GRIDO muto (podcast)

La mia vita con l'Artrite: la Società mi ignora. Questo podcast è il mio grido, la mia denuncia. https://noblogo.org/grido-muto-podcast/

La Vista 👁️: perché fibromialgia 🤕 e artrite 🦴 possono comprometterla!

In questo episodio ti parlerò della vista, di come sia difficile il mio rapporto con questo senso fondamentale e di come abbia influenzato la mia vita anche in passato.

Se vuoi ascoltare anziché leggere, puoi ascoltare o seguire qui l'episodio di questo podcast (il n. 4):

[...]

Non so tu, ma una delle applicazioni che io uso più spesso sullo smartphone si chiama lente di ingrandimento. L'applicazione non fa altro che usare la fotocamera dello smartphone per ingrandire quello che si inquadra. Sembra una piccola cosa, ma a 50 anni e con le mie patologie è una cosa fondamentale. Ho due paia d'occhiali, come tutte le talpe dei fumetti e molti dei cinquantenni: uno per vedere da vicino, che mi serve per leggere o guardare gli ingredienti di un prodotto, e l'altro per tutto il resto, incluso il mio lavoro al computer. Gli ottici insistono sempre per farmi dei progressivi, ma per il momento sono riuscito a non cedere. Mi sembrerebbe un segno di sconfitta.

Ci sono però dei giorni in cui il mio malessere è così importante da coinvolgere anche la vista, e lì non ci sono occhiali, app o progressivi che tengano. Sono stati fatti mille controlli, ma le lenti che utilizzo sono già le migliori possibili per me. Quando sto davvero male, la mia vista si offusca, le prestazioni dell'occhio calano e non riesco a leggere niente che non sia scritto molto, molto grande, neppure con gli occhiali giusti. Se dimentico a casa gli occhiali per leggere da vicino, sono menomato. In effetti, certe cose non le posso proprio fare.

All'inizio non lo capivo; non capivo perché la mia vista calasse così all'improvviso e poi, il giorno dopo, magari andasse benissimo. Pensavo che il calo fosse dovuto all'età, anche se era stato improvviso. Solo che poi la vista tornava e mi dicevo: “Ma porco cane, com'è che ci vedo di nuovo così bene? E ieri che è successo?” Ieri non riuscivo a capire quale fosse l'evento che scatenava questo calo della vista. Mi ci è voluto un po' a capire che il calo della vista coincideva con quei giorni maledetti, quelli in cui il dolore non è facilmente gestibile. E ti dirò di più: in quei giorni anche le immagini in movimento e le luci forti aumentano il mio malessere, mi danno un fastidio tremendo, come d'altra parte anche i suoni e i rumori che non cerco volontariamente. Mi ci vuole il silenzio, lo cerco come un naufrago cerca la terra.

Altre volte la vista non cala, ma all'improvviso delle fitte terribili colpiscono gli occhi, partendo dalla base del collo posteriormente e risalendo tutto il cranio, oppure come una scarica che arriva dall'interno attraverso lo zigomo. Anche il calo della vista è una forma di degrado invisibile che non riguarda soltanto me. Una delle più comuni, forse, di cui in generale si tende a non tenere conto. Paradossalmente, il calo della vista è una cosa che non si vede, non se ne tiene conto sul lavoro, ad esempio, e non si immagina che una persona con questi problemi possa impiegare più tempo per svolgere una mansione, specialmente in ufficio o in un laboratorio in cui si lavora sui piccoli dettagli. Non ne teniamo conto neanche guidando, quando l'automobile che ci sta davanti fa una velocità che non è quella che vorremmo noi. “Dai, muoviti!” Non capiamo che quell'autista può fare quella velocità per un motivo ben preciso.

La mia vista non è mai stata al top, per dire così, anche prima che i miei problemi iniziassero. Ricordo che in seconda elementare mi portarono dall'oculista perché dalla prima fila dei banchi non vedevo bene la lavagna. L'oculista mi appioppò un paio di occhiali spessi dalla montatura scura che in varie versioni porto ancora oggi: miopia e astigmatismo, non ci facciamo mancare niente. Però, dopo, era stato molto più facile leggere le parole delle canzoni.

Nel 1985 il mio nonno materno morì. Anche lui aveva avuto problemi di vista, ma gravi. La cecità lo aveva costretto su quel divano antico troppo a lungo e, alla fine, dopo tanti anni, aveva preso a muoversi sempre meno, anche per colpa delle viuzze del paesello che erano fatte interamente di sassi. Gli mettevano molta paura di cadere e così il suo corpo era andato prima del normale, non muovendosi più. Era un uomo che aveva visto la guerra da vicino (la seconda Guerra Mondiale) e ne aveva sopportate tutte le difficoltà, dopo. Con la scomparsa della sua generazione, tutti noi avevamo perso tantissimo, ma io non me ne rendevo conto allora; avevo solo 8 anni.

Questo evento tragico cambiò radicalmente anche la mia vita.

La nonna si era anche lei consumata per l'età e per aver accudito il nonno per molti anni nella sua infermità, fino a rallentare anche lei e a fermarsi senza più riprendere la sua capacità di movimento. Nel frattempo lamentava dolori in tutto il corpo. Si sa come sono i vecchi, mi dicevano un po' tutti. Più tardi avrei capito molto meglio come si sentiva la nonna.

Ora comunque non la si poteva più lasciare sola, specialmente in una casa antica che si sviluppava su tre piani, con scale strette e scalini traballanti. Mio padre pensò a come poter fare, chiese quando sarebbe potuto andare in pensione e, con nostra sorpresa, scoprì che gli mancava poco. Fu così che lasciammo la casa di Livorno nel 1986 per trasferirci nel paesino sulle montagne insieme alla nonna.

A differenza dei miei fratelli più grandi, io ero molto felice in un primo momento, perché per me quel paesello rappresentava il posto in cui potevo giocare liberamente. Nei fine settimana ci trovavo i miei amici speciali: Danilo, Marco, Lorenzo e tutti gli altri. Come me, avevano i loro nonni o altri parenti in paese e tornavano regolarmente a trovarli. L'abbandono della casa di Livorno, però, mi mise addosso comunque un senso di pesantezza. A qualche livello capivo che stavo lasciando per sempre quella casa e tutta la mia vita ne avrebbe risentito. Stava succedendo davvero, e la scelta che avevano fatto i miei genitori sarebbe stata determinante per spingermi a fondo nel mondo della musica, anche se in quel momento non potevo ancora saperlo. Sapevo però che tra tutte le cose più care che non volevo perdere, c'era il mitico mangiadischi e per fortuna lo portai con me.

Come se non fossero abbastanza il cambio di casa, di scuola, di abitudini, la vita in un piccolo paese era molto diversa da quella che conoscevo in città. Pontremoli, già piccola, era a 20 km dal paese e gli amici che conoscevo non c'erano tutti i giorni. Non era come mi ricordavo: loro non erano lì ogni volta che c'ero io. Giustamente, avevano le loro vite da un'altra parte e iniziai a rendermene conto.

Le settimane sembravano interminabili, scandite com'erano soltanto da giorni di scuola, compiti e catechismo. Aspettavo i fine settimana con ansia. A ottobre venne a vivere con noi Jacqueline, un cucciolo di pastore tedesco dai modi aristocratici, che ci avrebbe tenuto compagnia per diversi anni. I compiti e l'amore per il mio cagnolino mi tenevano occupato, ma naturalmente anche la musica. Ascoltavo quello che passava il convento, cioè ancora sigle di cartoni, fiabe registrate su cassette che avevamo portato con noi da Livorno, e tanta, tantissima radio. A volte nei programmi radio si parlava di paesi lontani, di equilibri mondiali, di cose che non capivo bene, ma su cui passavo ore e ore a fantasticare. Ricorda che internet non c'era allora e nei giorni migliori si riusciva al massimo a sintonizzarsi su Italia 1 o a telefonare a qualche amico dal telefono fisso, quello grigio, enorme e pesante, con la ghiera che ruotava per comporre tutti i numeri.

Ogni tanto passava in tv o in radio qualche programma musicale e allora era festa grande, soprattutto quando davano qualcosa degli Europe e i loro assoli di chitarra caotica e acida trattenevano la mia attenzione. Chi non ha mai ascoltato “The Final Countdown” alzi la mano! E poi c'era anche Madonna, il mio idolo pop del momento, insieme a Michael Jackson. In breve tempo, i ritmi delle sue canzoni diventarono una parte della routine quotidiana. Nella mia testa, come ti dicevo, riuscivo e riesco ancora a riprodurre con la mente qualsiasi brano che mi piaccia, e quindi televisione o no, anche Madonna era sempre con me, con i suoi testi scabrosi per l'epoca, come la canzone “Like a Virgin”. Ero ancora nell'età dell'innocenza, ma capivo benissimo che non era una canzone per bambini.

Dopo tanti vocalizzi di Madonna e un disastro di Cernobyl, mi ritrovai alla fine della quinta elementare, come per magia.

Nei giorni successivi al disastro nucleare, ero a giocare nei campi prima che la radio ci avvertisse di non farlo. Ancora oggi mi chiedo se essermi preso la pioggia radioattiva abbia influenzato in qualche modo la mia storia clinica. Ne parlammo anche durante l'esame di quinta nel tema, ma senza capire bene la portata dell'evento. Per noi bambini, era stato poco più di un momento in cui non potevamo stare all'aria aperta nei prati e in cui certe cose non si potevano mangiare, nemmeno se erano quelle dell'orto della nonna.

Fu un'estate speciale e spensierata, tra le gite al fiume e i vari giochi con gli amici, ma come diceva De André nelle sue canzoni:

Come tutte le più belle cose, durasti solo un giorno, come le rose.

Alle medie, all'inizio, tutti mi sembravano più grandi di me, anche se avevamo la medesima età e io stesso cominciavo a irrobustirmi. Non raggiungevo più le tonalità di prima e da quell'evento mi resi conto che ormai ero grandicello. Notavo con un misto di eccitazione e stupore i cambiamenti del mio corpo: diventavo più alto, più robusto, più forte. Senza avvisare, spuntarono anche i primi peli della barba e mi dava fastidio pensare che per tutta la vita avrei dovuto raderla. Per fortuna, successivamente presi la decisione di non farlo mai più.

Le medie furono un momento molto difficile, allo stesso tempo molto importante per me. Ci voleva più sforzo per fare i compiti ed ero impegnato per molto più tempo rispetto a prima. Mio fratello continuava a mettere su dischi, anche nei lunghi pomeriggi d'inverno in cui la luce del sole spariva prestissimo.

Un giorno, tra le cose che faceva passare sul giradischi, notai che c'era qualcosa di estremamente diverso da tutto quello che avevo ascoltato fino a quel momento: un gruppo che suonava quasi esclusivamente le canzoni che piacevano a me. Atmosfere sospese, tristi, minacciose, sognanti e spirituali che si intonavano benissimo con quelle che vedevo fuori, dove le giornate nebbiose e piovose si somigliavano così tanto da sembrare tutte uguali. All'inizio, quella musica era stata qualcosa di disturbante, ma con il tempo mi parve sempre più normale. Era quella che si intonava meglio ai miei pensieri.

Il chitarrista del gruppo mi sembrava qualcosa di divino e ho questa sensazione ancora oggi. Riusciva a far produrre suoni completamente diversi tra di loro. Quella chitarra la faceva sussurrare, urlare; la faceva piangere. Riusciva a farle fare il suono di un animale e a piegare il suono per fare in modo che le transizioni da una nota all'altra fossero più dolci e armoniose. Anche quando la canzone aveva un tono imponente e la chitarra doveva farsi sentire molto bene, il suo nome era David Gilmour e me lo sarei ricordato per sempre. I Pink Floyd iniziarono così a entrare prepotentemente nel flusso dei miei pensieri musicali.

A differenza degli altri gruppi, però, era molto più difficile suonare le loro canzoni, nella mia testa, solo con il mio pensiero. Avevo scoperto una musica molto più complessa, ricca, piena di suoni che non erano neanche musica, ma che inseriti in quei brani li rendevano del tutto interessanti. Non avrei mai immaginato che la musica potesse essere così e in tutto questo, il mio orecchio poté risultare ancora più allenato a riconoscere i suoni, ricordarli e a cercare di riprodurli a piacimento.

Quando ripenso a quegli anni, la musica è l'unica cosa che ricordo con passione. Mi ha letteralmente salvato dalla noia mortale di un luogo in cui l'estate durava solo due mesi e il resto era tutto inverno.

I Pink Floyd li ascolto ancora oggi, a distanza di tanto tempo. Fanno parte del mio terreno musicale, li trovo ancora attuali sia nelle musiche che hanno prodotto che nei testi brillanti e poetici che sono riusciti a trasporre in musica. Quando sono particolarmente giù, sono tra i pochi gruppi che mi piace ancora ascoltare. Le loro note sono confortanti, non tanto perché mi riportano agli anni nel paesello, ma perché mi suonano ancora dentro nell'animo.

Oggi, anzi, è ancora più facile trovarsi in sintonia con le atmosfere cupe e decadenti delle loro armonie. È così che ti senti quando la tua vita e il tuo corpo sono sempre più decadenti, e in tempi rapidi. La rabbia che trasmettono alcuni dei loro brani è del tutto appropriata al momento.

Ci si sente arrabbiati, vittima di un'ingiustizia che non ha un colpevole. Ci si chiede: “Perché a me?”, che poi è la classica domanda senza un senso. Quello che sto passando io, purtroppo, non conosce bontà o cattiveria, ricchezza o povertà. È forse l'unica cosa davvero democratica a questo mondo.

Tranne un'altra, a pensarci bene.

C'è un'altra cosa ancora che mi piacerebbe fosse democratica nel mondo di oggi: la possibilità che, se sei malato, tu possa essere visto, riconosciuto. Come dicevo, le patologie che mi affliggono non si vedono dall'esterno. Ed è proprio questo uno dei grandi problemi miei e delle persone che si trovano in una condizione simile alla mia. Ci sono tante patologie che non si vedono e per le quali la vista non è d'aiuto per riconoscerle. Oltre alle mie, di cui ti parlerò meglio più avanti, ce ne sono tante: la depressione, la cefalea a grappolo, l'endometriosi, il morbo di Crohn, la celiachia. Sono tantissime. Chi ne soffre, all'esterno, appare sanissimo perché la sua malattia non provoca segni visibili. Ed ecco perché io e altri pazienti condividiamo tutti la stessa ingiustizia. Come si fa a capire come stai se chi ti vede non può vederlo e non può capirlo al volo? Sia la vista che l'udito non sono abbastanza. Anzi, sono fuorvianti.

Una persona depressa molto spesso va al lavoro come tutte le altre, può addirittura apparire allegra. Chi soffre di cefalea a grappolo può assumere dei farmaci che attenuano il dolore e può svolgere le sue normali attività con un dolore ridotto, ma pur sempre presente. E chi lo vede non capirà che sta soffrendo. Soprattutto quello che non si può capire è che la stessa sofferenza, anche se non è estrema, lo diventa quando si protrae all'infinito.

Ecco allora uno dei perché di questo podcast che prende forma più chiaramente: noi malati invisibili dobbiamo farci sentire, dobbiamo far sapere agli altri che la nostra sofferenza è reale, perché purtroppo fanno fatica a capire e non ne hanno neanche colpa, diciamocelo. Non è per nulla facile. Però quello che dobbiamo chiedere loro è uno sforzo di immaginazione e se questo podcast può aiutare persone sane a capire come stiamo noi invisibili, beh, allora non dobbiamo perdere questa occasione. Se pensi che il mio messaggio sia importante, allora ti chiedo di condividere questo podcast, di farlo conoscere il più possibile. Facciamo in modo insieme che i miei pensieri possano diffondersi e stimolare un cambiamento di prospettiva nelle persone che ancora non sanno quanto può essere profonda la nostra sofferenza e magari potranno aiutarci a vivere meglio. Te ne sarò davvero molto grato, ed è importante questa presa di coscienza, terribilmente importante per una sana convivenza in questa strana società che ci chiede e, anzi, ci impone che tutti siamo sempre perfetti e performanti, anche se non possiamo più. E già che ci siamo, magari anche sorridenti.

Nel prossimo episodio ti racconterò le prime fasi dell'insorgenza di una delle mie patologie e di come ho iniziato a suonare uno strumento, lo scopo della mia vita. Nel frattempo, stammi bene, ci sentiamo martedì.

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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L'udito 👂: perché non basta dirci “Va tutto bene!” 🗣️❗ L'ipersensibilità uditiva.

In questo episodio ti racconterò di come la musica abbia plasmato la mia vita già da bambino e di come il mio udito eccezionale sia diventato, allo stesso tempo, una benedizione e una maledizione.

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Cos'è che scatena la compassione per la sofferenza? È la consapevolezza che potremmo anche noi subire la stessa sorte di quelli che vediamo soffrire. La vista è il senso più importante con cui noi esseri umani misuriamo il mondo ed è naturale che sia anche la prima cosa che ci avverte che qualcuno molto vicino a noi sta soffrendo. Il nostro cervello si mette subito all'erta, inconsciamente, per capire se c'è un pericolo imminente che potrebbe riguardare anche noi. Però, non tutte le patologie si vedono con gli occhi, e allora in questa puntata ti parlerò di un altro senso che può farci percepire la sofferenza: l'udito.

Pensa a quante volte, magari al telefono, ti sei accorto che un tuo amico o un tuo parente non stava bene semplicemente sentendolo parlare. Oppure pensa a quando qualcuno ha un'influenza: emette dei lamenti, non sta bene, tossisce. Ti accorgi subito quando qualcuno non sta bene perché la voce è davvero uno degli specchi dell'anima, ed è difficilissimo fingere di stare bene quando non è così. Al telefono è un po' più facile nascondere la propria sofferenza. Le persone dall'altra parte ci dicono “Va tutto bene” e scegliamo di fidarci delle loro stesse parole. “Va tutto bene”, ci sentiamo dire. È una frase rassicurante, no? Specie se pronunciata con voce ferma, con convinzione.

Io ho deciso che non voglio più nascondere come mi sento. Mi sono stancato di dire che va tutto bene. Per molti anni mi sono riparato dietro questa frase, non accettavo le patologie che stavano nascendo. Anche perché, all'inizio, i sintomi erano soltanto vaghi, non mi creavano troppi problemi apparentemente. Quindi era facilissimo dire che andava tutto bene, era facilissimo non mettere in mostra quella che era ed è una mia debolezza, non farlo sapere. Avevo paura di come mi avrebbero giudicato gli altri in una società che ci vuole perfetti. È facile dire che avrei dovuto fregarmene, ma non mi è mai stato facile perché non sono fatto così. Ci sono tanti condizionamenti che subiamo sin da piccoli e che ci tiriamo dietro per tutta la vita.

In alcuni casi era davvero indispensabile nascondere la mia sofferenza. Verso i genitori, ad esempio, li avrei preoccupati inutilmente, non avrebbero potuto farci nulla. Oppure anche durante un colloquio di lavoro. Sarai d'accordo con me che è un po' strano esordire con frasi del tipo: “Sì, so perfettamente gestire l'infrastruttura informatica dell'azienda, ma non garantisco di essere ancora in grado di muovere le dita nel prossimo futuro” o anche “Sì, adoro lavorare sotto stress e con orari flessibili. E ovviamente, anche se gli straordinari non sono pagati; il burnout per me è sempre dietro l'angolo, però non si preoccupi, sono il candidato migliore per questa posizione”.

Oltre a tutto questo, non mi andava proprio di dire a chi conoscevo che le cose andavano sempre peggio. Mi sono sempre sentito in difetto per queste patologie, diverso, in qualche modo rotto, senza possibilità di essere aggiustato. Mica bello parlarne con gli altri, poi come, con quali parole? Quando ci provavo non andava mai a finire bene. Più avanti ti racconterò. Ed ecco che allora il mio “Va tutto bene” aveva uno scopo quasi liberatorio per me, sarei riuscito a non affrontare l'argomento ancora una volta. Con il passare del tempo sono diventato bravissimo a dissimulare. “È tutto a posto, va tutto bene.” Si infarcisce la frase con un sorriso e si tira avanti. A lungo andare, e con l'aggravarsi dei sintomi, mi sono accorto che questa strada è stata controproducente, sia per me stesso che per fare dire agli altri, direttamente dalla mia voce, come stavo e che cosa non potevo più fare.

L'udito non ce l'hanno solo gli altri; può essere una grande risorsa anche per noi che siamo ammalati e ci apre un mondo di possibilità per fare cose che amiamo e che ci è ancora possibile fare. L'udito per me è sempre stato importantissimo. Come ti raccontavo anche nell'episodio precedente, anche senza rendermene conto, ho sempre avuto un udito estremamente sensibile e allenato fin dagli anni '80.

Nel 1983, ad esempio, iniziavo a frequentare le scuole elementari a Livorno e le mie orecchie avevano cominciato ad avere pane per i loro denti. Cantavo le canzoncine che ci facevano imparare durante le lezioni e finalmente potevo cantare senza vergogna, sapendo che lì si poteva fare anche a squarciagola. Ovviamente continuavo ad ascoltare e canticchiare anche le canzoni dei cartoni animati dell'epoca, come Heidi o l'Apemaia. Tutto pane per i miei denti, gioia per le mie orecchie e possibilità di assorbire tutto quel mondo fantastico di note.

A Natale avevo ricevuto in regalo un giradischi portatile a batteria; gli si potevano dare in pasto soltanto i 45 giri e, a pensarci oggi, assomigliava molto a quelli che negli anni successivi sarebbero stati i lettori CD e poi i lettori MP3. Se hai vissuto gli anni '80 ti ricorderai senz'altro del famoso “mangiadischi”, oggetto del desiderio che ti faceva ascoltare la musica fuori casa, all'onestissimo peso di 1 kg. Io lo usavo molto spesso, fermandomi solo quando le batterie erano esauste, perché...sì, erano anche costose!

Io e la mia famiglia continuavamo ad andare dai miei nonni molto spesso in quegli anni, sia nei fine settimana che in estate, quando noi bambini potevamo fermarci lassù per settimane.

Fu in quella valle fresca della Lunigiana che scoprii per la prima volta la musica degli adulti.

Accadde per caso nell'estate dell'84, tra un calippo e l'altro. Mio fratello maggiore allora aveva 14 anni e tutte le sere ascoltava musica da un giradischi. Non quello portatile di cui ti parlavo prima ma uno di qualità superiore. Lui usava i 33 giri, quei grandi dischi in vinile che sono sopravvissuti al tempo e che ancora oggi possiamo trovare in commercio per gli appassionati.

Ricordo che me ne stavo sotto le coperte al buio ad ascoltare quei battiti intensi che provenivano dal piano di sopra, come se appartenessero a un cuore enorme. Sentivo tutto benissimo perché il pavimento di legno non isolava alcun suono, nel bene e nel male. In quel caso per me era un bene, e mi arrivavano i bassi intensi; i ritmi di quella musica strana, così diversa da quella che conoscevo, e soprattutto...così seria! Non ne capivo né le parole né gli argomenti, ma adoravo come mi arrivava il canto di quelle voci e i suoni erano molto più gradevoli e pieni rispetto al mio piccolo mangiadischi.

Uno dei dischi che mio fratello ascoltava più spesso si chiamava Mixage '84. Nella copertina stilizzata, una ragazza guardava fieramente verso l'alto, abbronzata e luccicante per la crema solare, con una spiaggia tropicale sullo sfondo. L'estate era scoppiata anche nelle valli degli Appennini proprio grazie alle radio e a quei dischi, con quei brani, tutti di autori diversi, tutti dello stesso genere: musica dance anni '80. Quel disco girava e girava una sera dopo l'altra, e mi addormentavo sulle note di “Movin' On” o di “Self Control” di Raf, oppure del remake improbabile di “Every Breath You Take dei Police”, e poi altri dischi con gli Alphaville, gli A-ha, Bronski Beat, Cyndi Lauper e tutti gli altri. In poco tempo, le canzoni che mi piaceva cantare erano diventate quelle, anche se non sapevo niente di inglese e biascicavo parole senza senso. Le canzoni tristi o quelle dai toni sospesi mi piacevano molto di più delle canzoni allegre, forse anche perché le canzoncine allegre le associavo alla scuola.

E poi un giorno arrivò la svolta. Mio fratello mise un disco diverso, un singolo: si chiamava “Jump” dei Van Halen.

Quella canzone mi entrò immediatamente in testa: un ritmo incalzante, una melodia che si poteva canticchiare facilmente e che mi faceva venire tanta voglia di muovermi, anche se ero già a letto. Poi, a metà canzone, accadde qualcosa di incredibile, di inaspettato, una roba mai sentita: un cambio di passo totalmente senza senso. La voce scomparve e la musica cambiò del tutto. Fece irruzione uno strumento magnetico, che nel giro di pochi secondi vomitò un mare di note nelle mie orecchie. Che cosa avevo appena sentito? Una chitarra elettrica! Wow, che suono e che potenza! A quel punto il resto della canzone passò per sempre in secondo piano. Teniamo a mente che, ancora ai giorni nostri, è un pezzo che è un po' difficile da eguagliare. Ce ne fossero di Jump! In quel momento era nata la mia passione per uno strumento che sarebbe esplosa più avanti.

La mia fame di musica continuava a crescere e così pure il mio udito. Può darsi che la mia capacità di riconoscere i suoni, di ricordarli o di avere l'udito fino che ho ancora oggi si sia sviluppata proprio in quegli anni. Oggi, avere l'udito più sviluppato della media è sì un piacere, ma anche un grande ostacolo per me. Percepisco più suoni dell'udito medio e soprattutto di notte, quando il dolore cervicale o quella sensazione che qualcuno mi stia accoltellando a un fianco non mi lasciano riposare. Allora comincio a sentire lo svolazzare di una farfalla nel buio della stanza, l'automobile o il treno che passano a mezzo chilometro di distanza o il vicino che rientra a casa due o tre appartamenti più in là. Il canto degli uccelli delle 3:30, però, è la cosa peggiore di tutte. Quelle sono note: è la fine. L'udito si concentra su quei suoni, il cervello comincia a elaborarli, a catalogarne la ripetitività, il ritmo, il timbro e le pause.

Ma va tutto bene, sorridiamo, no?

Adesso basta sorridere.

E' ora di far percepire agli altri come stiamo noi ammalati di patologie che non si vedono. Sta a noi guidarli, insistere perché si sforzino di capire. Con il “Va tutto bene” resteremo sempre le persone che eravamo, ricordiamocelo, quando in realtà non li siamo più.

Voglio lasciarti con un buon proposito per il futuro: non fare l'errore che ho fatto io, non avere paura di dire come stai. Chi ti sta intorno e ti vuole bene capirà. Sul posto di lavoro, con prudenza, cerca di fare capire quello che vivi e le tue esigenze. Non è facile, ma siamo tutti umani e troverai senz'altro chi comprenderà la situazione o un posto di lavoro dove questo sarà possibile. Fatti udire, sfrutta questa possibilità. Io ho deciso di farlo oggi tramite questo podcast e ho ancora tanto da raccontarti. Ci sentiamo tra una settimana per il prossimo episodio, in cui scoprirai un pezzettino in più della mia storia.

Nel frattempo, stammi bene!

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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Hai mai fatto la domanda sbagliata? ❓🤔🚫 Per chi soffre di #artrite e #fibromialgia, può essere pesante.

Link per l'ascolto del podcast al posto della trascrizione:

Nel mese di marzo del 2025 compirò 48 anni. E' inutile che ci giriamo intorno, ormai sono 50.

Ma non sono un cinquantenne come gli altri: a volte non mi sento come se ne avessi 50, ma come se ne avessi 100.

Nel giorno in cui sto registrando questo episodio è domenica, ma non sono rimasto a letto un po' di più come fanno in tanti. Beati loro! Non posso. Come sempre, alle 6:00 sono già ad occhi aperti, oppure anche prima delle 6:00. Spesso un'emicrania fortissima mi sveglia nel cuore della notte, oppure è qualche suono a farlo, oppure il prurito. Comincio a grattarmi ovunque e, in più, mi è molto difficile mantenere la stessa posizione per più di mezz'ora. Anche se si potrebbe pensare che dopo notti così tribolate dovrei essere quasi grato di potermi alzare, in realtà è esattamente l'opposto. Faccio comunque tanta fatica ad alzarmi. Intanto, bisogna fermare la sveglia, che è sempre un po' un'impresa, perché le mie mani non riescono più a stringere bene le cose; e appena svegli è anche peggio. Ci provo, ma la sveglia si sposta sul comodino, scivola di qua e di là senza che io riesca a fermarla. I comandi, purtroppo, sono pensati per persone sane.

Scendere dal letto poi è molto difficile, almeno per i primi 20 minuti. La testa gira, il corpo sembra fatto di legno. Provo a muovermi un po', ma le fibre e i nodi al mio interno tirano e mi fanno male. Non appena ci provo, sento dai rumori interni al mio corpo che inizio a scricchiolare come un pavimento antico o un pacchetto di patatine. Rotolo nel letto fino a trovarmi a pancia sotto e poi, piano piano, mi lascio cadere e appoggio un piede, piantando i pugni sul materasso; invece, facendo leva sul muro, alla fine riesco a mettermi seduto e metà dell'opera è fatta. Alzandomi e aggrappandomi un po' dappertutto, arrivo in cucina, dove di solito, prima che riesca a reggere un cucchiaio, me ne cadono almeno due. Le tazze, per ora, sono salve; ho imparato ad afferrarle con due mani. E poi, a quel punto, ormai il corpo comincia a rispondere un po’. E allora riesco anche a lavarmi i denti, avendo un controllo sufficiente sullo spazzolino. A volte decido di vestirmi prima di mangiare, che sembra un controsenso, ma mi aiuta a far passare il tempo e riprendere un po' il controllo sulle mani. Così, il cucchiaio non trema più e riesco a mangiare più in fretta. Cerco di muovere le mani, anche accarezzando il gatto. Nel tempo che ci metto ad uscire di casa, il mio corpo è al livello massimo di efficienza, che non è certo quello di una persona normale, ma devo farmelo bastare. Le cose continuano a cadermi di mano tutto il giorno: chiavi dell'auto, chiavi di casa, zaino, cappello, eccetera.

Ad ogni passo, i piedi mi fanno malissimo, specie se scalzi. Per capirci, addio a scogli e distese di ciottoli, ghiaia e sassolini. Mi è difficile concentrarmi davvero su qualcosa e a volte la mia vista è così tanto offuscata che non riesco più a leggere e neanche a guardare il cellulare come fanno tutti. Ci sono giorni interi in cui una pesante cappa di dolore, di malumore e tristezza mi ricopre, mi cade addosso e in un attimo posso cambiare completamente carattere: da solare come sono di solito, mi dispero, piango, divento subito nervoso per tutto, perché in quei giorni, come oggi, non c'è niente che sia facile da fare. Ogni cosa sembra ed è difficilissima. In quei giorni vorrei e potrei solo restare sdraiato ad occhi chiusi, aspettando il giorno successivo, e questi episodi sono sempre più frequenti. Ormai possiamo dire quasi continui. Se tutto questo a te non capita, ritieniti fortunato, dico davvero. Ma come ho fatto a ridurmi così? La risposta è semplice, e si potrebbe riassumere nel nome di tre stramaledette malattie che mi affliggono, da chissà quando, e che a questo punto della vita stanno cominciando a rendermi le cose veramente impossibili. E, tra l'altro, tutto è destinato a peggiorare. Ma questa risposta, in realtà, non ti direbbe niente. Non direbbe niente perché il nome di una patologia non spiega di per sé che cosa c'è dietro, non spiega che cosa ti porta via. Una parola così, da sola, senza che tu sappia chi sono e cosa mi è stato strappato dalle mani, non sarebbe abbastanza. Non farebbe capire quanto è stata dura e quanto mi è ancora difficile vivere in un mondo che non tiene delle mie necessità. È per questo che voglio raccontarti la mia storia, perché tu possa capire per bene che cosa ho perso.

Non sono sempre stato così.

Il ricordo più antico che ho risale al 1980, o giù di lì. Come tantissimi italiani, allora guardavamo la televisione dopo cena. Era una di quelle col tubo catodico che, solo a pensarci ora, mi si accappona la pelle. Ma allora era normale. Era normale cambiare canali senza telecomando, era normale vedere i programmi con tanti disturbi ed era normale anche guardare la TV tutti insieme. Me la ricordo benissimo, quella televisione. Era una Telfunken grigia e cicciona di quelle senza telecomando. Mi ricordo che ero così piccino da guardarla dal basso e a me sembrava altissima, mentre in realtà era appoggiata su un normale mobile della nostra cucina. Quindi quanto potrà mai essere stata alta?

Una sera, mentre la mia mamma mi diceva di allontanarmi, ché ero troppo vicino, vidi qualcosa di magico sullo schermo: un uomo baffuto, secondo lo stile dell'epoca, in un completo colorato e scintillante, che afferrando un microfono con tutta la foga di cui era capace, stava gridando al mondo qualcosa, qualcosa di importante evidentemente, seguendo le note di una melodia che mi aveva colpito molto. Ora non mi ricordo chi fosse, forse era a Sanremo, forse no, ma quello che è importante è che dentro di me mi immaginai subito con lo stesso abito, sicuro di me come quel cantante già adulto e con tanto di baffi, mentre cantava sul palco e tutti mi osservavano.

Pensai: “È questo che sarò, ma prima devo diventare grande.”

In quegli anni ci spostavamo spesso da Livorno per andare a trovare i miei nonni materni, che vivevano a Pontremoli, in un paesino remoto tra le valli, come tanti altri in Italia. A me quei viaggi di poche ore sembravano lunghissimi, ma erano un'occasione per scoprire il mondo al di fuori della città. Ce n'era tanto di mondo e speravo che prima o poi ne avrei visto di più. Più avanti, questo mio desiderio si sarebbe avverato, ma all'epoca non potevo saperlo. Mentre i miei due fratelli di solito sedevano nei posti lontani dal finestrino leggendo, io ero troppo piccolo per poterlo fare, e allora preferivo restare al finestrino, ad immaginarmi cavalieri o automobili che inseguivano il treno, ma soprattutto guardando in un luogo non ben definito oltre il finestrino potevo dare alla mamma e al babbo l'illusione di restarmene lì, buono buono, a guardare fuori, mentre la mia piccola mente era piena delle melodie che avevo sentito durante la settimana. Già a 4 o 5 anni, a furia di viaggi in treno, riuscivo a ricordarle perfettamente; il mio cervello era in grado, per capirci, di farle rivivere all'infinito. In quegli anni non c'erano lettori musicali personali, ma neanche mi servivano. Potevo schiacciare “play” nella mia mente e riascoltare il brano che volevo quante volte volevo. Ricordavo per filo e segno le melodie, i ritmi corretti e quasi sempre anche le parole, o almeno quelle che potevano fare parte del lessico di un bambino di 4 o 5 anni, e quelle che non riconoscevo me le inventavo. Anni dopo avrei scoperto che stavo ricordando anche le tonalità. Le volte che i miei parenti mi notavano che canticchiavo tra me continuamente, me lo facevano notare e io mi vergognavo come un ladro e smettevo subito.

In quegli anni sentivo in televisione o alla radio le canzoni di Umberto Tozzi, dei Ricchi e Poveri, di Mia Martini e, ovviamente, per me che ero piccolino, c'erano anche le canzoni dei cartoni animati. Era il periodo dei robottoni giapponesi. Hai presente? Goldrake, Mazinga Z e tutti gli altri? Ma il mio preferito restava Daitarn 3. Non tanto per la storia in sé, ma perché per me aveva la sigla migliore di tutte, quella che mi piaceva cantare e rivivere nella mia mente tante e tante volte.

Adoravo anche giocare con gli strumenti musicali dei miei fratelli, che erano più grandi di me e andavano già a scuola: flauti, pianole e la mitica diamonica, una specie di tastiera alimentata a sputazzi, cosa di cui però non mi curavao, non mi importava. L'importante era entrare in quel fantastico mondo di suoni e capire le combinazioni che si potevano fare con le note. Alcune erano belle e altre un po' meno. Altre, invece, erano proprio brutte.

Non lo sapevo allora, ma stavo iniziando a fare musica, a capirla e a muovere i primi passi in un mare in cui mi sarei immerso con gioia qualche anno più tardi e che avrebbe dato un senso alle mie giornate.

Come la maggior parte dei bambini, non me ne rendevo conto, ma in quegli anni stavo davvero bene. E quando mi chiedevano come stavo, rispondevo sempre “bene”!

Anche ai giorni nostri rispondo ancora bene, soltanto che...so di mentire quando lo dico. Lo dico solo per fare prima, per evitare tutto quello che accadrebbe dopo.

Questo è uno degli aspetti di cui voglio parlarti in questo podcast, perché è sempre nei miei pensieri. Sto parlando del rapporto delle persone comuni con le malattie degli altri. Forse tutti noi ormai usiamo le parole con troppa leggerezza e l'abitudine finisce per condizionarci anche nel pensiero.

“Come stai?” È sempre la domanda sbagliata da fare a me.

E' sbagliata perché non bisognerebbe mai chiedere a qualcuno come sta se poi non si ha davvero voglia di ascoltare la risposta. E la mia risposta, come quella di tante altre persone che soffrono, non è mai semplice; è complicata, tanto che solo dopo molti anni sono riuscito ad accettare quello che mi sta succedendo e a trovare le parole per descriverlo. Quello che hai ascoltato nella prima parte di questo episodio è soltanto la punta dell'iceberg.
Quando inizio a rispondere alla domanda sbagliata, vedo che la maggior parte delle persone le ho già perse dopo pochi secondi, cioè non mi calcolano proprio più. Non sto dicendo che siano tutti cattivi, per carità, ma credo che non siano abituati ad avere a che fare con persone che soffrono. E d'altra parte, chi è che vorrebbe mai affrontare il tema? E quindi dopo più di 10 parole capisco che non hanno più le energie per ascoltarmi. Non è che io non capisca; ognuno ha la sua durissima battaglia personale da portare avanti e non è certo una gara a chi sta peggio. Però bisogna davvero fare uno sforzo per capire che per una persona che soffre tanto è molto faticoso dover spiegare come sta e rivivere costantemente il trauma. A momenti potrebbe sembrare quasi una violenza ricevere questa domanda e capire che non si è ascoltati. E una delle cose che mi manda più in bestia è quando questa domanda me la fanno di continuo, magari dopo pochi giorni che ho già spiegato tutto. Le mie patologie non cambiano e, se cambiano, è in peggio.

Francamente, io mi sono stancato di dire sempre che va tutto bene, perché non è così. Dicendo che va tutto bene, anche se è per fare prima, continuo io per primo a dare un'idea sbagliata, e cioè che tutto sommato non va così male. Ma è falso. E spesso capita che, dopo aver cercato di spiegare come sto, l'atteggiamento di chi ha fatto la domanda non cambia, cioè continua a propormi attività, uscite a cena, nuovi compiti sul lavoro, come se io non avessi detto niente. E allora perché chiederlo? Bisogna cominciare a ragionare in un altro modo. Bisogna che sia più facile coesistere in un mondo che condividiamo tutti, sani e malati.

Chiudo questo episodio, quindi, con un buon proposito per tutti: da oggi prendiamo l'abitudine di chiedere a qualcuno come sta solo se abbiamo voglia di ascoltare davvero la risposta; altrimenti, meglio non chiederlo. Si può sempre dire “Mi fa piacere vederti” senza aspettarci che chi soffre e ha una malattia cronica possa comunque fare quello che ci aspettavamo, che si tratti di lavoro o uscite domenicali. Sii sincero. Hai mai pensato a cosa puoi scatenare con una semplice domanda? E ti è mai capitato, invece, di rispondere che stai bene, ma solo perché non hai la forza di spiegarti? Fammelo sapere! Puoi seguire questo podcast ai link che trovi in alto in questa pagina, per ascoltare il podcast vero e proprio, o venire a trovarmi sul canale Youtube “Grido Muto”. Ma anche su Mastodon, ovviamente! (@GRIDOmuto@noblogo.org)

Per ora ti lascio e ci sentiamo martedì prossimo con un altro pezzo della mia storia. Stammi bene e a presto!

Questo podcast è esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia; non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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Il mio Grido Muto 🗣️🤐: la storia 📖 di chi vive con fibromialgia 🤕 e artrite 🦴.

Ascolta su Castopod.it: – https://castopod.it/@gridomuto/episodes/il-mio-grido-muto-la-storia-di-chi-vive-con-fibromialgia-e-artrite-b7pw4

oppure su Spotify – https://open.spotify.com/episode/0SqIUpInmNtGa8KkJSkSWc?si=_jZFq3khSIelPYttQx1PNQ

o Youtube: – https://youtu.be/fSDgEWNrflc

Da bambino sognavo di fare la rockstar, ma tre malattie invisibili hanno cambiato tutto. Oggi voglio far sentire il mio grido che finora è rimasto muto, ma che deve essere ascoltato. È la storia di chi ha perso tanto, ma ogni giorno trova nuovi modi per farcela in una società che non ha posto per i malati invisibili.

Rilassati per un istante, concentrati e prova ad immaginare di non poter più fare nessuna delle cose che ami. Immagina di vivere ogni giorno con un senso di malessere che non se ne va mai, ma anzi può solo peggiorare, e alla fine somiglia molto a uno stato di depressione.

Questa che ti ho descritto è solo una piccola parte della mia realtà. Sono sicuro che ti sarà capitato di sentir dire “finché c'è la salute” oppure, durante un brindisi, “salute”, o ancora, “l'importante è la salute”. La salute è così presente nel nostro modo di esprimerci perché è la cosa più preziosa che abbiamo. Ma cosa succede nella nostra società a chi la perde? Come ci relazioniamo con le persone che soffrono? Cerchiamo di supportarle e di capirle, ovviamente, anche perché di solito basta aspettare e le malattie spariscono. Ma e se la malattia non finisse mai? Cosa succederebbe allora?

Sono convinto che il livello di civiltà di una società si valuti da come vengono trattati i suoi membri più deboli. E chi è più debole di chi non potrà stare bene mai più?

La società italiana è davvero capace di consentire una vita adeguata a chi soffre di malattie croniche? Quanta consapevolezza c'è sulle patologie croniche che affliggono me e milioni di altre persone e sull'impatto di queste patologie sulla psiche e sulla vita degli ammalati? Io credo che troppe poche persone ne siano consapevoli e te lo dimostrerò nel corso di questo podcast. Questa che stai ascoltando è la mia storia, la storia di una persona normale, un uomo come tanti, un musicista con un sogno che gli è stato portato via da tre malattie incurabili e che ogni giorno, nonostante tutto, continua a trovare nuovi espedienti per andare avanti in questa società strana che ci vuole sempre perfetti, performanti, senza difetti. Per chi non si allinea a tutto questo, non c'è spazio. Non sono mica l'unico a cui è successo, intendiamoci, ma forse questo è ancora peggio, no?

Moltissime altre persone, purtroppo, si trovano nella mia condizione e tutte loro hanno perso qualcosa di grosso: chi la famiglia, chi una relazione, chi il lavoro e, di conseguenza, la possibilità di vivere e sostentarsi adeguatamente e, in più, ma lo vedremo, anche la possibilità di tentare di alleviare il proprio dolore. Il grande problema che avevo, e che hanno tutte le persone come me, è quello di far capire agli altri come ci sentiamo, perché da questo dipende tutto. Ma riuscirci è una vera e propria missione impossibile. Spesso è difficilissimo anche solo capirlo per noi stessi e cercare di tradurlo in parole che gli altri possano comprendere con facilità. In questo podcast scoprirai perché e cosa intendo.

Ecco allora che la propria condizione si trasforma in un'esperienza in cui nessuno è in grado di capirti, e questo ti infonde un senso di solitudine terribile. La cosa peggiore del mondo è soffrire da soli. In questo podcast, allora, ho voluto cercare di trovare le parole adatte per spiegare come vivo e cosa sento, le difficoltà di tutti i giorni. Se tu che stai ascoltando stai soffrendo come me, finalmente ti sentirai capito. Questo è uno dei grandi obiettivi di questo podcast: farti sapere che io ti capisco, che a me puoi dire tutto perché ciò che vivi tu, lo vivo anch'io.

Se pensavi di essere l'unico o l'unica a vivere in questa condizione che non si può spiegare, sappi che a me non devi spiegare niente. Se sei un medico o un infermiere, potrai comprendere meglio come ci sentiamo noi pazienti. E se sei sano, questa storia ti riguarda comunque, perché la sofferenza, prima o poi, riguarda tutti, anche se io ti auguro che tu e i tuoi familiari non sappiate mai cosa significa. Mi chiamo Simone e quello che stai ascoltando è il mio grido che finora non sapeva come uscire ed è rimasto muto e inascoltato. Non deve esserlo mai più. Conto su di te per diffondere il mio messaggio. Insieme possiamo realizzare il mio nuovo sogno: quello di stimolare un ragionamento, di favorire un cambiamento necessario nella società e nei pensieri delle persone che non conoscono questi problemi, per creare un mondo in cui nessuno si senta più solo e abbandonato di fronte alla malattia. Ma tutto questo dipende anche da te. Continua a seguire questo podcast, iscriviti al canale e condividilo il più possibile, perché non si sa mai dove potrebbe arrivare e chi potrebbe aiutare a non sentirsi più solo. Ascoltami con attenzione, perché per capire quello che le malattie mi hanno portato via devi prima capire chi sono. Solo così saprai quanto è grande ciò che ho perso e quanto era importante per me.

Perdere ciò che ami di più, ciò che ti definisce come individuo, è una enorme ingiustizia, enorme. E sono abbastanza sicuro che se anche tu sei ammalato capisci bene cosa intendo. Anche tu, immagino, sentirai lo stesso peso. Aiutiamoci a vicenda a portarlo. Io ti aspetto ogni martedì con un nuovo episodio del podcast in cui conoscerai meglio chi sono, quello che ero e che non sono più, e le mie riflessioni su cosa significhi essere un malato invisibile oggi in Italia. Nel frattempo, stammi bene.

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

Perché un blog sull'Artrite e la Fibromialgia?

Sai cosa è l'artrite? È una patologia invalidante, che potenzialmente può colpire chiunque e, contrariamente a quanto si pensa, a qualunque età. Provoca un'infiammazione (dolore, gonfiore, problemi) a TUTTE le articolazioni e ai tendini e molti degli organi interni, e può portare alla totale infermità di una o di tutte le articolazioni. Chi ne soffre deve essere preparato a una vita di dolore, in cui ogni movimento è una tortura. O, almeno, a una vita più difficile, complicata e in salita.

La fibromialgia, invece, è una condizione cronica caratterizzata da dolore muscoloscheletrico diffuso, accompagnata da una serie di sintomi come affaticamento, disturbi del sonno, difficoltà cognitive e sensibilità aumentata al dolore. Sebbene la causa esatta non sia completamente compresa, si ritiene che fattori genetici, stress e anomalie nel sistema nervoso centrale possano contribuire alla sua insorgenza. La fibromialgia può avere un impatto significativo sulla qualità della vita.

Io soffro di entrambe queste patologie, sebbene una delle due non sia possibile diagnosticarla, ma c'è: eccome se c'è.

Poi c'è la psoriasi. Un'infiammazione della pelle che colpisce aree del corpo in maniera apparentemente casuale, ma più spesso si concentra su cuoio capelluto, mani (anche i palmi), piedi (anche le piante) e gomiti. Può sembrare una cosa da poco rispetto al resto, ma è proprio la psoriasi che, spesso, mi “regala” tante notti senza sonno, perché dà molto prurito. Spesso la pelle colpita dalla psoriasi si disgrega spontaneamente, e la ferita causata da questo evento impiega anche mesi a rimarginarsi. I pazienti più sfortunati hanno la psoriasi in tutto il corpo.

Ti ho dato solo un piccolo assaggio della vita che conduco. Considera che io sono uno dei pazienti che soffrono meno. Puoi immaginare gli altri?

Se stai pensando che non avevi mai sentito parlare di tutto questo, tranquillizzati: è del tutto normale. Di noi, non si parla se non in ospedale. Eppure siamo qui, intorno a te, con le nostre mille difficoltà che non sono riconosciute, né dalle autorità né nella concezione del mondo delle persone comuni.

È normale che di noi non si parli perché nella nostra società, che a me piace chiamare “società della performance”, le persone valgono qualcosa solo se possono produrre, o se sono le migliori in un certo campo, o appaiono sempre belle, sorridenti, in forma.

Per tutti gli altri, come me e tutti gli altri malati invisibili e non riconoscibili che sicuramente hai già incontrato nella tua vita, ma senza saperli riconoscere, non c'è posto. È normale quindi che di noi non si parli, ma non è giusto. La nostra condizione riguarda tutti.

È per questo motivo che ho deciso di creare un podcast: per far sapere a tutti come viviamo noi malati invisibili, per far sapere che noi esistiamo. Viviamo come tutti gli altri perché ci è imposto, anche se non avremmo le possibilità di farlo.

E poi, non meno importante, quando si capisce di avere qualcosa di grosso come queste cose che ci colpiscono, ci si sente tremendamente soli, vulnerabili. Voglio che il mio lavoro venga diffuso il più possibile, e che nessun nuovo ammalato senta di essere solo. Nel mio racconto potrà identificarsi, trovare una spalla, sapere che la sua artrite e la sua fibromialgia non colpiscono solo lei/lui.

Per tanti, troppi anni sono rimasto in silenzio di fronte a queste malattie invisibili che mi hanno cambiato profondamente. Il mio GRIDO è rimasto dentro di me, incapace di uscire, e quindi MUTO.

Solo io potevo sentirlo. Volevo urlare al mondo la mia rabbia, ma non riuscivo neanche a trovare le parole per farlo.

Mi sentivo impotente di fronte a questa esperienza incomunicabile che si è portata via i miei sogni di bambino e di adulto.

Ora ho deciso di far sentire il mio grido.

Ho creato un podcast in cui ti racconto la mia storia, la mia esperienza, cosa ho perso a causa delle patologie e cosa sto passando, le mie paure per il futuro. In ciascun episodio non mancheranno riflessioni profonde sulla nostra strana società, che non ha posto per noi che soffriamo, rendendoci invisibili. Eppure, noi esistiamo.

Il podcast si chiama “GRIDO muto – La mia vita con l'artrite”, ma puoi trovarlo sulle varie piattaforme come Spotify o Apple Podcast semplicemente ricercando “grido muto”. Esiste anche un canale youtube dove seguire le puntate del podcast, se lo preferisci, ed è anche lo spazio in cui , con il tempo, pubblicherò altri video o riflessioni sull'argomento. Ti riporto qui di seguito tutti i link per tua comodità:

In questo blog troverai le trascrizioni delle varie puntate, se preferisci leggere piuttosto che ascoltare, e ti sarò molto grato se mi farai sapere cosa ne pensi del mio progetto, di ciò che ho da dire, e di ciò che scriverò.

Spero che diffonderai il podcast o questo blog il più possibile, per fare cambiare le coscienze e aiutarmi a raggiungere il più alto numero di persone possibili.

Grazie per il tuo interesse e aiuto, che tu sia un malato invisibile oppure no.

Stammi bene!

Simone