GRIDO muto (podcast)

La mia vita con l'Artrite: la Società mi ignora. Questo podcast è il mio grido, la mia denuncia. https://noblogo.org/grido-muto-podcast/

🦠 Pandemia, 💉 vaccini anticovid, 🦵 artrite e 🌀 psoriasi: il mio 2020 da malato invisibile

“Ed ecco allora che mi si accese una lampadina: avrei dovuto viaggiare il più possibile. Da quel viaggio a Lanzarote e da tutti i precedenti e i successivi, soltanto un anno dopo, avrei fatto nascere una cosa bellissima: un canale YouTube.”

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Se preferisci ascoltare anziché leggere, puoi trovare qui questa puntata del podcast, la numero 16:

In questo episodio ti racconterò il mio fantastico 2020 da malato invisibile.

L'argomento è delicato e complesso e lo affronterò come normale dal mio punto di vista. Ti chiedo di capirlo e di rispettarlo anche se la tua idea dovesse essere diversa dalla mia.

Alla fine del 2019 mi era ormai chiaro che l'artrite facesse parte della mia vita, anche se la diagnosi non era ancora certa, ma c'era solo un fortissimo dubbio. Continuavo ad assumere i rimedi ayurvedici e, anche se a volte avevo l'impressione che non facessero molto, notavo che se smettevo di prenderli le cose peggioravano sensibilmente, specialmente nelle articolazioni delle mani e dei piedi. Possiamo dire che la situazione precipitava, perché molte articolazioni non potevo più usarle da quanto facevano male.

In più, mi pareva che queste compresse mi dessero un certo brio a livello mentale, una sensazione di presenza nella realtà che non mi dispiaceva affatto e anzi mi aiutava molto, soprattutto nelle mie complicatissime giornate di lavoro. Avevo capito che se andavo in palestra e allenavo gambe, bacino e schiena, stavo bene per due, tre, quattro giorni. La ricetta per il successo sembrava facile: bastava continuare ad allenarsi e prendere le medicine ayurvediche, quelle pastiglie che il medico in India mi aveva suggerito di prendere tanti anni prima e poi riscoperte da mio fratello. Un'altra cosa che avevo capito era che io alle isole Canarie ci stavo veramente tanto, tanto bene.

Come ti dicevo, mi bastava allontanarmi dalla Pianura Padana per sentirmi molto meglio, ma in quell'arco un po' ovunque mi ci sentivo meglio che in qualsiasi altro posto del mondo. Ogni volta in cui ci tornavo, questa sensazione di benessere la percepivo sempre di più, non tanto perché la sensazione aumentasse, ma perché in Emilia la mia condizione di salute stava peggiorando visibilmente e quindi sentivo di più la differenza tra casa mia e le isole.

Specialmente in inverno, tra novembre e dicembre, ero stato nell'isola della Palma, una delle isole periferiche dell'arcipelago delle Canarie, e anche lì avevo beneficiato di questo effetto. Mi tornava il buon umore, il dolore e la psoriasi sparivano e potevo muovermi meglio, fare tanti sentieri che a casa non sarei mai riuscito a fare. Questo effetto benefico durava anche al mio ritorno per un mese; tornavo a stare bene anche in Italia. Cominciavo a capire perché in tanti si trasferissero nell'arcipelago. Da un lato, pensavo che fosse semplicemente l'effetto della vacanza e attribuivo tutto allo stress del lavoro che laggiù non c'era. Però qualcosa non tornava.

Come avevo già iniziato a pensare negli anni precedenti, anzitutto l'effetto positivo era immediato; cioè, intendo che già dopo 10 ore che ero sceso dall'aereo, il “Simone” angosciato dal dolore e dalla confusione mentale che viveva in Emilia Romagna scompariva senza lasciare traccia. Ma non solo, era come se quel Simone non fosse mai esistito, e ripensando a me stesso in Italia mi sembrava che quei ricordi non fossero miei.

Tornavo quello di un tempo, come ero da giovane, solare, sempre di buon umore. Era come se qualcuno mi togliesse di dosso all'improvviso una cappa dolorosa fatta di malessere, sofferenza, tristezza e confusione. Tornavo a splendere come il sole delle isole. Ottimo, pensavo, tornerò periodicamente nelle isole e in tutti gli altri posti che mi fanno stare bene e tutto questo mi aiuterà a combattere la mia condizione, qualsiasi sia il suo nome. Forte di questa convinzione, non avevo neanche fatto in tempo a tornare a casa che avevo già trovato un altro aereo a basso costo che mi avrebbe portato a visitare Gran Canaria qualche mese dopo. Non ero mai stato su quell'isola, ci sarei andato tra gennaio e febbraio del 2020.

Arrivato di nuovo nell'arcipelago, trovai anche a Gran Canaria le stesse condizioni benefiche che avevo già trovato alla Palma a novembre del 2019. Si stava anche lì perfettamente anche a fine gennaio, e l'acqua dell'oceano e il sole mi rimisero a nuovo entro poche ore. Mentre scoprivo quell'isola affascinante e rilassante, nelle televisioni e sui giornali locali si sentiva parlare di una cosa lontanissima, un virus che sembrava mietere diverse vittime e si stava diffondendo molto rapidamente. Memore degli stessi allarmi letti sulla stampa italiana a proposito della Sars qualche anno prima, non ci pensai troppo.

Il mare era così invitante! Così invitante che non ci pensai neanche un attimo a quel virus lontano. Era un piacere perdersi dentro quelle acque, godere del tepore del sole di gennaio ed esplorare le valli e i canyon di quell'isola bella. Mi faceva sentire di nuovo vivo, le mie mani si erano sgonfiate un pochino ed era anche sparita quella fastidiosissima sciatalgia. Insomma, stavo veramente molto bene.

Dopo un paio di giorni giunse la notizia che il primo ammalato di tutta la Spagna, contagiato proprio a causa del coronavirus cinese, si trovava nell'isola de La Gomera, un'altra isola dell'arcipelago vicinissima a me, proprio a due passi di distanza. Nonostante questo, continuavo a non pensarci troppo. Mi sembrava l'ennesima esagerazione della stampa, magari fatta per cavalcare l'onda di un argomento molto popolare. Non ci pensai nemmeno nel corso del viaggio di ritorno, quando durante lo scalo a Madrid mi ritrovai nella enorme H dell'aeroporto, dove arrivavano voli da tutto il mondo, Cina compresa. E neppure mi venne in mente nulla quando poche settimane dopo venne celebrato il 50° anniversario dei miei, con tanti invitati da diverse zone d'Italia. Nessuno di noi sapeva che la nostra vita sarebbe cambiata per sempre nel giro di poco tempo e che non ci saremmo più rivisti per un pezzo. E non ero neppure cosciente del fatto che, come ammalato di patologie croniche e reumatiche, stavo correndo un rischio molto più elevato di tutti gli altri.

Nel giro di poche settimane, la vita di tutti noi cambiò all'improvviso. Certamente te lo ricorderai anche tu benissimo. Prima Codogno divenne zona rossa e isolata dal resto del paese, poi i comuni limitrofi. Poi fu il turno dell'Emilia-Romagna. Visto che lavoravo in un ambiente sanitario, ovviamente ci vennero date alcune indicazioni su come comportarci e che cosa ci aspettava nelle settimane successive, o almeno quello che si pensava ci avrebbe aspettato nelle settimane successive. E fu una stima un po' ottimistica. Come informatico percepivo direttamente la fatica e la stanchezza degli operatori sanitari, che poi si riversava su di noi, perché le richieste di aiuto aumentarono a dismisura. La qualità della mia giornata lavorativa peggiorò drasticamente, così come quella di molti altri in Italia e in Europa. A un certo punto, io e i miei colleghi ci ritrovammo isolati. Ci separarono gli uni dagli altri, creando due gruppi di lavoro. Nessuno si sarebbe dovuto vedere di persona e ognuno avrebbe dovuto lavorare in una stanza da solo, condividendo soltanto il bagno con gli altri. In caso di contagio, si sperava che almeno uno dei due gruppi di lavoro sarebbe rimasto sano, consentendo dunque l'operatività ordinaria e straordinaria.

Chi vive in Emilia-Romagna sa benissimo cosa sia la Via Emilia: è sempre la più trafficata, qualsiasi città attraversi. Mentre prima della pandemia guardavo fuori dalla finestra del mio ufficio e vedevo una fila ininterrotta di macchine, in quei giorni vedevo passare una macchina ogni 10 minuti, forse. Ancora peggio del mese di agosto, quando la città si svuota, e all'improvviso un enorme silenzio. Questo grande silenzio che ti faceva notare chi non c'era, piuttosto che chi attraversava le strade, e che tutti erano a casa. Cercavo di andare poco in bagno e ogni volta ero un po' spaventato, perché toccare le varie superfici con le mani aperte a causa della psoriasi sicuramente mi esponeva a un rischio molto maggiore di altri. Avevo imparato bene da un medico come lavarmi le mani e così cercavo di tenerle pulite usando il sapone al posto del gel tutte le volte che potevo. Ci avevano anche fornito alcuni spray disinfettanti con cui pulivamo scrivanie e maniglie, pomelli, tutto ciò che si poteva. Chi di noi non era in ufficio lavorava da casa a settimane alterne. Alla fine, come tutti, cominciai a non vedere più nessuno: niente genitori, niente amici, niente colleghi, solo chi viveva con me. Inutile che entri troppo nel dettaglio, perché sai già cosa abbiamo vissuto tutti. Posso dirti però che da malato invisibile fu tutto più complicato. Avevo già capito prima di quel periodo che il mio sistema immunitario iperattivo e impazzito reagisce malissimo a qualsiasi tipo di virus o battere mi passi vicino. E poi, come ti ho appena detto, ti raccontavo che le mie mani sono costantemente spaccate a causa della psoriasi. In quel periodo era obbligatorio usare il gel disinfettante in qualsiasi ospedale, ufficio o negozio. Il gel è a base di alcool: immaginati di buttare alcool su una ferita aperta ogni volta, la stessa storia, tanto bruciore, ma non c'era modo di non farlo. O lo facevi o non entravi.

La pandemia e l'isolamento volevano dire anche lavoro da casa. Significava alzarsi dal letto per andare alla scrivania, lavorare lì tutto il giorno, staccarsi dalla scrivania, mangiare qualcosa, dormire e ricominciare da capo. Immagina come mi sentivo in tutta questa situazione: proprio io, abituato ad andare in palestra tre volte a settimana, io abituato a viaggiare, abituato a prendermi una pausa dal dolore e dalla sofferenza proprio viaggiando periodicamente. Ora non si poteva fare e chissà per quanto tempo. Mi sentivo in trappola, impotente, l'ennesima situazione è senza una via d'uscita. Che il mio benessere precario, fatto di integratori e viaggi alle Canarie e palestra, sarebbe finito per sempre. Sentivo ancora una volta di aver perso tutto. E in un certo senso è stato così, perché da quell'anno è iniziata la fase più veloce del mio declino e credo che dipenda anche dal fatto che all'improvviso non potevo più allenarmi. Può sembrare paradossale, ma in questa situazione terribile non so come l'esaurimento passò. Forse perché ero sempre più stanco e in qualche modo riuscivo a dormire un po' di più, non avendo molto altro da fare del resto. Forse ho trovato dentro di me risorse che neanche sapevo di avere. Forse è stata la situazione eccezionale, la consapevolezza che di fronte a qualcosa di enorme, di così grande, che i problemi di tutti i giorni non sembravano più così grandi. Davvero non lo so come sia successo. Fatto sta che a un certo punto, pure affaticato, pure in ansia per tutta la situazione, mi sono svegliato una mattina senza sentirmi depresso. E poi un'altra, e poi un'altra ancora. C'erano delle cose importanti che sentivo di dover fare. Era il momento di rimboccarsi le maniche.

Uno dei miei compiti era quello di tenere in piedi i sistemi informatici che consentivano ai medici di lavorare bene. Una volta mi venne chiesto di preparare dei tablet con sopra WhatsApp, Skype o applicazioni del genere. Moltissimi pazienti purtroppo stavano morendo nei reparti di terapia intensiva, isolati dal mondo esterno, magari perché in molti casi si trattava di anziani che non sapevano usare queste tecnologie e non le avevano installate sul loro cellulare. O magari erano persone che erano state portate lì d'urgenza, e chi le portava lì, visto che non stavano respirando, magari non si fermava a pensare di prendere il cellulare. I tablet che avrei dovuto fare avrebbero consentito loro di contattare i loro cari a casa e, da quanto so, per molti di loro è stata l'ultima volta. Forse in tutto questo avevo trovato uno scopo più grande, qualcosa di più grande di me, che mi aveva consentito di non pensare troppo a me stesso e alla mia situazione.

Dopo un'estate di semilibertà, in cui riuscì finalmente a guardare un paesaggio diverso sulle magnifiche Alpi italiane, fu il turno del Cilento, una spettacolare terra con poche persone che visitai i primi di ottobre. In quei giorni si potevano leggere già i sintomi di una nuova chiusura, che ci avrebbe di nuovo riguardati tutti entro poche settimane. Poi tutto tornò di nuovo come prima, come a fine marzo.

A fine anno però qualcosa cambiò: arrivarono i primi vaccini, insieme a un vago sentimento di speranza. Forse potevo riuscire a non ammalarmi e questa cosa mi dava un elemento di tranquillità in più, perché grazie al mio lavoro ero a conoscenza di tante morti, troppe. Su questo argomento di solito l'opinione pubblica si spacca. Io ti sto raccontando che cosa ha rappresentato per me il vaccino. Ho fiducia nella medicina e nella scienza e non ho pregiudizi nei confronti di questi farmaci, davvero nessuno. Ritengo che siano utili e anzi indispensabili. So che molti non condividono con me questa opinione e ci sta, perché siamo in un paese libero, ma questo è il mio podcast. Sono io che ti sto raccontando la mia vita, ti racconto di me e non potrei mai raccontare qualcosa di diverso da quello che penso davvero. Se la tua idea è diversa dalla mia, non è assolutamente un problema: basta che tu non cerchi a tutti i costi di convincermi che la mia idea è sbagliata.

Tutto ciò che ruotava attorno alle vaccinazioni mi tenne impegnato per molto tempo: report, analisi, condivisione di documenti, insomma tutto ciò che serviva allo scopo aveva la priorità e significava altro lavoro per me. Con l'arrivo dell'estate, però, cambiai lavoro. La sanità mi era bastata, tanto più che la situazione che mi portava a dei burnout sempre più frequenti sembrava non cambiare. La mia fatica era sempre di più, sia fisica che mentale, e il lavoro aumentava costantemente, nonostante la pandemia stesse pian piano acquistando la forma di una nuova normalità. Bene, sarei andato altrove, sperando in un ambiente più tranquillo. Un nuovo lavoro avrebbe dovuto comportare un calo dello stress, se non altro nel periodo del preavviso, e invece il mio corpo era sempre più dolorante, sempre più malessere, sempre più confusione mentale, e per uno che lavora con il cervello è quanto di peggio si possa immaginare.

Tornai allora in reumatologia. Una parte di me pensava che il fatto di trovarsi lì si trattasse di un errore di valutazione di qualche tipo. I malati di artrite che conoscevo stavano ben peggio di me. Magari i miei problemi potevano essere soltanto, che ne so, un tunnel carpale o qualcosa del genere. Ma dopo avermi ascoltato, il reumatologo mi prescrisse una risonanza magnetica, un'altra, e all'appuntamento successivo mi fece anche di nuovo una approfondita ecografia alle mani, ai piedi, ai polsi e alle caviglie. Ci volle quasi un'ora e mezzo. Alla fine venne emesso un altro terribile verdetto e questa volta definitivo:

ARTRITE PSORIASICA

“L'artrite psoriasica è una patologia cronica infiammatoria che colpisce le articolazioni e i tendini,

associata alla psoriasi, una malattia infiammatoria della pelle caratterizzata da lesioni cutanee arrossate

e ricoperte da squame. Questa malattia autoimmune può provocare dolore, rigidità articolare e gonfiore,

causando un impatto significativo sulla qualità di vita dei pazienti.”

Fonte: Istituto Ortopedico Rizzoli. Ti lascio il link nella descrizione dell'episodio.

In maniera ancora più convinta, continuai a tenermi tutto dentro.

Anche se ne avessi voluto parlare, chi avrebbe capito davvero quello che avevo da dire? Chi mi avrebbe ascoltato? Le persone con cui ci ho provato non sono state in grado di capire e questo mi ha incoraggiato ancora di più a cercare di non parlarne con nessuno.

Arrivò di nuovo l'inverno e con lui quell'umidità fredda che riempie così spesso la nostra pianura; la nebbia che ti avvolge, e che non ti fa vedere a un metro; la pioggia scrosciante che sembra volerti annientare goccia a goccia; il grigio interminabile che a qualcuno piacerà anche, ma a me ricorda sempre gli inverni lunghissimi e bui del paese in cui avevo trascorso l'infanzia. Al giorno d'oggi ho un motivo in più per detestarlo: l'umidità. Qualsiasi tipo di dolore aumenta con l'umidità, a noi scatena dolori nuovi, inaspettati, che magari ti colgono nel sonno, proprio nel bel mezzo della notte. Sto parlando di dolori simili a nevralgie, che bruciano nelle articolazioni, che tu ti muova oppure no. A volte sembrano dolori pulsanti, sembrano pulsare. Tante volte ho avuto il privilegio di provare queste sensazioni fantastiche, e magari che qualche dito delle mani o dei piedi si bloccasse dal dolore, impedendomi così di usarlo.

Già ai primi di ottobre del 2021 non ne potevo più. Sentivo il corpo rattrappirsi come un pomodoro messo ad essiccare al sole. Il problema è che quel pomodoro ero io e sentivo tutto il processo. Nel frattempo, il gonfiore di tutto il corpo stava diventando insopportabile. E allora ricorsi all'unica terapia efficace che conoscevo: prenotai un viaggio per Lanzarote, la quinta delle isole Canarie che sarei andato a scoprire tra fine novembre e dicembre. Fu un viaggio indimenticabile: le fotografie si sprecavano in quei terreni che sembravano usciti direttamente dalla Luna. Come sempre, le isole mi avevano tolto il malumore, il dolore e il gonfiore. Quel sole caldo mi aveva allontanato dal buio della pianura e il suo effetto si sarebbe fatto sentire fino a dopo Natale almeno. O così speravo, perché in realtà l'effetto positivo delle isole durava sempre meno. Quando rientravo in Italia si esauriva sempre più in fretta ad ogni viaggio. Ormai avevo capito che avrei dovuto cambiare residenza se avessi voluto stare un po' meglio, perché la mia vita, la nostra vita, intendo mia e di chi sta come me, non è vita.

Ed ecco allora che mi si accese una lampadina: avrei dovuto viaggiare il più possibile, non soltanto per stare meglio lontano dalla pianura, non soltanto per fotografare tanto, cosa di cui mi stavo innamorando perdutamente. Avrei dovuto viaggiare per cercare una seconda casa, perché oggi la mia casa è l'Emilia, ma un domani no, non mi ci vedo qui e quindi chissà... Dobbiamo, come ti dicevo, creare le condizioni per essere felici e io queste condizioni le voglio creare, ci voglio provare.

Da quel viaggio a Lanzarote e da tutti i precedenti e i successivi, soltanto un anno dopo avrei fatto nascere una cosa bellissima: un canale YouTube in cui condivido tutta la bellezza che trovo nel mondo con chiunque lo voglia guardare. E lo faccio naturalmente a modo mio, per ciò che sono diventato osservando, ascoltando, riportando ciò che mi colpisce, soprattutto fotografando tanto. Dalla fine del 2022 mi sarei impegnato seriamente per alimentare questo canale, che ti invito ad andare a vedere. Si chiama “Il Simone Viaggiatore”. Se non lo conosci già, potrai trovare il link per visitarlo nella descrizione di questo episodio. Quello è un canale in cui cerco di riversare tutta la gioia che provo durante i miei viaggi e provo a trasmettere quanto sia appagante il contatto con la tranquillità dei luoghi naturali con pochi turisti, dove posso stare in pace con me stesso, a dimenticare tutti i miei problemi e a fotografare la bellezza del nostro pianeta. Se vedrai i miei video e ti sentirai così anche tu, allora avrò raggiunto il mio scopo: la condivisione di tutta questa bellezza. D'altra parte, qualcosa doveva pur sostituire l'enorme vuoto lasciato dalla perdita della musica, che niente fino a quel momento era riuscito a riempire, e quel canale è stato ed è ancora un grande aiuto per me, per cercare di indirizzare la mia vena creativa su qualcosa di bello e credo anche utile. Potessi più tenerlo, la testa mi scoppierebbe, piena di idee inespresse e di cose non dette. Spero che lo visiterai e capirai quanto sia importante per me.

Nel frattempo, stammi bene. Podcast pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia, non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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🔙✨ Come ho affrontato la mia prima diagnosi di artrite: superare il passato e la depressione 🏥🩺💪

<< Ogni cosa sembrava richiedermi uno sforzo così grande che non iniziavo neanche a farla. Sentivo che non ne valeva la pena e non sarei riuscito a completarla. Ogni compito che mi veniva affidato sul lavoro non faceva che alimentare questa sensazione di inadeguatezza, di pesantezza, di impegni che erano sempre più grandi, così tanto grandi da fare paura. E in tutto questo, ovviamente, il dolore non passava. >>

[...]

Se preferisci ascoltare questo episodio (il 15°) anziché leggerlo, puoi farlo a questi indirizzi:

Nel corso della mia vita mi sono sempre sentito a disagio con tutte le situazioni in cui non riuscivo a venire a capo dei problemi che dovevo risolvere. Sono certo che sia capitato a tutti, ma se anche tu sei un malato invisibile, credo che tu possa capire molto meglio cosa intendo con energie limitate e continui problemi di salute da affrontare. La nostra esistenza si trascina piuttosto che svolgersi.

Ci sono poi eventi che non è possibile controllare, come quelli che ti raccontavo nell'episodio precedente. Prima di scoprire che la mia vita stava procedendo verso un abisso, mi era molto più facile riprendermi dalle difficoltà. Non credo che sia stato semplice superare tutto quello che ti ho raccontato, ma in qualche modo credevo che fosse una specie di allenamento. Ho sempre creduto che la vita mi stesse lentamente spronando a lasciare andare, accettare lo scorrere del tempo. Ricorda che in quegli anni non ero cosciente delle mie patologie ed ero ancora convinto che i problemi dipendessero solo dal normale invecchiamento.

Negli anni precedenti alla perdita del lavoro avevo regalato a Samuele, mio nipote, la chitarra nera che avevo comprato nell'estate del '96. Me l'ero sudata tutta e aveva un valore anche sentimentale particolare per me, essendo stata la mia compagna di tanti momenti memorabili e belli, ma effettivamente non ne avevo più bisogno e gliel'avevo regalata molto volentieri. D'altra parte, io avevo la chitarra di Steve in mano.

Giusto a gennaio del 2017, però, non riuscivo più a suonare. Ci avevo provato tanto, ma già l'anno precedente mi ero reso conto che le dita, anche se si spaccavano meno rispetto a tanti anni prima, ormai mi facevano male continuamente. Un male diverso da quello superficiale della pelle, un dolore profondo, diffuso a tutte le articolazioni della mano e molto molto intenso. Le medicine indiane che prendevo mi aiutavano molto in questo senso. Ti ricordi quelle di cui ti avevo parlato e che mi aveva consigliato il medico ayurvedico nel mio viaggio in India? Ma rispetto al passato mi ero ritrovato a prenderle tutti i giorni anziché sporadicamente. Nonostante questo, le dita non avevano più forza e non si muovevano in accordo con quello che il mio cervello diceva loro di fare e suonare era dolorosissimo. Mi piangeva il cuore, ma suonare in quelle condizioni era impossibile.

Più ci provavo, più il dolore aumentava, fino a impedirmi di muovere le mani. La precisione, l'agilità e la flessibilità delle mie mani erano sparite. Dall'amplificatore uscivano suoni senza senso, note stonate, gracchianti, che non comunicavano nessuna emozione se non lo schifo che provavo io ascoltandole.

Nel corso del tempo avevo accumulato vari strumenti, cinque chitarre elettriche e una acustica. Li avevo acquistati con molta fatica, a parte la chitarra di Steve by che, per un colpo di fortuna, mi ritrovavo tra le mani. Ma ora tutti quegli strumenti restavano in un angolo a prendere della polvere, ricordandomi a ogni sguardo quello che era stato e che non poteva essere più, quello che io ero stato e che non avrei mai più potuto essere. Era evidente che i tempi andati non sarebbero tornati. Avevo perso tutto. Dissi a mio nipote Samuele che avrebbe potuto prenderli tutti lui, se lo desiderava, un prestito a tempo indeterminato. Non lo ringrazierò mai abbastanza per avere dato nuova vita a quegli strumenti. Samuele suonava già la chitarra in quegli anni. Gli avevo forse attaccato io questa malattia? Oggi ho la consapevolezza che quelle chitarre ora stanno facendo quello per cui sono nate: dare gioia. Ne stanno dando a lui e quindi ne stanno dando dieci volte di più a me.

C'era anche un'altra situazione senza via d'uscita che sentivo di dovere risolvere in qualche modo. Avevo un sacco di tempo e niente da fare per riempirlo se non cercare lavoro. Il mio istinto mi diceva che avrei dovuto studiare, finire quella laurea che avevo lasciato in sospeso, ma non ne avevo più le energie. Faticavo a tenere le penne in mano e a scrivere più di qualche parola, ma anche a reggere qualcosa di così pesante come un corso di laurea in ingegneria. Nel giro di due mesi avrei compiuto 40 anni, 40 anni e non avevo neanche terminato il primo anno di studi. Di questo passo avrei finito magari a 50 anni, troppo tardi. Cosa avevo combinato nella vita? Sarebbe stato del tutto inutile insistere, avrei solo perso altri soldi. Quindi chiusi anche con l'università. Mi sentivo triste perché avevo perso un'altra delle cose che ero stato, un altro pezzo di me, ma mi sentivo anche più leggero. Due situazioni stagnanti che per me erano diventate solo un rimpianto e un peso ora non c'erano più. In un modo o nell'altro si erano chiuse, non dovevo pensarci mai più. Non so come, ma questo pensiero mi aiutava. Avevo preso la decisione che era tempo di guardare avanti. La vita mi aveva sferrato un brutto colpo tra la perdita del lavoro e tutto il resto, ma il rovescio della medaglia era che pensavo di averlo superato e di essere finalmente più resistente. Credevo di esserne uscito più forte e in effetti mi sentivo davvero più forte. Avevo superato tante situazioni difficili nella vita e alla fine ne ero sempre uscito, quindi che ne arrivasse pure un'altra, ormai non c'era più niente che potesse fermarmi. O quasi.

Con questo spirito, a marzo del 2017 avevo deciso di non pensare più al passato e dare un nuovo corso alla mia esistenza, finalmente libero dalla morsa della procedura di fallimento. Avevo iniziato un corso professionale su un argomento che mi affascinava da sempre. Sto parlando della virtualizzazione dei server, parolone che se non sei un informatico esperto ti dirà poco, ma in sostanza si tratta di mettere i server uno dentro l'altro, come si fa con le matriosche. Grazie a queste tecnologie, al giorno d'oggi si riescono a risparmiare tantissimi soldi rispetto al passato, ma anche a migliorare l'efficienza delle macchine e ridurne l'impatto ambientale, soprattutto per i grandi data center. Io credo che sia affascinante. Avevo già capito che l'unico modo per restare a galla in questa società è quello di cambiare, di evolvere, di espandere la propria conoscenza. La società della performance, d'altra parte, ci vuole così. Il corso che iniziai a fare trattava di informatica avanzata e, al di là del fascino, mi sembrava che fosse una via saggia da intraprendere, soprattutto per chi come me aveva dovuto accantonare anche il sogno di una laurea. Sicuramente mi avrebbe aiutato a trovare un nuovo lavoro, magari anche più appagante. Poi, questo tipo di tecnologie rappresentava un po' la somma e l'espansione di tutto quello che già conoscevo nell'informatica, quindi la mia conoscenza si sarebbe nuovamente ampliata notevolmente. Sarei diventato finalmente più interessante per le aziende. Quando avevo iniziato a lavorare tanti anni prima, avevo idea che a un certo punto, dopo avere accumulato tanta esperienza, tutto sarebbe stato più semplice. Niente di più lontano dalla verità. Il mondo del lavoro è un mostro con migliaia di teste, una specie di Cerbero dei giorni nostri che è impossibile da domare, salvo in rari casi. Anche se non sei un malato invisibile, non sarai mai abbastanza, non farai mai abbastanza, chiederai sempre uno stipendio troppo alto perché si pretende il meglio da tutti e ci sarà sempre qualcuno più bravo di te o disposto a lavorare per uno stipendio più basso. Cerbero considera tutto questo, le tue aspirazioni e le tue attitudini saranno quasi sempre ignorate, ed è un vero peccato questo, perché è proprio quando si valorizzano i talenti che le persone danno il meglio di sé. Questa miopia tutta italiana è qualcosa che ci sta rovinando, a mio parere, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. In questo contesto è impossibile venire a capo, anche da sani. Figuriamoci quando hai una spada di Damocle sulla testa, come accade a me e a tutti gli altri malati invisibili. Quello che speravo nel 2017 si è realizzato solo in parte. Dopo il corso sulla virtualizzazione, un nuovo lavoro era arrivato molto presto e anche in famiglia c'erano belle notizie. Mio papà poteva finalmente tornare a casa dopo un lungo ricovero in ospedale e un intervento che lo aveva messo a durissima prova. Sembrava che io fossi riuscito ad evitare l'abisso, ma non avevo capito che ci stavo finendo direttamente dentro.

Apparentemente filava tutto liscio. Il nuovo lavoro mi piaceva, anche se era molto diverso da qualsiasi altra cosa avessi mai fatto prima. Era faticoso inserirsi in un'azienda molto grande in cui quasi tutto era nuovo e i problemi dell'informatica si risolvevano in maniera molto diversa rispetto alle altre aziende in cui avevo lavorato. Ma è anche vero che c'erano tanti stimoli e il corso sulla virtualizzazione che avevo appena fatto aveva finalmente un impiego pratico. Avevo ripreso a viaggiare, mosso dal desiderio di rivedere le Canarie. Ci volevo tornare, come ti dicevo, non passava giorno senza che ci pensassi. Avevo già maturato l'idea che avrei voluto trascorrere lì il resto della mia vita, se avessi potuto. Iniziai a sognare Fuerteventura già molto tempo prima di arrivarci. A gennaio del 2018 finalmente partii per scoprire quest'isola fantastica delle Canarie, emozionato come un bambino piccolo a Natale. Volevo capire quanto fosse diversa da Tenerife, l'isola che mi aveva fatto innamorare, e volevo anche vedere come avrei reagito davanti ai suoi paesaggi desertici, così particolari. Devi sapere che a Fuerteventura non cresce neanche un alberello. Raccontata così potrebbe sembrare un posto bruttissimo, ma ti assicuro che trovarsi lì a contemplare le sue distese che sembrano quasi marziane, così vuote come sono e color pastello, il suo deserto dorato con le sue dune che si gettano in un oceano turchese, è qualcosa di veramente magico. Ho avuto la fortuna di vederla in un momento in cui non c'era nessuno e mi ritrovavo spesso da solo ad ammirare una spiaggia così grande che non si riusciva neanche a vedere dove finisse all'orizzonte. Fuerteventura però non mi aveva fatto venire la voglia di viverci. Dopo qualche giorno il paesaggio continuavo a vederlo bello e interessante, scattavo tantissime fotografie, ma l'isola era pressoché vuota e tutto quel vuoto mi metteva un po' di angoscia e di tristezza. Fuerteventura non era calda e vitale come mi aspettavo, ma in ogni caso sempre meglio che rientrare nel buio dell'inverno emiliano, nel freddo della pianura. Sarei rimasto lì molto volentieri. Su, nella peggiore delle ipotesi, avrei trovato 18° al ritorno a casa. Un'altra influenza terribile mi costrinse a letto per settimane. Pensare che il mio sistema immunitario fosse indebolito e imbot mi dava do, ma allo stesso tempo mi ammalavo tanto spesso e questa cosa per me era inspiegabile.

Con il passare dei mesi mi ritrovai sempre più spesso esausto, a digrignare i denti e cercare di sopravvivere in quel posto di lavoro che aveva a che fare con il mondo sanitario e di conseguenza mi dava tanta tanta ansia. Ormai tutto è informatizzato e se non avessi svolto bene il mio lavoro avrebbero potuto esserci delle conseguenze dirette sulla vita dei pazienti. Non ero certo che avrei potuto tollerare a lungo questo stato di cose, anche perché non si perdeva occasione per ricordare a me e ai miei colleghi quanto fossimo inadeguati per questo ruolo. Le dita delle mani mi facevano male sempre di più, così come le articolazioni e le dita dei piedi. Andando in palestra avevo messo su nel corso degli anni tanta massa magra e poi ero anche ingrassato un po', e ora i 90 kg abbondanti si facevano sentire ad ogni passo. Per questi dolori ai piedi il medico mi mandò da un fisiatra, ma la visita fu del tutto inutile. Mi venne detto che avevo 41 anni e, come tutti i quarantenni, avrei dovuto riconsiderare il mio abbigliamento: via le scarpe rigide, benvenute le scarpe alte e gommose. Mi era anche stato suggerito di mettere dei plantari ortopedici. A me questa proposta convinceva veramente pochissimo, tanto più che nonostante li avessi presi non stavano risolvendo il problema. E per quanto riguardava le mani, beh, ormai facevano proprio male anche lavorando sulla tastiera tutto il giorno, così come i polsi, il collo, gli avambracci. Davo la colpa alla palestra e all'età, ma una parte di me sapeva che non era così.

Verso fine anno fu la sostituta del medico di base a prendere in mano la situazione. “Quella che ha sulle mani è psoriasi, lo sa?” mi disse. Mi era già stata detta questa cosa, ma continuavo a non crederci. “No, no,” le risposi, “è allergia, sono allergico al nichel.” “Io non ci giurerei,” disse la dottoressa. “Facciamo una cosa, andiamo da un dermatologo.” Ci andai subito e il verdetto venne confermato: psoriasi. Questa roba strana e pruriginosa che mi aveva devastato le mani e le altre parti del corpo per anni era sempre stata psoriasi e io non l'avevo mai saputo, o meglio, avevo fatto finta di non saperlo. Ora non potevo più ignorarla.

Quando tornai dalla dottoressa le parlai del verdetto e, visto che ero lì per l'ennesimo mal di schiena, lei fece uno più uno. Mi chiese se avessi mai fatto una visita in reumatologia, notando anche il colore rosso della mia barba. Mi suonava veramente strana questa domanda: perché sarei dovuto andare in reumatologia? Ero mica un vecchio! E poi, cosa c'entrava il colore della mia barba? Ma siamo impazziti?

Nel corso dell'anno le cose cominciarono a peggiorare, però. Nel 2019 tutti i dolori aumentarono e non c'era volta che andassi in palestra senza tornare con qualche dolore pesante. Ricordo che una volta, per circa un mese, non fui neanche in grado di infilarmi la giacca a causa di un dolore alla spalla estremamente forte. Il reumatologo mi fece mille domande, ma una in particolare mi fece gelare il sangue. “I dolori che sente aumentano o diminuiscono di notte?” Risposi che aumentavano, e anzi, alcuni uscivano fuori proprio di notte o comunque non appena mi risvegliavo. Mi visitarono tante volte nel corso dell'anno e all'ultimo incontro mi dissero che la diagnosi non poteva essere ancora certa. Avrei dovuto prendere degli antinfiammatori eventualmente più forti, specifici per chi ha l'artrite o problemi simili, poi avremmo visto come andava, se il dolore poteva essere gestibile. Col senno di poi, quel medico aveva capito tutto, ma probabilmente non aveva ancora degli elementi certi per fare la sua diagnosi e non si sbilanciò. Mi visitarono tante volte nel corso di quell'anno a intervalli regolari e mi fecero tantissime domande ogni volta. Soltanto verso la fine dell'anno mi fecero fare una risonanza al bacino, visto che il dolore nella zona lombare era tornato e si era fatto costante. La risonanza mise in evidenza delle calcificazioni dolorose e molto caratteristiche che si trovavano sulle creste iliache e in altre zone del bacino. Il medico mi fece anche delle ecografie estremamente approfondite a mani e piedi. Ci volle quasi un'ora e alla fine mi disse che l'ipotesi dell'artrite prendeva forma con più corpo. Era probabile.

Non riuscivo ad accettare questo verdetto e nemmeno a parlarne con nessuno. La cosa non era ancora certa, ma il verdetto mi aveva colpito profondamente. Era qualcosa di troppo grande, troppo importante per poterlo elaborare in poco tempo. Avere questa cosa aumentava e mi sembrava che ci fosse un peso enorme sopra di me, quello di un mostro che aspettava soltanto il momento giusto per saltarmi addosso e togliermi tutte le cose belle. Anzi, ora cominciava a essere molto chiaro che il mostro era già saltato sopra di me e mi aveva già tolto tutte le cose belle. Non potevo crederci, non ero così vecchio. Non sapevo bene cosa significasse questa cosa, ma mi era chiaro che era qualcosa di degenerativo e che il dolore sarebbe aumentato per sempre, fino a manifestarsi dappertutto. Avevo tanta tanta paura. Pensavo che la vita fosse finita. Avevo letto infatti che esistono forme di artrite che colpiscono solo alcune parti del corpo, ma l'artrite psoriasica colpisce le articolazioni e i tendini, potenzialmente tutte le articolazioni e tutti i tendini. Riesci a immaginarlo? Tende a creare calcificazioni, gonfiore e anche effetti peggiori.

Mi tenevo tutto dentro, cercando di non cedere al richiamo di un futuro oscuro che sembrava dietro l'angolo. Non sapevo cosa fare. Mi tenevo tutto dentro, non ne parlavo con nessuno. Tanto non avrebbero capito. Poi, per dire che cosa? Per descrivere che cosa? Non sarei riuscito neanche a spiegarlo. Non sapevo come fare allora, a malapena ci riesco oggi. Figurati. Questo non toglie che stessi sempre peggio. Avevo iniziato a prendere antinfiammatori molto più spesso di prima. Era l'unico modo per tirare il fiato, per togliersi di dosso tutto quel dolore e tornare a ragionare lucidamente, con chiarezza, anche solo per potere lavorare. Ed era anche l'unico modo a volte per andare in palestra, diversamente il troppo dolore non me lo avrebbe consentito. Sì, stavo invecchiando, certo, ma non tutto era perduto. Un po' di palestra, un antinfiammatorio qua e là e il dolore spariva o almeno non arrivava mai in maniera troppo intensa. Forse anche per merito delle erbe ayurvediche che prendevo di tanto in tanto riuscivo ancora a fare una vita normalissima, tutto sommato. Antinfiammatoria parte, la palestra, i viaggi e tutto il resto. E nel frattempo non ne parlavo. Mi tenevo tutto dentro di me. Nessuno doveva sapere. Gli uomini non piangono, non devono farsi vedere deboli.

Però il lavoro mi parve insopportabile. Era continuato ad aumentare nei mesi precedenti, tante cose, sempre di più, sempre più in fretta, sempre più intense. Mi ritrovai ben presto ad avere più cose da fare di quante potessi finirne ogni giorno. L'elenco delle cose da fare cresceva come una montagna che ogni giorno diventava più alta da scalare, senza che si riuscisse ad arrivare alla cima e nemmeno a vederla mai. Senza rendermene neanche conto, andai in un burnout pesantissimo che stava quasi per diventare depressione. Sì, perché al contrario di quanto credevo non era vero che ogni colpo mi rendeva più forte. Oggi credo che noi esseri umani somigliamo a dei fiori stupendi, che ogni raffica di vento perdono più petali di quanti riescano a farne ricrescere. Prima o poi, a forza di raffiche di vento, rimaniamo senza petali, senza colore, chiniamo il nostro stelo e rischiamo di seccare e non alzarci più.

Ero profondamente infelice, non facevo che piangere e sentivo tutto il peso del mondo sopra le mie spalle. Ogni cosa era pesante: mangiare, fare la spesa, uscire a cena, andare dai miei, al cinema, in palestra, leggere un libro o prendersi cura del gatto.

Ogni cosa sembrava richiedermi uno sforzo così grande che non iniziavo neanche a farla. Sentivo che non ne valeva la pena e non sarei riuscito a completarla. Ogni compito che mi veniva affidato sul lavoro non faceva che alimentare questa sensazione di inadeguatezza, di pesantezza, di impegni che erano sempre più grandi, così tanto grandi da fare paura. E in tutto questo, ovviamente, il dolore non passava. Anzi, aumentava sempre di più, dappertutto. Una situazione senza via d'uscita, come tutte le altre che avevo affrontato nella vita. Dal 2019 non sono ancora riuscito a liberarmi di questa sensazione. Il tempo passa, ma le raffiche di vento continuano ad arrivare, ogni giorno gli impegni aumentano sempre più e le energie per farvi fronte diminuiscono, anche per colpa delle patologie che ti sto raccontando. La depressione, come altre malattie invisibili, è una brutta bestia e mi è bastato assaggiarla, vederla soltanto da lontano, per capirlo. Allora me ne sono liberato per un po', e nel prossimo episodio te lo racconterò meglio, ma so che non se n'è andata per sempre. Con tutto il dolore che provo e le scarse energie so che è sempre lì in agguato, ogni tanto fa capolino e cerco di mandarla via facendo cose che mi piacciono o che mi fanno stare bene, ma so che non se ne andrà mai del tutto. Visto come procede la mia vita è facile dire “è tutto nella tua testa” a chi soffre di malattie invisibili, ma è anche tanto, tanto sbagliato. Non aiuta e non è neanche vero, purtroppo. Solo chi vive certe esperienze può dire se stiano accadendo oppure no. E dovremmo tutti imparare a fidarci di più di quanto ci viene raccontato e sicuramente dovremmo imparare a giudicare di meno. Non dobbiamo pensare che la nostra percezione della realtà possa valere anche per un'altra persona. Fidiamoci di quello che ci dice, perché a nessuno piace aprirsi su argomenti come questi, credimi. Io lo sto facendo adesso ed è veramente difficile, è doloroso persino parlarne, ricordarli, doversi spiegare. Quindi, se una persona arriva a farlo, è molto, molto probabile che ti stia dicendo la verità. Una volta ho visto una vignetta divertente che però faceva anche riflettere. Mostrava cosa sarebbe successo se all'improvviso tutte le malattie fossero state considerate come le persone che non soffrono di depressione considerano la depressione. In una parte della vignetta c'era un tizio che andava a trovare un amico all'ospedale, un amico che stava a letto con la flebo piantata nel braccio, e il tizio gli diceva: “Stare lì sdraiato non ti aiuterà, devi fare qualcosa,” come se il solo fatto di volerlo fosse sufficiente a guarire. In un'altra sezione una persona si era completamente mozzata una mano, con il polso che diciamo sgocciola ancora di sangue, e l'altra persona gli diceva: “Devi solo smettere di pensarci, vedrai che ti passa.” Ovviamente erano tutte situazioni surreali, ma che non si discostano troppo dalla mia esperienza del mondo reale. Ti sembrerà strano, forse, ma sono le stesse cose che dicono anche a me fin troppo spesso, ormai ne ho la nausea, come credo anche tutti gli altri ammalati invisibili. Le malattie, se invisibili, esistono e non deve essere una vergogna esserne colpiti, perché capita a tutti. Con quale presunzione le persone ci danno consigli di questo tipo, ammesso poi che si possano chiamare consigli? Sono davvero queste le persone che vogliamo avere con noi durante il nostro cammino, già così difficile per conto suo? Pensiamoci bene. Per ora ti lascio con il buon proposito di fidarti di chi ti dice di soffrire, anche se la sua sofferenza non è così evidente o non esiste nella forma che pensi tu. Stammi bene.

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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🌧️💭 A volte ti ritrovi depresso senza neanche saperlo 😔🌈 Come il viaggio mi aiuta a stare meglio.

In questo episodio ti racconto quanto rapidamente ci si può avvicinare all'abisso della vita se sei un malato invisibile.

“Le aziende sono ben felici di approfittare degli sgravi fiscali e delle sovvenzioni che hanno se assumono personale con una disabilità riconosciuta. Ma se la disabilità non è riconosciuta, come nel mio caso, nel caso di tanti altri, beh, allora sei un peso. Non importa quanto tu provi a spiegare che non dipende tutto da te, non verrai mai creduto.”

Se preferisci ascoltare questo episodio, il 14°, anziché leggerlo, puoi farlo a questi indirizzi:

[...]

Nella vita tutti abbiamo alti e bassi: periodi in cui tutto va meglio rispetto ad altri momenti. In quei mesi o anni siamo all'apice delle nostre possibilità,e poi ci sono altri periodi in cui le cose non vanno. A volte non ci accorgiamo che le cose ci stanno andando bene, non ci pensiamo più di tanto. È soltanto dopo, guardandoci indietro, che realizziamo di essere stati felici anche se non lo sapevamo. D'altra parte eravamo così impegnati a raggiungere i nostri obiettivi che non ce ne siamo resi conto.

Per me il 2010 era uno di quei momenti.

Frequentavo la palestra regolarmente e il mio corpo diventava sempre di più come lo desideravo: forte, muscoloso, bello, vitale. Nonostante qualche difficoltà, stavo riuscendo a dare gli esami più difficili all'università, analisi matematica 1 e 2. Il lavoro era lontano, sì, ma sembrava andare tutto bene e poi c'era in vista l'acquisto della mia prima casa di proprietà: arredamento, progetti, piani per il futuro. Avevo finalmente ripreso a viaggiare dopo qualche anno in cui non mi era stato possibile.

Avevo incontrato Steve Vai, il mio riferimento musicale del momento. In quanti possono dire di avere avuto la fortuna di incontrare il proprio idolo? Io credo pochissimi.

Eppure, sentivo che mi mancava qualcosa. L'incontro con lui e i suoi consigli mi avevano dato la carica per suonare, suonare e suonare ancora.

Con il passare del tempo e l'estrazione dei denti del giudizio, le crisi di fatica sembravano non tornare più. Ero contento perché mi sembrava di avere risolto anche questa situazione. Avevo anche trovato un nuovo gruppo in cui suonare non troppo lontano da casa. Il proprietario della casa in cui suonavamo aveva un organo Hammond originale degli anni '70. Suonavamo i Deep Purple come bere un bicchier d'acqua e poi qualsiasi altra cosa ci venisse in mente. Quelle jam sessions mi piacevano molto. Si poteva imparare moltissimo improvvisando, lasciandosi trasportare, intendendosi con gli altri al volo su come fare avanzare un'idea. Può sembrare strano ma si arriva a capire in quale momento tutti cambieranno tempo o accordo, anche senza parlare.

Mi piacevano molto i Black Crowes in quel momento, e tante delle cose che suonavo lì ricordavano il loro stile, pieno di influenze diverse, dal soul al blues al rock, e mi piacciono molto ancora. Suonavamo sempre per il piacere di suonare, a volte fino alle 2:00 del mattino o anche alle 3:00. Dormivo magari 3 ore e poi via a lavorare a Bologna. Se ci penso oggi, non capisco come facessi. Mi sembrano i ricordi di un'altra persona. A forza di suonare, esercitarsi, passare tante ore ad ascoltare musica, a un certo punto qualcosa si era come sbloccato. Avevo fatto un altro salto di livello. Le mie dita e il mio cervello all'improvviso avevano imparato a trasformare in note quello che avevo in testa e nel cuore con sempre maggiore precisione e accuratezza. Poche sbavature, pochissimi errori, suoni delicati o arrabbiati, ma sempre molto precisi.

L'ausilio dell'elettronica era entrato nella normalità del mio strumento dopo che Steve mi aveva fatto capire che non era un punto di arrivo, ma un mezzo. Ora riuscivo a suonare la musica del maestro e a suonare meglio anche quella di Joe Satriani. Anzi, non capivo come avessi fatto prima a non riuscirci. In realtà era così semplice! Riuscivo a suonare anche altro naturalmente, o a suonarlo meglio: Jimi Hendrix, il brasiliano Kiko Loureiro, i pezzi straordinari di Guthrie Govan. Non ogni singolo brano, certo, ma tanti, tantissimi. Finalmente avevo raggiunto l'apice che sognavo sin da quando avevo messo le mani sullo strumento più di 20 anni prima. Quello era soltanto l'inizio. Era ora di fare un altro salto di qualità. Dovevo cercare un gruppo in cui suonare e con cui sarei arrivato, beh, se non lontano, da qualche parte.

Tutto questo non era altro che altra benzina per il mio ego. Anche sul lavoro le cose spingevano in questo senso. Come informatico, ero il punto di riferimento in azienda per tantissimi colleghi e le loro necessità quotidiane: problemi di stampa, di posta elettronica, di navigazione, e tutto il resto. Non avevo un attimo di pace, ma mi piaceva questo stato di cosa. Mi dava l'impressione di contare qualcosa e che tutti mi cercassero, anche se non avevo ancora un titolo di studio avanzato che nel giro di poco comunque sarebbe arrivato, ne ero certo.

Però...però stava accadendo qualcosa attorno al 2014.

[...]

Le crisi di stanchezza non c'erano più già da tempo, ma comunque ero sempre più stanco. Mi alzavo già stanco al mattino, anche quando non andavo a suonare fino alle 3:00 di notte. Qualcuno mi diceva: “Beh, hai 37 anni ormai, cosa pretendi?” Ma io sentivo che c'era qualcosa di più del normale invecchiamento. Paradossalmente, per dormire avevo sempre più bisogno di prendere qualcosa: melatonina, prodotti di erboristeria come tisane, oppure avevo bisogno di stancarmi molto. La palestra in questo senso mi aiutava. E a proposito della palestra, i tempi di recupero normali non mi bastavano più. Da quattro volte a settimana cominciai ad andarci tre volte, poi due. Con il passare degli anni facevo cose più leggere, eppure avevo bisogno di tanti giorni in più per recuperare e fare sparire il dolore muscolare. A volte mi serviva una settimana, cosa che vanificava ciò che avrebbe dovuto essere più frequente. Gli episodi di tendinite, torcicollo e dolore cervicale erano sempre più frequenti. Parlandone con il mio personal trainer, riuscivamo sempre a trovare qualcosa che riuscissi a fare, ma era evidente che stessi andando indietro anziché avanti. Eppure tanti altri della mia età e senza essersi allenati per 20 anni come nel mio caso, riuscivano a fare ben di più!

Io solo qualche anno prima potevo alzare senza problemi un bilanciere di 160 kg da terra o fare squat, dei piegamenti verso il basso sulle gambe, con 100 kg addosso, o ancora muovere 250 kg nella pressa per le gambe. Chi frequenta la palestra sa che sono livelli che non tutti raggiungono. Lentamente, però, era arrivato il momento di dimezzare questi carichi e sentivo che ancora non bastava. Le presunte manifestazioni di allergia nella mia tibia erano sparite da qualche tempo con mia grande gioia e potevo finalmente tornare a mettermi i pantaloni corti. Ma queste chiazze di pelle squamosa e fragile non sparivano dalle mie mani, che continuavano anzi a spaccarsi, anche se un po' meno di prima. Avevo preso l'abitudine di usare chili e chili di crema idratante per mantenere la pelle elastica e far sì che si rompesse un po' meno, ma questo complicava molto il mio rapporto con la chitarra. Difficile suonare uno strumento con le mani unte, o, se per questo, fare qualsiasi altra cosa!

Una dermatologa che avevo visto mi aveva detto chiaramente che si trattava di psoriasi, non di allergia. Ero sempre più abbattuto per questa malattia che sembrava non trovare una soluzione e anzi evolveva, peggiorava. Ogni tanto, suonando, le mani avevano delle difficoltà, non si muovevano più come volevo. Erano sempre in ritardo rispetto alla mia mente e anche a livello mentale c'erano enormi difficoltà. Cose che un giorno mi sembravano semplicissime, il giorno dopo non riuscivo neanche a concepirle, figuriamoci a suonarle. Ascoltavo le registrazioni fatte il giorno prima e mi chiedevo se le avessi suonate davvero io. Sembravo un'altra persona. Dopo tanti anni a studiare le scale musicali, non riuscivo neanche più a ricordarle mentre suonavo.

Continuavo ad andare a trovare i miei nel fine settimana. Guidare da Reggio al paese dove ero cresciuto non era un lungo tragitto, eppure sembrava sempre più impegnativo e avevo la paura costante di addormentarmi durante la guida, cosa che un paio di volte è anche successa, per fortuna senza conseguenze gravi. Mi risvegliavo, ad esempio, nella corsia di sorpasso in autostrada senza ricordare come ci fossi arrivato. Poi presi l'abitudine di cantare, e uso questa tecnica ancora oggi: mi tiene sveglio abbastanza bene. Era chiaro però che c'era qualcosa che non andasse nel mio corpo. Oltre ai colpi di sonno, alcune falangi mi facevano male, ma non ricordavo di avere preso colpi o di averle sforzate così tanto in palestra. Era questa qui la vecchiaia? Finalmente era arrivata a 37 anni? Era colpa della palestra, forse?

Mio fratello mi segnalò alcuni rimedi ayurvedici che aveva visto online e che stava per ordinare dall'India. Si presumeva che servissero per il tono muscolare, tendini, la lucidità mentale e i dolori articolari. Per puro caso erano gli stessi che mi aveva consigliato il medico indiano tanti anni prima, ammesso che fosse un caso, e che allora non avevo preso. Senza pensarci troppo, ordinai quelle compresse. Arrivarono in un barattolino di plastica blu che sapeva di India e, una volta aperte, mi tornò in mente perché non le avevo prese allora: il loro inconfondibile tanfo.

Però, una volta prese mi accorsi che le dita mi facevano meno male e avevo un po' più di brio a livello mentale. Ero più lucido, più presente nel momento. Molto bene: lavorare sarebbe stato un po' più facile.

L'effetto durò per un po', ma poi le compresse finirono.

In più di un'occasione al mattino non riuscivo neanche a mettere in moto la macchina. Girare la chiave mi provocava un dolore intenso in tutta la mano destra, non più una falange ma tutta la mano. Un dolore così forte che non riuscivo a fare forza e girare la chiave o a muovere la mano in nessun modo. Dovevo girare la chiave prendendo la mano destra e facendola ruotare con la mano sinistra o non sarei riuscito a mettere in moto la macchina. Davvero non riuscivo a capire. Non riuscivo a capire perché fosse proprio quel movimento a mettermi in crisi o da dove provenissero questi strani dolori che poi sparivano apparentemente da soli, magari il giorno dopo o solo poche ore dopo.

Ero sempre così stanco! Pensavo che questa stanchezza fosse la causa per dei vuoti di memoria che avevo sempre più spesso. Piccole cose che però rendevano il lavoro sempre più difficile. Sembrava che anche le informazioni che avevo acquisito e consolidato non fossero più disponibili nel mio cervello. Il lavoro mi stava rendendo sempre più stanco e anche la mezz'ora a piedi che mi separava dalla stazione di Bologna all'ufficio cominciava a sembrarmi qualcosa di insormontabile. Arrivavo tardi in ufficio e avevo iniziato a usare l'autobus. Sempre più stanco, sempre più svogliato. Alla fine, visto che tutta la situazione lavorativa stava peggiorando ed ero sempre più carico di lavoro e di stanchezza, nel 2016 decisi di cambiare lavoro dopo 11 anni di permanenza nella stessa azienda. Così, mi dicevo, sarebbe stato più semplice portare a termine la laurea.

Purtroppo niente da fare. Il nuovo lavoro era stato palesemente un grande errore di valutazione. La mia memoria poi si era rivelata comunque inaffidabile. Non riuscivo ad imparare né in quel lavoro né per gli esami all'università, che pure erano affini. In quel lavoro non ricordavo il nome di alcuni prodotti che usavo o di alcune tecnologie. Per un informatico questo è abbastanza grave e anche insolito, perché mancano i termini per dialogare con i colleghi e poi l'impressione che facevo era pessima. Me ne rendo conto. Immagina di lavorare in una cucina e di non ricordare che la pentola si chiama pentola o che il sale si chiama sale.

Accadde quello che succede a tutti i malati invisibili: le aziende sono ben felici di approfittare degli sgravi fiscali e delle sovvenzioni che hanno se assumono personale con una disabilità riconosciuta. Ma se la disabilità non è riconosciuta, come nel mio caso, nel caso di tanti altri, beh, allora sei solo un peso. Non importa quanto tu provi a spiegare che non dipende tutto da te, non verrai mai creduto. Ti diranno che sei poco sveglio, che “ci aspettavamo molto di più da te”, anche se quello che stai dando è già molto di più del tuo massimo. Anche se magari fino a pochi anni prima avevi una memoria di ferro e lavoravi in maniera eccellente.

Dissi che probabilmente l'aspettativa era stata troppo alta nei miei confronti. Come chiedere a un pesce di arrampicarsi su un albero: non solo non lo farà, ma non potrà mai farlo. L'esperienza con questa azienda, fatta di vuoti principi, di profonda incomprensione sulle persone che la facevano andare avanti e sulle regole più banali dell'organizzazione del lavoro, aveva deluso profondamente anche me. Mi ritrovai a fare l'unica cosa possibile: cambiare lavoro nuovamente dopo pochi mesi.

Una bella azienda moderna nella quale apparentemente il lavoro veniva ben valorizzato e il tempo scorreva bene, con tante cose da fare ma non troppe, e tante nuove tecnologie da gestire e possibilità di imparare, ma con la tranquillità che la tua opera potesse essere valorizzata e riconosciuta adeguatamente. Il 2016 proseguiva così come era iniziato per me: denso di cambiamenti, ma anche felice tutto sommato.

A novembre, quando i primi freddi iniziarono a sferzare le pianure emiliane e le giornate ad accorciarsi, sentii il freddo che mi penetrava dentro il corpo per una volta, per la prima volta anzi, in maniera un po' diversa, un po' più insistente. Mi fece realizzare all'improvviso che avevo passato l'estate lavorando e basta. Avendo iniziato il nuovo lavoro a metà luglio, ero stato così occupato con la nuova attività che non avevo trovato il tempo di vivere, di rilassarmi.

In quel momento cominciai a fare caso anche alle giornate ormai minacciosamente corte e buie, senza che riuscissi bene a capire perché. L'idea che sarebbe arrivata presto la nebbia e le giornate ancora più buie mi mise addosso una grande tristezza. Forse perché la mia mente si ricordava di tante altre giornate buie, quelle del paesello sulle montagne dove il sole tramontava presto ed il mio vecchio ufficio a Bologna che non aveva neppure una finestra che guardasse su qualcosa di diverso da un muro.

Senza pensarci troppo decisi di prendere l'unica medicina possibile che conoscevo per quello stato d'animo: fare un altro viaggio. Con l'occasione comprai anche la mia prima macchina fotografica “seria”, per così dire, una bella reflex Canon che avrei portato con me a Tenerife. Sarei stato a Tenerife nove giorni e senz'altro avrei trovato bellissime cose da fare e riportare a casa con me sotto il formato di tante belle fotografie da conservare e riguardare di tanto in tanto. Ho raccontato quell'esperienza nelle prime quattro puntate di un altro podcast che ti lascio qui:

https://youtu.be/aVEs-zM8wwk?si=LR0ug2Tp_opBIi5l

Vai ad ascoltarlo, valuta di ascoltarlo se ti va. Potrai scoprire come ho vissuto quei momenti e la mia scoperta dell'isola.

Ero partito senza troppe aspettative. Volevo solo cambiare aria e passare un po' di tempo lontano dal freddo su un'isola spagnola più vicina al tropico che non alla latitudine dei cappelletti. All'inizio non riuscivo ad apprezzare l'isola e mi sentivo quasi fuori posto. Era novembre e non pensavo che potesse esserci chissà quale caldo. Alla fine Tenerife era un'isola sperduta in mezzo all'oceano, cosa poteva mai esserci? Ma quando arrivò il momento di ripartire mi dispiaceva moltissimo. In pochi giorni mi ero già innamorato di quel posto così lontano da casa e non sapevo neanche bene perché. Certo, sì, ero in vacanza e c'erano anche tante cose nuove e belle da vedere in quell'isola, ma non così tanto da innamorarsene, pensandoci bene. Almeno a prima vista il mare non era granché, le spiagge dorate erano pochissime. La maggior parte erano scure, nere, proprio come il buio che volevo lasciare a casa in Emilia Romagna, e l'oceano era sempre così impetuoso che le onde ti facevano cadere anche nei giorni di bel tempo. C'erano dei boschi molto belli da visitare, sì, ma niente di così strano per noi che conosciamo il Trentino o i meravigliosi boschi degli Appennini qui da noi in Italia. Nonostante tutto questo, stranamente tornai comunque a casa mal volentieri. Forse una parte di me sentiva cosa stava per accadere.

Non appena rientrai al lavoro mi diedero una notizia tremenda: durante la mia assenza, soltanto 9 giorni, l'azienda per cui lavoravo era fallita.

Ero andato in vacanza per alleggerirmi il cuore, pensare ad altro, godermi il momento e rilassarmi anche. Avevo lasciato un'azienda apparentemente florida e con buone prospettive per il futuro, che stava investendo in attrezzature, persone, tecnologie. C'era un fermento in tutti i settori a causa di nuove attività che avremmo dovuto avviare nel giro di breve tempo. Come un fulmine a ciel sereno, però, mi resi conto che non era uno scherzo. Guardandomi intorno vedevo cumuli di sporcizia negli uffici, nessuno veniva più a pulire visto che non era pagato per farlo. Poi mancavano delle attrezzature, i musi delle persone erano lunghi, non ci stavano più pagando. In pratica si veniva in ufficio per obbligo ma per la gloria.

Il 9 dicembre 2016, esattamente un mese dopo che rientrai da Tenerife, arrivò una comunicazione dal curatore fallimentare: non eravamo più obbligati a presentarci in azienda.

Per la prima volta dopo quasi 20 anni di lavoro ininterrotto, mi ritrovavo senza un lavoro, senza uno stipendio e senza nessun tipo di sussidio. Sì, perché devi sapere che la legge del nostro meraviglioso Paese prevede che quando un'azienda fallisce diventa un'altra cosa: un'azienda in fallimento. Può sembrare banale questa distinzione, ma questa forma giuridica non può pagare i dipendenti per il lavoro che stanno svolgendo. Ma i loro contratti sono ancora validi. Se i dipendenti vogliono trovare un nuovo lavoro, sono obbligati a dimettersi e, come si sa, per le dimissioni volontarie, almeno fino ad allora, non era previsto nessun sussidio. Se ti sembra assurdo è perché lo è, ma nelle prossime puntate scoprirai che in Italia riusciamo a raggiungere livelli di assurdità ancora peggiori.

Il buio delle giornate invernali in quel periodo mi faceva davvero paura. Mi sembrava qualcosa di terribile, una specie di pozzo senza fondo a cui ogni giornata sembrava assomigliare, uguale alla precedente, senza nessuna speranza di cambiamenti in vista. Non si riusciva a trovare un altro lavoro, tanto più che eravamo sotto Natale. Passavo le giornate sul divano, al buio. Mi sentivo debole, dolorante, rifiutato da...non sapevo bene chi o perché, colpevole di qualcosa persino, ma io non avevo fatto nulla. Un'influenza pesantissima mi colpì e non riuscii nemmeno ad andare dai miei per Natale. Il tempo sembrava non passare mai. Sentivo molto dolore a livello fisico, anche quando l'influenza era già passata. Un giorno un pollice iniziò a farmi malissimo. Poteva essere uno strascico dell'influenza difficile. Senza poter usare il dito per il troppo dolore, non potevo fare nulla per passare il tempo se non guardare un po' di TV. Mi sembrava che un camion mi fosse passato addosso e cominciavo a chiedermi se i giorni di Tenerife, che in fondo erano lontani soltanto 45 giorni nel passato, fossero esistiti davvero. Il sole, la brezza dell'oceano, l'aria pulita, la luce solare fino alle 6:00 di sera in inverno. Ci pensavo continuamente. Riguardavo le foto fatte con la mia Canon e mi veniva da piangere ripensando a quanto ero stato felice in quel posto.

Con il passare delle settimane e dell'inverno, i dolori aumentarono sempre di più: fitte, nevralgie e mal di testa continui. Qualcuno mi disse che stavo somatizzando, che era tutto nella mia testa. “Devi uscire di più”, mi dicevano, oppure “Guarda, se ti metti a pensarci è ancora peggio. Non ci pensare.” Curiosamente mi dicono quelle stesse cose ancora oggi.

Un pensiero fisso stava cominciando a insinuarsi nella mia mente, un pensiero che prendeva sempre più corpo. Se pensavo a Tenerife, più ci pensavo più mi convincevo di avere ragione. A Tenerife ero stato bene non solo perché ero in vacanza, ma perché quel posto aveva qualcosa di magico per me. Mi ci ero trovato bene. Essere in vacanza sicuramente mi aveva tolto un po' di pensieri lavorativi, ma c'era dell'altro. Là mi era tornato facilmente il buon umore, la voglia di fare, la capacità di pensare più chiaramente, cose che non provavo più da anni, nemmeno con le compresse magiche dell'India. Nessun vuoto di memoria, nessun tentennamento nei movimenti delle mani. Mi sentivo sciolto, in forma, come non mai negli ultimi anni, con tanta energia per camminare e fare tanti sentieri, esplorare l'isola. Al mio ritorno avevo raccontato che mi sentivo 10 anni di meno, e più ci riflettevo più mi sembrava vera questa cosa. Una vacanza aveva questo potere? Ne avevo fatte tante altre in vita mia, ma mai mi ero sentito così bene negli ultimi anni. Poi l'improvviso rientro in aereo e il ritorno alla vita quotidiana, dove tutto era andato a rotoli. Bastava questo a giustificare come mi sentivo? Forse sì, perché come dicono in tanti la condizione mentale ha un grande potere sul corpo, ma avevo la sensazione che ci fosse molto di più.

Avrei avuto molte altre occasioni in futuro per approfondire questa bella sensazione, questo presentimento.

Ti racconto di questa sensazione perché è molto importante per ciò che verrà dopo.

Ti ho raccontato cosa ho passato in quegli anni perché credo che ogni malato invisibile abbia vissuto le stesse cose, in una forma o nell'altra. Tutti noi abbiamo dovuto lottare contro la sensazione che ci fosse qualcosa che non andasse. Ci siamo resi conto di avere qualcosa di profondamente diverso che ci distingue dagli altri, e non in meglio purtroppo. Non abbiamo saputo spiegarlo. Ci siamo chiesti se questo qualcosa avesse un nome, ma in fondo riuscivamo a conviverci fino al giorno in cui non ci siamo riusciti più e allora abbiamo dovuto capire, ricercare, trovare un nome per ciò che ci faceva soffrire. Perché senza un nome, senza le parole, non si può comprendere un fenomeno.

Ecco il perché di questo podcast: trovare le parole per gridare al mondo cosa ci sta succedendo. Se non lo raccontiamo, resterebbe solo una nostra esperienza e noi persone strambe con qualche fissa. Capisci dunque quanto sia importante diffondere il più possibile gli episodi di questo podcast, perché se non lo farai il resto del mondo non saprà che esistiamo. Parlane con i colleghi, gli amici, i familiari. Fai sapere a tutti che esistiamo, che non dobbiamo essere dimenticati nella vita di tutti i giorni.

Negli anni tra il 2010 e il 2016 mi stavo soltanto affacciando all'abisso. Nel prossimo episodio sentirai quanto può essere profondo quell'abisso. Stammi bene.

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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🎸 L'Incontro con Steve Vai 💫 e la Rabbia che Ancora Non Passa ⚡ Dopo Tanti Anni 🔥

So che non sarei mai stato il migliore chitarrista del mondo; difficile superare Steve Vai, d'altra parte, e tutti gli altri. Ma sono arrabbiato, sono tremendamente arrabbiato! La vita mi ha strappato il diritto di provarci, la possibilità di entrare in quel mondo ogni volta che volevo, collegando lo spinotto dell'amplificatore. Chissà cosa sarebbe successo; non lo scoprirò mai.

Se preferisci ascoltare questo episodio (il n. 13), anziché leggerlo, puoi farlo qui:

In questo episodio ti racconto della difficile gestione delle energie di molti malati invisibili e di un incontro speciale che mi ha cambiato la vita.

Da quando soffro di artrite e fibromialgia, ho imparato che la fatica e la stanchezza sono sempre presenti, sempre. Purtroppo, però, anche se sono stanchissimo, non riesco a dormire meglio. Si può essere stanchi morti, ma non riuscire comunque a dormire. Anzi, è proprio quello che succede spesso con le mie patologie. Perché c'è sempre qualcosa a tenerti sveglio o a svegliarti a metà notte: il dolore cervicale, una sciatalgia terribile o la sensazione pruriginosa di mille insetti che ti stiano mordendo ovunque.

È una fatica tirare avanti; si fa fatica ancora prima di alzarsi dal letto, si fa fatica durante il lavoro, si fa fatica ad andare al lavoro.

Quasi ogni giorno il dolore e il senso di confusione sono così forti e così difficili da mandare via che diventa una fatica persino ascoltare gli altri parlare. C'è così tanto da fare, e così poche energie che il nostro istinto è quello di reagire in maniera forte contro quell'elemento di disturbo, l'interazione, che ci porta via anche quelle poche energie che abbiamo. Mi rendo conto spesso di apparire molto sgarbato in molti casi, ma è qualcosa che faccio davvero fatica a controllare; non posso farci niente. L'effetto è quello di una mosca che continua a posarsi addosso. Impiego tutte le energie che ho per restare sveglio o vigile, e c'è sempre qualcosa che cerca di portarmi via altra energia: una domanda, uno scherzo, una telefonata, un messaggino su WhatsApp; tutte cose a cui si deve rispondere, e la consapevolezza che la risposta porterà via altre energie è sfiancante.

Ti dirò di più: la mia non è fatica, è spossatezza.

Nei prossimi episodi ti racconterò nel dettaglio cosa faccio per cercare di contrastarla. L'effetto è quello di una forte influenza che sta per arrivare quando ciascun muscolo ti fa male e stai bene al caldo.

Ma...a pensarci bene, io non lo so cosa significhi per una persona normale avere un'influenza. È possibile che io abbia sempre vissuto le influenze con una reazione immunitaria esagerata, proprio come tutto il resto, in una maniera tutta mia, diversa da quella di una persona che non ha i miei stessi problemi. Può darsi che io non sappia cosa sia un'influenza per una persona normale, magari una persona come te, che mi stai ascoltando. Fammi sapere, se non hai i miei problemi, come reagisci a un'influenza. Mi sarebbe davvero molto utile capirlo per sapere se reagiamo allo stesso modo. Anche tu senti subito freddo e diventi tutto rigido? Ti fanno male tutti i muscoli? Senti immediatamente una gran voglia di metterti a letto? Leggerò con piacere il tuo punto di vista e la tua risposta.

Nel mio caso, le influenze sono come ti ho descritto, ma non soltanto quelle: la COVID-19, ad esempio, mi ha provocato una reazione decisamente più intensa.

Mi sono sempre ammalato molto spesso nella vita, tutte le malattie infettive del catalogo, più tutte quelle bonus come la mononucleosi o la quarta malattia. A poco più di 30 anni, mi ero preso anche quella, o forse era rosolia, chissà. Mi ero ricoperto di puntini rossi che prudevano, con una febbre e una grande spossatezza, tanto per cambiare.

Di nuovo, non riuscivo ad alzarmi dal letto. Il medico mi disse che era rosolia; non c'erano dubbi. Per forza di cose, quindi, quella che avevo avuto da ragazzo a 18 anni era stata la quarta malattia, o forse il contrario. In famiglia, però, ricordavamo che io l'avessi presa anche a 4 anni, quindi...l'ho avuta tre volte? Tutto è possibile; a questo punto, può accadere anche questo

Tornando ai 30 anni, però, ancora non mi conoscevo bene quanto mi conosco oggi. L'arrivo di questa malattia, la mononucleosi, era altra benzina da gettare sul fuoco della mia teoria secondo cui il mio sistema immunitario era debole e non riusciva a tenere a bada neanche le malattie infettive. E così me le riprendevo una seconda volta. Ci avevo messo tantissimo a riprendermi: quasi due mesi per tornare quello di prima, all'incirca. Così come mi accadde diversi anni più tardi con la COVID-19 o altre malattie: mesi per recuperare. Iniziai a pensare che il mio sistema immunitario fosse pesantemente indebolito, magari proprio da quei denti del giudizio che dovevo ancora finire di togliere.

Iniziai così a stimolare il mio sistema immunitario con tutto quello che il database di Google aveva da offrire: echinacea, preparati a base di batteri inattivati, di nuovo echinacea, argento colloidale, echinacea, echinacea. Ho menzionato l'echinacea, vero? Ormai la mettevo anche nel caffè latte. Niente di tutto questo sembrava funzionare; continuavo ad ammalarmi e, anzi, i miei problemi di pelle aumentavano sempre di più. Alternavo intere giornate a letto con qualche sessione di studio della chitarra, ma non avevo la spinta per mettermi a suonare lo strumento.

Per la prima volta, non avevo più voglia di suonare.

Se hai ascoltato con attenzione le puntate precedenti, questo ti dirà quanto era grave il problema. Tuttavia, l'incontro con Steve Vai si stava avvicinando e questo mi gasava moltissimo; per nulla al mondo me lo sarei perso. Conservavo il mio biglietto sul comodino e anche soltanto guardarlo mi dava la carica per suonare. In quel periodo ho concepito tantissime nuove canzoni, nonostante la stanchezza: motivetti, combinazioni di note particolari che mi piacevano moltissimo. D'altra parte, avevo molto tempo per pensarci, restando spesso a letto intere giornate.

Li ho salvati tutti in una bella libreria musicale: pezzi di 10-20 secondi, tanto per fissare l'idea da qualche parte. Purtroppo, oggi questa libreria è andata persa, ma i pezzi me li ricordo ancora. Non appena mi sentivo meglio, non facevo altro che suonare. Avevo scoperto che esistevano delle corde per la chitarra ricoperte di uno strato di oro puro; costavano un po', ma avevo l'impressione che le mie mani si spaccassero un pochino meno. A volte mi capitava di suonare chitarre o bassi di qualche amico e le dita si aprivano di nuovo. Anche per queste ragioni, ero davvero convinto che il mio problema fosse di tipo allergico.

Ascoltavo così tanto la musica di Steve Vai che me la sognavo di notte. Riuscivo a scomporre ogni singola nota: un secondo della sua musica ne conteneva decine, ma il mio orecchio non si perdeva nemmeno una sfumatura. Nonostante tutti questi sforzi, però, ero ben lontano dal riuscire a suonare decentemente i suoi pezzi. Se non qualche breve stacco, qualche nota o poco più, oppure proprio le basi su cui poi lui sviluppava la sua arte e le sue tecniche.

Alla fine, il giorno che avevo tanto atteso arrivò.

In un piovoso sabato pomeriggio mi avviai da solo verso la Bassa Reggiana, la zona tra la città e il Po. È così che noi abitanti della pianura chiamiamo quelle terre. Non ricordo neanche se l'incontro fosse a Guastalla o a Novellara o qualcosa del genere, ma ricordo benissimo quel pomeriggio. La gioia e l'eccitazione erano tante che mi sembrava di guardare passare la mia vita a distanza: io ero io, ma le sensazioni e le emozioni erano come se fossero qualcosa di separato da me.

Dopo il controllo dei biglietti, un addetto distribuì dei numeri su un pezzo di carta; lì per lì, il mio istinto fu quello di rifiutarlo. Cosa voleva questo ragazzo? Non avevo neanche capito a cosa servissero quei numeri.

“È per un'estrazione a premi”, mi disse il ragazzo. “Sicuro che non lo vuoi? Dai, prendilo!”. “Ma chi se ne importa”, pensai. “Va bene, dammi questo numero; io sono qui per Steve Vai.” Però lo presi e dissi “Grazie”.

Il mio cervellino ingenuo, a volte quando serve, non riesce a fare uno più uno. Mi toccò il numero 19; un numero anonimo, senz'anima, che per me non voleva dire niente.

Grido muto nasce per far conoscere le esperienze di chi vive le malattie invisibili, una realtà troppo spesso ignorata. Creare questo podcast è stata una sfida in termini di tempo, energie e competenze da acquisire, e anche un impegno economico, specialmente nelle condizioni di vita che ti ho raccontato. Se il mio lavoro ti ha colpito, considera di supportarmi su Patreon; anche un piccolo contributo può fare la differenza e aiutarmi a continuare a dare voce a chi spesso non ne ha. Il link lo trovi proprio lì, nella descrizione di questa puntata del podcast, in quel posto dove nessuno guarda mai.

L'attesa non fu lunghissima: come avevo immaginato, non trattandosi di un vero e proprio concerto di un artista decisamente di nicchia, forse non si arrivava a 100 persone. I posti davanti al piccolo palco erano già tutti occupati, ma riuscii a trovarne uno molto valido a 10 metri dal palco, centrale. Vidi che molte persone avevano portato con sé la propria chitarra. “A che pro?” pensai. “Non basta già quella di Steve Vai?” L'avrei capito dopo. Il mio cervellino...uno più uno...

Quando Steve si presentò sul palco, fu una visione soprannaturale per me. Dico sul serio; se mi fosse apparsa la Vergine Maria, avrei avuto forse la stessa reazione. In un solo istante, riuscii a sperimentare tante sensazioni contrastanti: paura, eccitazione, gioia, incredulità, smarrimento. Non mi sembrava vero; eppure ce l'avevo lì, a 10 metri, finalmente.

Era come se una parte di me non credesse che le sue prodezze musicali potessero essere davvero umane. Invece, la mia vista e il mio udito lo confermavano. Non appena fece partire una base e iniziò a suonare, pensai che non avevo mai capito chi fosse davvero quell'uomo. Vederlo dal vivo era un'esperienza completamente diversa: la sicurezza con cui si muoveva sullo strumento, la velocità, il suono che riusciva a tirare fuori da quel pezzo di legno amplificato erano qualcosa che dai dischi non si coglieva minimamente.

Sembrava di avere davanti una bestia inferocita, l'urlo di un grande mostro che in un microsecondo poteva diventare un sussurro dolcissimo. Vedendolo suonare, finalmente capivo come faceva a fare certe cose; finalmente tutti i pezzi del puzzle andavano al loro posto. Avevo sempre pensato che una buona dose di quello che si ascoltava nei suoi dischi fosse frutto dell'elettronica, ma mi sbagliavo completamente. L'elettronica era solo un altro strumento al servizio di quel meraviglioso mondo di suoni che solo lui sa produrre.

Nelle tre ore successive ci furono altri momenti stupefacenti in cui il maestro suonò le canzoni sue più famose. Tra un brano e l'altro, ci parlava in un italiano un po' difficoltoso, ma comprensibile, con l'ausilio di un auricolare. Lui non sa l'italiano così bene, ma il risultato era molto buono; un altro talento che non sapevo avesse. Io parlo cinque lingue, ma non riuscirei mai a parlarne una soltanto con l'ausilio di un auricolare che mi fa sentire i suoni che devo ripetere; lui invece ce la faceva.

Ci fece capire che il suo approccio alla musica era qualcosa di profondamente diverso da quello che potremmo avere noi normali spettatori. Ci disse molte cose, ci raccontò come concepire lo strumento e ci rivelò tre cose che successivamente avrei trovato anche nel suo canale YouTube, ma diversi anni dopo; allora non le avevo mai sentite. Questi tre consigli stravolsero completamente il mio concetto... non solo del suonare la chitarra, ma della musica! I suoni della chitarra non nascono dalle dita, come credevo; nascono nella mente. Le note e gli accordi vanno pensati come se fossero dei colori da tirare fuori in base a quello che vogliamo esprimere; combinandoli, otteniamo toni diversi che specchiano lo stato d'animo che vogliamo comunicare sSullo strumento; anzi, attraverso lo strumento Ogni individuo è unico e ha un suo modo speciale di suonare. Non dovevamo a tutti i costi imparare a suonare ogni sua nota, a imparare come suona Steve Vai, ma dovevamo piuttosto trovare il nostro stile unico e portarlo avanti con convinzione. Magari noi non dovevamo suonare come lui, ma neppure lui avrebbe mai potuto suonare esattamente con il nostro stile.

Tutto acquisiva un senso; i primi due consigli in particolare mi lasciarono di sale. Ecco come faceva a produrre quei mondi sonori: li creava nella sua mente prima e poi li realizzava.

Arrivò, purtroppo, la fine dell'incontro. Il maestro ci disse che per salutarci avrebbe suonato il suo pezzo più famoso e, per farlo, afferrò una chitarra diversa da quella con cui aveva suonato fino a quel momento. Si trattava di un'altra Ibanez, marchio che preferisce. Ibanez ha creato per lui apposta alcuni strumenti che, tra le altre cose, sono molto belli da vedere. E ora, lì sul palco, ce n'erano due. Al termine della canzone, prese un bussolotto e ci disse che uno dei fortunati spettatori sarebbe tornato a casa con la chitarra che lui stava stringendo in mano.

“Nineteen”, disse.

“Guardai il mio numero ed era proprio il 19.” Lo stavo stringendo nella mia mano sudata.

“No, non può essere; non può essere”, pensai. “Devo aver capito male. Sarà “ninety”, che è 90 in inglese; suona più o meno simile, senz'altro è il 90.” Eppure, Steve lo ripete nuovamente, vedendo che nessuno si faceva avanti.

Era proprio il mio.

Mi avvicinai al palco, così emozionato da non riuscire neanche a tremare o dire qualcosa. Steve Vai era davvero alto!

Salii e strinsi la grande mano del mio idolo, quella che aveva creato il mondo sonoro in cui mi immergevo in tutti i giorni. Ora capivo un po' meglio come facesse a giungere posizioni così distanti tra loro sul manico dello strumento.

Mi chiese se volevo suonare con lui e andai completamente nel panico.

Andai completamente nel panico. Guardai quella chitarra con le corde in nickel, belle ossidate. Mi trovai costretto a dire di no, spiegando che ero allergico e che prima avrei dovuto sostituirle o le conseguenze sarebbero state molto gravi. “Sei sicuro?” mi disse. Ogni giorno rimpiango di non avergli detto: “Sì, lo voglio”, come in una specie di matrimonio di 5 minuti.

Il maestro allora aprì la possibilità ad altri, come da programma, e il mio cervellino fece uno più uno in quel momento. Ecco perché altri si erano portati lo strumento: perché nella vita non si sa mai, perché è meglio essere pronti per una situazione del genere. Ringraziai in tutti i modi in cui potevo farlo e, volando a un metro da terra, tornai al mio posto con quella chitarra tutta per me, che lui aveva suonato per una sera.

Più tardi, come prevedeva la scaletta della serata, dopo una lunga fila ci fecero incontrare di nuovo Steve Vai, questa volta a tu per tu per un rapido autografo. Conservo ancora la fotografia di quel momento che mi fecero quelli dell'organizzazione. Stringo nelle mani la mia nuova chitarra Ibanez Jem 777, modello “Steve Vai”. Nella foto si vede bene la firma del maestro, che gli chiesi di apporre proprio sullo strumento. La mia faccia nella foto è quella di un bambino che apre i regali il giorno di Natale. Questa parte forse fu un po' deludente; gli dissi che ero molto felice di incontrarlo e mi rispose un semplice: “Anch'io”, educato e sorridente, ma forse un po' distaccato.

Chissà quanti “Simone” ha visto Steve Vai. Va bene così; lo salutai sperando di rivederlo e ringraziandolo per tutto quello che aveva fatto per me nella sua vita. Tornato a casa, quella notte non riuscii a dormire. L'adrenalina era tantissima, come la fatica che avevo fatto, perché comunque era stato faticoso e, probabilmente, proprio per questo non riuscivo a prendere sonno. Rimasi in piedi provando la nuova chitarra, ovviamente.

Ha una voce grossa, molto diversa dagli altri strumenti che avevo; una cosa completamente diversa: una chitarra da corsa, da battaglia, per gridare al mondo quello che si vuole, a condizione di poterla suonare, ovviamente.

Io oggi ho dovuto trovare un altro modo di gridare. La sfortuna ha voluto che io non abbia potuto usare quella chitarra per far sentire il mio grido di rabbia, ed è per questo che fino ad ora questo grido è rimasto muto. Perché i mezzi che sapevo usare per esprimerlo non potevo più usarli.

Urlavo quindi dentro di me, senza che nessuno potesse ascoltarmi. Mi tenevo tutto dentro, come fanno molti malati invisibili, per vergogna, per sfinimento, per disillusione.

Ho deciso di riprendere a gridare adesso e posso farlo solo con questo podcast. Voglio gridare a tutti il mio disagio, la mia rabbia per tutta la mia situazione, la frustrazione che provo per non potere più percorrere quei binari che mi sembrano i più adatti a me. Se potessi aiutarmi, te ne sarei davvero molto grato. Se il mio grido verrà ascoltato o meno, ora dipende solo da te.

Parlane con le persone che conosci, diffondilo sui social più che puoi, perché questo grido non rappresenta solo me, ma tante persone nella mia situazione.

So che non sarei mai stato il migliore chitarrista del mondo; difficile superare Steve, d'altra parte, e tutti gli altri. Ma sono arrabbiato, sono tremendamente arrabbiato; la vita mi ha strappato il diritto di provarci, la possibilità di entrare in quel mondo ogni volta che volevo, collegando lo spinotto della chitarra all'amplificatore. Chissà cosa sarebbe successo; non lo scoprirò mai.

Credo che questa sia una caratteristica che ci accomuna, noi malati invisibili. Tutti abbiamo perso molto, tanto, tantissimo. Quella che ti ho raccontato fino ad ora è stata solo una parte della mia storia, ma quante storie ci saranno là fuori?

Si stimano 2 milioni di malati di fibromialgia nel nostro Paese, secondo alcune fonti; forse sono un po' eccessive, ma supponiamo che la verità stia anche solo nel mezzo. Quante vite, quante cose perse. Qualcuno avrà perso il lavoro, qualcun altro il suo sogno, come è capitato a me. Qualcuno avrà perso entrambi e molte altre cose ancora che io non riesco neanche a immaginare.

Non ti sembra normale che proviamo questo astio nei confronti della vita?

Anzi, a ben pensarci, mi chiedo come sarebbe possibile il contrario. Abbiamo perso i nostri sogni, abbiamo perso le speranze. Niente di più facile che perdiamo anche la pazienza, no?

Perdonami, ma mi è molto difficile andare avanti.

Ti aspetto martedì prossimo in un nuovo episodio in cui ti racconterò come ho fatto a sopravvivere al mondo del lavoro fino ad ora.

Stammi bene!

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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🌙 Cosa succede se non puoi dormire? 😴 Chi ti capirà? 🚫.

Sembrava che la vita mi stesse abbandonando. In treno, qualche volta ero caduto addormentato, nonostante la sveglia, e mi ero risvegliato a Piacenza o a Milano al ritorno, avendo mancato la mia stazione. Stava cominciando a diventare un problema enorme. Figurati come potevo sentirmi.

Se preferisci ascoltare questo episodio (il n. 12), anziché leggerlo, puoi farlo qui:

[...]

In questo episodio ti racconto le luci e le ombre del mio momento di massima evoluzione musicale e anche alcuni miei pensieri sul sonno.

Ti è mai capitato di pensare al sonno? Quella cosa che da giovane dai per scontata, ma andando avanti con gli anni ti ritrovi a desiderarlo e a trovarlo con difficoltà? Secondo me viviamo in una società che ha un rapporto molto conflittuale con il sonno: da un lato tutti abbiamo sempre più problemi di sonno e, dall'altro, chi dorme viene criticato. Se ci pensi, dormire ha un significato metaforico abbastanza brutto nella nostra lingua, nella nostra società.

Quando diciamo che qualcuno dorme, in tanti casi stiamo dicendo che è poco sveglio, che non è una persona intelligente. Quando abbiamo qualcosa di importante da fare, invece, diciamo che non dobbiamo “dormirci sopra”, dando automaticamente un significato negativo al sonno. Quando una persona vive nel mondo dei sogni, significa che non sta coi piedi per terra, non è una persona concreta. Pensaci bene: quanti modi di dire conosci che sono legati al sonno come cosa negativa? Quanti ne ho dimenticati? Se ne conosci altri, fammelo sapere con un commento e lo leggerò davvero con molto piacere.

Quindi, dicevamo, da un lato tutti vorremmo dormire e, dall'altro, chi dorme tanto viene giudicato come poco intelligente o sfaticato. Poi ci siamo noi, malati invisibili che, per non sbagliarci, riusciamo sia a non dormire sia a dormire. Non dormiamo di notte per i motivi più strani e fantasiosi e poi dormiamo di giorno, essendo stravolti dalla notte in cui abbiamo fatto di tutto tranne che riposare. Anzi, usiamo pure il plurale: le notti sono tutte così per noi. Il giudizio della società nei nostri confronti, quindi, è una cosa abbastanza automatica, vista la nostra cultura di partenza. Anche questo è un modo per essere malati invisibili: la carenza di sonno non si vede, provoca effetti che non saltano all'occhio e l'insonnia è una brutta bestia, che sia l'ansia, o la psoriasi, o l'artrite a tenerti sveglio, qualsiasi cosa. Quindi, in sostanza, per noi non solo non c'è mai pace neanche da questo punto di vista, ma non veniamo visti di buon occhio se mostriamo sonnolenza o stanchezza.

Ti raccontavo della mia situazione negli episodi precedenti: praticamente quasi ogni notte è un incubo per me, immagino anche per te se soffri delle mie stesse patologie, perché, nonostante io sia stanchissimo, spesso non riesco a chiudere occhio prima dell'una del mattino. Questa cosa è inspiegabile, ma è così. Dovendo andare al lavoro e con tutta la trafila che devo fare per svegliarmi, che ti raccontavo nell'episodio 2 del podcast, diventa impossibile svegliarsi più tardi delle 6 per essere al lavoro alle 8:00/8:15 e considera che vivo a 20 minuti di bici dall'ufficio. Ormai sono così sregolato che non ci sono bioritmi che tengano: nei fine settimana mi sveglio comunque prestissimo e, anche quando faccio qualcosa di particolarmente stancante, non c'è nulla da fare, fino all'una non se ne parla.

Come ti dicevo, se hai ascoltato il secondo episodio del podcast, ricorderai che il mio problema, come quello degli altri malati invisibili, non è tanto ansiogeno, ma è causato da mille fattori: dolore, prurito, bassissima soglia di tolleranza al rumore e così via. E quindi qui mi rivolgo in particolare agli amici e conoscenti che, in totale buona fede, mi dicono se ho già provato con la melatonina o con qualche ansiolitico. Sì, abbiamo già provato con la melatonina e anche con gli ansiolitici, ma dormire bene resta un sogno per noi, che a volte si avvera, almeno per me, e ti racconterò come, ma non è così frequente. Il fatto è che i nostri non sono problemi di ansia, o almeno non solo quelli, la situazione è molto più complessa di così.

Ricordo, però, momenti della vita in cui non era così, anzi era molto più facile dormire. Ci sono stati momenti in cui per me dormire era ancora una cosa bella, piacevole, naturale. Quando mi avvicinavo ai 30 anni, ad esempio; erano gli anni tra il 2004 e il 2007 più o meno, dopo varie peripezie acrobatiche per distribuire il mio curriculum vitae in tutto l'emisfero nord del pianeta, finalmente avevo trovato un buon impiego, ma c'era un problema: era a Bologna e dalle colline di Parma, dove vivevo in quegli anni, fino al centro del capoluogo emiliano, beh, c'era tanta strada. Mangiare bisogna pur mangiare e, alla fine, senza un diploma [universitario] era difficile pretendere di meglio. Accettai dunque il lavoro e iniziai a fare il pendolare: in un'ora arrivavo alla stazione di Reggio Emilia, dove prendevo il treno e poi un'altra ora fino a Bologna in treno e poi un'altra mezz'ora a piedi fino all'ufficio, vicinissimo alle Due Torri, in centro. Una lunghissima tirata sia all'andata che al ritorno, che mi stancava moltissimo, di notte, però, dormivo beatamente. In quegli anni ne approfittavo, anzi, per dormire anche in treno, sia all'andata che al ritorno, mettendo una sveglia sul mio cellulare nuovo di zecca per evitare di rimanerci sopra.

Quel cellulare mi aiutava tantissimo a passare il tempo: era un modello tutto blu a conchiglia ed era uno dei primi a basso costo in grado di leggere gli MP3 e usarli come suoneria: avanguardia pura per quegli anni. La cosa che preferivo, però, era il mio iPod, uno dei primi, dove iniziai ad innamorarmi dei podcast. Con un piccolo sforzo, potevo ascoltare la musica e cose nuove per ore su questo dispositivo facilmente trasportabile che per me aveva qualcosa di magico. Naturalmente c'erano anche i libri a tenermi compagnia, ma, come dicevo, tanta, tanta musica. In quegli anni uscirono molti album di un paio di chitarristi che in poco tempo erano diventati i miei preferiti. Si trattava di Joe Satriani e Steve Vai, entrambi statunitensi, ma con radici italiane. Negli episodi precedenti del podcast ti ho già fatto i loro nomi. Se sei un chitarrista, senz'altro li conoscerai perché sono due dei pezzi grossi del nostro tempo per quanto riguarda la chitarra elettrica. Quei due signori sono individui molto influenti che, se non ci fossero stati, la chitarra moderna non sarebbe la stessa cosa.

Come dicevo, entrambi hanno lontane origini italiane pur essendo statunitensi. Te ne parlerò brevemente perché è importante per la mia storia farti capire chi siano. Joe Satriani, nel corso degli anni, ha insegnato a molti altri chitarristi di grande successo, come quello dei Metallica, ad esempio, cioè Kirk Hammett, e lo stesso Steve Vai ha portato nel mondo della chitarra moderna uno stile che è semplice soltanto all'apparenza: melodie canticchiabili con la voce, ma suonate divinamente e, a ben guardare, proprio difficili da suonare, quantomeno come le suona lui. Uno dei suoi brani famosi, ad esempio, è un pezzo iconico che tutti ricordiamo: la colonna sonora del film Top Gun.

Avendo ascoltato Satriani, il passo per conoscere Steve Vai è stato brevissimo. Nonostante Satriani sia stato il suo maestro, Steve Vai ha uno stile completamente diverso. Nei suoi dischi trovano posto suoni tremendamente elaborati, ma che sembrano quanto di più naturale esista. La sua chitarra sembra quasi possederlo, piuttosto che il contrario. È capace di velocità supersoniche, ma anche di avere un timbro speciale che lo distingue da chiunque altro e, naturalmente, una grande capacità di comporre brani e melodie. Steve sa leggere e scrivere perfettamente la musica fin dalla tenera età e il suo cervello, come ti raccontavo anche del mio, anche se non vorrei fare paragoni azzardati, ha la capacità di gestire note anche senza suonarle; ha la capacità di gestirle, diciamo, di sentirle nella sua testa. Nella sua carriera ha scritto pezzi per intere orchestre senza toccare neanche uno strumento, ma la sua musica di solito è quanto di più lontano dal genere orchestrale si possa immaginare. Come il sonno, la sua musica può essere delicata e inquietante, a volte nello stesso tempo. Prova a cercare qualche suo pezzo su internet e capirai di cosa parlo. A volte sembra ascoltabile e un disco intero, in effetti, si ascolta a fatica tutto in una volta, ma lentamente, almeno da chitarrista, ti chiedi: “Ma come fa a fare quei suoni? Cioè, com'è possibile che quella sia una chitarra?”. Sentire per credere.

Per me era naturale che, a forza di ascoltare la musica di Steve Vai, mi venisse voglia di suonarla. Con la mia chitarra del '94, che si prestava molto bene a quel tipo di musica, il passo fu ancora più breve. Le cose che ascoltavo sui dischi dello “zio Steve” mi erano sembrate subito inarrivabili e lo erano. Era frustrante, in un certo senso. Mi chiudevo nel garage della mia casa di Reggio Emilia, dove mi ero trasferito...cioè nella casa, non nel garage...e alla fine suonavo, suonavo, suonavo davanti al mio computer, dove la musica veniva artificiosamente rallentata per cercare di renderla più facilmente suonabile per me. Mi ricordo che mi sedevo alla scrivania spesso alle due del pomeriggio, magari in estate, nei giorni liberi, suonavo e, quando guardavo fuori dalla finestra, mi rendevo conto che era arrivato il buio, era buio pesto e stavo suonando lì da solo al buio da ore. Proprio come mi capitava quando vivevo coi miei nelle montagne. Suonare mi faceva perdere la cognizione del tempo. Ecco quanto era importante per me.

Nonostante questo, nonostante questo impegno, la musica di Steve Vai restava irraggiungibile per le mie dita. Suonavo bene i Led Zeppelin e anche tante cose dei Pink Floyd, ero felicissimo di questo, ero al settimo cielo per le capacità che avevo appreso tutto sommato da solo, ma Steve Vai...niente da fare, era proprio di un altro livello e mi frustrava moltissimo non poterlo suonare.

A furia di viaggi in treno arrivarono persino i 30 anni, tra mille stress sul lavoro. Mi capitava già di non dormire e la causa allora era semplicemente l'ansia. Il pendolarismo era lungo e pesante e, in più, da qualche anno mi ero anche iscritto in palestra. Adoravo come il mio corpo reagisse agli allenamenti. Sul lavoro ero un punto di riferimento per l'assistenza informatica e anche questo mi rendeva tutto tronfio e sicuro di me; diciamolo pure, presuntuoso su alcune cose. Ero persino un po' dittatoriale e sicuramente i colleghi dell'epoca, se sono in ascolto, potranno darmi ragione. Quando ero convinto che una soluzione fosse la migliore, per esempio adottare un nuovo software in particolare ci mettevo tutto me stesso per implementarlo. E fin qui niente di male, ma, se era il caso e potevo farlo, imponevo le mie scelte. In fondo io ero l'esperto lì, i colleghi avrebbero dovuto imparare. Intendiamoci, trovare soluzioni ai problemi e implementarle è uno dei compiti degli informatici e sì, spesso siamo noi quelli che decidono che cosa implementare e come. Comunque, abbiamo una pesante voce in capitolo nel processo, ma io ci mettevo un po' troppo zelo, spesso mi rendevo antipatico e oggi non ho alcun dubbio su questo, ma allora mi veniva spontaneo a credermi un po' migliore degli altri. D'altra parte, non solo sapevo fare un sacco di cose, ma suonavo sempre meglio, sapevo suonare il basso, la batteria, tante cose. Quanti potevano dire di saperlo fare?

Arrivato, ai 30 anni, decisi di iscrivermi all'università, ingegneria informatica, niente meno. Certamente mi sarebbe stata utile, magari anche per trovare un nuovo lavoro più vicino a casa, magari anche più soddisfacente. Non avevo messo in conto, però, che studiare e lavorare a tempo pieno era pesantissimo. Conoscevo così bene la musica di Steve Vai ormai che in treno me la sparavo in cuffia insieme a Satriani, a Guthrie Govan, un altro grande chitarrista contemporaneo, e a tutti gli altri. Mi faceva l'effetto dei Deep Purple quando tornavo a casa dalle scuole superiori. Mi ci ritrovavo così bene che ormai mi rilassava, mi faceva venire voglia di dormire, ma mi imponevo di stare sveglio e, isolandomi dalla confusione del treno, sceglievo io una confusione che conoscevo e che mi consentiva di studiare per l'università. Le serate e i fine settimana liberi erano interamente dedicati allo studio, ma ogni minuto che avevo libero lo passavo sulla chitarra.

All'improvviso, senza che ci fosse nessun segnale ad avvisarmi, accadde qualcosa di veramente terribile per me. Le mie dita iniziarono ad aprirsi, la pelle delle mani perdeva elasticità, i polpastrelli diventavano duri e si spaccavano come se un coltello li avesse tagliati e, per un chitarrista, i polpastrelli sono tutto. Queste lesioni di cui ti sto raccontando sanguinavano, si infettavano e non guarivano più. Suonare stava diventando impossibile. Toccando le corde sottilissime della chitarra elettrica, spesso queste si incastravano nei tagli sui polpastrelli e li aprivano ancora di più. Non sapevo veramente cosa fare. Suonare con i cerotti era impossibile. Un chitarrista è un tutt'uno con le corde, deve poterle sentire, deve tirarle, deve maltrattarle o accarezzarle sapendo dosare bene la forza per tutti i sentimenti diversi che vuole esprimere attraverso lo strumento. Tentai di tutto, dai cerotti spray ai guanti, a creme varie per fare guarire le dita più in fretta, ma niente, nessun risultato apprezzabile.

In quello stesso periodo, una specie di grande macchia violacea che avevo sulla tibia e che mi prudeva già da qualche anno, prese ad allargarsi fino a ricoprire tutta la tibia e una parte del polpaccio, dal ginocchio alla caviglia. Altre due macchie dello stesso colore comparvero al centro dei palmi delle mani. Anche queste, come le dita, come la tibia, si spaccavano e sanguinavano. Immagina la mia gioia nel girare su e giù per i treni con ferite aperte!

Il medico mi mandò da una dermatologa piuttosto in gamba nella nostra regione e lei, dopo avere fatto qualche test e sentita la mia storia, emise un verdetto: allergia al nichel. Le corde della chitarra elettrica, in effetti, sono di nichel. Nella mia testa tutto cominciava ad avere un senso. Toccavo continuamente del nichel nella chitarra, nelle posate e nei computer che configuravo per lavoro, e anche le monete che tenevo in tasca, in fondo, erano anch'esse di nichel. Questo, a detta della dermatologa, poteva benissimo causare una reazione allergica più giù lungo la tibia e sulle mani, e poi quella era una zona colpita dall'ustione dieci anni prima (la tibia, intendo), e quindi tutto poteva succedere a quella povera pelle.

Cominciai quindi a trattare il problema come se fosse un'allergia.

Localmente mettevo del cortisone e, dopo un po', passai alle cose naturali. L'estratto di ribes sembrava farmi ottenere qualche piccolo risultato, ma solo per qualche mese. Funzionò. Si pensò allora che fosse celiachia e, anche in quel caso, migliorai un pochino con la dieta senza glutine, ma non del tutto. Si pensò all'HIV, ma risultai negativo. Si pensò allo stress, ma niente da fare, niente di tutto questo sembrava essere la risposta.

Un po' frustrato, pensai che l'unica soluzione possibile era quella di suonare ancora di più, sacrificando le dita. Vivevo quindi con i cerotti perché le dita sanguinavano sempre. Penso di avere alimentato da solo l'industria dei cerotti fino a pochi anni fa. Me li toglievo soltanto per suonare, i tagli si aprivano, sanguinavano e a quel punto io smettevo di suonare, ma non mi importava, appena potevo ricominciavo. Ogni nota era un bruciore infinito, con le corde che spesso mi penetravano nei polpastrelli. Chi ha visto suonare un chitarrista avrà notato che le corde spesso vanno percorse con il dito lungo tutta la loro lunghezza. Un martirio. Mi ero abituato a suonare in tanti nuovi modi. Se il polpastrello aveva un taglio a destra, mi abituavo a spostare il dito e a usare la parte sinistra del dito e viceversa, se invece era spaccato ai lati, cercavo di usare la punta quando possibile oppure direttamente l'unghia. A un certo punto dovetti rallentare perché capii che avrei perso le dita a furia di infezioni. Ti racconto tutto questo non per disgustarti, ma per farti capire quanto fosse importante per me lo strumento. Non mi fermavo di fronte a niente. Non so se anche tu nella tua vita hai trovato qualcosa che ti piace e che ti completava così tanto da non farti sentire i problemi. Questo per me era la chitarra.

Ma nel 2010 accadde un altro evento terribile, come se non fossero bastati i precedenti.

All'improvviso non riuscivo più ad alzarmi dal letto, ma intendo letteralmente, non ne avevo la forza né le energie. È difficile spiegarti come mi sentissi, ma tutto partì dalla palestra. Un bilanciere con 80 kg che solitamente alzavo come se fosse uno scherzo mi parve all'improvviso pesante come una montagna, non c'era modo di gestirlo. Peccato che in quel frangente l'avessi già sollevato e fosse direttamente sopra la mia testa e in qualche modo avrei dovuto riportarlo in basso. Ci provai, ma ci rimasi sotto e, per fortuna, senza danni gravi quella volta. Chi era lì mi vide in difficoltà e mi aiutò immediatamente, ma io non riuscivo a spiegarmelo il motivo.

Qualche giorno dopo non riuscivo a risvegliarmi al mattino come se fossi drogato, fare una scala era un'impresa, dovevo fermarmi due volte ogni 10 gradini, mantenere la concentrazione sembrava qualcosa di impossibile, mi addormentavo a volte anche guidando e anche mentre parlavo con i colleghi al lavoro. Immaginati cosa avranno pensato di me. Sembrava che la vita mi stesse abbandonando in treno. Qualche volta ero caduto addormentato, nonostante la sveglia, e mi ero risvegliato a Piacenza o a Milano al ritorno, avendo mancato la mia stazione. Stava cominciando a diventare un problema enorme; figurati come potevo sentirmi.

In tutto questo, per i miei familiari più o meno stretti era impossibile che io avessi qualcosa di serio. Più o meno esplicitamente mi stavano comunicando che, secondo loro, mi stavo inventando tutto, stavo fingendo per non mettere a posto la legna nella cantina, era chiaro, per non andarli a trovare, era evidente, per non andare alle tanto pubblicizzate riunioni dei gruppi spirituali che continuavo a frequentare. Mi sentivo tremendamente confuso, non capivo cosa stesse succedendo. Non c'era una risposta e io avevo solo 30 anni. Com'era possibile tutto questo? Era questa la vecchiaia?

I miei amici mi chiedevano di uscire e accettavo sempre, poi all'ultimo non potevo presentarmi alle cene, alle uscite, ero già esausto alle 7:00 di sera. Se tu che mi ascolti sei sano, ti ricordi com'erano i tuoi 30 anni? Ti chiederei la gentilezza di farmelo sapere con un commento perché io non ho conosciuto i 30 anni come tutti gli altri e quindi per me è importante sapere qual è, diciamo, la normalità.

Non ci volle molto prima che mi venisse l'ansia. Come potevo impegnarmi con i miei amici se poi non potevo uscire con loro? Iniziai quindi a non programmare più nulla, evitavo il problema direttamente. Conoscevo solo il lavoro e il sonno, il sonno e il lavoro. Mi ero completamente ritirato dalla mia vita sociale, sabati e domeniche interminabili a letto. Il mio era un sonno malato, innaturale, narcotico. Studiare era diventato impossibile, tentavo di suonare qualcosa, ma riuscivo a malapena a stringere il manico e le dita erano lente, non rispondevano alla velocità che io avevo in testa.

Chiesi consiglio a più di un medico, ma nessuno riusciva a unire i puntini. Alla fine, un otorinolaringoiatra mi disse che la causa di tutto questo poteva essere nei denti del giudizio: erano in brutte condizioni e sarebbero stati da togliere, ma un dentista non ce l'avrebbe fatta.

Strano, perché in generale sono stato così fortunato con la salute!

Più di un dentista mi confermò che non sarebbe stato in grado di toglierli, quella era cosa per un reparto di maxillo-facciale, una vera e propria mini-chirurgia. Mi feci togliere il primo e, dopo tante altre settimane di sonno, di gelato e di dolore, circa tre, finalmente mi sentivo un po' meglio. Stranamente le spaccature sulle dita e la mia chiazza viola sulla gamba e sui palmi si erano molto attenuate. Che fossero state le massicce dosi di antibiotici? Ma allora il mio era un problema battereico? Cosa c'entrava l'allergia al nichel? Non riuscivo più a capirci veramente nulla.

Dopo molte altre settimane tornai in palestra e in un giorno come tanti vidi un annuncio che mi lasciò di stucco: Steve Vai stava per venire a Reggio Emilia. Non potevo aver letto bene. Steve Vai a Reggio Emilia? Il mio idolo, la mia ispirazione, qui vicino a me? No, non era vero.

E invece lo era. Il mio sogno di avvicinarlo stava per avverarsi. Non si trattava di un concerto, ma di una masterclass. In poche parole, un incontro in cui si suppone che il maestro insegni i suoi trucchi e i suoi segreti. Non credo di poterti raccontare cosa provai in quel momento, un misto di gioia e senso di colpa per la spesa che si doveva affrontare, ma dovevo assolutamente andarci, anche se quei soldi me li sarei cavati dalla pelle. L'occasione era davvero allettante. L'incontro non era in una grande città, anzi era un piccolo paese di provincia. Steve non era molto conosciuto come lo è oggi e, in più, non era neanche un concerto. In quanti saremmo mai potuti essere interessati in zona? In quanti avremmo potuto partecipare? Pochi, e l'avrei quindi visto da vicino finalmente.

Nell'episodio precedente ti dicevo che ho perso fiducia nelle entità superiori, l'unica entità superiore che sono certo che esista oggi è l'inquilino del secondo piano, ma nel 2010 ero ancora certo che qualcuno vegliasse su di me e quindi ancora una volta...per me era evidente: cose terribili in quell'anno, cose inspiegabili che non avevano neanche un nome, ma ricompensate da una gioia immensa.

“Grido Muto” nasce per far conoscere le esperienze di chi vive malattie invisibili in una realtà troppo spesso ignorata. Creare questo podcast è una sfida in termini di tempo, energia e competenza, specialmente nelle condizioni di vita che ti sto raccontando. Se il mio lavoro ti ha colpito, considera di supportarmi su Patreon, anche un piccolo contributo può fare la differenza e aiutarmi a continuare a dare voce a chi spesso non ne ha. Il link lo trovi nella descrizione di questa puntata del podcast, quel posto dove nessuno guarda mai. Ti aspetto martedì prossimo con un nuovo episodio in cui ti racconterò il mio incontro con il mio idolo Steve Vai.

Stammi bene.

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia, non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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Doppio Shock: Dalle Vacanze in Kenya 🌍✈️ all'Ospedale in 24 Ore 🏥

“All'uscita dal villaggio turistico, un uomo armato di coltello mi minacciò per avere 2 dollari”

[...]

Se preferisci ascoltare questo episodio (il n. 11), anziché leggerlo, puoi farlo qui:

L'anno scorso mi sono ritrovato al pronto soccorso per un piccolo incidente. È successo tutto in un attimo: in palestra, un peso è caduto dall'alto e io non sono stato abbastanza veloce per ritirare la mano. La mano comunque non avrebbe dovuto essere lì, ma mi sentivo troppo sicuro di me e ho fatto una manovra sbagliata e azzardata, pagandone poi le conseguenze. Insomma, una cosa che può capitare a tutti.”

Quando questa cosa, però, capita a noi malati invisibili, la guarigione non è così semplice né veloce come per gli altri. Te ne parlerò meglio negli episodi successivi del podcast, ma per ora voglio portare la tua attenzione su questo punto: se ad un'articolazione che è già compromessa dall'artrite aggiungiamo anche un trauma, magari a causa di un incidente come quello che è capitato a me, non è così scontato riprendersi. Lì c'è già un grave problema in quell'articolazione.

Ogni giorno, la capacità del nostro corpo di rigenerarsi non è abbastanza; ci occorrono, dunque, settimane, mesi, anni. E lo stesso vale per tutti quegli acciacchi che aggiungono infiammazioni al corpo, dalle influenze al colon irritabile.

In un certo senso, siamo fatti di cristallo: dobbiamo trattarci bene, perché se non lo facciamo noi, non lo farà nessun altro, a cominciare dalla vita. I traumi, purtroppo, possono capitare, possono arrivare e non è mai una bella cosa. Spesso, quando succede, ci chiediamo: perché a me? Non bastava quello che ho già? Me lo sono chiesto tante volte nel mio mezzo secolo di vita. Me lo sono chiesto anch'io: perché a me?

Ad esempio, me lo chiedevo già nel 1999, quando, tra un lavoro interinale e l'altro, mi ero concesso di usare un po' dei miei risparmi per un viaggio in Kenya. Come ti raccontavo anche nell'episodio precedente, il viaggio è qualcosa che mi ha sempre appassionato, non tanto come vacanza in sé, ma come occasione per esplorare, come possibilità di conoscere cosa c'è oltre la mia porta, la propria città o il proprio Paese. Perché i territori che mi piace esplorare restano una parte di me per sempre, dopo che li ho visitati. A quel punto, il destino di quei posti non è più qualcosa di lontano che non mi riguarda, ma sono effettivamente un'area in cui ho trascorso una parte della mia vita. Sono convinto che tutto questo, tutta questa specie di consapevolezza aumentata ed espansa, mi arricchisca come individuo e mi renda più sensibile ai problemi altrui e ai bisogni delle popolazioni che abitano.

Nel '99, dunque, partii per l'Africa. Il Kenya... l'Africa aveva sempre riempito la mia fantasia di bambino, mi era sembrata il viaggio per eccellenza e la scelta migliore in quel momento. E quando si era presentata l'occasione, quindi, non me l'ero lasciata scappare: un buon prezzo per 9 giorni e una sistemazione che sembrava ottima. Cosa potevo volere di più che filasse tutto liscio? Naturalmente, ma non andò così.

In una settimana, riuscii a gioire di un mare fantastico e di un pezzettino del Parco dello Tsavo, con la fauna selvatica e gli spazi infiniti di una pianura così grande che non si poteva neanche immaginare quanto. Figurati che tutto il parco è grande quanto il Veneto ed è solo uno dei tanti parchi del Kenya, forse neanche il più grande!

Avevo visto anche tanta povertà, alla quale pensavo di essere abituato dopo il viaggio in India. Ma anche in questo caso mi sbagliavo.

All'uscita dal villaggio turistico, un uomo armato di coltello mi minacciò per avere 2 dollari. Tutto questo mi aveva fatto spaventare enormemente, ovviamente, ma non tanto sul momento. Ripensandoci dopo, mi ero reso conto della fortuna che avevo avuto, nascendo in un posto dove è molto più facile vivere.

Il giorno prima di ripartire per l'Italia, un grande contenitore di tè bollente del villaggio turistico mi si rovesciò addosso. Pura sfortuna, se vogliamo. Era uno di quei contenitori da cui si prende il tè per la colazione, quindi piuttosto grosso, e la quantità di liquido caldo che c'era all'interno era davvero tanta. Semplicemente, mi ero trovato nel posto sbagliato e nel momento sbagliato e, quando il contenitore cadde, chissà come, mi investì in pieno.

In un attimo, memore dei miei corsi di pronto soccorso fatti nella Misericordia di Pontremoli, mi buttai in piscina per fermare l'ustione e questo sarebbe bastato a evitarmi la chirurgia plastica una volta rientrato a casa.

Ma il rientro non fu tanto semplice.

L'ustione che mi causò era di secondo grado, con aree di terzo grado. Era estesa su tutta la gamba destra, nell'inguine e in una parte della coscia sinistra: zone molto delicate.

Insomma, l'ospedale più vicino che potesse gestire un'ustione di quel genere era a 800 km da dove mi trovavo io, nella zona di Malindi. Questo, in Kenya, significava che, in quegli anni, quasi due giorni di viaggio tra strade sterrate e sconnesse, con posti di blocco continui che a volte chiedevano un'offerta per lasciarti passare. Questo, almeno, fu quello che mi venne detto. Mi resi conto più avanti di essere stato molto fortunato anche in quel caso: il mio volo di rientro per l'Italia sarebbe partito il giorno successivo e il mio compagno di viaggio, pura fortuna anche questa, era un medico. Anche se non era attrezzato per un primo soccorso decente per quella situazione, si prese la responsabilità di farmi rientrare in Italia, oltre a fornirmi sul momento un sacco di farmaci che aveva portato con sé, per fortuna.

Il comandante, infatti, ci aveva espressamente rifiutato l'imbarco. Allora mi arrabbiai molto ma, pensandoci ora, lo capisco: neanch'io mi sarei preso la responsabilità di me stesso in una situazione del genere. Non ero un bello spettacolo da vedere in carrozzina e senza neanche la possibilità di indossare i vestiti. Offrivo ai passanti e ai viaggiatori sconcertati lo spettacolo di un giovane sofferente e sfigurato da un paio di arti in cui la pelle non c'era più.

In Italia, mi ricoverarono al reparto dei grandi ustionati di Parma, visto che risiedevo lì. Non entro nei dettagli di quel ricovero, ma non furono settimane piacevoli, come puoi facilmente immaginare. Quello che era iniziato come un periodo spensierato, una vacanza in Kenya, si era trasformato in breve tempo in una corsia di ospedale. Dopo questo evento, prima di partire per un posto, mi informo molto bene su quanti sono gli ospedali sul posto e quanto distano da dove mi troverò, e anche quanto sono attrezzati.

In quell'ospedale a Parma, l'unica cosa che mi aiutava a passare il tempo erano i libri e, ancora una volta, la musica. Avevo con me solo pochi CD e un lettore portatile, ma mi sembravano oro. Scoprii Alanis Morissette, l'artista pop del momento. Conservo ancora l'album che era uscito in quell'anno di quell'artista, ma chissà perché non lo ascolto mai! Sul versante rock, invece, fu l'occasione per riscoprire chitarristi storici come Stevie Ray Vaughan, Jimmy Hendrix e Jason Becker, tutti divinamente bravi. Non poteva mancare, ovviamente, anche Steve Vai: dopo quelli dei Led Zeppelin, i suoi erano i dischi che ascoltavo di più. In quell'ospedale, mi furono davvero molto utili.

Si può ascoltare tante volte, trovando sempre qualcosa di nuovo o un livello di ascolto che la volta precedente non abbiamo colto. Persino il mio ottimo orecchio non riusciva a stargli dietro al primo ascolto. Mi fermai in ospedale per 26 lunghissimi giorni; poi i medici mi dissero che, sorprendentemente, la pelle si era riformata abbastanza bene e non ci sarebbe stato bisogno di chirurgia plastica. Pericolo scongiurato! Ci vollero però un paio d'anni prima che i segni dell'ustione scomparissero quasi del tutto, ma il mio corpo era giovane, era forte, avevo grandissima fiducia che si sarebbe ripreso senza problemi.

Proprio quando pensavo che il peggio fosse passato, la vita aveva in serbo per me qualcosa di ancora difficile: un altro colpo inaspettato.

Venni dimesso e, dopo due settimane, pensai di andare un po' in bici, come mi avevano suggerito, per aiutare la muscolatura a riprendersi. Muoversi era importante, mi dissero, per cercare di riabilitare la gamba destra, che era rimasta ferma troppo a lungo in quel letto di ospedale, senza neanche potersi piegare, tutta fasciata e dolorante com'era. Avrei approfittato del bisogno di trovare un nuovo lavoro per rimetterla in movimento e farle riprendere un po' della massa muscolare persa.

Come ti dicevo, però, purtroppo la sorte aveva altro in serbo per me: come se non bastasse quello che mi era appena successo, un giorno, tornando a casa mentre pedalavo, un'automobile non mi diede la precedenza e mi investì in pieno. La signora alla guida avrebbe poi dichiarato di non avermi visto. Mi investì e ricominciammo tutto da capo. Ricordo benissimo un grande dolore dappertutto. L'ambulanza che mi portò all'ospedale... quella no, non me la ricordo, però al pronto soccorso mi accolse un medico dal nome indimenticabile: si chiamava Dottor Barella ed era lo stesso che mi aveva accolto dal rientro in Kenya.

Mi riconobbe e mi volle ricordare con la giusta enfasi che non esisteva alcuna tessera a punti del pronto soccorso e non occorreva presentarsi così spesso. Questo mi tirò un po' sul morale. Mi chiese: “Dove ti fa male?” e io risposi: “Dappertutto.” E fu così che mi fecero qualcosa come 10 lastre per scoprire poi che la cosa più grave era un trauma cranico e al collo: il classico colpo di frusta. Dopo qualche giorno di osservazione, anche in questo caso il pericolo sembrava scongiurato, ma rimaneva un gran mal di testa e un colpo di frusta da gestire.

La convalescenza richiese tre mesi abbondanti, due dei quali passati con il collare giorno e notte. Ancora oggi, nei giorni in cui ci sono dei cambi di tempo, intendo il tempo atmosferico, ho il privilegio di sentirli con almeno 12 ore di anticipo. Anche se sono passati tanti anni da allora, le nevralgie nelle zone colpite da quell'incidente arrivano sempre. Ecco cosa mi ha lasciato tutta questa storia: il 1999, quindi, fu un anno terribile per me, difficile. Per diversi mesi non riuscii nemmeno a cercare un lavoro, ma nella seconda metà dell'anno mi assunsero come programmatore presso una software house della città. Ero al settimo cielo: finalmente le cose cominciavano ad andare bene anche per me!

Mi sono posto molte volte la domanda di cui ti dicevo all'inizio: non bastava già l'ustione? Perché anche l'incidente in bici? Perché a me? Chiunque subisca incidenti, e in particolare noi malati invisibili, ce lo chiediamo molto spesso. Non riusciamo ad accettare che le cose accadano per caso. Vogliamo avere delle spiegazioni, vogliamo che ci sia un motivo per cui le sfortune ci abbiano colpito. Quando le spiegazioni non le abbiamo, io credo che...è umano...ce le creiamo!

L'idea che siamo soli nella vita è difficile da accettare, e allora cominciamo a trarre tutte le conclusioni del caso, quelle che ci confortano di più.

Fresco del viaggio in India dell'anno precedente, mi convinsi che una qualche entità superiore mi avesse protetto, spezzando in due una tragedia più grande che avrebbe dovuto essere nel mio destino. Due incidenti gravi ma sopportabili, anziché uno solo enorme che mi avrebbe portato magari alla morte. Questa era la mia convinzione di allora, uomo poco più che ventenne. Ma sono passati tanti anni da quell'incidente e oggi ho una coscienza diversa, più matura. Continuo a pensare com'ero in quel momento e a quanto facilmente mi ero illuso. Era quello che volevo credere, quello a cui avevo più bisogno di credere in quel momento. A chi non piace sentirsi protetti e guidati?

E poi, come esseri umani, come ti dicevo, secondo me fatichiamo ad accettare che le cose più terribili accadano per caso o per eventi ingovernabili al di fuori della nostra portata. Siamo portati a cercare un rifugio, a trovare un motivo che possa spiegare quello che ci è successo, e siamo disposti ad accettare quello che ci fa stare meglio; quello che fa stare meglio il nostro cuore, spesso mettendo a tacere la razionalità. Questa che ti sto raccontando, ovviamente, è una concezione del tutto personale della realtà. Pretendo che sia quella corretta? Nessuna credenza deve essere considerata migliore o peggiore delle altre; semplicemente, questa è la mia. Non riesco più a trovare un senso in tutto questo e credo che a volte sia più utile liberarci dal tormento di voler cercare per forza un motivo, una causa degli eventi.

Per me, la realtà è che le cose semplicemente accadono e di questo dobbiamo farci una ragione e guardare a quello che possiamo fare per migliorare le cose. Anche se, nel caso delle patologie di cui soffriamo noi malati invisibili, possiamo migliorarle veramente poco, ma dobbiamo provare.

Attenzione!

Non sto dicendo che dovresti affrontare tutto con leggerezza o incurante di quello che ti succede. Come sarebbe possibile, d'altra parte, mentre ti vedi cambiare poco a poco, magari peggiorando di giorno in giorno? Ma voglio dirti di trovare quel giusto equilibrio, di provarci almeno; di trovare quel punto di equilibrio in cui il passato non viene rimpianto; si accetta che le cose brutte accadano e possano accadere e, di conseguenza, anche quelle belle. E al futuro, magari cerchiamo di non pensare troppo.

Rifletti su questo: se il Simone del doppio incidente di tanti anni fa avesse potuto sapere cosa gli sarebbe toccato dopo, oggi come credi che si sarebbe sentito in quel momento?

È davvero un dono, secondo me, non sapere cosa ci accadrà.

Pensiamo piuttosto a cosa possiamo fare oggi. Io sono il primo che non riesce a trovare questo punto di equilibrio; ci sto lavorando, diciamo. E lo stesso augurio che rivolgo a me, cioè di riuscirci, questo buon proposito lo rivolgo a te.

Una volta ho letto un pensiero che mi ha colpito profondamente.

Non ricordo chi fosse l'autore, ma mi era parso di buon senso e voglio ragionarci per un attimo insieme a te. Diceva: “Il momento perfetto per essere felice è adesso, non ieri o 20 anni fa e neanche tra 20 anni, quando magari i tuoi figli saranno grandi e tu sarai in pensione. Non aspettare domani per essere felice; o che una certa condizione si verifichi. Sii felice adesso, ora.” (Fine della citazione).

Ma come faccio a essere felice oggi, mi dirai tu, se sono un malato invisibile? Beh, non lo so, non ho tutte le risposte, ma voglio mettermi a cercarle. Deve pur esserci qualcosa che ci rende felici, no? Al di là delle nostre condizioni difficili, e io ho intenzione di trovarla, almeno quella che è efficace per me. Oltre a raccontarti la mia versione della felicità, al di là di tutto, provare non costa niente. In ogni momento, ricordiamoci di essere felici! Siamo sinceri: a volte è davvero una scelta. Proviamo a cominciare le giornate con il muso, ad esempio. Cerchiamo la pazienza per spiegare ancora agli altri, per l'ennesima volta, come stiamo.

Che tu soffra di disordini del sonno o della malattia di Crohn, tiroidite autoimmune o le mie stesse patologie, ora hai un'arma in più per far conoscere agli altri i tuoi sentimenti; e ti ritrovi in quello che dico, almeno, ora hai questo podcast.

Condividilo con le persone che sono con te nella tua vita: colleghi, parenti, chiunque abbia bisogno di sentire una voce determinata a far capire come stiamo noi invisibili. Oppure puoi condividerlo con chi, come noi, soffre di questo tipo di patologie e potrà sentirsi compreso, meno solo o meno sola. “Grido muto” nasce proprio per questo: per far conoscere le esperienze di chi vive malattie invisibili, una realtà troppo spesso ignorata.

Creare questo podcast è stata una sfida in termini di tempo, energie e competenze da acquisire, specialmente nelle condizioni di vita che ti sto raccontando. Oltre che una sfida, è stato anche un impegno economico. Se il mio lavoro ti ha colpito, considera di supportarmi su Patreon, dove potrai fare una piccola donazione a sostegno del mio lavoro. Anche un piccolo contributo può fare la differenza e aiutarmi a continuare a dare voce a chi spesso non ne ha. Il link lo trovi proprio lì, nella descrizione di questa puntata del podcast, in quel posto dove nessuno guarda mai.

Per ora ti saluto e ti aspetto, dunque, martedì prossimo in un nuovo episodio molto importante, in cui ti racconterò l'evento incredibile che mi è successo al culmine della mia vita da musicista, quando alcune nuvole scure cominciavano a prendere forma sopra di me. Stammi bene.

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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Cosa succede se il dolore non può passare mai più? 💊 Rimedi e conseguenze dei farmaci. E...✈️ il mio viaggio in India! 🌍

“La vita di un malato invisibile ruota attorno al dolore, e ogni giorno si devono fare scelte difficili per affrontarlo”

Se preferisci ascoltare questo episodio (il n. 10), anziché leggerlo, puoi farlo qui:

[...]

Quando sei un malato invisibile, la tua vita ruota attorno al dolore. Mi dispiace farti riflettere su questo, ma non c'è un modo più gentile o più delicato di parlarne. Da invisibile, il tuo rapporto con il dolore è diverso da quello di una persona normale. Le persone sane provano un dolore forte nella loro vita soltanto di rado, a seguito di incidenti magari, o di eventi ben pianificati, come un intervento o l'estrazione di un dente. Una persona sana, anche inconsciamente, sa che il dolore se ne va e, se non se ne andrà, prenderà qualcosa di facile: una pillola, una qualche polvere magica, e non sarà più un problema.

[Il dolore] può presentarsi anche così, senza un motivo apparente, in un attimo, e noi invece sappiamo che non se ne andrà.

Arriviamo a maturare questa consapevolezza dopo qualche tempo che siamo ammalati, ed è una cosa che ti cambia nel profondo. Non c'è modo di abituarsi. A volte qualcuno mi dice: “Mah, guarda, ormai hai queste patologie da tanto, ti sarai abituato!” E invece no, come si fa ad abituarsi? Sì, uno può avere la soglia del dolore più o meno alta, ma quando arrivi a sentirlo, non è che ti abitui. Quella sensazione è nata dall'evoluzione della specie umana, proprio per attirare la nostra attenzione, proprio per farsi notare. È impossibile ignorarla.

Tutti i giorni per noi sono uguali: ci alziamo al mattino, combattiamo il dolore sin da subito, o già da prima, durante la notte, e poi dobbiamo capire una cosa molto importante, cioè come si può affrontare la giornata. Ce la faremo? Se anche ci alziamo con meno dolore del solito, poi la situazione resterà così? Ci arriveremo a fine giornata?

Mah.

Allora dobbiamo fare una scelta tutti i giorni. E questa scelta è: prendo qualcosa oppure no? È uno di quei giorni in cui si riesce a resistere? Oppure, tra un paio d'ore, avrò così tanto male che non riuscirò neanche a ragionare? E credimi, non è una scelta da poco, perché gli antidolorifici non si possono prendere all'infinito. Dobbiamo cercare di limitarli il più possibile per evitare effetti collaterali anche sul lungo periodo.

In passato il mio istinto mi diceva di aspettare, ma le cose sono cambiate. Ora, purtroppo, tendo a prendere più farmaci e forse faccio male. Non so, ma ci sono tanti giorni in cui non posso rischiare di ragionare male con il lavoro che faccio. Io lavoro col pensiero, con la testa. Devo poter pensare, devo essere in condizioni di poter pensare.

Anni fa era tutto diverso. Ci ho messo un po' a prendere coscienza di come stava cambiando la mia vita con il dolore che aumentava, anno dopo anno. Ci sono arrivato gradualmente, un po' alla volta, e a un certo punto mi sono guardato indietro e ho pensato a quando è stata la prima volta in cui ho provato un dolore così intenso da sembrare fuori scala. Me lo ricordo bene quel periodo, e oggi so che lo spartiacque della mia salute risale proprio a quegli anni, in cui le scelte che dovevo fare erano molto più semplici e conducevo ancora una vita spensierata.

Era il 1998, e la mia nuova vita a Parma era certamente stimolante. Trasferirsi lì era stata una scelta naturale, anche se più che ragionata. I miei due fratelli vivevano lì già da tempo, così come alcuni amici, Danilo e Lorenzo, quelli con cui suonavo nel fine settimana quando tornavo dai miei in paese. Ci ricongiungevamo a Pontremoli, ci vedevamo là e dedicavamo almeno un'ora alla domenica pomeriggio per provare le nostre vecchie canzoni, e in più c'era anche un nuovo amico in quegli anni, che aveva iniziato a suonare con noi. Si trattava di Giorgio, molto abile con il basso. A quel punto Marco decise di dedicarsi al canto, mentre a suonare ci avremmo pensato noi. Con questa formazione eravamo anche andati a un festival musicale locale, il Lunigiana Rock. Visto che in questo episodio parliamo di scelte, queste erano le scelte semplici che dovevo fare in quegli anni.

Una scelta che farei oggi, invece, se mi entrasse ancora, sarebbe quella di indossare, ancora una volta, la maglietta che ci avevano dato per l'evento, tutta nera con una scritta gialla sul davanti: Lunigiana Rock.

È un bel ricordo che conservo e rappresenta un periodo davvero spensierato. Era la prima volta che suonavo di fronte a così tante persone, cioè un campo sportivo abbastanza affollato, ed era stato bellissimo. Ero molto tranquillo mentre suonavo, anche grazie alle lezioni che avevo preso negli anni precedenti da un chitarrista professionista a La Spezia. Mi stavo abituando all'idea che quella vita da musicista avrei potuto farla per sempre, perché era davvero l'unica cosa che mi faceva arrivare a sera rilassato e felice.

A volte suonavo per mio conto anche per 7, 8, 10 ore consecutive, senza accorgermene. Una scelta importante di quel periodo, invece, venne presa da me a proposito di un viaggio, cioè una delle passioni che si stava risvegliando in me insieme alla curiosità per il mondo, al volere scoprire cosa ci fosse oltre il proprio confine personale.

Prima di trovare un lavoro stabile, avevo deciso di andare in India a cercare Dio da un maestro spirituale.

Il viaggio mi attirava da sempre e più tardi avrei capito che questa esperienza avevo fatto mi aveva calmato nel profondo, anche se tutto era andato storto sin dall'inizio. In un certo senso, il mio era stato un viaggio risparmio, ma la sorte invece non si era risparmiata. All'arrivo, scoprii che le mie valigie erano state perse e dovetti ricomprare tutto il vestiario, facendomi fare anche qualche abito su misura, visto che laggiù sembravano non esserci abiti della mia taglia.

Nelle settimane successive, poi, mi venne una strana febbre per ben tre volte, senza tosse o raffreddore, ma soltanto una temperatura molto alta che mi faceva venire voglia solo di stare a letto. E a proposito del letto, era un materasso sul pavimento, anzi uno stuoino, possiamo dire, alto solo pochi centimetri. Ma peggio di tutto il resto, al momento di ripartire per tornare a casa, scoprii che il mio biglietto aereo non era stato emesso correttamente.

Così, avevo potuto fare l'andata, ma il ritorno non era valido. Sarei dovuto restare in India per un lungo periodo, in attesa di chiarire questo equivoco con la compagnia aerea, un periodo che durò ben oltre le due settimane che avevo previsto in origine. Insomma, un disastro sotto molti punti di vista. Le notti erano spesso tormentate per il gran caldo che c'era nelle stanze della comune e anche per il vociare degli animali della giungla, stridulo e irritante, che andava avanti tutta la notte. La sveglia suonava molto presto per la meditazione, già alle 3:30 del mattino, e sui monti dell'altopiano del Deccan a dicembre faceva freddo, anche se eravamo quasi all'equatore.

Nel giro di poco tempo iniziai ad avere un gran mal di schiena e non c'erano medici che potessi consultare a poco prezzo nel villaggio per contenere le spese. Andai allora da qualcosa di un po' diverso, un medico ayurvedico, uno di quelli che praticavano l'antica arte curativa tradizionale dell'India, decisamente a buon mercato, ma meglio di niente, mi dissi. Il medico riuscì a capire cosa avevo semplicemente toccandomi una mano e l'avambraccio.

Chiese consigli sull'alimentazione, sugli alimenti che le persone con il mio tipo di fisico avrebbero potuto mangiare oppure no, e tante altre cose. Mi disse che il mal di schiena era dovuto a un eccesso di energia, un eccesso di fuoco. Con qualche massaggio avrebbe potuto alleviare il dolore, ma la causa era molto profonda. Secondo lui avrei dovuto prendere anche alcune compresse che mi prescrisse. Il suo assistente, tale Shrinivas, mi aveva praticato i massaggi. Le sue mani enormi mi sembravano bollenti e anche se alla fine mi ritrovavo tutto unto come un panzerotto uscito dalla friggitrice, in poche sedute il dolore era scomparso.

Effettivamente, Shrinivas sapeva il fatto suo e grazie a lui le compresse che mi aveva suggerito il medico non servirono, e per fortuna! Perché già l'aspetto ricordava gli escrementi di pecora; ti lascio immaginare l'odore! La causa di quel mal di schiena per me era lampante: qualcosa su cui non perdere neanche un momento a riflettere, e cioè che in India si passa la vita seduti sul pavimento e camminando a piedi nudi, e tutto questo, da occidentale, probabilmente non mi aveva giovato.

A parte questo aspetto, però, in India ero stato veramente bene, e ben presto mi scordai del medico ayurvedico. Al mio rientro in Italia, quando l'India era ormai poco più di un bel ricordo, il mal di schiena tornò. Era localizzato in basso, nell'area del bacino, proprio come quando era venuto fuori in India. Il mio medico curante mi fece fare una lastra e per la prima volta in vita mia sentii dire la parola che nessuno di noi vorrebbe mai sentirsi dire: artrite.

L'artrite è una malattia infiammatoria persistente e cronica, caratterizzata da dolore e infiammazione a livello delle articolazioni, con importanti ripercussioni sulla mobilità e il sostegno dello scheletro. Le forme più gravi di artrite possono deformare le articolazioni, determinando rigidità e compromissione dei movimenti e limitando notevolmente la capacità di svolgere anche i più semplici compiti quotidiani. L'artrite può svilupparsi in persone di ogni età, anche nei bambini, e con il passare degli anni, se non riconosciuta e curata adeguatamente, l'infiammazione tende a peggiorare.

[Fonte: ISS]

Il mio medico curante allora mi disse: “Sei ancora giovane, hai solo 20 anni; non ti preoccupare, per ora hai ancora tutta la vita davanti.” Lui era uno di quei medici di una volta, quelli che riuscivano a fare diagnosi anche senza mandarti da uno specialista, e molto spesso ci azzeccava.

Mi chiedo ancora oggi se con quella diagnosi precoce, magari confermata da un reumatologo, si sarebbe potuto cambiare qualcosa. Allora ero nel pieno delle mie forze e scelsi di ignorare del tutto quella parola, che poi neanche sapevo bene cosa fosse, a dire il vero.

Sì, ok, c'era l'artrosi e l'artrite, ma l'artrite era quella meno grave, giusto? Nei miei pensieri c'era solo il lavoro e la chitarra. In quel momento non so perché, ma avevo l'idea che questa artrite fosse qualcosa di non troppo grave, e non ci pensai più. Altrimenti, come avrebbe potuto venire proprio a me, che stavo benissimo ed ero all'apice delle mie condizioni fisiche? Mi ricordo proprio di aver pensato: “Ci penserò quando sarò più vecchio.” Mi sbagliavo di un bel po'. Dimmi: al mio posto, tu come ti saresti sentito? Avevi la consapevolezza necessaria per capire qual è stato il momento chiave della tua vita? Fammelo sapere in un commento. Per me è stato proprio il momento di cui ti ho raccontato. Sono curioso di sapere il tuo.

A Parma non mi annoiavo mai, impegnato com'ero a cercare un lavoro. Ne ho cambiati molti prima di trovarne uno a tempo indeterminato come impiegato. Ricordo bene la sensazione di avere finalmente risolto un enorme problema, di essere finalmente a posto. Espandevo scuola in quel lavoro, creando programmi per tanti diversi istituti bancari. Fu lì che scoprii che le lezioni di dattilografia che avevo preso a scuola, alle scuole superiori, erano una delle cose più utili che possano esserci nel mondo moderno, perché bene o male tutti abbiamo a che fare con una tastiera e tanto vale saperla usare ad occhi chiusi. Digitavo in fretta e i programmi prendevano vita sotto i miei occhi. Era un lavoro creativo, in un certo senso. Il mal di schiena era a quel punto soltanto un ricordo, tanto più che lavoravo finalmente seduto senza fare fatica e finalmente al riparo dal freddo e dal caldo e dai pericoli.

Qualche mese dopo, però, in estate mi sarei dovuto ricredere. C'era bisogno di una riunione fatta in fretta e furia e decidemmo di farla attorno alla scrivania di una collega. Non c'erano sedie per tutti e scelsi di sedermi sul davanzale della finestra, appena sopra il condizionatore, che buttava sulle mie gambe e su tutto il corpo quella piacevolissima aria fresca. Fresca eh, niente di più. Nelle estati umide della pianura, il condizionatore è una manna.

Nel giro di 24 ore ero di nuovo bloccato dal mal di schiena, questa volta ancora più forte di come mi era venuto in India, un dolore mai provato neanche laggiù. Shrinivas era un po' troppo lontano a quel punto e decisi di prendere qualche giorno di malattia e aspettare. Ero giovane e forte, certo che sarebbe passato! Bastava solo...aspettare!

E invece no.

Il dolore era insopportabile e più passavano i giorni, più la situazione peggiorava e questo dolore nel bacino diventava più forte. In qualche angolo molto remoto del mio cervello continuavo a ripetermi che i farmaci non si dovevano prendere. Si sa, gli antidolorifici fanno male, lasciamoli ai vecchi. Li avevo già presi qualche anno prima per le ginocchia che mi facevano male. Non volevo sovraccaricarmi. Ero così giovane e inesperto che paradossalmente non avevo niente in casa e in più, in quel periodo, vivevo in realtà sulle colline di Parma. La farmacia più vicina era lontana, tanto più che non sarei neanche riuscito a guidare, neanche con tutta la buona volontà del mondo. Mi era proprio impossibile estendere le braccia e le gambe.

Il dolore era fortissimo, già a letto, ancora più forte da seduto e impossibile da gestire stando eretti. Camminavo chino come un novantenne e se avessi avuto un bastone, sicuramente l'avrei usato. Ripensandoci oggi, quell'evento avrebbe dovuto mettermi in allarme. Non è normale che un uomo di 22 anni si riduca così per un colpo di aria condizionata. Potrà sembrarti strano, ma non collegai quell'evento con la diagnosi di artrite del medico. Nella mia famiglia tutti avevano e avevano sempre avuto mal di schiena, sembrava una cosa normale, quindi.

Riuscii a procurarmi dei farmaci e tutto passò per un po'. quella che allora mi era sembrata una situazione del tutto eccezionale, oggi è la mia realtà. A distanza di 25 anni da quegli eventi chiave, ci sono ancora le crisi di dolore, anzi, più raro che non ci siano le crisi di dolore. Spesso sono improvvise e in luoghi diversi del corpo, non soltanto nel bacino, e si presentano senza avvisare.

Ogni giorno bisogna alzarsi con calma, come ti raccontavo nel primo [edit: secondo] episodio del podcast, e fare delle scelte molto difficili. Se non è il dolore cervicale o l'emicrania ad avermi svegliato, magari alle 2 del mattino, devo per prima cosa capire come mi sento. Certo, mi sento quasi sempre male, purtroppo, ma bisogna andare oltre questa sensazione. Devo ascoltarmi per capire se il malessere deriva dal fatto che il corpo non si è ancora messo in movimento e magari più tardi passerà un po', oppure se è qualcosa che non passerà.

È una valutazione molto difficile, perché dovendo lavorare, la tentazione è quella di prendere un antinfiammatorio sempre, tutti i giorni, o non riuscirò a stare concentrato quando serve. In fondo, come ti dicevo, io lavoro con la testa, coi miei pensieri, con il ragionamento, con analisi di dati, di problemi per cercare la loro soluzione. Come fai se hai un'ascia piantata in testa o in un fianco? Ti è impossibile.

Purtroppo, però, sappiamo bene che degli antinfiammatori non possiamo abusare. Oltre a rovinarci lo stomaco, non si possono assumere per più di qualche giorno per evitare di andare in sovradosaggio, tirandoci addosso anche molti altri problemi. Capisci bene, dunque, che la decisione di prendere qualcosa oppure no, per un paziente che soffre di artrite o fibromialgia, non è una decisione da poco. Il nostro non è un dolore sporadico che se ne andrà. Domani, dovremo fare le stesse scelte e quindi di nuovo sottoporci al rischio di effetti collaterali dell'antinfiammatorio.

Però questa scelta la dobbiamo fare tutti i giorni. La differenza tra prendere un antinfiammatorio oppure no è quella che passa tra il non poter fare fronte ai propri impegni o effetti gravi legati al sovradosaggio.

Tu cosa sceglieresti? Non è una scelta da poco, credimi.

Per evitare tutto questo, infatti, il medico mi ha consigliato di usare il più possibile il paracetamolo, che non “pesa” sullo stomaco. È vero, ma il problema è che ormai non riesce a togliermi il dolore e mentre l'antinfiammatorio di solito mi lascia in buone condizioni per un giorno, il paracetamolo non ha questo effetto. Quindi dovrei prendere una dose veramente molto, molto alta nel tempo.

L'unica cosa certa è che un antinfiammatorio può togliere il dolore per diverse ore e aiutarci a svolgere i nostri doveri, ma allo stesso tempo, quando li assumiamo, diamo un'immagine falsata di noi. Diamo l'immagine di una persona che sì, ha qualche problema, ma in fondo neanche troppi, visto che può comunque lavorare, può comunque farcela. Ma se questa è la percezione che possono avere gli altri, i sani, dei nostri problemi, beh, è sbagliata, è troppo semplicistica. Come ti ho raccontato, per noi è molto più complesso. E poi non è che sotto antinfiammatori uno stia così bene. A volte non fanno abbastanza, neanche quelli.

Se non conoscevi le patologie di cui soffro, forse starai cominciando a capire perché i pazienti come me vivono una vita davvero difficile. E credimi, siamo tantissimi. Se invece soffri delle mie stesse malattie, avrai capito perfettamente cosa intendo. Ci sarebbe ancora tanto da dire sui farmaci che può dovere assumere chi soffre di artrite o fibromialgia, ma ti prometto che ne parleremo più avanti. Ti do appuntamento alla prossima puntata, come sempre di martedì. Stammi bene.

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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🌟 I miei anni '90: quando le mie mani funzionavano da Dio! 🙌✨

“Se le tue mani funzionano o funzionano ancora abbastanza bene, ti invito ad usarle.

Usale finché puoi, perché anche se non soffri di una delle patologie degli invisibili, è vero che prima o poi quasi tutti non potremo più usarle, ad un certo punto.”

Se preferisci ascoltare questo episodio (il n. 9), anziché leggerlo, puoi farlo qui:

[...]

In questo episodio ti racconto come le mie mani siano sempre state forti, capaci e molto attive e di come la malattia le abbia cambiate radicalmente. All'incirca alla metà degli anni '90, gli anni delle superiori volavano via tra lo stress della scuola, che richiedeva un impegno sempre crescente, e la scoperta di nuovi gruppi musicali: i Queen, ad esempio, ma anche i Mr Big, i Metallica e diversi chitarristi virtuosi come Joe Sateiani e, soprattutto, Steve Vai, di cui mi innamorai istantaneamente. Non tanto per le melodie che produceva con lo strumento, che erano quasi sempre incomprensibili, ma per i suoni che riusciva a tirare fuori dalla sua chitarra elettrica, qualcosa di incredibile, mai sentito prima. Riusciva a farla addirittura parlare in inglese, ad esempio. Non si distinguevano chiaramente le parole, ma era come se una persona stesse parlando e intonando il senso del discorso sulla chitarra. Ed era chiaro: la sua tecnica mi avrebbe dato tantissimi nuovi spunti più avanti e avrebbe anche definitivamente modificato il mio orecchio musicale, che da quel momento avrebbe considerato musica anche melodie che, fino a poco prima, mi sarebbero sembrate suoni buttati lì a caso. E invece no, c'era un disegno, una logica in quelle note che aspettava solo di essere scoperta. Non per niente Steve Vai era stato il chitarrista prodigio di Frank Zappa, un altro pioniere della musica moderna.

Per un periodo mi ero distaccato dal mio gruppo storico a causa della nostra differenza di vedute dal punto di vista musicale. Avevo bisogno di suonare più cose che mi piacessero, mentre il gruppo stava insistendo molto sulla musica italiana, in quel periodo, che a me piaceva meno. Così, a Pontremoli, incontrai Emanuele e Giovanni. Emanuele era un chitarrista, ma anche un bassista, mentre Giovanni era un pianista di talento. Entrambi mi fecero fare un salto evolutivo enorme: due persone molto in gamba a suonare, a cui però era più difficile stare dietro. E in più c'era un altro problema: volevano fare un concerto di fine anno all'Azione Cattolica di Pontremoli. Tutto bello, ma mancavano un bassista e un batterista per fare qualcosa di decente. Il batterista si trovò facilmente, mentre il basso... beh, iniziai a suonarlo io!

Che emozione! Uno strumento simile alla chitarra, ma completamente diverso nella sua funzione, che aspettava solo di essere scoperto. Riesci a immaginare qualcosa di più bello? Io, no!

Emanuele era già abituato a suonare il basso perché lo usava come strumento principale a casa, e così mi insegnò cosa significasse suonare senza accordi, cercare la nota giusta lungo il manico piuttosto che vicino a quella che stai già suonando, perché l'effetto sonoro che si ottiene è completamente diverso. E spesso è proprio quello l'effetto che si cerca sul basso! Imparai i vari modi di creare ritmo in una canzone, perché il basso in fondo è di quello che si occupa. Mi incantava quel suono pieno, non distorto, che ti faceva vibrare la pancia e faceva da collante tra tutti gli altri strumenti. Uno strumento che non si notava, insomma, ma la sua voce c'era, eccome, ed era importante. Insomma, un altro invisibile.

Se la chitarra metteva sotto stress le dita, il basso era ancora più difficile da suonare. Ci voleva ancora più forza sulla punta delle dita; ci voleva più forza per stringere abbastanza le corde, che erano molto più spesse rispetto a quelle della chitarra. E poi, visto che con la mano destra suonavo le corde direttamente, senza il plettro che usavo sulla chitarra, l'avambraccio mi faceva malissimo. L'indice e il dito medio, infatti, dovevano muoversi molto rapidamente per pizzicare le corde; anche i polsi mi facevano molto male all'inizio. Insomma, quello strumento mi costringeva anche a una serie di esercizi per preparare il fisico a poterlo suonare, ma ne valeva assolutamente la pena. Ti racconto tutto questo per farti capire qual era la mia abilità di ignorare il dolore, o persino di sentirlo: quella che viene chiamata soglia del dolore, insomma, e poi anche per farti capire la mia determinazione. Non ero una persona che si tirava indietro di fronte agli ostacoli o a quello che non conosceva; anzi.

Il tempo trascorse velocemente e arrivò anche Capodanno. Il concerto andò molto bene e ne conservo ancora una registrazione. Suonammo musica dei Queen, dei Doors, dei Nomadi, di Baglioni e naturalmente anche dei Pink Floyd, la nostra passione comune. Subito dopo però tornai al gruppo storico, quello del mio paese, un po' per impegni vari, ma anche perché il gruppo di Capodanno non aveva più ragione di essere. Mi presentai ai miei amici del paese con il mio nuovo basso in mano: finalmente avevamo un bassista: io!

Per un po' suonai con piacere quello strumento insieme a loro, ma non bastava. Decidemmo allora che ci serviva un batterista. Ma chi? In paese non c'era nessuno che suonasse la batteria. Il tempo passava e questo salto di qualità non si riusciva a fare. Così, pur di continuare a suonare con loro, decisi che il batterista sarei stato io. Marco, che era il nostro cantante poeta, comprò il mio basso e da quel momento lo avrebbe suonato lui. Io invece acquistai una batteria economica, altra opportunità di imparare. È così che iniziai a suonare anche la batteria, e il mio super orecchio mi aiutò non poco. Riuscivo ad ascoltare le cassette dei miei musicisti preferiti e poi deducevo, dai suoni che ascoltavo, in quale sequenza colpire i pezzi della mia batteria per riprodurre la parte di batteria del brano musicale.

Tutto questo processo avveniva velocemente nella mia mente, a volte anche in pochi millisecondi, e riuscivo così a suonare anche sul momento alcuni semplici pezzi che non avevo mai sentito. A pensarci, oggi mi sento molto orgoglioso delle mie capacità di allora.

In breve tempo, un colpo di sfortuna ci costrinse a cambiare ancora. Danilo, per un infortunio grave a un dito, non avrebbe mai più potuto suonare la chitarra, o almeno non bene quanto prima. Poteva essere la fine e invece cogliemmo l'occasione: perché non scambiarsi le parti? Lui avrebbe suonato la batteria e io di nuovo alla chitarra, con il ruolo di solista che era stato suo. L'anno successivo avremmo dovuto incidere il nostro primo CD dimostrativo, che avremmo poi potuto distribuire. Però occorrevano strumenti migliori. Questa volta non avrei potuto contare sui miei: ero grande ormai e giustamente mi dissero che avrei dovuto guadagnarmi quello che volevo. Lavorai per tutta l'estate, tra la quarta superiore e la quinta, come cameriere. Imparai a conoscere il lavoro e pensai bene di iniziare col botto: 10, 12, anche 14 ore al giorno per tutta l'estate. Ma a settembre comprai il mio primo strumento, che mi ero guadagnato con le mie stesse mani: una soddisfazione incredibile. Era una bellissima chitarra elettrica Ibanez, completamente nera, con un amplificatore Fender a valvole che ancora oggi produce suoni fantastici.

Finalmente potevamo andare in studio e quell'esperienza ci fu molto utile per unirci ancora di più come amici e musicisti. I pezzi che avevamo preparato erano venuti abbastanza bene per le nostre possibilità ed eravamo molto soddisfatti.

Dopo pochi mesi partecipammo a un concorso a Castrocaro. Chi si fosse piazzato ai primi posti avrebbe potuto partecipare al famoso Festival di Castrocaro e, se fosse andata bene lì, a Sanremo. Con nostra grande sorpresa, la prima serata andò benissimo: arrivammo primi, ma decidemmo di non continuare. Il concorso sarebbe stato troppo impegnativo economicamente, considerando anche che qualcuno di noi lavorava già e non poteva mancare ai suoi impegni. Nel frattempo iniziai a frequentare altri gruppi che suonavano pezzi degli AC/DC, degli Iron Maiden, dei Metallica e dei Deep Purple. Mi dava sempre più soddisfazione saper suonare i pezzi dei grandi della musica, espormi come chitarra solista, sapere che tutti gli occhi, o meglio tutte le orecchie, sarebbero state puntate su di me. Era anche una grande responsabilità: bastava una nota sbagliata e avrei fatto una pessima figura. Mi stavo abituando sempre di più a essere un punto di riferimento, e a mio modo mi sarebbe stato molto utile poco tempo dopo.

La maturità fu l'esperienza forse più stressante della mia vita, ma per fortuna passò anche quella. Mi sentivo svuotato, esausto. Finalmente ero riuscito ad arrivare sulla cima di quella montagna che solo tre anni prima mi sembrava impossibile da scalare. Ero pronto a ricominciare? No, assolutamente no! E infatti decisi di non fare l'università, seguendo anche l'esempio dei miei fratelli maggiori, a cui stava costando moltissimo (prima che l'abbandonassero).

Finalmente non avevo più obblighi scolastici. Iniziai così ad affacciarmi al mondo del lavoro soltanto con un diploma da ragioniere programmatore in mano. Valeva poco anche allora, ma sicuramente qualcosa in più di quanto possa valere oggi. Salutai i miei, il paesello e i suoi inverni bui e lunghi e decisi di andare a cercare fortuna a Parma. Una città grande avrebbe offerto senz'altro di più a una persona in cerca di lavoro, ed era vero, ma non fu così facile ottenere il mio primo impiego da sviluppatore software. Ci vollero tre lunghi anni, in cui nel frattempo mi adattai a fare di tutto: il facchino in un hotel, con grande gioia per le mie giovani vertebre, e poi il fattorino, l'operaio in fabbrica e tante altre professioni. Non amavo nessuna di queste: ciascuna a proprio modo, tutte erano pericolose. Avevo visto alcune cose decisamente inquietanti nei reparti di verniciatura e montaggio delle varie fabbriche dove avevo lavorato. Avevo deciso, allora, che avrei dovuto fare l'impiegato, anche perché ci tenevo molto al mio corpo, alla sua integrità e alla sua salute. Questa cosa, detta oggi, è al limite del tragicomico, visto come sono andate le cose. Sono il genere di persona che non farebbe mai un piercing o un tatuaggio, non per chissà quale implicazione morale, ma semplicemente perché credo che i corpi siano belli così come sono, senza bisogno di cambiarli in maniera permanente, se non c'è un motivo di salute per farlo. Semplice gusto personale. E pensa a cosa è accaduto al mio corpo. Pensa a tutto quello che ti ho raccontato finora. Le mie dita allora erano capaci di muoversi agilmente e velocemente, in pochi millimetri, con grande precisione e velocità, applicando forze anche piuttosto importanti per un dito solo. I muscoli delle mie mani erano grandi, pulsanti e bene in vista. Riuscivo ad aprire le noci schiacciandole tra pollice e indice.

Oggi la forza le ha abbandonate. Ci sono momenti in cui quasi non riesco a credere che quello che ti sto raccontando sia vero. Ho la sensazione che siano i ricordi di un'altra persona e faccio fatica ad accettare quello che sono diventato oggi, soprattutto in relazione a ciò che sono stato.

Per effetto dell'artrite e della fibromialgia, le mie mani hanno poca forza e, fino a poco tempo fa, tremavano quando chiedevo loro di afferrare. Ora non tremano più, semplicemente perché la forza non c'è. Se voglio stringere la mano, questa rimane poco più che inerte. Al mattino le mani sono rigide, prima che si sciolgano un po', e sono gonfie e dolorose. Niente a che vedere con ciò che sono state.

Qualcuno mi dice che prima o poi invecchiamo tutti e io rispondo che sì, è vero, invecchiamo tutti, ma non tutti si ritrovano così prima dei 50 anni. Non è la stessa cosa ed è buffo notare che chi ci dice queste cose non soffre dei problemi degli invisibili.

Ma tant'è.

Se le tue mani funzionano o funzionano ancora abbastanza bene, ti invito ad usarle.

Usale finché puoi, perché anche se non soffri di una delle patologie degli invisibili, è vero che prima o poi quasi tutti non potremo più usarle, ad un certo punto.

Non rimandare quello che vuoi fare. Fallo oggi, perché la vita può sorprenderti in modi che non ti aspetti neanche.

Accarezza qualcuno a cui vuoi bene; usale per aiutare: penso che sia la cosa più bella che si possa fare.

Crea qualcosa di bello, gioiscine, suona: io non posso più farlo.

Ci sentiamo martedì.

Stammi bene.

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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⚡ Fibromialgia, Artrite e Burnout: la mia battaglia contro l'esaurimento cronico continua! 💪🌟

“[...] Tutti i malati invisibili nel nostro Paese stanno subendo una ENORME INGIUSTIZIA: perché la loro capacità di affrontare la vita è ridotta. Così come per una persona con disabilità può essere ridotta la capacità motoria, per noi è ridotta la capacità di sopportare il peso di qualsiasi cosa, ma sembra un nostro capriccio; sembriamo sfaticati agli occhi degli altri. Niente di più sbagliato!”

Se preferisci ascoltare questo episodio (il n. 8), anziché leggerlo, puoi farlo qui:

Gli anni delle scuole superiori, tra il '91 e il '96, sono stati molto belli da un punto di vista della mia crescita personale e musicale, ma anche molto difficili per tutto il resto. Oggi ho il sospetto che le malattie iniziassero a manifestarsi, ma in quegli anni non potevo neanche immaginarlo. In questo episodio ti racconto dell’esaurimento, una condizione psicofisica che chi soffre di malattie invisibili tende a vivere molto più facilmente.

[...]

Quel periodo lo avevo iniziato in bellezza, di ritorno da un viaggio in Sardegna in cui eravamo stati a trovare i nostri nonni paterni e, naturalmente, anche in visita allo splendido mare della regione. Durante quella vacanza, ero andato a supplicare un vicino di casa dei nonni perché mi prestasse la sua chitarra per un pomeriggio. Non riuscivo a stare senza! Ora, non vorrai fare dei paragoni azzardati; ti dico solo che questo succedeva anche a Jimi Hendrix, a suo tempo, uno dei chitarristi più influenti della storia.

Oggi lo capisco perfettamente: suonare, infatti, è un po' come una droga. E a proposito di droghe, proprio in quel periodo avevo iniziato ad assumere farmaci regolarmente per qualche mese. Avevo dei dolori alle ginocchia, un po' forti. Ero giovanissimo; non poteva essere niente di serio, io mi dicevo. Il medico curante mi aveva dato del Nimesulide, ma i dolori non passavano e continuai a prenderlo a cicli per molte settimane. Quando finalmente il male passò, venne attribuito a “qualcosa di legato allo sviluppo”.

A te sembra normale che un ragazzino di 13 anni debba prendere il Nimesulide a cicli? Non lo era, e già questo, forse, avrebbe dovuto fare scattare qualche campanello d’allarme. Ma poi era tutto normale; si andava a giocare a pallone e al fiume a nuotare nell'acqua gelida, e non ne risentivo più di tanto.

L'idea di iniziare le superiori mi aveva messo un certo fermento addosso, anche se la scuola di ragioneria ad indirizzo informatico non era stata una vera e propria scelta, ma piuttosto un obbligo imposto dalla scarsissima varietà che Pontremoli poteva offrire. Diciamo che per me era la meno peggio e credevo che mi avrebbe aiutato, più avanti, a trovare lavoro facilmente.Nonostante tutto, mi restava un senso di entusiasmo speciale, come mi capitava sempre prima di iniziare qualsiasi cosa.

Le mie aspettative furono deluse molto presto, perché se alle scuole medie avevo avuto sempre voti molto alti, alle superiori mi fu subito evidente che la musica era cambiata. Ci voleva molto più impegno e quando i primi voti pessimi cominciarono ad arrivare, non la presi molto bene. Cominciai a pensare di non essere adeguato e ogni giorno, paradossalmente, anziché dedicare più tempo allo studio, mi buttavo sull'unica cosa che mi dava un po' di gioia: la musica.

Nel '91, io e mio fratello maggiore avevamo messo insieme le forze e acquistato il nostro primo lettore CD, una cosa del tutto nuova che consentiva di ascoltare la musica con una qualità pazzesca, una qualità che oggi non abbiamo più, sostituita dalla bassa qualità dei vari servizi di musica in streaming.

Quando uscivo da scuola, esausto, la corriera impiegava più di un’ora a riportarmi a casa, perché doveva fare il giro di tutti i paesi della valle e il nostro era quello più in alto. Nei giorni peggiori ci impiegava un'ora e tre quarti. Da ottobre in avanti, mi sedevo a tavola per mangiare, da solo, alle 14:35 del pomeriggio, e non facevo in tempo a finire il mio piatto di pasta che il sole calava dietro la montagna del paese. Da noi, la notte arrivava molto presto. Io mi sdraiavo sul letto, con delle cuffie di ottima qualità, ad ascoltare l'unico CD che avevo: il concerto dei Deep Purple a Stoccolma del 1970. Può sembrarti strano, ma tra le urla di Ian Gillan e gli assoli di chitarra strazianti di Ritchie Blackmore, mi addormentavo quasi subito. Mi calmavano; e se conosci quel gruppo capirai quanto sono strano!

Alla fine del disco, il mio cervello percepiva il silenzio e allora mi svegliavo quasi subito, con un senso di smarrimento e solitudine. Dov'era andata quella musica così bella? E poi via, si iniziava a studiare. Facevo tutto in fretta, il più in fretta possibile, per liberarmi da tutte quelle cose che mi interessavano davvero poco e potermi così dedicare finalmente alla musica.

Nel periodo natalizio, per la prima volta io e il mio gruppo andammo a suonare per altri: una festa di Capodanno tra ragazzi, credo non più di un centinaio di persone. Nonostante avessimo solo chitarre, facemmo del nostro meglio e fu davvero emozionante, così tanto da essere sul punto di bloccarmi, ma tutto andò bene.

Al secondo anno di scuola accadde una cosa terribile: i voti stavano prendendo una brutta piega. Fui costretto ad aumentare l'impegno e così, durante l'inverno, oltre a non vedere più il sole e a rinunciare anche alle passeggiate nei boschi con il mio cane, dovetti anche intensificare lo studio, sacrificando la passione musicale.

Verso la fine della primavera, ero completamente scarico. Non riuscivo più a ragionare lucidamente; mi sembrava che il peso di ogni cosa del mondo fosse sulle mie spalle e che la condizione che stavo vivendo, la scuola, non avrebbe mai avuto fine. Pensavo ai duri anni che avevo ancora davanti e poi all’università; ai faticosi viaggi in corriera e alla musica che avrei dovuto sacrificare. Di fronte a una montagna così grande da scalare, mi chiedevo se la ricompensa, sulla cima, sarebbe stata abbastanza da giustificare la scalata. Decisi che...no, non ne valeva la pena.

Volevo abbandonare gli studi.

Fortunatamente, quella Santa donna che è mia madre, dopo discussioni estenuanti anche per lei, mi convinse a non farlo: e meno male, perché con le conseguenze di quel diploma sto mangiando ancora oggi. Mi disse di continuare, di fare quello che potevo e poi avremmo visto.

Non so se tu, che mi stai ascoltando, abbia mai usato audiocassette. Te le ricordi? C'era dentro un nastro che si arrotolava mentre le si ascoltavano, come la nostra vita. Ma alla fine del nastro, la cassetta si poteva riavvolgere e ricominciare, o cambiare lato, mentre per noi il tempo scorre solo in una direzione. In quella cassetta, come in tutte le altre, c’era un foglietto dentro la custodia in plastica. Mio fratello aveva scritto tre parole sul dorso di quel foglietto: “Led Zeppelin” e un 4 in numeri romani.

Ma sì, proviamo a sentire cos'è!

Mi misi sul letto, cuffie addosso, e premetti “Play”. In quel preciso istante, la mia vita musicale cambiò per sempre. La prima canzone della cassetta era qualcosa che non avrei mai immaginato neanche in 100 vite: qualcosa di alieno, possiamo dire. Una canzone assurda, in cui una voce sguaiata introduceva gli strumenti che suonavano una melodia quasi irritante, con il batterista che andava per conto suo, senza seguire il tempo degli altri. “Ma che roba è?” Poi, tutti zitti. Di nuovo quella voce insopportabile, la melodia stranissima di prima e via così fino alla fine.

Sembra assurdo, ma c’era qualcosa di veramente ipnotico in quella melodia, tanto che ci arrivai in fondo. La seconda canzone era orecchiabile, una specie di rock and roll bello carico, la terza di nuovo strana, la quarta un capolavoro: “Stairway to Heaven”. Credo che chiunque l'abbia ascoltata almeno una volta nella vita. Alla fine di quell’album, avevo il cervello un po’ sconvolto, ma dentro di me avevo gli occhi spalancati e la bocca aperta. Evidentemente, quella roba strana era musica; si poteva fare anche così.

Per qualche tempo non ascoltai altro: quella voce sguaiata, la chitarra possente, il basso con i suoi ritmi incalzanti e un batterista che, per la prima volta da che avevo memoria, era un piacere ascoltare e non era solo qualcosa in sottofondo che dava il tempo. Incredibile! Nessuno dei miei conoscenti condivideva con me la passione per questo strano, disturbante gruppo. Dall’esterno sarò sembrato un pazzo, sempre con le cuffie in testa ad ascoltare qualcuno che urla su suoni strazianti. Questa mia nuova passione mi isolava ancora di più dal mio mondo di allora. Scoprii che restare calmo, solo con me stesso a fare qualcosa che amavo, mi aiutava a concentrarmi su qualcosa, dimenticando tutto il resto. Nessuno capiva, ma non mi importava: nel poco tempo libero, scimmiottavo i Led Zeppelin con la chitarra, e questo mi bastava a sentirmi meglio.

Paradossalmente, in questo isolamento, ritrovai me stesso. Piano piano, rifugiandomi in quegli ascolti, il periodo terribile passò e l’estate arrivò nuovamente, carica di novità stimolanti ed eventi fondamentali per la mia evoluzione musicale.

E dal momento che avevo ritrovato un minimo di serenità, con mia sorpresa le cose andarono meglio anche a scuola. Alla fine, non ci fu nessuna conseguenza pesante sul mio curriculum scolastico. Mancavano solo tre anni alla fine; ormai ragionavo così.

Ricordo sempre con tanta emozione quell’anno, perché è stato quello in cui ho incontrato la prima delle situazioni insormontabili della vita. In quel caso, in qualche modo ce l’avevo fatta, come ce l’avrei fatta in futuro. Ma con il passare del tempo avrei notato che ogni botta sarebbe stata più difficile delle precedenti da superare.

Ogniqualvolta mi si presenta una situazione senza via d’uscita, è come rivivere la crisi in corso più tutte le precedenti, a partire da quella in cui i Led Zeppelin e la chitarra mi avevano salvato. Ogni volta è più difficile uscirne, e nemmeno la musica può nulla, oramai.

Oggi, come credo che capiti ad ogni malato invisibile, vivo crisi di fatica ed esaurimento continuamente. A volte, faccio persino fatica a riconoscerne una dalla successiva.

Quando ti alzi terribilmente stanco, e ogni giorno hai meno energie di quando sei andato a letto, è facile che qualsiasi cosa ti sembri una situazione senza via d’uscita: la famiglia, se ne hai una; magari dei figli da mandare a scuola, che vanno seguiti, ma anche un animale domestico. Qualsiasi cosa, anche piccola, ti sembra – ed è – difficilissima da completare. Figuriamoci il lavoro. Eppure è così importante per me, terminare queste cose. C’è già una brutta situazione in corso, della quale non si vede la fine. E così, ogni cosa incompleta o che non si può finire per me diventa un’eco della mia vita da ammalato, situazione che non finirà mai. Almeno ciò che posso, ho bisogno di vederlo chiuso, finito, a posto.

Le cose però possono accumularsi, essere sempre di più, sempre più pesanti. Non completarsi.

Se non hai particolari patologie e pensi che tutte queste cose che ti ho elencato prima siano già pesanti anche per te, figurati com’è la vita per me, e immagina com’è per tutti gli altri malati invisibili.

Sì, perché a noi non vengono fatti sconti. La famiglia la devi comunque gestire. La spesa. I traslochi. I genitori anziani, i suoceri. La cura di te stesso, il mutuo da pagare. Figurati poi com’è lavorare in queste condizioni: scadenze, impegni, ingegno per trovare soluzioni sempre nuovi a problemi sempre diversi, mentre il mal di testa è sempre lì, la tua difficoltà a concentrarti non sembra lasciarti andare, e chiunque ti chiede qualcosa che si aggiunge alla lista di cose da fare, sempre urgenti, che non te ne fanno completare altre. Questo, almeno, in ufficio. Non oso pensare a chi svolge un lavoro fisico: muratori, operai, facchini, agricoltori, eccetera!

Ecco perché dico che tutti i malati invisibili nel nostro Paese stanno subendo una enorme ingiustizia: perché la loro capacità di affrontare la vita è ridotta. Così come per una persona con disabilità può essere ridotta la capacità motoria, per noi è ridotta la capacità di sopportare il peso di qualsiasi cosa, ma sembra un nostro capriccio; sembriamo sfaticati agli occhi degli altri. Niente di più sbagliato!

Ricorda tutto quello che ti ho raccontato finora, e che, se mi hai seguito con attenzione, dovrebbe cominciare a prendere una forma più chiara. Pensa a come dev’essere vivere così, sempre in balia di un problema fisico che, lentamente come il ghiaccio, ti penetra nell’animo. Capisci ora perché si dice che i malati invisibili tendano ad isolarsi? Capisci perché siamo tendenzialmente nervosetti?

Se mi stai ascoltando ma non soffri delle patologie che ti sto raccontando, questo mi rende felice, ma spero di riuscire a trasmetterti la conoscenza su quello che noi invisibili viviamo tutti i giorni.

Se invece ti riconosci in questo eterno ciclo di esaurimento e ripresa, magari anche depressione, sappi che ti capisco benissimo. Non servono patologie croniche per esaurirsi o cadere in depressione, e anche queste, lo so, sono malattie invisibili, per gli altri non esistono.

Fatti coraggio, anche se so che è difficile, trova i tuoi Led Zeppelin.

Per me, almeno allora, è stata essenziale la musica: trova i tuoi Led Zeppelin. Per te, il palo in cui aggrapparsi durante la tempesta può essere qualcos’altro: magari coltivare un fiore, leggere un libro, andare continuamente in un luogo in cui ti senti un po’ meglio. Tutto aiuta, anche se lì per lì ti sembra che sia inutile.

Bisogna continuamente ritornare a fare qualcosa che ci fa stare un po’ meglio, attingere alle scorte della bellezza, della tranquillità senza sentirsi giudicati. Credo che se costruirai queste condizioni, gradualmente potrai stare, se non bene, almeno un po’ meglio.

Stammi bene!

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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🔥💥🤒 Sono solo un asociale o sono le mie patologie a rendermi così? 🤕💔🚫

“Non è facile vivere da invisibili. Non c'è niente che si possa programmare davvero, perché non possiamo sapere quante sono le nostre energie. O meglio, sappiamo che saranno poche, ma quanto poche lo scopriremo vivendo di giorno in giorno, di ora in ora. E questo diventa un problema sia nel gruppo sociale in cui lavoriamo che, come nel mio caso, nel gruppo dei familiari di sangue.”

In questo episodio ti racconto il mio rapporto con gli altri, in particolare i gruppi di persone con cui ho avuto a che fare nella vita e come la malattia abbia cambiato questi rapporti.

[...]

Se preferisci ascoltare questo episodio (il n. 7), anziché leggerlo, puoi farlo qui:

Come esseri umani, tutti facciamo parte di un gruppo di persone: l'umanità, appunto, ma anche altri gruppi, anzi parecchi gruppi. Siamo animali sociali che spesso esprimono il meglio di sé quando fanno parte di un insieme di persone che hanno lo stesso scopo.

Che bello quando si sente di poter creare qualcosa con altri, creare qualcosa di più grande della semplice somma delle parti! Si prova una sensazione magnifica di inclusione, di potenza, di fratellanza, persino.

Oggi, da malato invisibile, mi è molto difficile sentirmi a mio agio come membro di un gruppo qualsiasi; uno di lavoro, ad esempio. Mi manca la sicurezza di poter dare il meglio di me.

Ma non è sempre stato così.

Nel 1990, ad esempio, vivevo ancora nel paese fra le montagne, a cavallo fra Toscana e Emilia, e avevo proposto ai miei pochi amici di suonare insieme. Era stato tutto molto spontaneo. Io avevo creato qualche motivetto con i pochi accordi che sapevo fare e Danilo, uno degli amici storici che frequentavo molto all'epoca, mi aveva dato una mano a sistemarli e a suonarli, facendomi nel frattempo ascoltare i suoi. Danilo aveva una voce squillante, a differenza della mia, e anche lui aveva una chitarra da suonare. Te l'ho dett; era il momento storico migliore per i chitarristi. Molti ragazzini volevano suonare quello strumento: erano gli anni degli AC⚡DC, dei Nirvana e dei Pearl Jam.

Ci divertivamo moltissimo, anche se io ero una schiappa con i testi. C'era un nostro amico, però, a Pontremoli, che era molto più in gamba di noi nell'arte di emozionare con le parole. Si trattava di Marco, e possedeva la chitarra acustica fantastica che avevo visto qualche settimana prima. Sapevo che gli piaceva scrivere poesie, oltre che strimpellare, e nel giro di poco tempo anche lui era entrato nel gruppo in maniera fisiologica e naturale. I testi che scriveva e cantava con la sua voce bassa e profonda ci avevano dato una grossa spinta a continuare.

Le canzoni fiorivano. Ora eravamo in tre, con tante possibilità in più di imparare l'uno dall'altro, di scambiarci suggerimenti di ascolto per scoprire nuova musica, aspirazioni e idee.

Dopo poco insistetti così tanto con i miei genitori che mi regalarono pure una chitarra acustica. Non li ho mai ringraziati abbastanza e quindi lo faccio adesso: grazie di cuore!

Se il dolore ai polpastrelli che avevo provato con la chitarra classica era già forte, quello provato con le corde in metallo della chitarra acustica era stato qualcosa di fuori scala. Erano più sottili e più tese; erano più vicine tra loro, quelle corde, e ci volle un bel po' ad abituarsi ad essere ancora più precisi, ancora più forti, ancora più determinati ad ignorare il dolore e andare avanti (una cosa che più tardi mi sarebbe stata davvero molto utile nella vita), ma era troppo importante per mollare. Dovevo andare avanti.

Ti racconto tutto questo per farti capire cosa potessero fare le mie mani e quanto era importante per me il suono della mia nuova chitarra. Mi piaceva tantissimo: potevo fare molte più cose e le mie dita diventavano sempre più forti, sempre più in grado di dosare la giusta quantità di forza in un punto piccolissimo per stringere le corde dove serviva e poi spostarsi velocemente sulla nota successiva. Un lavoro, insomma, di grande precisione che avrei continuato a fare ancora per molti anni.

Per la promozione in terza media, i miei cedettero di nuovo alle mie suppliche per avere una chitarra elettrica. Gliel'avevo chiesta fino allo sfinimento. Era ora di fare il salto di qualità, ma allora non mi rendevo conto che nel bilancio familiare una spesa di 650.000 lire era una grossa somma. Oggi me ne vergogno un po', ma in quegli anni questo fervore musicale mi stava dando un po' la testa. Mi sentivo sempre più importante, persino troppo, vista la situazione, e così mi sentivo in diritto di chiedere tutto, di avere tutto.

La mia nuova chitarra elettrica, tutta bianca, la comprammo a Parma in un pomeriggio di luglio del 1991. Senza sapere troppo di chitarre, avevo preso quella che mi piaceva di più esteticamente, pur restando nel budget. Ovviamente, con il suo piccolo amplificatore al seguito o sarebbe stata inutile per le mie mani. All'improvviso, si era aperto un nuovo universo di possibilità.

Questo strumento era un po' più facile da suonare; serviva meno forza per suonarlo, ma molta, moltissima precisione in più. I suoni distorti, infatti, se non sono suonati con una precisione maniacale, provocano soltanto un gran rumore, ma niente musica.

Anche per il nostro piccolo gruppo musicale si aprirono nuove prospettive, nuove possibilità di incastrare il suono di uno strumento con quello dell'altro. In breve tempo fu tutto un fiorire di chitarre. Anche Danilo ne prese una, una stupenda chitarra elettrica blu metallizzata, marca Fender. Ci divertivamo sempre di più suonando insieme a Marco, che continuava a sfornare testi su testi; insieme funzionavano bene. Dopo qualche mese, anche Lorenzo, un altro grande amico che viveva a Milano, si prese una chitarra elettrica. Era l'imitazione di uno strumento degli anni '60, con un suono fantastico quanto il suo colore rosso fuoco e un grande amplificatore adatto anche al rock pesante. Anche lui aveva scritto qualche canzone, guarda un po', e così lo inglobammo nel gruppo immediatamente.

Ognuno di noi aveva un'anima musicale diversa: chi amava la musica leggera italiana, chi il rock inglese e il pop, chi quello americano, chi il country e le ballate. Ciascuno portava un contributo e un punto di vista diverso al gruppo, e quello che nasceva era davvero qualcosa di più della somma delle parti: un genere unico. Eravamo al settimo cielo.

La prima crisi del gruppo arrivò qualche tempo dopo, quando ero già alle scuole superiori. Ci eravamo resi conto che c'erano davvero troppe chitarre e troppe voci nel gruppo, ma nessuno, giustamente, voleva fare un passo indietro. In particolare, io insistevo molto per fare un salto di qualità. Mi sentivo sempre più sicuro sullo strumento, stavo facendo progressi suonando i pezzi dei Nirvana, dei Deep Purple e naturalmente anche dei Pink Floyd. Essere in grado di suonare le canzoni dei miei idoli, che adoravo, mi dava tanta arroganza e sicurezza. Una cosa che ho notato solo a distanza di anni. Con i miei amici insistevo molto anche perché fossero d'accordo con me e per qualche ora siamo stati davvero a un passo dallo scioglimento. Non riuscivamo a trovare una soluzione. In quegli anni non c'era internet e WhatsApp, e le nostre discussioni duravano settimane, visto che ci vedevamo solo di sabato e di domenica. Per fortuna, la nostra amicizia non ne risentì, visto che poi facevamo anche molte altre cose insieme che stemperavano i toni. Si andava al fiume, a giocare a pallone, a fare le grigliate insieme nei boschi quando era stagione. Noi, in fondo, eravamo i “Crackers”, quel gruppo musicale così particolare che faceva tanti generi in uno. Finite le discussioni, si tornava più amici di prima, perché in tutti noi c'era la consapevolezza che potevano esserci dei dissapori, ma si doveva trovare una soluzione.

Mi piacerebbe poter dire la stessa cosa oggi, da adulto e ammalato invisibile.

Quanti gruppi ho incontrato nella mia vita! Ho cambiato lavoro un sacco di volte: nuovi gruppi, nuove regole e nuove consuetudini da cambiare tutte le volte e, in questo caso, obiettivi che non sempre sono condivisi da tutti i membri del gruppo. I gruppi dell'età adulta spesso sono spietati: tolleranza zero, pressioni e manipolazioni varie: o sei come noi, o non sei uno di noi.

Avrei potuto fare parte di tanti gruppi musicali, come poi è stato, ma nessuno di questi mi avrebbe mai preparato abbastanza ai gruppi sociali dell'età adulta. Anzi, avere sperimentato l'unione intima dei gruppi musicali è qualcosa che ti porta nella direzione diametralmente opposta: a fidarti completamente, cosa che nei gruppi di persone che frequento oggi non posso fare fino in fondo.

Sì, perché da malato invisibile c'è sempre una certa tendenza degli altri ad ignorare chi sono. Sarebbe bello poter dire che la malattia non è ciò che ci definisce, ma nella società della produzione, purtroppo, è esattamente quello che accade: o sei produttivo, o fai quello che il gruppo si aspetta da te e come il gruppo se lo aspetta da te, oppure sei un problema e non c'è spazio né per la creatività né per il rispetto delle difficoltà di chi è ammalato.

Anche i gruppi sociali convenzionali sono un problema. Faccio fatica a partecipare a tutte le attività proposte dagli amici, dai conoscenti e anche dai parenti più o meno stretti. “Ma perché non ci vediamo martedì alle 7 di sera? Dai, una pizza...”

Come faccio a spiegare per l'ennesima volta che le mie energie finiscono già alle 5 del pomeriggio, quando va bene? Altro che martedì sera!

“Ma perché non ci vieni a trovare? Prendi la macchina, parti e via. Ah, io, alla tua età... Sapessi cosa facevo!”

Eh, se solo potessi guidare più di un'ora senza mal di schiena e senza addormentarmi, forse lo farei. Forse tu alla mia età non avevi l'artrite, la fibromialgia e la psoriasi.

Non è facile vivere da invisibili. Non c'è niente che si possa programmare davvero, perché non possiamo sapere quante sono le nostre energie. O meglio, sappiamo che saranno poche, ma quanto poche lo scopriremo vivendo di giorno in giorno, di ora in ora. E questo diventa un problema sia nel gruppo sociale in cui lavoriamo che, come nel mio caso, nel gruppo dei familiari di sangue. Al gruppo che non ci capisce può sembrare che siamo sfaticati, che non ci interessi davvero quello che facciamo o che non siamo portati per farlo. So che tanti di noi, malati invisibili, hanno subito pesanti conseguenze sul lavoro a causa di questa enorme difficoltà di comprensione. Alla fine, noi malati invisibili sappiamo di essere soli anche in gruppo, anzi, spesso proprio in gruppo.

C'è una cosa che non sono ancora in grado di fare, nemmeno dopo tanti anni di vita: non generalizzare. È vero che noi malati invisibili facciamo fatica ad essere capiti e accettati in diversi tipi di gruppi, ma non dobbiamo neanche perdere la speranza. In fondo ci sono gruppi di persone davvero meravigliosi. Il gruppo musicale dei Def Leppard, ad esempio. Erano famosi negli anni '90. Il loro batterista perse un braccio in un incidente stradale, ma gli altri membri della band decisero di non sostituirlo. Attesero che si riprendesse e che imparasse a suonare quasi da zero una batteria modificata per essere suonata con un braccio solo. Wow! E se esistono gruppi come quello, allora c'è speranza che ne esistano di simili che possano capirci. Non dobbiamo perdere la speranza.

Nel frattempo dobbiamo fare un certo lavoro di pulizia, se mi passi il termine. Se un gruppo di persone non ci capisce, allora è inutile insistere: meglio abbandonarlo. Se possiamo, se ci è possibile, smettiamo di frequentare quel gruppo: continuare ci farebbe stare ancora peggio. E se non ci tuteliamo noi da soli, chi lo farà? Un consiglio che mi sento di darti è di non pensarci troppo, a costo di sembrare freddo, superficiale e maleducato.

Non abbiamo energie da perdere. Spostiamoci altrove. Nuove persone arriveranno, nuovi gruppi ci accoglieranno. Ci sarà sempre una nuova possibilità. Le persone che ci possono capire sono una su un milione, ma ci sono. Non smettiamo mai di cercarle, o la malattia ci avrà già sconfitti; ci trasformerà nei mostri che non siamo e che non dovremmo essere mai. E poi noi siamo tanti, tantissimi. Siamo in ogni gruppo. Siamo un gruppo. Troviamoci almeno fra di noi, nei commenti di questo podcast, nella pagina Facebook che trovi nella descrizione di questo episodio https://www.facebook.com/GridoMutoPodcast). Restiamo aperti a riconoscerci tra tanti invisibili, ma uniti, in qualsiasi gruppo sociale.

Ci sentiamo martedì, stammi bene!

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

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