Gippo

Gippo – Un blog gestito dal Comitato Yamashita

L'ispirazione per questo post, viene dalle recenti vicende alle Olimpiadi in cui una atleta italiana si ritira da una sfida pugilistica contro un'altra atleta algerina dotata però del cromosoma maschile (o altra roba genetica che non ho capito). Mi è sembrata un'ottima occasione per parlare dei picchiaduro nei videogiochi, un contesto dove femmine e maschi se le danno di santa ragione in allegria e senza che nessuno metta bocca per fare propaganda.

Le pupazzotte di Doa

I picchiaduro

In Italia si chiamano picchiaduro e indicano i giochi di combattimento uno contro uno. Gli angli e i sassoni si riferiscono invece a questo genere di gioco come “fighting games”. I picchiaduro non vanno confusi con i picchiaduro a scorrimento, un genere tutto sommato derivativo del gioco a piattaforme che forse arriva prima, ma forse dopo. In ogni caso qui gli angli (e parte dei sassoni) si riferiscono ad essi come “beat'em up”. Quando ero più giovane mi piacevano moltissimo i beat'em up (e anche i run'n gun, ma è un'altra storia) perché amavo la modalità cooperativa che questi offrivano: in particolare, oltre al mitologico Double Dragon, stravedevo per Final Fight e usavo indifferentemente sia Guy, sia Cody, sia Haggard. Oltre alla modalità cooperativa che creava del sano cameratismo e cementava amicizie, mi piaceva molto il fatto che il gettone durasse abbastanza, insomma, che la partita non finesse subito. Sorte che invece era per me inevitabile nei fighting games o picchiaduro. Bene, ora parliamo delle varie serie.

Street Fighter

In principio fu Street Fighter che, anche se non lo sapevamo, era Street Fighter 1. Si usava Ryu, il ragazzo col kimono bianco che praticava il karate stile shotokan, come tutti i buoni. Non mi ricordo se esisteva anche Ken e se si poteva usare e, sinceramente, non ho voglia di andare a verificare. Ricordo però che quando arrivò al baretto fece abbastanza scalpore. Mi sembra che provai a giocare facendo in continuazione spazzate basse sui piedi dell'avversario (una mossa tipica di Street Fighter, in qualsiasi incarnazione) ma, anche se avevo visto altri riuscire ad andare abbastanza lontano con questa tecnica, a me non portò ad altro che ad un prematuro Game Over. Per questo decisi che i picchiaduro non facevano per me. E confermai questa decisione con Street Fighter 2, il videogioco che creò il fenomeno picchiaduro e lo portò alle vette del pop per tutti gli anni 90. Tutti continuavano a usare Ryu e Ken ma io, che ero abbastanza imbranato, provavo i personaggi che avevano mosse in grado di funzionare con la pressione ripetuta dei bottoni, in particolare Blanka (la scossa!), E. Honda (le mille mani di Hokuto!), Chun Li (i mille calci). Insomma ero un infame “button smasher”. Va inoltre detto che mi piaceva di Chun Li il fatto di poter manovrare una ragazza carina con lo sprite così grande e ben animato sullo schermo. Le sue lunghe cosce mettevano in crisi il mio essere un mite adolescente onanista, molto più che la guerriera in bikini di Golden Axe che spingevo sempre sul bordo superiore dello schermo per poterne ammirare il culo lungo il percorso. Ad ogni modo, mi mancava la tecnica fondamentale: il quarto di giro della manovella dal basso in avanti per lanciare l'hadooken. Senza di esso purtroppo non si andava troppo avanti. Adesso Street Fighter è diventato 3D (dal quarto capitolo in poi) ma vale la pena di segnalare l'ultimo capitolo 2D della saga: Street Fighter 3: Third Strike. Ha un certo seguito a livello competitivo e nuove dinamiche piuttosto interessanti come la parata (cioè, anzichè tenere la manovella indietro per ripararsi passivamente, la si spinge con tempismo in avanti: questo consente di contrattaccare). In questo titolo mi piace usare Hugo, un personaggio di Final Fight, anche detto Andrade che però noi pischelli chiamavamo Andrè De Giant come il lottatore di Wrestling. Vorrei infine segnalare anche un'altra curiosità: l'intelligenza artificiale dei primi Street Fighter, incluso Street Fighter 2 Turbo e i vari Street Fighter Alpha (o Zero)... barava. Cioè, faceva mosse impossibili, tipo il Sonic Boom di Guile, che necessitava di caricarsi in uno-due secondi, il computer te lo tirava fuori in una frazione di secondo, subito dopo un'altra mossa speciale. Oppure leggeva i tuoi movimenti e si comportava di conseguenza, bloccando la qualunque. La cosa è cambiata con Street Fighter 3 dove è arrivato un gioco più equo: difatti l'esperienza single player risulta più godibile e meno frustrante. Tralascio di sviscerare i futuri crossover con X-Men e supereroi vari, mi basti citare Marvel Vs. Capcom. Già, perchè vale la pena ribadire che l'autrice di Street Fighter (e del citato Final Fight) è proprio la mitica Capcom.

La SNK

Qualcuno era ed è un fanboy della SNK, la ditta autrice, tra gli altri, di Art of Fighting, Fatal Fury, King of Fighters, Garou: Mark of the Wolves (il migliore di questa lista). Non ho incontrato molti giochi della SNK lungo il mio percorso tranne il primo Art of Fighting. Mi era piaciuto moltissimo a livello grafico. Aveva certi sprite di lottatori ENORMI! Ma era troppo difficile. Fortuna che nello chalet dove stavo mi davano dei gettoni aggratis. Però non era per me. Dell'universo SNK non possiamo però non citare Mai Shiranui, la ninja un po' zoccola. Non lo dico in senso dispregiativo o come giudizio morale sul suo carattere: è un'esemplificazione delle sue tecniche ninja che prevedono l'essere un po' una zoccola esibizionista. Per il resto massima stima per Mai Shiranui e tutta la categoria delle ninja, su cui torneremo.

Mortal Kombat

Il mio primo approccio con Mortal Kombat fu ad un fiera a cui mi trovai a partecipare per caso. Fu amore a prima vista! Quei lottatori erano fotorealistici sembravano proprio veri... e quanto sangue, che violenza! Viuleeenzaaa!!! Poco dopo arrivò al mio baretto. Scelsi Scorpion e scoprii di cavarmela decentemente. Indietro, indietro, pugno basso e si poteva lanciare l'arpione (“Cooome hereee!!!”: figata!). I più tecnici usavano Sub Zero. A differenza di Street Fighter, che non ebbe conversioni per PC decenti fino al tardivo Street Fighter 2 Turbo, Mortal Kombat approdò quasi subito al PC ed io me lo procurai immediatamente. Tre dischetti, mi par di ricordare. Poi venne il migliore della serie: Mortal Kombat 2. Fatality, Animality, Friendship... Mortal Kombat 1 e 2 furono i primi picchiaduro di cui conoscevo TUTTE le mosse, normali, speciali e finali. Poi basta. Con la tastiera del PC mi trovavo perfettamente a mio agio e ricordo che portai i giochi anche al laboratorio di informatica delle scuole superiori dove ci divertimmo a organizzare tornei, al posto di programmare gestionali in Cobol. Poi venne Mortal Kombat 3 e non riuscii a procurarmelo subito. Ma subito capii che la vetta era stata raggiunta col 2 e che la magia era finita. Quel tasto “run” in più snaturava il gioco. Non ho mai amato le combo e Mortal Kombat 3 le introduceva come elemento chiave. Niente, era finito un sogno. Mortal Kombat, della Midway, è poi passato al 3D col 4' capitolo (abbastanza divertente) e ha raggiunto le due cifre come numero di incarnazioni, ottenendo recentemente un reboot con Mortal Kombat 1. E' un mondo diverso oggi, un mondo di DLC se vogliamo sintetizzare. Notevole il fatto che, tra i personaggi giocabili della saga, siano subentrati anche alcuni ospiti inaspettati, tipo Rambo. Sì, quello interpretato da Stallone.

Virtua Fighter

Arriviamo così al picchiaduro 3D. Vidi Virtua Fighter in sala giochi e ne rimasi colpito, come tutti. A livello grafico, non mi fece battere il cuore come Mortal Kombat. Giocandoci sul PC (anche Virtua Fighter è stato “portato”) devo dire di aver trovato un sistema di gioco divertente e vario che, specie nel secondo capitolo, ho finito con l'apprezzare moltissimo. Pochi lottatori, tre tasti (pugno, calcio e blocco) ma mosse ben caratterizzate, insomma un piccolo gioiellino. “Very polished” direbbero i Sassoni dell'Est. Non lo stesso si può dire del 3' capitolo, un episodio sperimentale che introduce scenari con dislivelli e un tasto in più (quello della “fuga”) che crea dei curiosi effetti comici involontari, trasformando le partite fra giocatori esperti in una sorta di balletto tra lottatori “in fuga”. Ad ogni modo una grande serie, con arti marziali realistiche (ho sempre sognato di dare la gomitata allo sterno à la Akira, mossa presa dal Baji Quan) che non ha avuto molta fortuna a lungo andare, fermandosi al quinto capitolo. Per me però, la vera scoperta del 3D nei giochi di combattimento è avvenuta con...

Dead or Alive

Avevo cominciato a lavorare e le estati non erano più quella fantastica sequela di pomeriggi interminabili. In quel tempo, in Italia, la Tim trasmetteva uno spot con tre belle ragazze (di cui mi sembra di ricordare che una fosse Gaia Bermani Amaral) e d'estate creava in giro per l'Italia dei villaggi promozionali in cui c'erano anche dei concertini e spettacolini con le ragazze dello spot. Giunto dalle mie parti questo villaggio Tim, ansioso di vedere Gaia Bermani Amaral o chi per lei, mi ritrovai invece ad ammirare una consolle fresca d'uscita sul mercato: la X-Box. Titolo di punta: Dead or Alive 3. Giuro, non avevo mai visto fino a quel momento un capitolo precedente di Dead or Alive. Non immaginavo si potessero creare delle ragazze digitali così belle e, soprattutto, in grado di muoversi con quella grazia e quel realismo: sembrava un film di arti marziali! Me ne innamorai all'istante e scoprii che il secondo capitolo, uscito su Dreamcast, poteva girare su un emulatore e non era poi così peggio del n. 3 della saga, anzi.
Fu così che capii le potenzialità del 3D nei giochi di combattimento, possibilità che comunque alla fine è rimasta piuttosto di nicchia per molto tempo. Dead or Alive riprendeva i 3 bottoni di Virtua Fighter solo che il blocco in realtà non si limitava a difendere ma creava un contrattacco immediato e spettacolare. Ecco: la parola giusta per descrivere Dead or Alive è proprio “spettacolare”. Non è un gioco per puristi e a lungo andare quel tasto del contrattacco crea delle situazioni di stallo che portano a noia il gameplay tra due umani. Ma il single player è particolarmente rilassante e appagante, anche per via del... fanservice. Due parole sul fanservice. In Dead or Alive le tette delle protagoniste hanno una fisica realistica (o quasi: diciamo che ballonzolano in modo evidente). I modelli delle ragazze sono particolarmente riusciti, tanto che sono stati rilasciati in seguito altri titoli che sono SOLO di fanservice, tipo Dead or Alive Extreme (1 e 2), Dead or Alive Paradise e Venus Vacation. Inoltre ho scoperto che esiste un mondo di appassionati di modelli 3D che condividono le conturbanti pupazzotte di Dead or Alive (o altro loro videogioco preferito) non solo con i formati 3D classici, ma nel formato XPS che è facilmente gestibile e “posabile”, grazie ad un programma leggerissimo chiamato XNA Lara, creato da un tizio appassionato di mod per Tomb Raider. In questo modo è anche possibile divertirsi perfino a scoprire com'è fatto il collo uterino di Kasumi o di Ayane (la mia preferita). Fra parentesi, questi ultimi due personaggi nominati sono due ninja, anch'esse piuttosto discinte e propense a mostrare le mutande se non peggio. Non a caso, la casa produttrice dietro il gioco è la Team Ninja.

Tekken

Tekken 3 l'ho visto in sala giochi. Inoltre gli amici con la Playstation lo avevano quasi tutti. Era bello, divertente ma... non mi ha mai preso particolarmente. Tekken, che col terzo capitolo ha fatto il botto, è evoluto bene nel corso del tempo, divenendo il titolo di punta fra i picchiaduro 3D. Recentemente è giunto all'ottavo episodio. Io ho giocato molto il quinto, che è un bel gioco, con personaggi carismatici e numerose e diverse arti marziali. Si tratta di un sistema di gioco a quattro tasti, rifinito col tempo, incredibilmente profondo, rigoroso e appagante se si ha la pazienza e la costanza di continuare a praticarlo. Il mio personaggio preferito è Heihachi, il cattivone anziano, che si esibisce in ottimo karate stile shotokan (non sono sempre e solo i buoni che lo usano). Tuttavia forse è il fatto che si tratti di un titolo privilegiato per il videogioco competitivo a dissuadermi dal riversarci troppe energie. Anche l'importanza che rivestono le combo per certi personaggi mi rendono tiepido nei confronti del gameplay. Io davanti ad un videogioco voglio rilassarmi. Ad ogni modo non possiamo negare i suoi pregi: un cast di lottatori molto ampio, che comprende anche canguri, orsi e panda, una storia abbastanza assurda e fuori dalle righe, una famiglia protagonista (i Mishima) dotata di assoluta personalità e infine, quello che gli Angli centro meridionali chiamerebbero “badass factor”: infatti sono tutti dei duri di prima categoria dotati di animazioni molto toste che danno l'idea dell'assoluta potenza dei loro colpi!

Altri picchiaduro da nominare

Oppure “notable mentions” o anche “honorable mentions”, come dicono notoriamente i Sassoni della bassa Padana.

Vorrei citare tra questi titoli, per il 3D, Soul Calibur, dallo stesso team di Tekken (la Bandai Namco), solo che anziché a pugni si lotta con le armi. Il primo Soul Calibur (che in realtà è il secondo poiché il primo si chiamava Soul Edge ed è famoso per avere una delle più belle intro e dei più bei brani della storia dei videogiochi) è ancora una perla di giocabilità. Ho provato anche il quarto capitolo ma non mi piace molto la direzione presa, ovvero la sovrabbondanza di effetti ed animazioni, anche se rimane molto divertente. Qui il mio personaggio preferito è Taki, una ninja (ma va?) che col tempo è diventata piuttosto pettoruta.

Sempre a proposito di combattimento con spade segnalo Samurai Spirit, un picchiaduro arcade davvero fantastico, stavolta in 2D. Il secondo capitolo è molto bello e dà una assoluta idea di duello tra samurai, col clangore delle katane che si incrociano, il ritmo riflessivo, la letalità delle armi (ci dovrebbe essere anche qui qualche ninja femmina ma non particolarmente significativa).

Vorrei poi citare il picchiaduro di Ken il Guerriero portato poco fa all'emulazione Dreamcast dall'arcade. E' un sogno che diventa realtà: da quanto tempo desideravo un gioco “fatto bene” di Ken il Guerriero da poter giocare! Lo cito più che altro perché è la mia scoperta più recente. Non ci sono ninja qui.

Nel passato ho giocato tanti altri picchiaduro, che cito in ordine sparso: – One Must Fall (robottoni 2D su Pc) – Darkstalkers (Morrigan e Felicia!) – Primal Rage (dinosauri fotorealistici) – Rise of the Robots (altri robottoni 2D sul Dos).

Infine, per chi vuole provare tutto ciò che ho descritto su PC (specie i titoli più datati), bastano Retroarch, PPSSPP, Epsxe e Dosbox. Insomma, un po' di emulatori e un po' di tempo per smanettare con le configurazioni. Se invece siete tipi competitivi e volete un avversario umano, oltre ad agguerrite sfide online in stile retrò, consiglio Fightcade.

Bene, è tutto. Ho sicuramente dimenticato qualcosa, ma pazienza. Che le ninja siano con voi e buon combattimento! Fight!!!

Gippo for Comitato Yamashita

Ricordo che dopo il mitico Gran Prix di Geoff Crammond, messa alle spalle una lunga pausa per il mancato aggiornamento del PC, il mio primo simulatore di guida moderno di monoposto sportive fu Racing Simulation 3. Non era male come gioco ma non aveva le squadre originali della Formula 1, anzi, a dire il vero era tutta un altra competizione automobilistica ma le auto erano abbastanza simili a quelle della categoria che miravo a simulare.

Formula Uan Gran Prí

Il desiderio di scrivere un post sui giochi di guida prende origine dal fatto che ieri, mentre tornavo a casa dal lavoro, una donna (donna al volante pericolo costante, rammentiamolo) ha fatto una curva sfruttando, come suol dirsi, tutta la pista e per poco non finiva con l'impattare con la mia auto. Questo mi ha fatto venire in mente che talvolta, quando ero alle prime armi, poteva capitarmi di tagliare un po' la curva e addirittura finire con una ruota su un piccolo rialzo a bordo strada. A quel punto mi veniva in mente che “avevo sfruttato il cordolo” .

Questo dava la misura del fatto che, padroneggiando la terminologia e utilizzandola nel quotidiano, dimostravo di essere sicuramente molto più appassionato di automobilismo di quanto lo sia ora. Ero anche più giovane (tema questo che sta tornando a riproporsi un po' troppo frequentemente nei miei post: che stia davvero diventando vecchio?) e guidavo molto di meno. Non è come ai giorni nostri che uno non fa in tempo a farsi crescere i pelucchi sotto il naso che già gli donano una minicar. Voglio tuttavia specificare che l'ultima metafora è solo per i maschi e non anche per le donne baffute sempre piaciute. Rimango dell'idea che “donne al volante pericolo costante”, quindi escludo aprioristicamente il gentil sesso anche da allegorie o altre figure retoriche relative alle quattro ruote.

Dicevo che guidare un'auto dal vero talvolta mi mancava in gioventú. Ebbene, tale distanza dal mezzo automobilistico generava in me tutta una serie di languori che tentavo di sopire con simulazioni di guida, meglio se realistiche al punto che, se alla prima curva si finiva direttamente fuori strada per mancanza di controllo della vettura, si insinuava lieve nell'animo, una sensazione sí frustrante, ma allo stesso tempo appagante.

Diceva un conoscente con la comune passione per i videogiochi, al quale rivelai che mi piacevano i giochi di guida, che lui non li amava molto perché gli bastava il traffico che affrontava ogni giorno per andare al lavoro. Ecco, oggi lo capisco un po' meglio, visto che non gradisco più cosí tanto questa categoria di videogame per lo stesso identico motivo. Non che affronti un traffico particolarmente terribile ma quel senso anticipatorio di testare le mie abilità di automobilista è definitivamente scomparso. Così, prima mi sono buttato sui Need for Speed, poi... basta. Se ci penso, la cosa fa un po' tristezza, perché coi giochi di guida é finita fuori strada anche la mia giovinezza di pilota virtuale e di uomo.

Ah dimenticavo: donna al volante, pericolo costante!

Gippo for Comitato Yamashita

Un caldo saluto a tutti. Ho deciso di utilizzare una tastierina Bluetooth e di scrivere direttamente sul cellulare. Al di là del mezzo tecnico utilizzato, ho un po' di difficoltà a scrivere, così voglio proporre un testo non mio, tratto dal libro dello scrittore cileno Roberto Bolano “Lo spirito della fantascienza”. Riguarda un po' la guerra ma anche e soprattutto quelli che amano giocare agli strategici bellici a turni. Riguarda pure quelli a cui piacciono gli sparatutto in prima persona, tipo me... anche se quando è stato scritto non c'erano sparatutto in prima persona ma... Leggete e capirete. Breve riflessione: anche io quando ero più giovane pensavo che gli strategici a turni fossero un po' pericolosi perché “normalizzavano” la guerra e ponevano il giocatore in una posizione distaccata, superiore, di mero calcolo privo di coinvolgimento emotivo. Bolano qui era d'accordo con me ma anche lui era giovane quando ha scritto queste parole.

Frattanto la tastiera Bluetooth ha smesso di funzionare, dopo che era partita cosí bene. Ma perché?!? Voglio provare Shenmue coll'emulatore Dreamcast sul mio smartphone!!! Come faccio senza tastiera? Va a finire che sviscererò il magico mondo delle connessioni Otg.

Comunque, ecco a voi il testo presentato:

Tratto da: “Lo spirito della fantascienza” di Roberto Bolano

«Non credo che siano i video la droga dei nordamericani, anche se non ho ben capito se lei si riferisse ai videogiochi o al fatto di girarsi i film da sé. Ma posso assicurarle che sta guadagnando terreno un nuovo hobby: i giochi di guerra. Il ventaglio è molto ampio ma in sostanza le categorie sono due. I giochi da tavolo che consistono in una mappa esagonata con pedine di cartone. E i giochi di guerra dal vivo o da finesettimana, simili a quelli che facevamo noi da bambini, solo che adesso i gringo che ci giocano pagano cifre così grosse da renderli un affare. Nei primi, cioè quelli dove il campo di battaglia è una mappa esagonata, il giocatore ha il ruolo di Stato Maggiore, benché ci siano anche i giochi tattici (i precedenti sono detti strategici) come la serie degli Squad Leader dove ogni pedina (e ce ne sono più di mille) rappresenta circa dieci uomini. Di solito questi giochi durano più di cinque ore ma ce ne sono alcuni la cui durata raggiunge le venti o le trenta ore di gioco.

L'origine, credo, è nel Kriegsspiel tedesco, la grande mappa strategica dove nel secolo scorso si giocavano le guerre prima di iniziarle, o negli scacchi, un gioco di guerra astratto. La seconda tipologia vede il giocatore nei panni del soldato, come se si trattasse di un'opera teatrale. Il gioco consiste nel dedicare un giorno o un finesettimana alle pratiche militari. Si insegna a maneggiare ogni tipo di arma, si assiste a conferenze di veterani del Vietnam, si fanno combattimenti simulati, ci sono addirittura associazioni che organizzano per gli aderenti lanci col paracadute. Le simulazioni, in entrambe le tipologie, danno prova di un rigore storico esemplare: i combattimenti simulati non avvengono in un vago limbo ma in luoghi ben precisi, sia del passato, sia di un futuro prevedibile o auspicabile: Vietnam, Iran, Libia, Cuba, Colombia, Salvador, Nicaragua, perfino il Messico sono fra gli scenari di queste scaramucce. Dato significativo: più di un combattimento si svolge negli stessi Stati Uniti, dove il nemico è impersonato da un'ipotetica guerriglia nera o chicana. Le campagne, nei giochi da tavolo, sono tratte per lo più dalla seconda guerra mondiale, anche se si trovano anche guerre di un futuro non lontano, dalla Sesta Flotta che spara a qualunque essere vivente nel Mediterraneo alla terza guerra mondiale limitata allo scenario europeo, bombe atomiche incluse. La maggior parte però sono della seconda guerra mondiale e hanno un'iconografia e meccanismi d'identificazione decisamente nazisti. Nella pubblicità, per esempio, promettono al futuro giocatore che se gioca bene ed è fortunato l'Operazione Barbarossa sarà un successo, i carri armati di Rommel arriveranno al Cairo e l'offensiva delle Ardenne porterà a un armistizio onorevole. Entrambi gli hobby, quello da tavolo e quello da week-end, hanno più di una rivista al loro servizio e un'infrastruttura concepibile solo negli Stati Uniti. Fra l'altro, la casa che pubblica i giochi da tavolo sta già creando programmi di gioco per i computer. Secondo me, gli affari vanno a gonfie vele».

«Ma chi è che ci gioca?» disse il dottor Carvajal.

«Ah, questa è la cosa più curiosa. Io avrei creduto che alla guerra dal vivo si iscrivessero soltanto assassini frustrati e membri del Ku Klux Klan, ma sembra che piaccia parecchio agli operai specializzati, alle casalinghe, agli yuppie e alla gente che si è stancata di fare jogging. Le guerre da tavolo tendono invece ad attrarre fascisti pigri, appassionati di storia militare, adolescenti timidi e anche scacchisti; si dice che Bobby Fischer stia giocando da più di due anni la battaglia di Gettysburg. Senza avversario, da solo».

Il dottor Carvajal annuì con un sorriso da angelo gelato.

«Il mondo imbocca strade strane» mormorò. «I miniaturisti mi sono sempre sembrati vassalli del diavolo. Per tutta la vita ho pensato che la Malvagità prima di agire provi le sue acrobazie in piccolo. In realtà, confrontati con i feticci dei gringo, le nostre riviste sembrano quello che sono: bestiole ferite».

«Ma vive» intervenne José Arco e poi mi domandò sottovoce: «Da dove hai tirato fuori queste cose?».

Dalle carte che ha Jan, gli dissi.

«Secondo lui, la John Birch Society è una casa di riposo per adorabili vecchietti in confronto alla gente della rivista “Soldier of Fortune”, che sono non soltanto mercenari per vocazione ma i veri ideatori di ciò che è oggi l'happening o la performance imperialista. Lo stesso si può dire di quelli che sostengono i giochi da tavolo. La casa editrice Avalon Hill, per esempio, pubblica una rivista che un giorno o l'altro dovresti sfogliare: “The General”, la Bibbia dei Manstein, Guderian e Kleist da tasca».

«Jan una volta mi ha parlato di Guderian».

Il dottor Carvajal ci guardava come la rupe dei suicidi.

«Jan è un nostro amico» spiegai. «Dice che... i carri armati di Guderian vanno fermati più volte, suppongo nel corso di tutto il secolo, anche se non so cosa c'entri con quello che stiamo dicendo».

«Lirica da macelleria» brontolò il dottore e con un gesto fece capire che non gliene importava un accidente ma che potevamo parlarne tutto il tempo che volevamo.

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E' un po' di tempo che sono nel Fediverso. Diciamo quasi quattro anni. Volevo quindi dare alcune informazioni a chi ci sta da poco.

1. Il Fediverso è fatto di persone.

Ok, ci sono pure i bot, comunque per lo più si ha a che fare con delle persone. Questo a volte è un problema perché le persone hanno il brutto difetto di essere umane, quindi sono permalose, oppure mancano di freni inibitori davanti ad una tastiera e uno schermo, oppure vogliono sentirsi belle e brave e promuovere una gestione energetica mondiale sostenibile. A seconda del tipo di persona, tendo ad essere il suo complementare, quindi se ho a che fare con un leghista tendo a spiegare come è brava e bella Elly Schlein, se ho a che fare con un permaloso tendo ad usare quella punta di sarcasmo atta ad offenderlo, se ho a che fare con un sostenitore di Greta Thumberg tendo a diventare un negazionista dei cambiamenti climatici e a chiamarlo “gretino” manco fossi Paolo Del Debbio.

Può essere una forma di difesa caratteriale (mettere la giusta distanza, attaccare per far capire di avere le zanne pronte all'occorrenza) oppure una patologica ricerca di engagement. Fatto sta che col tempo sto smussando questi aspetti del mio carattere. E lo stesso processo lo vedo avvenire anche in altri utenti del Fediverso.

Però va detto: diventa un ambiente digitale meno patologico ma anche con meno engagement.

2. Il Fediverso è fatto di persone brave e belle che usano Linux, riciclano i rifiuti, promuovono l'open source e ribadiscono che Musk e Zukerberg sono cattivi.

Nel corso della vita nel Fediverso vi capiterà di leggere questo. Poi di rileggerlo. Poi di rileggerlo ancora. Ok, siamo bravi e belli e raccogliamo sempre la cacca del cane. Forse ce lo ripetiamo un po' troppo ossessivamente? Forse ogni tanto se ignoriamo Musk ci facciamo un favore?

3. Il Fediverso è internet con tante applicazioni diverse.

Però a volte sono un po' troppe. Tipo l'account di Pixelfed io non so mai che farci. Ci faccio dei fumetti ok ma... Poi c'è il blog su Noblogo. Bello. Se potevo gestirlo senza Mastodon, usandolo con una minima gestione dei commenti, era meglio però. C'è una dispersione e frammentazione di utenze che non mi è mai piaciuta molto, io sono un minimalista. Cercate almeno voi di non disperdervi, per me tre account sono già troppi e mi mettono ansia.

Va bene. Questa è la mia guida del Fediverso.

FINE

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E' così alla fine era come avevo intuito qualche mese fa, o forse qualche anno fa. I negozi avevano cominciato a chiudere perché non c'era più alcuna convenienza a tenerli aperti, tra affitto, tassa rifiuti e bollette. Però qualcosa doveva prendere il loro posto. Magari delle saracinesche verniciate in colori sgargianti, oppure delle vetrine con delle decalcomanie artistiche o oscuranti. Qualcuno riapriva, eh. Ma erano tutte robe per donne, affinché diventassero e/o restassero belle: cosmetica e accessori, estetiste, parrucchiere. Ah, sì, poi il cibo. Se escludavamo i bisogni estetici delle donne, che poi non è che fossero così alti nella piramide di Maslow (vedi voce riproduzione), restavano solo quelli primordiali del nutrimento, anche se un nutrimento eccessivo e sovrabbondante, talvolta superfluo, talvolta impreziosito da una spruzzata social ma pur sempre il classico, intramontabile bisogno primario che ci aveva accompagnato dalla notte dei tempi: mangiare (e bere). In compagnia, certo. Annamose a fa' 'na magnata! A questo stavo pensando mentre ritornavo a camminare per il paese. Sapevo che non osservavo obiettivamente, sapevo che il mio sguardo era viziato da una visione selettiva e pessimista. Il Covid mi sembrava lontano ma ogni volta che camminavo da solo non potevo fare a meno di pensarci, anche ora che di tempo libero ne avevo sempre meno. Adesso andava di moda il PNRR e la cittadina si andava riempiendo edifici inediti, con facciate nuove, linee sfavillanti, vernici eco-friendly, coibentazioni a norma, strutture antisismiche. Eppure, che so, si faceva un nuovo ospedale e nello stesso tempo i giornali scrivevano che mancavano i medici e i macchinari specialistici. Oppure si edificava una nuova struttura con finalità sociali e i soliti giornali dicevano che c'era una fuga di giovani, un disimpegno generale, una socialità contratta e limitata alla magnata conviviale accompagnata da un alcol eccessivo e foriero di piccoli, insignificanti episodi di cronaca molesta. Insomma, si privilegiava la forma sulla sostanza e non c'era null'altro che poteva plasmare meglio la forma del paese se non la cara, vecchia edilizia coi suoi pittoreschi costruttori sempre sulla cresta dell'onda (oppure falliti, a scelta).

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Sì, stavo pensando proprio questo mentre andavo a cercare il campetto da basket. Avevo letto che l'avevano rimesso a disposizione per chiunque volesse utilizzarlo, in modo libero e senza lucchetti o cancelli. Non avevo portato con me il pallone, il mio era il solito vile sopralluogo che si fa in genere quando non si hanno le palle per buttarsi subito nel vivo dell'azione. C'era un ragazzino, forse terza media o primo superiore, un po' scuretto – se così si può dire, che si allenava da solo palleggiando da un canestro all'altro e provando alternativamente il tiro. Era abbastanza robusto per la sua giovane età ma la palla gli pesava e non gli entrava. Rimasi un po' ad osservare da lontano e pensai che un ultraquarantenne che si mette a giocare uno contro uno a basket con un ragazzino è improponibile, a meno che non sia suo padre o suo zio. Poi vidi fermarsi anche una monovolume metallizzata da cui scese una famigliola: padre, madre e soprattutto figlia con pallone da basket sottobraccio. La ragazzina era alta e robusta, più alta e robusta del ragazzino scuretto, e sembrava particolarmente entusiasta. I genitori le avevano detto: “Solo un paio di tiri poi basta” il che mi fece pensare che, forse, la ragazzina aveva un piccolo ritardo mentale o era una gigantessa bambina un po' sgraziata nel suo infantilismo. Fu in quel momento che mi ritrovai al fianco la ragazza mora. Quella coi capelli lunghi. “Ciao” mi disse semplicemente. Aveva una tuta rossa dei Chicago Bulls e un berretto da baseball. Insomma, era in tenuta sportiva. “Ciao” le risposi e, in virtù della confidenza creatasi dai nostri precedenti incontri, le chiesi subito di rimando: “Come ti sei conciata?”. “Sono vestita da manager di un club giapponese di basket”. “Con una tuta dei Chicago Bulls?”. Ovviamente lei non rispose. Erano già tre volte che la incontravo e non avevo ancora capito chi era, nè perché sapesse così tante cose di me, nè perché ci tenesse a vedermi nei momenti chiave delle mie passeggiate solitarie. La vidi armeggiare con il suo orologio digitale (no, non era uno smartwatch) e, dopo un paio di rapidi sfioramenti di display, avvertii una strana, improvvisa sensazione di vertigine. Mi sentii girare il capo e...

*** Tornato cosciente a me stesso chiedo: “Cosa è successo?”. “Niente” mi risponde lei “Lo scrittore si era stancato di usare il tempo al passato remoto e allora ho attivato uno slittamento temporale”. “Non ho capito” dico. Lei fa un gesto di noncuranza con la sua manina candida e delicata, come a dire che non è una cosa importante e comunque per me è troppo difficile da capire, così non insisto nell'esigere spiegazioni. Girandomi verso il campo da basket però, noto come il ragazzino scuretto, la ragazzina gigante e i suoi genitori sono perfettamente immobili. Nel caso del ragazzino, registro con orrore la posa a mezz'aria, le punte di piedi a venti centimetri dal suolo, la mano ancora protesa nell'atto di spingere il pallone, lanciato e al contempo immobile in cielo verso un canestro ad un paio di metri di distanza: una scena innaturale e impossibile secondo le leggi della fisica. Così come è impossibile la fissità degli altri attori di quella specie di foto dal vivo a cui assiste il mio sguardo incredulo. “Co-cosa è successo?” la domanda è balbettante ma stavolta non mi accontenterò di un invito a glissare. “Niente” mi risponde di nuovo lei “ho solo attivato il mio stop-watch”. “Lo stop-watch?” “Non far finta di non conoscerlo, proprio tu che vedi tutto quel porno giapponese!” “Non vedo affatto tutto quel porno giapponese, come lo chiami tu, e comunque non sono porno ma AV, ovvero Adult Video e comunque, sì, forse ne ho visti un po' in passato ma ora non più e comunque la serie con lo stop-watch non era la mia preferita!”. “Yeah, yeah, whatever” risponde lei sibillina, guardando di fronte con uno sguardo indecifrabile. Rimango sospeso anch'io in quella situazione assurda, la ragazza mora che non parla e i giovani dilettanti del basket che fanno le belle statuine imprigionate nelle loro pose. Non so come spezzare quel momento, è come se anche per me, che pure sento di avere la facoltà di muovermi e parlare normalmente, fosse stato premuto un tasto per bloccarmi. Poi, per fortuna, la ragazza mora ricomincia a parlare. “Verso la fine degli anni '40, a seguito di un esperimento di un gruppo di scienziati capitanati da Ettore Majorana, lo spaziotempo ha iniziato a collassare.” Trascorro qualche secondo in silenzio per metabolizzare quello che ha detto. Avevo capito in passato che lei era una specie di viaggiatrice del tempo e avevo fatto qualche congettura in merito ma non ero approdato a nulla. E quello che aveva appena rivelato non illuminava certo il campo delle ipotesi con la luce dell'intuizione... “Ce ne siamo accorti subito” continua lei girando la testa e guardandomi negli occhi “E temevamo se ne accorgessero tutti. Difatti c'era un fenomeno immediamente evidente che sapevamo sarebbe cresciuto a livello esponenziale: il tempo avrebbe sempre più accelerato”. “Accelerato?” “Certo. Restando invariati gli strumenti di misurazione, adeguati al nuovo ritmo, ciò che prima si completava in un'ora avrebbe richiesto sempre più tempo nominale: un'ora e dieci, un'ora e venti, un'ora e mezza... Le giornate di 24 ore si sarebbero sempre più effettivamente accorciate sotto il peso e la durata delle cose da fare. Non dirmi che non te n'eri accorto?” mi chiede con un sorriso sardonico. Io non so cosa risponderle. “I principali governi vennero subito a conoscenza del fatto e, per evitare il panico, cominciarono a cercare un modo per camuffare questa accelerazione e, possibilmente, invertirla. Per inciso, invertire questa accelerazione, magari fino a bloccare il tempo, ci avrebbe forse consentito di raggiungere il sogno dell'umanità: la vita eterna pur se condensata in un attimo che non passa mai. E d'altronde era questo lo scopo di quel primo esperimento che, fallendo, aveva ottenuto l'effetto contrario”. La ragazza mora fa una pausa per poi riprendere. “La guerra venne conclusa in fretta e furia e la propaganda bellica venne riconvertita interamente allo scopo di dissimulare nella popolazione l'accelerazione del tempo. A questo scopo vennero instillate una serie di false idee a cui si diede l'avallo farlocco di una manipolata autorità scientifica”. “Ad esempio?” chiedo. Non ero ancora sicuro di voler credere a quello che mi stava dicendo. “Ad esempio l'idea che sentire il tempo accelerare era una cosa legata all'età, cioè che vivendo più tempo e comparando il tempo presente con la massa più ampia di quello già vissuto, il presente potesse sembrare più breve. In pratica veniva detto che la percezione personale era in grado di ingannarci mentre in realtà eravamo noi stessi a ingannare la percezione delle masse suggestionandole con questa finta considerazione pseudopsicoscientifica”. “Se permetti” mi intromisi “quella che mi hai descritto è una considerazione un po' di nicchia. Un pastore abruzzese, una casalinga di Treviso, un bracciante lucano non hanno certo mai sentito questa storia...” “Infatti non si tratta dell'unico mezzo usato per confondere la gente. Un altro mezzo, il principale, è stato quello di rendere più frenetica la vita delle persone aumentando impegni e mansioni. Anche virtuali o inutili, tipo consultare Facebook o guardare la Tv o partecipare alla riunione di una associazione culturale del tartufo molisano. Per non parlare della più mastodontica e oppressiva istituzione ideata per occupare il tempo: il lavoro salariato post-rivoluzione industriale: fummo costretti a viaggiare indietro nel tempo fino al 1700 per crearlo. In pratica ci attrezzammo per fornire alle popolazioni uno o più capri espiatori cui dare la colpa dell'improvvisa carenza di tempo. E tutto questo funzionò abbastanza bene finché, nel 2012, non decidemmo di fare l'esperimento del Cern di Ginevra”. “Decidemmo? Ma chi siete VOI?” interrompo per domandare. “Ironia della sorte” continuò lei ignorandomi “non solo non invertimmo l'accelerazione del tempo ma aumentammo ancor di più la sua intensità. E oggi non riusciamo più a nascondere nulla, nè ad invertire alcunché”. “Aspetta un attimo, non mi hai affatto convinto!” dico “Se nel 1950 certi film duravano, ad esempio, un'ora e trenta minuti, com'è possibile che adesso abbiano la stessa durata?”. “Come misuriamo il tempo?” mi chiede lei pazientemente “Come ti ho detto, con degli strumenti. Questi sono basati sull'oscillazione della frequenza di minerali come il quarzo oppure l'oscillazione degli atomi, o anche la posizione del sole. Ma se tutti questi elementi inorganici accelerano con l'accelerazione del tempo, è come se vi restassero sincronizzati senza cambiare mai velocità rispetto ad esso. Gli unici che possono avvertire l'accelerazione del tempo sono gli organismi viventi, che debbono adattarsi ad esso.” La ragazza mora mi vede un po' perplesso. Difatti sto valutando seriamente per la prima volta le sue parole. E mi sono perso. “Uhm, forse ho messo troppa carne al fuoco...” dice lei “Facciamo così, ci aggiorniamo alla prossima puntata!”. La vedo toccare un'altra volta lo schermo e faccio appena in tempo a urlare: “Aspetta! Ho bisogno di più tem...”. Con la coda nell'occhio, registro nel campetto il pallone da basket che stavolta termina la sua corsa dentro al canestro mentre il ragazzino atterra sulle sue scarpe. La bambina gigante corre felice palleggiando verso l'altro canestro, sotto l'occhio attento dei suoi genitori. E la ragazza mora, nemmeno occorre dirlo... scomparve.

***

Molti pensieri si affollarono nella mia mente. Oltre alle solite domande che sempre vengono fuori quando si tratta di incongruenze nel ragionare di viaggi nel tempo. Cose del tipo: ma se sono tornati indietro fino al 1700 per distrarre le masse con la creazione del lavoro salariato moderno, non era più semplice ritornare semplicemente agli anni 40 per impedire al gruppo di Ettore Majorana di accelerare il tempo per colpa dell'esperimento fallito? Evidentemente quest'accelerazione, seppur effetto non voluto, aveva infine trovato una qualche utilità o un qualche scopo recondito al quale loro non volevano rinunciare. Ma chi erano loro? E quale poteva essere questo scopo? “Sticazzi” urlai entrando in campo e sottraendo la palla al ragazzino scuretto e alla bambina gigante. Quindi, tirando con la mano destra e la sinistra, infilai contemporaneamente, nello stesso preciso, millimetrico istante, i due palloni a spicchi nel medesimo canestro.

Gippo for Comitato Yamashita

Da oggi non sono più solo a scrivere per questo blog. Ho fatto un passo indietro e ora a gestire il tutto c'è il Comitato Yamashita, un gruppo di persone molto in gamba che ha le idee assai chiare su come vanno le cose nel mondo e su cosa occorre fare per migliorarle.

Prendendo il nome dalla nota hair stylist giapponese Yuko Yamashita, il Comitato Yamashita è un team che mira a diventare un gruppo di pressione con cui i potenti e i prepotenti dovranno fare i conti, spaziando dall'economia all'ingegneria sociale, dalla genetica alla fisica, dall'esoterismo alle teorie scientifiche eterodosse.

Il Comitato Yamashita usa metodi spicci ma giusti e, grazie ad alcune manovre oscure orchestrate negli anni passati, oggi ha licenza di muovere uomini e mezzi sullo scacchiere mondiale, giudicando e infliggendo pene anche corporali, godendo della più assoluta immunità da parte delle principali organizzazioni internazionali tra le quali, a titolo di elenco non esaustivo, annoveriamo la Nato, l'Onu, la Comunità Europea, gli Oligarchi Russi, il Partito Comunista Cinese, il Mossad, il Moma, Paul Biya, gli eredi di Berlusconi, l'Associazione per la Libera Oceania, la Yakuza, l'FBI, Bill Gates, Julian Assange Libero, Elly Schlein, il Coni, Club ex soci di Lolita Express, Elodie.

Comunque scriverò ancora qui ma lavorerò per loro. Ci sentiamo presto.

Gippo for Comitato Yamashita

E' difficile tornare a scrivere e trovare le motivazioni giuste per convincersi che sì, c'è tanto bisogno di scrivere e di comunicare al pubblico anonimo e potenziale che potrebbe leggermi e lasciarsi influenzare a credere che sono una persona arguta.

Volevo scrivere un post sull'intelligenza artificiale ma ho voluto aspettare che passasse un po' la meraviglia e la tentazione di argomentare in modo originale e spiazzante. Volevo intitolare il post:

Sei solo la copia di mille riassunti

Con l'AI ho completato la Fattoria Mallory, gli sfondi sono venuti benissimo, i personaggi un po' meno e ci ho dovuto lavorare su. Comunque per le ambientazioni, sempre meglio l'AI che il filtro acquerello sulle foto... Questo mi ha quasi spinto a: – Revisionare un mio famoso post tutorial sul come creare una visual novel mediocre; – Appendere al chiodo le mie velleità di creatore di grafica nei videogiochi.

Tralasciando l'aspetto più immediato legato alle mie reazioni istintive, è soprattutto la riflessione più profonda e viscerale legata al secondo punto che merita un approfondimento. Difatti mi è venuto da pensare alla natura stessa dell'AI ovvero copiare e rielaborare il contenuto già creato dall'uomo. Di qui il rimando al titolo che volevo dare al post e che richiama una nota canzone di Samuele Bersani. Se l'AI può essere AI soltanto perché in precedenza è stato un fottio di materiale creato da aspiranti artisti, non è forse il caso che noi esseri umani la smettiamo di creare materiale? Ecco, credo che sia una domanda seria: cosa abbiamo creato di nuovo negli ultimi tempi, come esseri umani? Abbiamo bisogno di una nuova illustrazione di Rouge the Bat nuda? O di una nuova amazzone con l'armatura lucente che le strizza le tette? O di un nuovo quadretto impressionista? O di...

Alziamo l'asticella

La AI riguarda vari settori e ha tante implicazioni: qui voglio puntare l'attenzione solo sull'aspetto che riguarda la sua capacità di creazione visuale, la sua potenzialità di sostituirsi agli aspiranti artisti. L'intelligenza artificiale, per i creativi nei quali mi annovero, potrebbe segnare un discrimine tra il nuovo e il vecchio e alla fine dovrebbe imporci la necessità di chiederci se è o meno il caso di creare qualcosa di già fatto e di replicabile, con più perizia e migliori risultati, da un programmino software. Non dovremmo smettere di creare (questa è una specie di necessità istintiva) ma solo chiederci se è il caso di pubblicare, di condividere, di mettersi in competizione con un'esercito di pigri “scrittori di prompt” per l'AI.

Poi bisogna anche cominciare a pensare, purtroppo, che la rivoluzione informatica non ha prodotto gli effetti rivoluzionari che volevamo e che forse è necessario guardare altrove, lontano dai bit, lontano dagli schermi, lontano dall'elettricità e dai circuiti elettronici, se vogliamo avere piú controllo sulle nostre vite e riuscire a cambiare qualcosa del mondo creando qualcosa di nuovo. La cosa sta diventando impellente, purtroppo.

Lasciamo allora che l'AI rielabori un deserto di vecchia spazzatura, privo di qualsiasi interesse o importanza mentre il meglio è altrove. Dove? Ancora non lo so.

P.S.: mi rendo conto di aver scritto in modo un po' anonimo e poco brillante ma vi assicuro che questo post non è stato creato dalla AI.

Gippo for Comitato Yamashita

Caro monsignor Viganò, cari amici della destra tradizionale, lasciate che vi dica, come solo un amico può fare, che avete smarrito la strada. Prendiamo la recente lettera di monsignor Viganò che designa Putin come l'ultimo custude della Tradizione. Tradizione un cazzo! Putin è forse un rappresentante della stirpe latina, erede della gloriosa tradizione dell'Impero Romano? No, ve lo dico io cos'é: in altri tempi l'avremmo definito uno “slavo di merda”! Come sapete però, viviamo i famosi “tempi ultimi”, quelli finali del Kali Yuga durante i quali il disprezzo per la divinità e il trascendente raggiunge vette inarrivate e non è il caso di fare riscorso a certe espressioni per non scatenare un putiferio. Dobbiamo tenere un basso profilo, talvolta mostrarci accondiscendenti e “restare in piedi tra le rovine” come suggeriva il maestro e custode della Tradizione (lui sì) Julius Evola. E poi, parliamoci chiaro e tondo: Putin è forse cattolico? Col cazzo! E' pure un ortodosso. Che cos'è un ortodosso? Non lo so e non lo voglio sapere, roba di quella gente slava dove è nato e si è sviluppato il germe del comunismo che adesso a voi amici confusi di destra sembra piacere tanto, persi nel vortice della vostra confusione ideologica. Per me il discorso su Putin è chiaro: prima si fa cattolico, poi vediamo se può entrare nel nostro circolo elitario di custodi della Tradizione. Ah, e già che ci sta abiura tutta la sua esperienza nei servizi segreti di quell'obbrobbio ideologico chiamato Russia comunista. E si fa un paio di plastiche e si mette due lenti a contatto scure per sembrare meno slavo. Punto. Tornando a monsignor Viganò e alle sue smarrite pecorelle (che sono tante) vorrei rivolgere un'altra critica: l'atteggiamento ostile verso Papa Francesco. Allora, partiamo col dire una cosa: Papa Francesco è la somma autorità del governo della Chiesa. Ora, se voi vi mettete contro la somma autorità, cosa vi distingue dalle miriadi di teppistelli, spesso extracomunitari, che si drogano, delinquono, fanno i ribelli da quattro soldi nei centri sociali e vanno ai concerti dei trapper? Cosa vi differenzia dai fan di Sfera Ebbasta? Niente, ve lo dico io. Credere, obbedire, combattere, diceva quello. E se oggi chi è al comando vi chiede di prendere un pene su per lo sfintere anale, voi lo prendete (ancora non ve l'ha chiesto, ma voi vi lamentate già a priori come se avesse espresso un obbligo anziché concesso un facoltà, tipo anche le farine di grilli). E' comunque un ben misero sacrificio in considerazione del fatto che un tempo chi regnava richiedeva di sacrificare la vostra vita in battaglia per il bene della Patria, della Nazione, dell'Impero! Invece voi lì a frignare, a lamentarvi, a fare i distinguo... Diciamocela tutta, avete perso l'abitudine a obbedire. E così, siccome ci sono tante persone al potere e ognuna dice una cosa diversa dall'altra, vi scegliete quella che vi fa più comodo, quella che vi consente di disobbedire impunemente e fare come cazzo vi pare. Non è questo lo spirito con cui si può cementare la coesione di un popolo con chi lo governa, in altre parole, l'identificazione della divinità attraverso l'incarnazione nel ruolo sovrano, prerequisito per la restaurazione del Sacro Romano Impero che condurrà nuovamente alla via della Tradizione. Come vedete, il punto, alla fin fine è: chi è il vero custode della Tradizione? A chi far riferimento per avere una luce nelle tenebre della dissoluzione dei tempi moderni? Per rispondere, voglio abbandonare definitivamente il pensiero debole e il relativismo che caratterizza quest'era diabolica e rispondere puntellandomi ad una sana, vigorosa presa di coscienza: il vero custode della Tradizione, la persona a cui fare riferimento per condurvi fuori da questo buio ideologico ed esistenzale SONO IO. Fate riferimento a ME. La divinità ha preso contatti con ME. Non con Putin, Trump, Bolsonaro, monsignor Viganò, nè tantomeno con il generale Pappalardo che continua bellamente a percepire una pensione da quello stesso staterello che ha diffuso i perniciosi e satanici valori liberali. Sono IO il rappresentante in Terra dell'essenza divina che vi restituirà il Sacro Romano Impero. Fidatevi. Credere, obbedire, combattere. Primo comando: infilatevi un grosso dildo nel sedere. Bisogna ripartire da un'idea di sacrificio che, amici della destra, avete troppo facilmente dimenticato. Poi ne cominciamo a parlare. Anzi, no, voi non dovete nemmeno cominciare a parlare o fare dibattiti o primarie o assemblee. Dovrete tornar usi ad obbedir tacendo, eseguendo solo quello che dico IO. Sennò va a finire come l'altra volta che era stata introdotta per il vostro bene la dittatura sanitaria e invece voi frignavate che volevate la democrazia dove Rosa Chemical si bacia con Fedez (che con la mascherina non sarebbe successo).

Gippo for Comitato Yamashita

Vi confesso una cosa: non sono uno sviluppatore di software. Però mi piace giocare a fare lo sviluppatore di videogiochi indie quindi ho pensato: “Perché non fare un bel diario di sviluppo di ciò a cui sto lavorando in questo momento?” Ebbene, in questo momento non sto lavorando a nulla. Vi parlerò quindi di questo nulla.

Per il gioco che sto sviluppando non ho assolutamente nessuna idea né, tantomeno, alcuna intenzione di completarlo e di ricavarne un prodotto finito. Per assolvere questo compito, ho scelto Love2d, un framework basato su Lua, linguaggio che da sempre associo al Vaticano, essendo stato sviluppato inizialmente in un'università pontificia del Brasile (non so se è vero, ma è importante che questo rimanga vero nella mia testa, affiché si creino inconsci puntelli mentali del genere “Dio è con me”).
Avevo già conosciuto le bontà di questo framework ma la cosa più importante di tutte riguardo questo framework è che pesa meno di 10 Mb e somiglia vagamente al Python (sempre nella mia testa) ma senza la necessità di indentare. Ci sono le tabelle, o tables, e si possono creare tabelle di tabelle di tabelle, se si vuole e si è virtuosi. Comunque una delle cose più importanti di questo framework è che lo conoscevo quindi ero già capace di: – Far comparire a schermo “Hello world”; – Sostituire eventualmente “Hello world” con un'altra stringa di testo più significativa; – Far apparire (dal nulla!) un'immagine jpg o png; – Qualche suono; – Cambiare stato, con un'apposita libreria che associa ciascun file di codice con uno stato a parte, stato richiamabile con appositi parametri tipo una funzione; – Salvare con un'altra apposita libreria; – Esportare una cosa potenzialmente inferiore ai 10 Mb.

Finora avevo fatto sempre tutto con il Notepad++ ma adesso mi sono trovato di fronte a nuove sfide, difatti non avevo alcuna idea né progetto per concludere alcunché, quindi ho dovuto sopperire alla carenza di motivazione con un paio di sterili stimoli tipici dei programmatori onanisti. Essi sono stati: 1) Un nuovo Ide che ho trovato in Zerobrane Studio. E' gratis o opensource (lo so che c'è una differenza ma non nel mio caso, specie per le mie poco significative motivazioni per le quali basterebbe una demo di ide che non salva manco il codice); 2) Una nuova libreria per interfacce grafiche in grado di semplificare enormemente (appunto) le interfacce grafiche, che ho individuato in SUIT.

Forte di questi due giocattolini/novità ma debole per l'assenza di idee e moventi interiori, ho creato una interfaccia menù con un titolo (“Fattoria Mallory”) e due pulsanti (“Comincia” e “Esci” che poi ho presto trasformato, un po' a malincuore, in “Start” e “Quit”).

Siccome non avevo un gioco in mente, ho pensato di proseguire con una specie di motore per introduzioni, roba con immagini e descrizioni prese da un file di testo che, una volta letto, crea una apposita tabella da scorrere per modificare la roba a schermo.

Poi ho pensato che forse dovevo adottare un concetto di gioco. Mi era venuto in mente di fare una roba tipo “Trova l'oggetto” dove lo scopo era individuare una sferetta verde piazzata casualmente in mezzo a un mare di sfere sgargianti e delle stesse dimensioni. Ma poi ho detto a me stesso: “Mah...”. Quindi sono tornato ad un mio pallino, una dinamica in grado oltretutto di sfruttare al meglio la libreria grafica SUIT: ho pensato così al gioco di carte. Adesso dovrei inventare il meccanismo del gioco di carte e implementarlo. Ma non ho la motivazione necessaria, nè (indovinate?) alcuna idea. Quindi?

Niente, questo era un diario di sviluppo, o devlog. Spero di non essere sembrato troppo autoreferenziale ma è tutto vero ciò che ho scritto, quindi mi auguro comunque di essere stato utile e di ispirazione.

P.S.: non è tutto, su Wikihow ho letto un tutorial su come creare un gioco di carte collezionabili. Lo sapevate che bisogna partire dall'ambientazione e non dalla meccanica di gioco? Peccato che non ho nessuna idea né sull'una né sull'altra...

Gippo for Comitato Yamashita

Cari amici del blog, come avrete notato il blog non è aggiornato molto regolarmente negli ultimi tempi.

Una lunga e inutile introduzione

Un paio di post fa ho scritto che respiravo un’atmosfera apocalittica, il che forse vuol dire che anziché parlare di ultimi tempi, sarebbe forse il caso di dire “tempi ultimi”. No, non è quella classica boccata di ottimismo che accompagna ogni fine d’anno... Semplicemente esistono tante apocalissi. La sapete no, quella storia del bruco e della farfalla e il discorso che ciò che il bruco chiama apocalisse il resto del mondo chiama farfalla, sì, insomma quella storia che dovrebbe farvi accettare più di buon grado i cambiamenti, tipo una riduzione oraria di stipendio, nuove “sfide” ecc. Esistono tante apocalissi, dicevo, e ne sto vivendo una. Ma la stanno vivendo in tanti. Quando dicevano che dopo il Covid “nulla sarà più come prima”, beh, c’avevano ragione. Quando lo dicevano dell’11 settembre c’avevano ragione. Come amo ripetere, è un po’ come quei film in cui due persone sembrano innamoratissime ma poi lui di punto in bianco dà un bel manrovescio a lei perché non allinea in modo giusto le bottigliette nella mensola del bagno. Da lì in poi è chiaro che il film cambia registro. Non è che potrà descrivere la domenica al luna park, sarà un’escalescion perché, diciamocelo chiaro e tondo, nelle coppie che funzionano, lui non tira schiaffi in assoluto, men che meno per la disposizione delle bottigliette del bagno. Ora voi direte: eh, ma lei se ne poteva accorgere prima che lui era un maniaco ossessivo! Eh, ma la coppia era destinata a scoppiare per dei presupposti sbagliati a livello caratteriale! Eh, ma (motivazione che preferite). Tutto vero ma vedete, uno può anche essere cosciente dei limiti, dei difetti ma sa anche che esistono delle soglie che non vanno superate, che esistono dei rischi da correre e si fa un’analisi costi-benefici dicendo: ok, questo rischio lo corro, speriamo che le soglie suddette non vadano infrante. Uh, sto divagando, parliamo di Doom 2.

Doom 2

Doom 2 è un gran gioco. Ai suoi tempi era troppo difficile per me ma oggi l’ho finito. Gran gioco, davvero. Non l’avevo apprezzato per la curva di difficoltà ripidissima ma avere dalla propria parte il “mouse look” anziché la sola tastiera ha aiutato tantissimo. Ha aiutato molto anche l’esperienza pluriennale in sparatutto di ogni genere. Vorrei fare una considerazione filosofica-psicologica su Doom 2 ma temo di averle esaurite tutte nell’introduzione. Quindi parliamo di “Altri robot: insolita famiglia”

Altri robot: insolita famiglia.

Ho disegnato e colorato un’intera kinetic novel (in realtà un racconto dalla forma più simile ad una sceneggiatura) di Uriel Fanelli. E’ stato un po’ come completare Doom 2, una soddisfazione. Due parole sul disegno. Era la fine del 2020 quando lessi “Disegnare con la parte destra del cervello”, libro che mi diede una prospettiva sul disegno inedita. Da allora ho introdotto nell’attività di disegnatore (che è più o meno il contrario dei miei studi e del mio mestiere attuale) pochi semplici accorgimenti: – Fare una bozza molto leggera con una matita di colore blu; – Ripassare con matita morbida e molto decisa sulla bozza; – Scansionare in scala di grigi; – Aumentare il contrasto; – Applicare il filtro “Stamp” di Photoshop; – Colorare con Fire Alpaca su più livelli dopo aver applicato il filtro che estrae le linee.

Ecco, questo è tutto. Va detto che disegnare è diventato il mio hobby e il mio antistress e che la pratica costante rende migliori a vista d’occhio. Del tipo: i disegni di un mese fa mi sembrano fatti male rispetto a quelli attuali. Ma parliamo di Fediverso.

Fediverso

Alla fine di questo 2022 faccio tre anni di Fediverso. Che sarebbero poi tre anni Mastodon, Pixelfed e Writefreely. Ho creato il blog in un periodo in cui avevo molto bisogno di scrivere. Oggi potrei tornare ad aver bisogno di scrivere come un tempo ma molte cose sono cambiate. Certo, questo blog andrebbe aggiornato un po’ più spesso! Dovrei aggiungere altro ma non mi va.

Conclusioni

Che dire in conclusione? Apocalisse vuol dire “rivelazione” quindi non un meteorite che distrugge la Terra tipo “Deep impact” ma capire che le cose che sono state fatte sinora in un certo modo, non possono più andare avanti com’era prima e quindi comportarsi di conseguenza se non si vuole soffrire troppo. Ad esempio, nella storia della coppia in cui lui picchia lei per le bottigliette sulla mensola del bagno, lei dovrebbe fare a lui il seguente discorso:

Il discorso della schiaffeggiata

Caro marito mio, io so come vanno a finire questi film. Si comincia con uno schiaffo, poi tu chiedi perdono e dici che non lo farai mai più, poi ci ricaschi e ci ricaschi e ci ricaschi di nuovo fino al punto in cui non proverai più alcuna vergogna o rimorso. E io avrò il viso massacrato ed ematomi vari finché ad un certo punto non andrò al pronto soccorso e dirò “Sono caduta dalle scale” e allora un operatore sanitario gentile e vagamente attratto da me comincerà ad avere sospetti, cercherà il mio indirizzo e scoprirà che viviamo in una villetta bifamiliare che ha solo un piano e non ha alcuna scala. A quel punto, con molta delicatezza mi inviterà a denunciarti e io dapprima ribadirò che sono caduta dalle scale, poi dirò che, sì, è vero, mi hai picchiato ma è stato un episodio isolato, poi le prenderò di brutto da te perché tu ti sei ingelosito dell’operatore sanitario gentile. E a quel punto potrà terminare solo in due modi: o finisci in galera, o muori, per suicidio o mia legittima difesa. E’ questo che vuoi? Perché é proprio questo che prevede il copione. L’unica cosa che può salvarci da questi ruoli è cambiare il copione. Invertirlo. Stravolgerlo. Io sarò la dominatrice e tu il dominato. Ti camminerò sopra coi tacchi a spillo e tu mi leccherai i piedi. E posteremo il tutto su Onlyfans. Facendoci i soldi. Ecco, solo questo può salvarci dagli sceneggiatori hollywoodiani e spiazzarli, convincendoli a seguire una nuova storia, nuovi cliché, un nuovo genere.

Conclusione 2

Esco dalla metafora per fare a tutti gli auguri di Buon Natale e Felice Anno Nuovo! E, se lo desiderate, vi auguro di cambiare ruolo e copione.

Gippo for Comitato Yamashita