Ochino

La verità di Ronald

So che non è un modo originalissimo di iniziare un racconto, ma è andata così, lo giuro… Questa storia me l’ha raccontata Ronald. Immagino che voi non lo conosciate, a meno che non bazzichiate spesso tra la Euclide Street e Colorado Ave. Se per caso lo fate, vi sarà capitato di vedere un omino con un panama che è stato bianco ma che ora, a vista, è di un cenere pallido con macchie multicolori sparse. Un po’ per lo smog che appesta quella zona, un po’ per il vezzo di Ronald di inchinarsi facendo la mossa di togliersi il cappello ogni volta che vede passare qualche bella figliola o qualche signora ben tenuta. E in più di 50 anni di stazionamento sui marciapiedi di Santa Monica di belle figliole e signore ben tenute ne ha viste passare una moltitudine! Comunque, qualche giorno fa mi trovavo all’altezza dell’11th, dove c’è il concessionario Audi (grandi macchine, quelle che vengono dall’altra parte dell’oceano!), e lo vedo seduto su una panchina a fumare la sua pipa di schiuma bianca. Ronny (perché è così che tutti lo chiamano) è orgoglioso della sua pipa bianca regalo, dice lui, di una gran dama di Long Beach. Racconta che la gran donna gliela regalò per ringraziarlo di quella volta in cui, lui era ancora giovane e scattante, riuscì a bloccare il ladruncolo che l’aveva scippata della borsa. Così la gran signora, sempre a suo dire, gli chiese come avrebbe potuto sdebitarsi per quel favore e lui, che non aveva mai fumato in vita sua, chiese lì per lì la pipa di schiuma che aveva visto quella stessa mattina nella vetrina del negozio all’angolo. Sono passati un mucchio di anni e la pipa è ancora in mano a Ronny. Non è più candida come il primo giorno (come il panama, del resto), ma ancora perfettamente in servizio. Sì, bisogna dire che Ronny e la pipa formano una bella coppia. Si potrebbe quasi dire, parlando di Ronny, che è ‘quello della pipa bianca’. E allora, vedo Ronny sulla panchina e poiché la mia pausa pranzo dura quanto voglio io (giacché fare il rappresentante di barattoli di marmellata ha anche questo vantaggio) decido di fermarmi un po’ con lui. “Ronny!” gli urlo, avvicinandomi alla panchina. “Mitch!” mi risponde Ronny, facendomi un po’ di spazio accanto a lui. Meno male che ho imparato a non fare troppo lo schizzinoso, vivendo soprattutto per strada a causa del mio lavoro, altrimenti sedere dove fino a un attimo prima c’erano resti di burritos e hamburger non sarebbe stato igienico per i miei calzoni color sabbia. Così ho poggiato il Santa Monica Mirror, appena acquistato alla macchinetta L.A. Press, sulla panchina e mi sono seduto. Ronny mi omaggia di uno dei suoi sorrisi più sinceri e mi chiede come va. “Non c’è male” rispondo “e a te?”. “C’è il sole, la pipa è piena e ho appena fatto un lauto pranzo. Che voglio di più!” Un auto sgomma all’incrocio e Ronny fa la faccia contrariata e comincia: “Sempre di corsa, la gente… Che poi, dove va? Le cose vanno come devono andare: sei in ritardo? Ci sarà un motivo. Tu non lo sai, ma un motivo c’è! E deve essere anche un buon motivo, perché la tua vita cambierà…” “Sei sul filosofico, stamattina.” “Maaah! Oggi… ecco, guarda quella dell’altro marciapiede” e mi indica una donna sulla 50ina con una paio di zatteroni alti 20 centimetri e una parrucca rosso fuoco, “ti pare normale quella? No! Se poi cade…” La donna barcolla per un attimo, cerca di afferrarsi all’uomo che gli passa accanto e cade. “Portassi jella?!” dico a Ronny. “Ma quale jella! È normale che a quell’età non ti puoi reggere in piedi su scarpe come quelle! Il mondo è sbagliato, caro Mitch! È tutto sottosopra! Ti faccio un esempio: conosci la storia di Learco Orsini?” Ed è a questo punto che mi racconta la storia che volevo condividere con voi. Se avete voglia e qualche minuto di tempo, ve la racconto. Learco Orsini era figlio di Werter Orsini e di Janet Blakey, nato e cresciuto a Dallas, come i genitori. Werter, anche lui cresciuto a Dallas, era figlio di Learco Orsini – il senior, arrivato da Novafeltria, in Italia, nel primo decennio del secolo scorso. Learco senior aveva saputo della bomba atomica quando ormai si considerava americano a tutti gli effetti, perché l’America l’aveva accolto, gli aveva dato un lavoro, fatto dimenticare -forse- le sue colline romagnole. A Quinlan, pochi kilometri dal lago di Tawakoni e da Waco Bay, aveva conosciuto Wilma Sergenti, figlia di immigrati come lui, emiliana (a Learco non gli interessava che non fosse romagnola: con quegli occhi poteva essere pure prussiana!) e dell’età giusta per metter su una bella famiglia all’italiana. Nonostante i buoni propositi di entrambi, dal matrimonio era venuto solo Werter, per motivi che nessuno seppe mai veramente. Ci furono molte dicerie e indiscrezioni, specie sulle prestazioni di Werter, tanto che dopo qualche anno la famiglia si trasferì a Dallas, lontano da tutto e da tutti. Il lavoro di Werter ingranò bene e Learco junior poté crescere agiatamente, frequentare buone scuole (anche se non le migliori) e avere un giro di amici tranquilli e sempre con qualche dollaro in tasca come lui. “Questa è una bella storia. Dove sta il mondo sottosopra?” gli chiedo. “E infatti è proprio qui che comincia a sgretolarsi tutto” risponde Ronny. Il crollo iniziò quando Werter e Wilma morirono a distanza di poco tempo, quando Learco aveva all’incirca 40 anni, continuò a raccontare Ronny. Werter aveva un bel negozio di statuine di gesso che produceva lui personalmente, facendole a mano nel retrobottega, dove aveva anche un bel forno per ceramica che affittava ad ore a chiunque ne avesse bisogno. “Anche Learco… “ riprese Ronny. L’interruppi perché era da un po’ che volevo chiederglielo: “Ma lo chiamavano proprio così: Learco, il figlio? Cioè, voglio dire, non è un nome comune qui… “ Ronny fece un mezzo inchino ad una ragazza che, passando, gli aveva sorriso. Poi tornò a me. “Certo che no! Tutti lo conoscevano come Lemmy, forse a causa di quel film con Lemmy Caution, l’investigatore privato. Learco, dicevo… “ “Lemmy, vuoi dire… Mi si appiccica il cervello solo a sentirlo quel nome… “ “Ok. Lemmy… “ E mi racconta di come Lemmy aveva dilapidato il patrimonio di famiglia in poco tempo. In effetti modellare e muoversi tra le statuine di gesso e ceramica che il padre gli aveva lasciato in eredità come lavoro non aveva motivato Lemmy a fare salti di gioia. “Vendere souvenir e bomboniere non faceva per lui, diciamo la verità. E poi per gli affari bisogna esserci portati. Lemmy, invece… bah, lasciamo stare! Pian piano nessuno cominciò a pagare l’uso del forno con la scusa che gli affari gli andavano male. La qualità delle sue statuine, poi, non era nemmeno lontanamente simile a quella del padre; così che Lemmy decise di non produrle più da sé ma di acquistarle da altri.” Ma in tutti questi passaggi, le spese diventarono ben presto più degli incassi e il conto in banca cominciò a soffrire. “Ora, non so se tu conosci Jeffrey Duck…” dice Ronny. “Chi è che non conosce Jeffrey la Papera! Lo strozzino! Aspetta… mi vuoi dire che Lemmy si rivolse a lui?” “Essì, andò proprio così. Cioè: non subito ma… fammela raccontare come la so!” Ronny si stava accalorando: era meglio lasciarlo andare alla sua velocità. “Bisognava pagare i fornitori, le bollette elettriche, mantenere la famiglia… e ti assicuro che Emily non aveva proprio la mano della donna di casa.” “Ora chi è Emily?” lo blocco. “Hai ragione, non te ne ho parlato. Emily era la moglie di Lemmy. O meglio: era la donna che sposò Lemmy quando ancora Lemmy era il figlio, e soprattutto l’erede, di Werter. Non so se mi sono spiegato…” “Beh, sì, certo. Diciamo che Lemmy sposò Emily, ma che Emily sposò i soldi di Werter.” “Vedo che sei sveglio, Mitch!” “Messa così non ci vuole molto a capire.” Ronny si lanciò in tutta una serie di storie e storielle su Emily, sul suo amore per le cose belle e costose, per le feste di un certo livello e per i ragazzoni muscolosi. “Ma avrà avuto almeno 50 anni a quel tempo!” dissi, intuendo comunque l’andazzo della storia. “Certo! Ma Emily sapeva come spargere miele vicino a lei. Peccato, però, che le api che le ronzavano attorno, non erano della migliore qualità. E una di queste fu proprio Jeffrey la Papera.” “Quindi Lemmy si rivolse a lui per pagare i debiti?” “No! Almeno: all’inizio no, fu Emily che si faceva mantenere gli sfizi e gli sfarzi da Jeffrey ma coi soldi di Lemmy.” “No, aspetta, qui non ci arrivo…” “Per questo ti dicevo che il mondo va alla rovescia!” E inizia a raccontare di come Emily frequentasse locali notturni con Jeffrey facendo mettere tutto in conto al marito il quale, naturalmente, non ne sapeva niente. “E come mai i locali mettevano in conto a uno che non avevano mai visto né sentito? Non ha senso?!” “Perché c’era Jeffrey! E quando Emily diceva: segna a nome di Lemmy, e vicino aveva la Papera, era come una garanzia per loro.” Finché un giorno i conti da saldare cominciarono ad essere pesanti e qualcuno volle sapere chi fosse e dove abitasse questo Lemmy Orsini. “E qualcuno andò a trovarlo…” dico. “Esatto. Avresti dovuto vedere la faccia di Lemmy quando si presentò in negozio un tipo con una giacca troppo gonfia sotto l’ascella e la mano troppo grossa per essere uno che maneggia statuine in gesso. Lui dapprincipio non ci capì niente di quello che l’uomo gli stava raccontando, e come poteva! ma poi gli si accese una lampadina e gli si spense la voglia di ridere.” Così Lemmy chiese qualche giorno per capire cosa fare e andò a parlare con Emily. La quale non gli diede tante spiegazioni, ma disse semplicemente: “C’è da pagare, e se non hai i soldi è meglio che te li fai dare da qualcuno.” A questo punto la stessa Emily tirò fuori il nome di Jeffrey Duck e ci fu la quadratura del cerchio. La vendita del negozio bastò a malapena per pagare i conti dei locali di Emily, gli interessi della Papera e i debiti dell’ormai moribonda attività di statuine in gesso. “E ora che fine ha fatto Lemmy?” chiedo. Ronny si accende la pipa e fa un paio di tiri. “Lemmy è morto, 3 o 4 anni fa. L’ho incontrato qualche volta fuori dai supermercati a raccattare qualcosa da mangiare e soprattutto da bere. Ho sempre detto che puoi mendicare e dormire sotto i ponti, ma bere: mai! Ti toglie l’onore e la rispettabilità!” e si volta a farmi uno dei suoi sguardi pieni di dignità. “E Emily?” “Emily ebbe ancora un paio di anni di buono, se capisci quello che voglio dire. Fece coppia fissa con la Papera ancora un po’ dopo il fatto di Lemmy; poi Jeffrey la passò ad un suo scagnozzo che stava facendo carriera e alla fine sparì dalla circolazione. Pare che anche lei tiri a vivere da qualche parte vicino a Santa Monica.” Ronny si poggia soddisfatto alla spalliera della panchina. Io guardo l’orologio e penso sia l’ora di riprendere il mio giro coi barattoli della marmellata. Ho solo un ultimo dubbio. “Scusa, Ronny, ma tu come fai a sapere tutte queste cose, fin nei minimi dettagli…” “Non le so, le immagino. Ma se le cose sono andate così è una bella storia, vero?” e mi sorride soddisfatto!

Inizio

“Si unisca la mia anima alle anime di ogni essere senziente sulla Terra e nell’Universo intero, perché vadano ad unirsi all’Anima del Cosmo che è Dio, che ogni cosa ha generato e genera e da cui ogni cosa discende.”

Imparare a sentire col cuore il vento, l’odore del mare, lo sciabordio delle onde sulla battigia è il primo, indispensabile, passo per fluire da una vita all’insegna del materialismo e dello scientismo (in cui domina la dea ragione) ad una in cui si inizia a vivere come abitanti del pianeta e di questo universo, UNO con tutta la materia vivente e no. Dio è l’Uno. E all’Uno diamo il nome di Dio. Dio è Colui che dagli uomini di tutte le culture e di tutti i tempi viene percepito come Colui che ha creato ogni cosa e che la governa con amore. Tutto ciò che esiste viene da Dio. Forse noi chiamiamo Dio tutto ciò che esiste perché dobbiamo darci una spiegazione all’esistenza del tutto. Ma non importa. Io concordo con ciò che lo psicoanalista e filosofo Carl G. Jung scrisse all’amico Pauli il 4 maggio 1953: “Tutto ciò che ho appreso nella vita, mi ha portato passo dopo passo alla convinzione incrollabile dell’esistenza di Dio. Io credo soltanto in ciò che so per esperienza. Questo esclude la fede. Dunque io non credo all’esistenza di Dio per fede. Io so che Dio esiste.” Quindi si può fare esperienza di Dio. Ma è un’esperienza che non si concentra in un singolo atto, in una singola misurazione sperimentale e scientifica, bensì abbraccia tutta la vita, nel tempo, nello spazio, nella profondità della mente e dell’anima. Pensare che esiste solo ciò che può essere visto sotto un microscopio e misurato con un’equazione è già di per sé un errore o fonte di errore. Dire Dio è l’Uno significa che in lui non c’è divisione, quindi non c’è dualità; e se non c’è dualità tutto è perfetto, buono, tutto è positività, e questo è quello che io chiamo: Amore. Dio è potenza e atto: è la capacità di agire e l’azione insieme, in lui non c’è distinzione tra queste due cose; Dio vuole fare una cosa e allo stesso tempo la fa. È l’Uno che agisce in innumerevoli modi e tempi contemporaneamente, poiché è il Tutto. In Dio non c’è divisione né opposizione né contrasto, perciò quando parliamo di manifestazioni diverse di Dio (ad esempio quando i cristiani parliamo di Padre Figlio Spirito) sono solo i nomi diversi che siamo costretti a dare allo stesso e unico Dio a causa della nostra incapacità di immaginare con i sensi umani e definire con le parole l’Unità originaria. Anche gli angeli sono Dio: sono quell’espressione di Dio che noi percepiamo come messaggeri dell’Unità. Anche noi facciamo parte dell’Unicità che è Dio, ne siamo una particella che, per motivi che non conosco e che non è importante conoscere, ha preso un corpo fisico. Quest’evoluzione durata millenni ci ha allontanato sempre più dall’origine, ha inquinato la purezza della forma primitiva che ha dovuto assumere un corpo per poter vivere in un ambiente come quello terreno. Tuttavia in ognuno di noi continua ad esistere la cellula celeste, il seme d’amore, la via della verità. In ogni uomo esiste l’anelito all’amore e al bene. Anche in chi lo cerca nella violenza, nella droga, nell’abbrutimento fisico, spirituale, psicologico. Insomma tutti vorrebbero stare bene e in pace. Il problema è che nessuno ha mai saputo indirizzare queste persone sulla via giusta, e loro hanno scelto (per stare e vivere bene) una strada sbagliata, quella del ‘mondo’, per usare le parole di Gesù. È un bene che il ‘mondo’ attuale stia crollando, che le ricchezze, gli agi, l’abbrutimento dovuto a droghe, alcool e potere, stia svelando la parte peggiore dell’uomo, perché è ora che l’umanità tolga la maschera al male, sveli la trama del maligno, capisca di cosa è fatta la strada verso la perdizione e la morte. Non so se le particelle di Dio sono arrivate su questa terra e qui si sono dovute adeguare all’ambiente circostante o hanno trovato corpi già presenti e li abbiano abitati; se Dio stesso li ha messi, fatti e finiti, qui. Ma anche i corpi umani (come anche questa Terra o i pianeti e le galassie lì fuori nello spazio) sono emanazione di Dio, se Dio è l’Uno ed è il Tutto. Perciò ogni cosa è manifestazione diversa, ai nostri occhi e alla nostra mente, dell’essere omnicomprensivo che chiamiamo Dio. La nostra difficoltà di uomini è quella di non riuscire a contenere in un nostro pensiero cosciente questa realtà omnicomprensiva. Ma abbiamo la prova che Dio è in noi, come particella, quando sappiamo, in una parte di noi stessi che chiamiamo profondo, che quest’Essere Uno e Unico esiste e sentiamo la nostalgia di esser(ci) separati da lui. Questo sta alla base di quella ricerca costante e mai definitiva che chiamo Fede.

BREVE STORIA DI ENZINO, CHE VOLEVA AMMAESTRARE LE PULCI

Le aveva chiamate Maria Rosa, Berenice e Graziella, come le sue tre nonne. Fino agli 11 anni non si era nemmeno mai posto il problema del perché lui avesse tre nonne e tutti gli altri due. Né in verità si era mai chiesto come mai portasse i calzoncini corti anche a scuola. Almeno fino al giorno in cui i due occhi neri neri della ragazzina del secondo banco l’avevano fissato mentre addentava affamato la sua mela scrocchiosa. E allora aveva capito che fuori dalla sua testa esisteva un mondo che poteva essere diverso dal suo, forse più colorato o forse più monotono, ma comunque diverso. Maria Rosa era la mamma di Cristina, sua madre. Berenice e Graziella erano le mogli di suo nonno Nicolino. Nonno Nicolino arrivava, spesso, alla domenica pomeriggio a casa sua e Cristina preparava il caffè e metteva sul tavolo qualche biscotto Atene in un piatto bianco che prendeva da sull’acquaio. Non come quando arriva nonna Maria Rosa con Giuseppe, perché allora tirava fuori le tazzine e i piattini dalla credenza, quelli col bordo d’oro zecchino, preparava il the come aveva imparato non ricordava da chi (ma veniva buonissimo!), e metteva in tavola la torta che aveva cotto al mattino. A ripensarci non aveva mai visto i cinque nonni insieme, neanche a Natale o per qualche altra occasione speciale. Un giorno aveva pensato che, però, tutto questo non era giusto, questa disparità, ma non aveva mai chiesto niente perché capiva che erano cose da grandi. Poi ai suoi tredici anni aveva ricevuto per il compleanno un bel dizionario della lingua italiana, con tantissime parole spiegate per bene. Appena poté andò in camera sua e cominciò a sfogliarlo con una fame che veniva dal cervello invece che dalla pancia. E d’un tratto lesse “bigamo” e capì che, forse, quella parola poteva andare bene per nonno Nicolino. Ormai era grande, se gli avevano regalato quel bel dizionario e andava a scuola coi pantaloni lunghi come tutti gli altri, così pensò che era arrivato il momento di parlare da grande coi grandi. Perciò una sera aspettò che suo papà tornasse da lavoro, cenasse e sedesse sulla sua poltrona di similpelle rossa. “Papà” disse con tono il più rispettoso possibile, “perché nonno Nicolino viene qui con due mogli e nonno Giuseppe ne ha una sola?” Suo padre lo guardò come se non avesse capito le parole che Enzino aveva appena pronunciato. Fissò il televisore ancora spento, poi diede al figlio un ceffone, ma non forte come le altre volte. Quindi prese il telecomando e accese l’apparecchio in tempo per l’inizio del TG delle 20,30. Enzino capì che suo padre non ce l’aveva veramente con lui. Che per quella volta non aveva fatto nessuna marachella che andasse punita. Era solo che non gli andava di rispondere, per qualche ragione che lui non conosceva ma capiva che era importante, perché per tutta la durata del TG il suo papà non fece nessun commento, come invece era solito. Se quella sera suo padre non ce l’aveva con nessun politico né col papa, voleva dire che la sua domanda era stata più importante. Enzino teneva le tre pulci, quelli coi nomi delle tre nonne, in una scatola di legno. Quando suo cugino Giannino gliele aveva regalate si era raccomandato di tenerli bene perché, aveva detto, ogni bambino si giudica dalla cura che mette nelle sue cose. Così era andato in cantina e aveva trovato quella scatolina che poteva fare al caso suo. L’aveva colorata con le tempere ma non aveva scritto i nomi dei tre animaletti, perché gli sembrava poco rispettoso verso le nonne se qualcuno l’avesse trovata. All’inizio passava lunghi pomeriggi a fissare le pulci, a cercare di distinguerle tra di loro, ma per quanto si sforzasse era riuscito solo a capire che due litigavano sempre, dandosi zampettate in testa l’un l’altra, mentre la terza se ne stava in disparte. Così chiamò quella solitaria Maria Rosa e alle altre due diede il nome delle mogli di nonno Nicolino, perché anche loro battibeccavano in continuazione, per ogni più piccolo motivo. Enzino provava a parlare con i tre animaletti, però non era sicuro che loro capissero o anche solo lo stessero ad ascoltare. Tutti i giorni, comunque, passava un po’ di tempo con loro, ma non molto più come prima, perché ora gli studi erano più impegnativi e lo distraevano dalla missione che si era dato sin dal primo giorno: ammaestrarle per bene fino a potersi presentare in pubblico e mostrare la sua bravura. Quando ormai era cresciuto abbastanza da perdere il diminutivo e diventare per tutti Enzo, un giorno fissando Maria Rosa, Berenice e Graziella gli venne spontanea una domanda: ma quanto vivono le pulci? Cioè: è normale che tre esserini così piccoli siano vissuti per tutti questi anni? E si rispose che, evidentemente, la natura (di cui aveva grande rispetto) sapeva quello che faceva. Il tempo trascorreva e i suoi sforzi di insegnare alle tre pulci a saltare a comando non davano frutti; tuttavia Enzo continuava ogni giorno a tirare fuori dalla scatolina di legno per una nuova lezione, anche se sempre più breve. Ormai aveva la sua bella targa d’ottone sulla porta di casa, che annunciava a tutti che l’avvocato era pronto ad assistere chiunque avesse bisogno della sua perizia professionale. Poi un giorno Berenice (o Graziella?) rimase nella scatolina quando il coperchio fu tolto, ed Enzo capì che il suo tempo era arrivato. La prese con delicatezza, se la mise sul palmo della mano sinistra e la guardò a lungo per essere sicuro che non si muovesse più. Allora afferrò le altre due, le mise vicino alla prima e, senza darsi tempo di pensare, batté una mano sull’altra, con forza. Maria Rosa, Berenice, Graziella ed Enzino non c’erano più. Gli rimase tuttavia un dubbio: le pulci possono essere ammaestrate? O era semplicemente lui che non c’era riuscito?

Qui ed ora Scrivo queste note per rabbia e con rabbia. Non una rabbia improvvisa e immediata, ma una rabbia meditata. La rabbia di chi vive in una società dove, ormai da tempo, si è prodotta una ferita che via via si è cronicizzata. Questa ferita si chiama: il partito preso. O, meglio detto, il prosciutto sugli occhi. Sì, è vero che il mondo è sempre stato così, dai tempi di Dante Alighieri con i guelfi e i ghibellini, e anche prima. Ma questo non vuol dire che sia giusto e normale così. La realtà non è più indispensabile per emettere un giudizio, perché basta accodarsi al proprio gruppo (spesso: il proprio branco) per avere un’idea sulle cose. Io invece ho sempre voluto guardarla in faccia la realtà prima di giudicare. E se non ho potuto fare questo, non ho espresso il mio parere. D’altra parte il mio parere non conta per nessuno, non sposta di un nano millimetro l‘ago della bilancia della storia. Oggi alcune cose non si possono dire perché, citando Jannacci e Dario Fo: sempre allegri bisogna stare, che il nostro piangere fa male a Re. Fa male al Re sentirsi dire che le due tredicenni violentate a Caivano NON dovevano stare lì. Che qualunque animale femmina protegge i propri cuccioli, specie quando potrebbero essere in pericolo per la presenza di animali predatori (il ‘branco’ di altri minorenni che hanno usato la violenza). Due tredicenni non hanno il diritto di andare in giro a fare quello che vogliono, come non ce l’ha il branco di altri minorenni. Perché il mondo non è quello che dipingiamo: “come dovrebbe essere”, ma è “come è nella realtà”. È colpa delle bambine se sono state violentate? Certo che no! È colpa invece della nostra società, che non dice alle mamme e ai papà delle bambine che non le si possono abbandonare a se stesse. E non dice alle mamme e ai papà del branco violentatore che devono controllare i propri figli. Eh… , si dice, ma quella è una situazione di degrado… A maggior ragione due bambine non si lasciano sole in una ‘situazione di degrado’. Non dire a due bambine che là fuori ci sono dei pericoli, e che dai pericoli ci si difende anzitutto non andando là fuori e che, se proprio ci si deve andare, bisogna evitare ogni possibile avventatezza, vuol dire condannarle ad essere marchiate, psicologicamente e fisicamente, per tutta la vita. Lo scrivo di nuovo: il mondo non è quello che dipingiamo: “come dovrebbe essere”, ma è “come è nella realtà”. Anche a me piacerebbe poter vivere nel giardino dell’Eden, dove passeggiare tranquillamente e conversare amabilmente con tutti quelli che incontro. Ma io ho paura, a 63 anni! a passare da una particolare strada per tornare a casa se sono passate le 19.30, perché a quell’ora quella particolare strada diventa campo esclusivo di due bande di violenti che un giorno sì e l’altro pure, si affrontano con coltelli e cocci di bottiglia anche solo per stabilire chi deve sputare a terra e chi no. E infatti non ci passo. Forse che dico: “ma io ho il diritto a passare, per non allungare di 10 minuti il cammino verso casa!”?. No. Semplicemente non ci passo perché la realtà è quella che è. E non voglio finire in ospedale (se mi va bene) solo per poter poi dire: ma io devo essere libero di fare quello che voglio. L’erba voglio esiste solo nel giardino del Re. E non bisogna far piangere il Re. E allora: che il Re si tenga il suo giardino, che io mi tengo la mia vita. E quando avrete costruito un mondo perfetto, chiamatemi, se non sarò già passato a miglior vita.

#noblogo #società #Caivano #diario #26agosto2023

I figli so' piezz'e core. Quasi sempre.

Non voglio fare del populismo o del complottismo. Voglio solo raccontare una storia, anzi due. Neymar, calciatore brasiliano di 31 anni (quindi, per gli standard di un attaccante, ormai agli sgoccioli di carriera) guadagnerà all'Al Hilal, squadra di calcio saudita, 100 milioni di euro l’anno. Vivrà in un palazzo con 25 stanze, piscina 40x10 metri e tre saune. Avrà cinque operai a tempo pieno, un aiutante di cucina per il suo chef personale e due addetti alle pulizie. In ogni momento potrà contare su un secchiello pieno di succo di Açai (non chiedetemi cos’è), la sua bevanda preferita. Potrà contare su una Bentley Continental GP, una Aston Martin DBX, una Lamborghini Huracán, quattro Mercedes G Wagon, un SUV e un furgone, sempre Mercedes. Per queste auto avrà a disposizione un autista 24 ore su 24 tutto l’anno. Naturalmente quando vorrà spostarsi più velocemente schioccando le dita avrà un Jet privato. E non pagherà un centesimo per tutte le sue attività ricreative in giro per il mondo. Infine, si fa per dire, ogni volta che in un suo post social nominerà l’Arabia Saudita, riceverà un premio di più di 500.000 euro. Ultimo ‘bonus’: in un paese in cui le donne sono considerate oggetti ingombranti (non parlo del ‘paese ufficiale’, quello che ha ingaggiato Neymar per rifarsi una facciata col mondo, ma di quello reale) e dove un uomo non può stare nella stessa casa con una donna se non è sua moglie, Neymar (come già Ronaldo) potrà convivere nel palazzo da 25 stanze con piscina con quella che noi occidentali chiamiamo ‘la sua compagna’. Questa è la prima storia. La seconda è quella di “Moses” (lo chiameremo così), un bambino ugandese di 5 anni, colpito da polmonite, una malattia che qui da noi si cura più o meno come un semplice raffreddore (se non ci sono complicazioni…). Moses potrà essere ricoverato in un ospedale, se ce ne sono nella sua zona; e lì potrebbe essere curato con i normali antibiotici, se nell’ospedale ce ne sono a sufficienza. Moses, però, ha anche bisogno di ossigeno per respirare e l’ossigeno (in Uganda come in tutti i paesi che chiamiamo ‘poveri’ quando vogliamo dire: in fondo sono destinati a fare questa fine… non è colpa nostra se siamo nati in Europa…) costa molto. Quindi difficilmente Moses potrà averlo per respirare, sempre se avrà trovato l’ospedale che lo cura e se in quell’ospedale ci sono antibiotici a sufficienza per tutti. Fine della storia. Ci trovate del populismo nell’aver narrato queste due storie? Pensatela come volete. Io ci vedo solo la realtà, cruda, cattiva, ingiusta. Non perché la realtà è cruda, cattiva e ingiusta di per sé, ma perché noi la facciamo diventare tale con i nostri comportamenti, anche mentali. P.S.: Neymar ha due figli, e spero per loro che non si prendano mai la polmonite mentre si trovano in terra d’Africa. Anche se penso che tra i ‘bonus’ il previdente padre avrà fatto inserire il fatto che per le cure mediche della famiglia penserà a tutto il suo datore di lavoro, lo sceicco proprietario dell’Al Hilal.

#società #calcio #Neymar #bambini #diario #17agosto2023

Un gregge da mettere in salvo

“Osserva il gregge che pascola davanti a te: non sa che cosa sia ieri, che cosa sia oggi: salta intorno, mangia, digerisce, salta di nuovo. È così dal mattino alla sera e giorno dopo giorno, legato brevemente con il suo piacere ed il suo dispiacere, attaccato cioè al piolo dell'attimo e perciò né triste né annoiato...”. Così scriveva Nietzsche più di un secolo fa. Ora ripensate a tutti i messaggi dalla pubblicità, dai talk show, dai reality che ci ammorbano dalla TV odierna. Io non ci vedo differenza. Produco telefonini? E allora ti faccio vedere gente vestita all’ultima moda, fisicamente perfetta, coi capelli al vento e, soprattutto, felice. Perché è felice? Perché ha in mano l’ultimo modello di telefonino, quello che si piega, si mette in tasca (vedi come è facile, comodo? non lo vorresti anche tu?). E cosa fa questa gente? Salta intorno felice, con in mano il telefonino che ha acquistato (mangiato). E che poi digerirà appena tra qualche mese uscirà il nuovo modello e comincerà a saltare di nuovo. Siete gregge, è inutile negarlo. Gregge di un pastore di morte che vi tiene legato al piolo dell’attimo che lui stesso ha creato. Cosa potrebbe scioglierti da quel piolo? La cultura, lo studio di ciò che è stato prima di te, la storia (che si ripete) dell’uomo fino ai tuoi giorni. Ma questa non te la darà nessuno, perché nessun governo ti metterà un’arma pronta a sparare contro i suoi stessi interessi. Almeno così è stato finora. In “Fahrenheit 451”, di Ray Bradbury, la nuova umanità (anzi la vecchia, perseguitata dalla cultura del gregge attaccato al piolo) si ritira nei boschi a ripetere a memoria (e insegnare ai neofiti) i testi dei classici della letteratura che narrano la storia del mondo. Ma quando una bomba atomica viene sganciata sulla città, il protagonista coi suoi compagni, torna verso di essa per prestare soccorso ai sopravvissuti, per poter essere utili alla società e aiutare a ricostruirla. Il vero rivoluzionario vive della sana tradizione che si nutre della cultura classica, di qualunque tipo, e sa che deve essere sempre pronto a soccorrere l’umanità incatenata da un telefonino e da uno shampoo ristrutturante.

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I limiti che aiutano a vivere meglio

L’esagramma 60 ha per titolo “I limiti”. È composto dai trigrammi ‘il lago’ (sotto) e ‘l’abisso’ (sopra). L’immagine recita così: “Al di sopra del lago vi è l’acqua: l’immagine della delimitazione.” Perché l’acqua dei due segni (il lago è fatto di acqua così come l’abisso) non si mescola? Perché c’è un limite tra di loro. L’acqua placida e tranquilla del lago resta separata da quella turbolenta e oscura dell’abisso. Oggi abbiamo perso il senso del limite. Ci stanno insegnando che non devono esistere limiti nella vita e alla vita. Il limite è diventato un nemico da combattere e abbattere. E invece il limite è importante, perché ci individua, ci dice: io sono questo e non quello, io ho queste capacità e possibilità e non altre. E se agissi nella vita con le caratteristiche di questo ‘altro’ sperimenterei il fallimento. Capire e rispettare il proprio limite è segno di coscienza e saggezza; significa conoscere se stessi. È vero che l’acqua troppo cheta e ferma diventa alla fine stagnante e mortifera, ma c’è sempre (nella contaminazione) l’esigenza di preservare quel nucleo che rappresenta il ‘chi sono io’.

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Un momento che è una vita

Qual è lo scopo della vita? Fare quello che sto facendo in questo momento. Come le piante, che danno ossigeno all’uomo, e riparo al viandante e al passero e lo fanno mentre vivono, mentre esistono piantati in un prato o sul ciglio di una strada. Anzi lo possono fare ‘perché' vivono. Il loro scopo è: essere una pianta. Lo scopo della vita dell’uomo è: esistere (da ex-sistere: porsi fuori , quindi individuarsi), “vivere”. E mentre si vive si svolgono tutte le azioni (buone e cattive) della vita umana. D’altra parte non abbiamo che questa vita, questi anni, questi giorni, questi attimi; non di più e non altri. Far trascorre un momento senza la consapevolezza che è unico, è aver buttato parte della nostra vita. Non possiamo infatti aggiungere neanche un momento al totale dei nostri giorni: “Chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un'ora sola alla sua vita?” (Vangelo di Matteo 6, 27). È il Sacro Fondo Originario che chiede di essere considerato: mentre vivo, lo manifesto; e manifestandolo do uno scopo ai miei giorni: “In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (Libro degli Atti degli Apostoli 16,28)

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Ci hanno fatto perdere le parole

La società moderna ci sta togliendo le parole e ce ne sta stravolgendo il senso. Secondo uno studio di un paio di anni fa, negli anni in cui io facevo il liceo (ormai più di 45 anni fa!) un giovane che faceva la maturità conosceva e usava correntemente e correttamente una media di 1500 parole; oggi siamo scesi a circa 600, e c’è chi parla addirittura di meno di 300. In questo senso Georges Orwell (con “1984”) e Ray Bradbury (con “Fahrenheit 451”) ci hanno raccontato di come tutti i regimi hanno sempre ostacolato il pensiero, proprio attraverso una riduzione del numero e del senso delle parole. Infatti non c'è pensiero senza parole e se non esistono pensieri, non esistono pensieri critici. E il regime ha gioco facile. Meno parole e meno verbi implicano anche meno capacità di esprimere le emozioni e meno possibilità di elaborare un pensiero. Come conseguenza se non sai esprimere le tue emozioni, ti resta solo un modo per farti strada nella vita: la violenza. Più povero è il linguaggio, più il pensiero (in specie critico) scompare. Più il pensiero scompare, più il potere del regime non ha avversari. Più il potere non ha avversari, più il senso stesso della democrazia viene a mancare. E noi restiamo in mano ai pubblicitari e ai produttori dell’’intelligenza artificiale’.

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Una rivoluzione che abbia senso

La vera rivoluzione deve partire sempre dal basso, anzi da dentro.

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