Nel film Manhattan (1979) ad un certo punto Isaac Davis (Woody Allen) si trova ad una festa e parla con alcuni ospiti di una notizia che ha letto sul giornale.
Isaac – Ehi, avete letto che i nazisti faranno una marcia nel New Jersey? No? L'ho letto sul giornale. Dovremmo riunirci, andar là e prendere dei mattoni, delle mazze da baseball, e proprio schiarirgli le idee.
Invitato alla festa – C'era un articolo satirico che li distruggeva sulla prima pagina del Times, li distruggeva.
Isaac – Beh, un articolo satirico sul Times è una cosa, ma i mattoni e le mazze da golf sarebbero un gran bell'argomento.
Invitata alla festa – Oh, ma guardi, la satira veramente corrosiva è sempre meglio della forza fisica.
Isaac – Ma la forza fisica va sempre meglio coi nazisti, perché è difficile satireggiare un tizio con le svastiche addosso.
Originale in inglese
Isaac – Has anybody read that Nazis are gonna march in New Jersey? Y'know, I read this in the newspaper. We should go down there, get some guys together, y'know, get some bricks and baseball bats and really explain things to them.
Party Guest – There is this devastating satirical piece on that on the Op Ed page of the Times. It is devastating.
Isaac – Well, a satirical piece in the Times is one thing, but bricks and baseball bats really gets right to the point.
Party Guest 2 – Oh, but biting satire is always better than physical force.
Isaac – Oh, no. Physical force is always better with Nazis, because it's hard to satirize a guy in shiny boots.
Quattro anni fa ho lodato il direttore dei cinema d’essai del paese dove vivo perché a Natale, quando imperversano film per famiglie e cinepanettoni, aveva avuto il coraggio di proiettare “Dio è donna e si chiama Petrunya”, storia ironica e amara di una ragazza che si oppone ai poteri della Chiesa e dello Stato e ne esce a testa alta grazie alla sua sete di giustizia.
Quest’anno non posso che ripetermi negli elogi. Nei giorni scorsi alla Sala degli Artisti ho avuto la fortuna di vedere tre film imperdibili che ti conquistano lasciandoti senza parole: “The Old Oak” di Ken Loach, “La Chimera” di Alice Rohrwacher e “Foglie al vento” di Aki Kaurismäki.
Ero così appagato che avevo progettato di starmene a casuccia al calduccio fino all’arrivo del nuovo anno e invece quell’ostinato visionario del Cardarelli – che una ne fa e cento ne pensa – tira fuori il barbatrucco proprio la notte di San Silvestro.
Avevo progettato di festeggiare l’arrivo del nuovo anno rilassato sul divano, lontano dai fuochi e dai botti, dalla dance music all’aperto, dal tunnel del divertimento e invece quel geniaccio che ti fa? Programma la proiezione dell’ultimo film di Hayao Miyazaki proprio mezz’ora precisa dopo il cin-cin, mandando all’aria tutti i piani.
Quando ero ragazzina lessi un libro che si chiamava “La bella di Cabras”. Il libro, famosissimo in Sardegna, ha fatto la leggenda (e la maledizione) della bellezza delle donne del mio paese e narra di una sguattera sedotta e abbandonata dal padroncino che si annega incinta e disperata. A ben pensarci è cominciata lì la mia sequenza di lettura di storie di donne morte male. E dico “male” perché, se morire è il destino di tutti, la morte tragica nella narrazione popolare sembra adattarsi alle donne in modo del tutto particolare. Nell’opera lirica ottocentesca sono poche le eroine che sopravvivono alla loro storia. Tosca si getta da Castel Sant’Angelo, Violetta e Mimì muoiono di tisi, Carmen finisce ammazzata, Norma si immola sulla pira, Aida si fa intombare, Madama Butterfly si trafigge con la spada e tutte lo fanno per un uomo, con un uomo o contro un uomo. Nella letteratura non cambia molto: per secoli nessuna donna ha avuto una storia propria a prescindere dall'amore per un uomo e in quell’amore spesso ci è morta male, da Giulietta Capuleti che si pugnala per seguire Romeo nella morte fino a Bella Swan che per stare con Edward alla pari vuole morire e risvegliarsi vampira. Tutta la fantasia creativa degli autori ci ha passato l'idea che, se amano davvero, le donne amano da morire. E' la nostra natura. Secondo questa narrazione, piangere, essere fragili e delicate, svenire per un nonnulla e addormentarsi in sonni metaforici sarebbero la quintessenza del nostro carattere, qualcosa che ci distingue nettamente dagli uomini, a meno che essi non siano deboli di carattere e si mettano a “fare le femminucce”. Così si fa strada l’idea che l’animo femminile sia naturalmente tragico, che le lacrime ci siano facili, la tristezza sia nel nostro dna, soffrire ci si addica e morire, specie se per amore, sia il top della gamma di una vita vissuta sul filo del dramma. E' per questo che sto attenta a come maneggio le storie in cui qualcuna muore e sto ancora più attenta se devo scriverle.
So che io e Chiara Tagliaferri racconteremo anche le magnifiche Morgane che hanno scelto la propria fine, ma lo faremo a modo nostro, oggi consapevoli che la tragedia non è un valore aggiunto nella vita delle donne, il dramma non è il nostro destino e nessuna morte ci fa più belle.
L’8 dicembre è la festa dell’Immacolata Concezione.
Molti pensano che in questo giorno si celebri il concepimento verginale di Gesù, ma non è così. L’Immacolata Concezione in oggetto è quella di Maria da parte di Gioacchino ed Anna.
Per capire bene la questione bisogna fare un passo indietro e ripartire dalla Genesi.
Adamo ed Eva vivevano, nudi e felici, in un tempo senza fine nel giardino dell’Eden. Dio aveva dato loro delle indicazioni e un divieto da rispettare: non mangiare i frutti dell'albero della conoscenza del bene e del male. Se lo avessero trasgredito sarebbero stati guai. Per un po’ di tempo i due erano stati diligenti, ma un giorno arriva il serpente tentatore. Si mette a chiacchierare con Eva e la convince ad assaggiare il frutto dell’albero della conoscenza. Spinta dalla curiosità Eva lo raccoglie e comincia a mangiarlo, poi lo passa ad Adamo che fa altrettanto. Errore madornale!
Lì per lì Dio fa finta di non sapere, ma poi si arrabbia tantissimo. Maledice il serpente e caccia i due malcapitati dall’Eden, mandandoli a sgobbare e a soffrire fino alla fine dei loro giorni.
La trasgressione commessa dai nostri progenitori diventa il peccato originale, la colpa indelebile che macchia per sempre il genere umano e che si trasmette di generazione in generazione senza soluzione di continuità.
Tutto sembrava sistemato, ma quando Dio decise di inviare sulla Terra suo figlio, si presentò un problema. Come farlo venire alla luce? Può nascere da una donna qualunque o deve avere delle qualità eccezionali? La donna che accoglie il Figlio di Dio incarnato deve essere priva del peccato originale?
Sulla questione si è dibattuto a lungo nel corso dei secoli, perché non c'era un'esplicita chiarezza nelle Sacre Scritture. Diciamo, per farla breve, che due erano le opposte fazioni.
Da una parte c’erano i sostenitori della dottrina secondo cui alla nascita Maria era stata concepita nel peccato originale come tutti, ma poi sarebbe stata anticipatamente redenta da Cristo; dall’altra c’erano quelli che sostenevano che Maria era diversa dalle altre donne perché sarebbe stata concepita senza peccato originale (Duns Scoto).
Come è andata a finire?
La discussione è stata chiusa l’8 dicembre del 1854 da Papa Pio IX con la pubblicazione della Costituzione apostolica “Ineffabilis Deus” e la proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione. Nel dogma si afferma che Maria è stata la sola creatura umana a ricevere da Dio un’anima piena di grazia e quindi l'unica ad essere nata priva del peccato originale, fin dal momento del suo concepimento da parte dei genitori.
Perché è stato scelto proprio l’8 Dicembre?
La data fu individuata da Pio IX in riferimento alla festa della Natività di Maria, introdotta in Occidente da papa Sergio I nel VII secolo e fissata all'8 settembre, giorno della dedicazione della basilica di Sant'Anna a Gerusalemme, che, secondo un'antica tradizione, sorgeva nel luogo dove avevano abitato Anna e Gioacchino. L'Immacolata Concezione quindi anticipa di nove mesi esatti la Natività di Maria.
L'afa,
la birra intiepidita,
il canto delle cicale la mattina presto,
i divani che fanno sudare,
l'entropia dei parcheggi selvaggi,
la dittatura della festa,
il gelato che mette sete,
le camicie hawaiane,
il divieto di guidare con le infradito,
il mare di lavoro nero su cui galleggia l'industria del turismo,
la musica dei tornei di beach volley,
le notti bianche, rosa, fluo, ecc.,
il profumo dell'olio abbronzante,
le palme finte e quelle vere,
l'alba del quindici d'agosto,
il reef degli stabilimenti balneari che chiude la vista del mare,
la proliferazione delle sagre,
i tatuaggi irezumi,
gli ululati dei cani lasciati da soli,
il vociare notturno che disturba il dormiveglia,
le zanzare.
Finalmente una bella notizia. Associazioni ambientaliste e cittadini sono riusciti a convincere la Provincia a rivedere il progetto della “Lungotenna” e a studiare una traslazione della strada verso la collina. Così facendo gli alberi della fascia ripariale – indispensabili per proteggere le sponde del fiume dall’erosione – sarebbero salvi.Rimango sempre sorpreso dall’atteggiamento di certi progettisti e amministratori.A scuola si insegna che non si deve costruire nelle zone intorno ai fiumi, per consentire ai corsi d’acqua di sfogare la propria energia durante i fenomeni di piena. Il concetto viene ribadito su giornali e TV ogni volta che un’alluvione provoca danni a città e campagne. Poi però quando si realizzano le infrastrutture, tutto viene improvvisamente rimosso e dimenticato.E allora sorge spontanea una domanda: se si persevera negli stessi errori, è giusto far pagare i danni sempre alla collettività?Le voci che si sono alzate in questi giorni a difesa di quella zona di bosco ripariale, mi hanno richiamato una bella pagina del poeta ligure Camillo Sbarbaro.Amico di Eugenio Montale, Camillo Sbarbaro è stato apprezzato traduttore ed appassionato di ricerche botaniche. Terminata la prima guerra mondiale cominciò ad insegnare greco e latino a scuola, attività che purtroppo fu costretto ad abbandonare perché si rifiutò di aderire al partito fascista. Non soddisfatti, quelli del regime decisero di censurare anche le sue opere. Lui non si arrese. Continuò a scrivere e a dedicarsi allo studio dei licheni, di cui fu scopritore e profondo conoscitore, tanto che alcune nuove specie portano il suo nome.
41. [78]
Ormai, se qualcuno invidio, è l’albero.
Freschezza e innocenza dell’albero! Cresce a suo modo.
Schietto, sereno. Il sole, l’acqua lo toccano in ogni foglia.
Perennemente ventilato.
Tremolio, brillare del fogliame come un linguaggio sommesso e persuasivo!
Più che d’uomini, ho in cuore fisionomie d’alberi.
Ci sono alberi scapigliati ed alberi raccolti come mani che pregano.
Alberi che sono delicate trine sciorinate; altri, come ceri pasquali. Alberi patriarcali, vasti come case, rotti dalla fatica di spremere per generazioni la dolcezza dei frutti.
C’è l’albero di città, grido del verde, unica cosa ingenua nel deserto atroce.
Ma più di tutti, due alberi ricordo, che crescevano da un letto di torrente, allato, come svelti fratelli.
Essere un albero, un comune albero…
in Trucioli (1920) – ora in Meridiani Mondadori, 2021
Il Ministro della Cultura Sangiuliano li avrà letti i cinque libri finalisti del premio Strega?Ce lo chiediamo dopo aver ascoltato il suo intervento durante la serata finale: “Ho ascoltato le storie che sono espresse in questi libri finalisti questa sera e sono storie che ti prendono e ti fanno riflettere. Ecco, proverò a leggerli”. A quel punto una basita Geppi Cucciari gli ha chiesto:”Ah, non li ha letti?”. Il ministro ha replicato che li aveva letti perché li aveva votati, ma che li avrebbe voluti approfondire.Beh, comunque siano andate le cose, prima di giudicarli, leggiamoli i libri. È vero che a causa della vita frenetica è sempre più difficile trovare del tempo da dedicare alla lettura, però è anche una questione di scelte. Per dire, prendiamo il cavaliere Don Chisciotte. Cervantes ci racconta che era un lettore così appassionato che si dimenticava di andare a caccia o di amministrare il suo patrimonio. Non solo, era arrivato persino a vendere dei terreni, pur di possedere i libri che tanto amava.
L'età del nostro nobiluomo rasentava i cinquanta anni: robusto, segaligno, di viso asciutto, molto mattiniero e amante della caccia. Vogliono dire che avesse il soprannome di Chisciada o Chesada, giacché quanto a ciò v'è qualche disparità fra gli autori che ne scrivono; sebbene per verosimili congetture si lascia capire che si chiamava Chesciana. Ma questo poco importa per la nostra storia: basta che, narrando, non ci si sposti un punto dal vero.
È, pertanto, da sapere che il suddetto nobiluomo, nei momenti d'ozio (che erano la maggior parte dell'anno) si dava a leggere libri di cavalleria con tanta passione e diletto da dimenticare quasi del tutto lo svago della caccia e anche l'amministrazione del suo patrimonio. E, a tanto arrivò, in questo, la sua smania e aberrazione che vendette molte staia di terreno seminativo per comprare libri di cavalleria da leggere, sì che ne portò a casa tanti quanti ne poté avere; ma fra tutti nessuno gli pareva così bello come quelli che compose il famoso Feliciano de Silva, perché la limpidezza di quella sua prosa, e quei suoi discorsi intricati gli parevano maraviglie, specialmente quando arrivava a leggere quelle proteste d'amore e lettere di sfida, in molti luoghi delle quali trovava scritto: «La ragione del torto che si fa alla ragion mia, siffattamente fiacca la mia ragione che a ragione mi lagno della vostra beltà». E anche quando leggeva «....gli alti cieli che in un con le stelle divinamente con la vostra divinità vi fortificano e vi fanno meritiera del merto che merita la vostra grandezza».
Con questi discorsi il povero cavaliere perdeva il giudizio. Pur s'ingegnava d'intenderli e sviscerarne il senso che non l'avrebbe cavato fuori né l'avrebbe capito lo stesso Aristotile se fosse resuscitato solo a questo scopo.
Mercoledì 5 luglio il notaio di fiducia ha aperto il testamento di Silvio Berlusconi. Com'è andata ormai lo sappiamo tutti. Le quote Fininvest sono state divise tra i cinque figli; 100 milioni di euro andranno al fratello Paolo, altri 100 all'ultima fidanzata e 30 all’amico Marcello Dell’Utri. Parlando di amici ci sarebbero due esclusi importanti: Fedele Confalonieri e Adriano Galliani. Sembra che non ci sia niente per Dudù e per Dudina, ma ci sarà qualcuno che si occuperà di loro.Questa cosa mi ha fatto tornare alla memoria come in passato gli aristocratici lombardi tenessero in grande considerazione i loro cagnolini. Ne scrive giustappunto Giuseppe Parini nella sua opera “Il Giorno”, quando ci racconta che la Dama – moglie del Giovin Signore a cui è dedicato il poemetto satirico-didascalico – licenziò in tronco un servo che aveva osato dare un calcio all’amata cagnetta (“Vergine cuccia de le Grazie alunna”) che gli aveva morso un piede.
… … Or le sovviene il giorno,
Ahi fero giorno! allor che la sua bella
Vergine cuccia de le Grazie alunna,
Giovenilmente vezzeggiando, il piede
Villan del servo con l'eburneo dente
Segnò di lieve nota: ed egli audace
Con sacrilego piè lanciolla: e quella
Tre volte rotolò; tre volte scosse
Gli scompigliati peli, e da le molli
Nari soffiò la polvere rodente.
Indi i gemiti alzando: aita aita
Parea dicesse; e da le aurate volte
A lei l'impietosita Eco rispose:
E dagl'infimi chiostri i mesti servi
Asceser tutti; e da le somme stanze
Le damigelle pallide tremanti
Precipitàro. Accorse ognuno; il volto
Fu spruzzato d'essenze a la tua Dama;
Ella rinvenne alfin: l'ira, il dolore
L'agitavano ancor; fulminei sguardi
Gettò sul servo, e con languida voce
Chiamò tre volte la sua cuccia: e questa
Al sen le corse; in suo tenor vendetta
Chieder sembrolle: e tu vendetta avesti
Vergine cuccia de le grazie alunna.
L'empio servo tremò; con gli occhi al suolo
Udì la sua condanna. A lui non valse
Merito quadrilustre; a lui non valse
Zelo d'arcani uficj: in van per lui
Fu pregato e promesso; ei nudo andonne
Dell'assisa spogliato ond'era un giorno
Venerabile al vulgo. In van novello
Signor sperò; chè le pietose dame
Inorridìro, e del misfatto atroce
Odiàr l'autore. Il misero si giacque
Con la squallida prole, e con la nuda
Consorte a lato su la via spargendo
Al passeggiere inutile lamento:
E tu vergine cuccia, idol placato
Da le vittime umane, isti superba.
Sonetto beffardo e irriverente, scritto in vernacolo romanesco nel 1834. Curioso che nella seconda strofa venga nominato anche un piccolo paese delle Marche.
Pìjjete gusto: guarda a uno a uno
tutti li Cardinali e li Prelati;
e vvederai che de romani nati
sce ne sò1 ppochi, o nnun ce n’è ggnisuno.2
Nun ze3 sente che Nnapoli, Bbelluno,
Fermo, Fiorenza, Ggenova, Frascati...
e cqualunque scittà lli ppiú affamati
li manna4 a Rroma a ccojjonà er diggiuno.
Ma ssaría poco male lo sfamalli
er pegg’è cche de tanti che cce trotteno5
li somari sò ppiú de li cavalli.
E Rroma, indove viengheno6 a ddà ffonno,
e rrinnegheno Iddio, rubben’e ffotteno,
è la stalla e la chiavica der Monno.
27 maggio 1834
1 Ce ne sono2 Nessuno3 Non si4 Manda5 Ci trottano. Trottare, per «accorrere»6 Vengono
Oggi sono iniziati i saldi estivi. L'ufficio studi di Confcommercio ha stimato che per l'acquisto di capi scontati quest'anno ogni famiglia spenderà in media 213 euro.La media. Che rassicurante e mistificatoria fregatura! Ci sarà una famiglia che spenderà 1065 euro e altre quattro che invece non spenderanno niente. Lo aveva capito anche Trilussa.
Sai ched'è la statistica? È 'na cosa
che serve pe' fa' un conto in generale
de la gente che nasce, che sta male,
che more, che va in carcere e che spósa.
Ma pe' me la statistica curiosa
è dove c'entra la percentuale,
pe' via che, lì, la media è sempre eguale
puro co' la persona bisognosa.
Me spiego: da li conti che se fanno
seconno le statistiche d'adesso
risurta che te tocca un pollo all'anno:
e, se nun entra ne le spese tue,
t'entra ne la statistica lo stesso
perché c'è un antro che ne magna due.