorda le istruzioni già date ai tessalonicesi nella sua permanenza in mezzo a loro. Si tratta delle condizioni che precedono la «rivelazione» dell'iniqui­tà e la parousía del Signore Gesù: l'apostasia e la rivelazione dell'uomo iniquo. Per incoraggiare i fedeli e per sostenere la loro perseveranza presenta il destino degli infedeli, di quelli che non amano la verità. Invece, nella preghiera di ringraziamen­to e d'invocazione per i fedeli traccia il destino positivo dei fedeli che Dio ha scelto come primizia per la salvezza.

L'unità di 2Ts 2,1-12 si presenta come una «piccola apocalisse», prendendo lo spunto dall'intervento dell'autore, che intende precisare tempi, modi e segni del «giorno del Signore», connesso con la parousía del Signore Gesù Cristo e la «riu­nione dei fedeli» presso di lui.

La disposizione antitetica dei protagonisti e quella delle rispettive azioni per­ corrono l'intera composizione apocalittica. Al «Signore Gesù Cristo» e a «Dio» si contrappone l'uomo dell'iniquità o l'iniquo, «la cui venuta è secondo la forza del satana, con ogni potenza, e segni e prodigi di menzogna e con ogni sedu­zione d'ingiustizia, per quelli che si perdono» (2Ts 2,9-10). «Quelli che si perdo­no», associati al destino del «figlio della perdizione», non han­no accolto «l'amore della verità per salvarsi» (2Ts 2,10). Dio conferma e sigilla la loro scelta, mandando loro una forza d'inganno. Perciò, invece di credere alla verità credono alla menzogna, e al posto della verità aderiscono all'in­giustizia. L'esito finale è il giudizio di condanna, antitetico alla salvezza (2Ts 2,1 1).

Il tema, affrontato dai mittenti della lettera, è indicato con la duplice espressione: la parousía del Signore nostro Gesù Cristo e la nostra riunione presso di lui (2Ts 2,1). Il motivo imme­diato dell'intervento è la situazione critica dei «fratelli», definita mediante due verbi che indicano sconvolgimento nel modo di pensare e agitazione. Si suppone che i destinatari siano sconvolti e agitati, perché si è sparsa la voce, accreditata da qualche personaggio carismatico o predicatore, o da una lettera di origine paolina, che il «giorno del Signore» è già arrivato. La presa di posizione sui «tempi» della venuta del giorno del Signore è preceduta da un invito perentorio che mette fuori gioco ogni allarmismo: «Nessuno v'inganni in alcun modo!» (2Ts 2,3). L'autore, che si presenta come Paolo, in prima persona riprende il dialogo epistolare subito dopo la prima precisazione circa i segni che devono precedere la venuta del Signore. Egli invita a ricordare le istruzioni date a viva voce, durante la sua permanenza a Tessalonica (2Ts 2,5). La seconda istruzione sui tempi della venuta del Signore agisce proprio su quello che i destinatari già sanno circa lo svolgimento del dram­ma apocalittico.

L'aspetto nuovo e originale di 2Ts 2,1-12 è la preminenza data al qua­dro apocalittico, con lo scopo di riportare la calma in una comunità sconvolta e agitata da una falsa interpretazione o da comunicazioni distorte circa il tempo della parousía, della venuta o del giorno del Signore. Chi scrive non intende dare informazioni chiare e precise sul «tempo» e sui «segni» della venuta del Signore. Il suo discorso sull'apostasia e sulla rivelazione dell'uomo dell'iniquità o iniquo è molto vago e criptico, per non parlare dell'enigmatica entità di «ciò che trattie­ne» o di «colui che trattiene» la sua rivelazione. Lo stile è appesantito dall'accu­mulo di sinonimi ed espressioni simmetriche, dai periodi sospesi – due anacoluti (2Ts 2,4.7) – e dalla sintassi contorta e imprevedibile.

L'organizzazione del testo obbedisce al criterio di una comunicazione efficace, più che all'intenzione di tracciare una cronologia del dramma apocalittico. L'autore ricorre alla figura retorica del confronto tra rivelazione-parousía del­l'uomo d'iniquità o dell'iniquo (dietro il quale si profila l'azione del satana) e quella del Signore, per mettere in guardia i lettori in crisi a motivo del loro stato di persecuzione e dell'allarmismo diffuso da alcuni sul giorno del Signore che sa­rebbe già venuto. Si può concludere che l'autore di 2Tessalonicesi intende confortare e sostenere l'impegno dei fedeli, facendo ricorso al linguaggio e alle immagini della tradizione apocalittica, già presenti nella 1Tes­salonicesi (1Ts 4,13 – 5,1 1).

Pre­ghiera di ringraziamento e invito alla perseveranza Dopo la «piccola apocalisse» di 2Ts 2,1-12, il dialogo epistolario riprende con un nuovo ringraziamento a Dio per l'elezione e la chiamata alla salvezza me­diante il vangelo e prosegue con l'esortazione a tenere saldamente le istruzioni ricevute . A questo invito segue la preghiera perché il Signore doni una consolazione eterna e una buona speranza a quelli che egli confermerà nel loro impegno attivo.

Con l'annuncio della preghiera di ringraziamento a Dio se ne espli­cita anche la motivazione: l'elezione dei tessalonicesi per la salvezza e la loro chia­mata al possesso della gloria del Signore Gesù Cristo. Lo scopo ed esito della chiamata è indicato con un formulario di matrice biblico-liturgica: «Per il possesso della gloria del Signore nostro Gesù Cristo» (2Ts 2,14b). La «gloria», qualità che appartiene a Dio, è attribuita a Gesù Cristo «nostro Signore». Con questa professione di fede litur­gica, la «gloria» viene assicurata a quelli che sono chiamati assume una connotazione cristologica.

Come conseguenza di ciò che si è appena detto sull'elezione e sulla chiamata di Dio, si invitano i tessalonicesi a tenere saldamente le tradizioni trasmes­se loro sia a viva voce sia per iscritto. In una preghiera-auspicio, con implicita funzione esortativa, si mette in risalto l'iniziativa di Dio, il Padre, che si rivela e attua per mezzo di Gesù Cristo Signore. Dall'esperienza dei doni di Dio Padre, che stanno alla base della speranza, lo sguardo si volge alla vita presente dei fedeli, impegnati nella perseve­ranza attiva. Lo stile della preghiera risente della tradizione liturgica.

La preghiera, rivolta al «Signore nostro Gesù Cristo» e a «Dio, Padre no­stro» si chiude con la formulazione della richiesta: «Conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene» (2Ts 2,17). Il verbo “consolare”, tradotto con «confortare», si riaggancia al sostantivo “consolazione”, dono di Dio Padre (2Ts 2,16b). L'obiettivo della preghiera rivolta al Signore Gesù Cristo e a Dio Padre, perché consoli i fedeli nel loro intimo «i vostri cuo­ri», è di confermarli nell'impegno che abbraccia ogni ambito della loro vita: «In ogni opera e parola di bene».


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Intestazione 1Paolo e Silvano e Timòteo alla Chiesa dei Tessalonicesi che è in Dio Padre nostro e nel Signore Gesù Cristo: 2a voi, grazia e pace da Dio Padre e dal Signore Gesù Cristo.

Ringraziamento e preghiera 3Dobbiamo sempre rendere grazie a Dio per voi, fratelli, come è giusto, perché la vostra fede fa grandi progressi e l’amore di ciascuno di voi verso gli altri va crescendo. 4Così noi possiamo gloriarci di voi nelle Chiese di Dio, per la vostra perseveranza e la vostra fede in tutte le vostre persecuzioni e tribolazioni che sopportate. 5È questo un segno del giusto giudizio di Dio, perché siate fatti degni del regno di Dio, per il quale appunto soffrite. 6È proprio della giustizia di Dio ricambiare con afflizioni coloro che vi affliggono 7e a voi, che siete afflitti, dare sollievo insieme a noi, quando si manifesterà il Signore Gesù dal cielo, insieme agli angeli della sua potenza, con 8fuoco ardente, per punire quelli che non riconoscono Dio e quelli che non obbediscono al vangelo del Signore nostro Gesù. 9Essi saranno castigati con una rovina eterna, lontano dal volto del Signore e dalla sua gloriosa potenza. 10In quel giorno, egli verrà per essere glorificato nei suoi santi ed essere riconosciuto mirabile da tutti quelli che avranno creduto, perché è stata accolta la nostra testimonianza in mezzo a voi. 11Per questo preghiamo continuamente per voi, perché il nostro Dio vi renda degni della sua chiamata e, con la sua potenza, porti a compimento ogni proposito di bene e l’opera della vostra fede, 12perché sia glorificato il nome del Signore nostro Gesù in voi, e voi in lui, secondo la grazia del nostro Dio e del Signore Gesù Cristo.

Approfondimenti

(cf 1-2 TESSALONICESI – nuova versione, introduzione e commento di RINALDO FABRIS © FIGLIE DI SAN PAOLO, 2014)

Dopo l'intestazione, ricalcata su quella della 1Tessalonicesi, in un ampio esordio, che comprende il rendimento di grazie e una preghiera per i destinatari si presenta la situazione critica della comunità cristiana di Tessalonica, esposta a persecuzioni e tribolazioni. Tuttavia l'autore non solo rende grazie a Dio per la fede rigogliosa e l'amore reciproco dei fratelli, ma è fiero della loro perseveranza e fedeltà in mezzo a tutte le prove che subiscono. Egli prende lo spunto da questo stato di cose per annunziare il giusto giudizio di Dio che cambierà la sorte dei perseguitati e dei per­secutori. Quelli che sono giudicati degni del regno di Dio, per il quale ora soffrono, troveranno sollievo quando il Signore Gesù si rivelerà dal cielo nella sua gloria co­ me protagonista del giudizio di Dio . Invece i persecutori , che non conoscono Dio e hanno rigettato il vangelo del Signore Gesù, saranno condannati alla rovina eterna. In un quadro antitetico, i ribelli a Dio e refrattari del vangelo sono contrapposti a quanti hanno accolto la testimonianza dei predicatori del vangelo. Alla fine i mit­tenti della lettera pregano perché Dio li renda degni della chiamata, portando a compimento ogni loro progetto di bene, a gloria del Signore Gesù Cristo. Con l'an­titesi tra il diverso destino dei due gruppi – salvezza per i fedeli e rovina per gli in­ fedeli – s'intende esortare e incoraggiare i destinatari della lettera a perseverare nel loro cammino di fede.

Nel testo originale greco la sezione 2Ts 1,3-10 è formata da un solo lungo periodo, senza interpunzioni. Si può tracciare quest'articolazione del testo dell'esordio:

Preghiera di ringraziamento

  • motivazione: crescita della fede e abbondanza dell'amore reciproco (1,3);
  • conseguenza: elogio nelle chiese di Dio della perseveranza e fe­deltà dei tessalonicesi che subiscono persecuzioni e tribolazioni (1,4).

Dio retribuisce secondo giustizia i fedeli tribolati e gli oppres­sori increduli:

  • annunzio del giusto giudizio di Dio, che rende degni del suo regno quanti ne affrontano le sofferenze (1,5);
  • Dio ripaga quelli che provocano la tribolazione e dà sollievo ai tribolati nella rivelazione potente del Signore Gesù dal cie­lo, con i suoi angeli (1,6-8a);
  • il Signore Gesù fa scontare la pena a tutti gli empi e ai ribelli al suo vangelo, condannati alla rovina eterna, esclusi dalla sua gloria e potenza (1,8b-9);
  • «in quel giorno» egli verrà per essere glorificato nei suoi con­ sacrati e accolto con ammirazione da quanti hanno creduto all'annunzio del vangelo (1,10).

Preghiera per i tessalonicesi:

  • perché Dio li renda degni della chiamata (1,11a);
  • porti a compimento ogni desiderio di bene e l'opera di fede (1,11b);
  • perché siano reciprocamente glorificati Gesù Cristo il Signore e i credenti (1,12).

Per la prima volta nella nostra lettera compare il sostantivo apokálypsis (rive­lazione), che richiama la tradizione apocalittica, dove predomina il tema del «giu­dizio di Dio», come risposta ai giusti sottoposti a prove e tribolazioni (2Ts 1,7).


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Figli della luce e del giorno 1Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; 2infatti sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte. 3E quando la gente dirà: «C’è pace e sicurezza!», allora d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie una donna incinta; e non potranno sfuggire. 4Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro. 5Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre. 6Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri. 7Quelli che dormono, infatti, dormono di notte; e quelli che si ubriacano, di notte si ubriacano. 8Noi invece, che apparteniamo al giorno, siamo sobri, vestiti con la corazza della fede e della carità, e avendo come elmo la speranza della salvezza. 9Dio infatti non ci ha destinati alla sua ira, ma ad ottenere la salvezza per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. 10Egli è morto per noi perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui. 11Perciò confortatevi a vicenda e siate di aiuto gli uni agli altri, come già fate.

Vivete in pace fra voi 12Vi preghiamo, fratelli, di avere riguardo per quelli che faticano tra voi, che vi fanno da guida nel Signore e vi ammoniscono; 13trattateli con molto rispetto e amore, a motivo del loro lavoro. Vivete in pace tra voi. 14Vi esortiamo, fratelli: ammonite chi è indisciplinato, fate coraggio a chi è scoraggiato, sostenete chi è debole, siate magnanimi con tutti. 15Badate che nessuno renda male per male ad alcuno, ma cercate sempre il bene tra voi e con tutti. 16Siate sempre lieti, 17pregate ininterrottamente, 18in ogni cosa rendete grazie: questa infatti è volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi. 19Non spegnete lo Spirito, 20non disprezzate le profezie. 21Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono. 22Astenetevi da ogni specie di male.

Conclusione 23Il Dio della pace vi santifichi interamente, e tutta la vostra persona, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo. 24Degno di fede è colui che vi chiama: egli farà tutto questo! 25Fratelli, pregate anche per noi. 26Salutate tutti i fratelli con il bacio santo. 27Vi scongiuro, per il Signore, che questa lettera sia letta a tutti i fratelli. 28La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con voi.

Approfondimenti

(cf 1-2 TESSALONICESI – nuova versione, introduzione e commento di RINALDO FABRIS © FIGLIE DI SAN PAOLO, 2014)

Figli della luce e del giorno Il tema della sezione è annunziato nella frase di apertura: «Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva» (1Ts 5,1). La questione del «tempo» è ripresa con l'espressione «giorno del Signore», la cui venuta è paragonata a quella del ladro notturno (1Ts 5,2). L'im­magine del ladro che viene «nella notte», in contrasto con la luce del giorno, ri­compare nel discorso con il quale si applica questo lessico metaforico alla condi­zione dei destinatari: «Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro» (1Ts 5,4). La ripresa dell'appellativo «fratelli» segna il passaggio a una nuova fase del discorso, dopo le dichiarazioni iniziali. I destinatari della lettera, interpellati come «fratelli», sono contrapposti a quelli che dicono: «Pace e sicurezza!», sui quali irrompe all'improvviso la ro­vina – come una donna incinta che è presa dalle doglie – senza possibilità di scam­po (1Ts 5,3). All'immagine della «notte» sono associati sia il «dormire» sia il disordine notturno, caratterizzato dall'abuso del vino (ubriacatura). Su questa simbolica del notturno negativo fa leva l'invito a vegliare e a essere sobri, rivolto a quelli che sono «del giorno». L'invito alla sobrietà sfocia in un'ultima esortazione, ispirata all'equipaggiamento militare – corazza ed elmo –, ed è riferito alle tre dimensioni dell'esistenza cristiana: fede, carità, speranza. Sul tema della speranza, specificata come «speranza di salvezza», si innesta la motivazione, in cui si pone in risalto l'iniziativa di Dio nel processo di salvezza, realizzato «per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo» (1Ts 5,9). Il ruolo mediatore di Gesù Cristo è esplicitato con un riferimento alla sua morte, rimarcandone l'efficacia soteriologica: morto «per noi». Al pronome di prima persona plurale «noi» si salda una dichia­razione nella quale si condensa l'intero discorso di consolazione rivolto ai tessalo­nicesi: «Perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui» (1Ts 5,10). Le due situazioni evocate con il lessico metaforico del «vegliare» e «dormi­re» corrispondono ai due gruppi della sezione precedente: «viventi» e «dormienti» (1Ts 4,15.17). Nella dichiarazione finale si concentrano lo scopo e l'esito dell'inte­ro processo salvifico. Il «vivere insieme con lui» – Gesù Cristo Signore – si con­trappone all'esperienza della morte, come la luce alle tenebre, il giorno alla notte.

Vivete in pace fra voi La lettera si chiude con una serie di istruzioni ed esortazioni riguardanti la vita della comunità, incentrata sulla qualità delle relazioni. Il clima spirituale è caratterizzato dalla gioia, dalla preghiera incessante e dalla ricerca della pace, invocata, alla fine, come dono del «Dio della pace» , che santifica i credenti e li conserva per la parousía del Signore Gesù Cristo (1Ts 5,23). Lo stile di questo finale della lettera alla Chiesa dei tessalonicesi è marcato da una serie di brevi esortazioni e appelli, costruiti con una sequenza telegrafica di ben diciassette imperativi, a partire da 1Ts 5,13c fino a 1Ts 5,22. La serie di inviti, appelli e brevi istruzioni riguardanti i rapporti e lo stile di vita della comunità cristiana, solo due volte è interrotta dalla motivazione che ri­manda alla «volontà di Dio in Cristo Gesù» (1Ts 5 ,1 8b) e dalla preghiera al Dio della pace, che garantisce la completa santificazione e integrità dei fedeli « per la parous(a del Signore nostro Gesù Cristo» (lTs 5,23c). La professione di fede cristologica risuona anche nel saluto-benedizione finale, dove i mittenti auspica­no per i destinatari della lettera «la grazia del Signore nostro Gesù Cristo» (1Ts 5,28). La «grazia», assieme alla «pace», è il dono di Dio, che sta alla base dello stile di vita della comunità cristiana, chiamata a vivere in pace (1Ts 5,13c).

Conclusione La 1Tessa­lonicesi si conclude con una preghiera al «Dio della pace», perché porti a com­pimento e alla sua pienezza il processo di santificazione dei fedeli nella parousia «venuta-incontro» del Signore Gesù Cristo. La formulazione della preghiera finale ricalca quella con la quale si chiude la sezione del dialogo epistolare, prima della parenesi degli ultimi due capitoli.

La triade «spirito, anima e corpo», più che una citazione dell'antropologia filosofica greca, è un'espressione retorica ridondante per rimarcare la totalità e l'integrità dell'essere umano, destinatario dell'azione di Dio. Le tre componenti potrebbero essere conformate alla visione dicotomica «spirito» / «corpo» (car­ne), predominante nell'epistolario paolina.

  • Lo «spirito» si riferisce alla dimensio­ne interiore e profonda della persona, che è in rapporto con Dio, mentre il «corpo» è la persona nella sua realtà visibile e relazionale. Lo «spirito è distinto come una forza autonoma rispetto al corpo.
  • Il «corpo» invece è un termine che indica l'essere umano: si sente l'influs­so dell'antropologia greca, che considera il corpo come involucro o prigione del­ l'anima o dello spirito.
  • L'anima è l'elemento vitale, usato per indicare l'essere umano vivente (Rm 2,9; 13,1) o la «Vita» (Rm 16,4; 2Cor 1,23; Fil 2,30).

L'ultima sezione della 1Tessalonicesi è un concentrato di brevi esortazioni, direttive pratiche e appelli. Le motivazioni e le aperture di carattere teologico sono ridotte all'essenziale: «la volontà di Dio in Cristo Gesù». Solo nella preghiera e nella benedizione finale compaiono i protagonisti divini: il Dio della pace e il Signore nostro Gesù Cristo. In questa raccolta di disposizioni e inviti, s'intravede il progetto di una comunità e di uno stile di vita caratterizzato dall'impegno soli­dale e attivo, dalla gioia e dalla preghiera riconoscente, dall'entusiasmo spirituale e dalla ricerca del bene e dalla pratica della condivisione dei beni.

L'immagine di Chiesa, che traspare dall'insieme delle esortazioni e disposi­zioni finali, è quella di una comunità di relazioni, più che quella di un'organizza­zione ben strutturata ed efficiente. Non mancano i responsabili che si prendono cura degli altri, ma tutta la comunità è coinvolta nella cura e nell'accompagna­mento delle persone in difficoltà o più fragili. Anche la preghiera nella forma del rendimento di grazie o dell'invocazione non è organizzata in forme e tempi fissi e regolari, ma è come un clima che avvolge l'intera esistenza dei membri della comunità. Con una breve invocazione al Dio della pace, Paolo presenta un esem­pio di preghiera fiduciosa e aperta al compimento del disegno di salvezza con la «venuta del Signore nostro Gesù Cristo». L'appello finale alla preghiera recipro­ca, il saluto con il bacio e la lettura comunitaria della lettera, sono tutti indizi della qualità delle relazioni che formano il tessuto umano e spirituale della Chiesa dei tessalonicesi.


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