La salsa di pomodoro (” 'A cunsevr “)

Dalle mie parti, in Campania, ad Agosto gli indigeni hanno la buffa abitudine di farsi la salsa di pomodoro da soli. E' una tradizione che sta morendo ma tuttora è molto diffusa. La scena si svolge sempre in un cortile. Vi descrivo come funziona questa tortura.

Tutta la famiglia deve svegliarsi all'alba, tipo le 4 del mattino, praticamente prima del gallo, il quale si sveglia di soprassalto e inizia a cantare per la rabbia, seguito a ruota dagli altri galli dei pollai nel raggio di 10 km. I galli hanno la strana abitudine di fare a gara a chi canta più forte, indi per cui alle 4 del mattino viene provocato un concerto in “chicchirichì” maggiore, che “è arrivato l'arrotino” scansate proprio.

La prima attrezzatura da sistemare è il “bruciatore” con la bombola di gas. Trattasi di un grosso fornello con un treppiede, dove si poggia “a' tiana”, una pentola gigante, con la quale si faranno bollire i pomodori. Qui, in ogni casa, c'è sempre la saggia frase del nonno, il quale sta sveglio da 2 ore prima e posizionato in modo strategico per guardare tutto il procedimento: “Circate e non v'abbiccià cu stu cos” (Cercate di non bruciarvi con questo coso). A cui segue la altrettanto famosa frase della capofamiglia (Il bruciatore lo accende sempre la madre): “Nun te preoccupà, io teng 'e man e ternit” (Non ti preoccupare, ho le mani di ethernit). Una volta superata più o meno indenne la fase esplosiva della fiammata iniziale, si riempie il pentolone di acqua e si aspetta che bolla.

Una volta che l'acqua è arrivata a 100 gradi, si scaraventano dentro i pomodori, direttamente dalla cassetta. E qui la seconda frase del nonno: “Circate e non v'abbiccià cu ste pummarol” (Cercate di non bruciarvi con questi pomodori), seguita dalla altrettanto famosa frase della madre (I pomodori nell'acqua bollente li mette sempre la madre): “O' nò, si parl natu poc, te ce votte pure a te inta a tiana” (Nonno, se parli ancora butto anche te nel pentolone).

Una volta che i pomodori sono a mezza cottura, si devono mettere ancora bollenti nel passa pomodoro. Indi per cui si prendono con il “cuppino” (mestolo) e... Madre: “Arò sta u cuppin... ?” Rosetta: “Qualu cuppin” Madre: “U cuppino pè pummarol” Rosetta: “Io nun l'aggio vist” Madre: “Marò, l'ammu prestato a Ntunetta. Piccerè, vai addò Ntunett fa ampress, e vatt a piglià u cuppin” Rosetta: “Ma chill nu stann a durmì ?” Madre: “Rosè cu stu calor stann che finest aperte. Tu non sunà, vir che ce sta Michel che dorm ca finesta aperta. Chiammal e fatt rà u cuppin”.

A questo punto, Rosetta va sotto la finestra di Michele e alle 4:30 di mattina inizia a sussurrare: “Miché.... Miché...“

Il povero Michele che proprio 10 minuti prima aveva preso sonno per via del caldo insopportabile, nel bel mezzo di un sogno inizia a sentire una voce che sussurra “Miché... Miché...”. Si rigira nel letto e si rimette a dormire.

Rosetta che non vuole tornare a casa senza il “cuppino”, inizia a sussurrare più forte: “Michéé... Michéé !..“

A questo punto Michele si mette seduto sul letto, mezzo rimbambito per il sonno e il caldo, e inizia a pensare: “Ma chi caxxo è che mi chiama dalla finestra”. Si alza e “bam !!!”, dà una botta col ginocchio vicino al letto. “Porca mmmmmmm......” inizia a tirare giù i santi dal Paradiso. “Ma chi è ???!!!” urla Michele, affacciandosi dalla finestra.

“U cuppin... u cuppin...” sussurra Rosetta appena vede la sua figura nel buio.

“Ma qualu cuppin e chite straviv” esclama Michele, accorgendosi solo allora di essere in mutande e che sotto la finestra c'è Rosetta. “Ma porc... aspè Rosè” riesce a dire mentre cerca di infilarsi dei pantaloncini.

“Fa ampress... muovt” sussurra intanto Rosetta, che già si immagina la madre impaziente davanti alla tiana dei pomodori.

Finalmente Michele si affaccia alla finestra. “Ma che è succies...” (Che è successo)

“Miché, mi serve il cuppino grande, per le pummarole.” esclama Rosetta

Michele ancora mezzo assonnato, dopo 10 minuti di bestemmie in cucina, riesce a trovare il famoso cuppino.

“Oiccan 'o cuppin 'e soreta !” esclama Michele quasi lanciandolo dalla finestra.

Rosetta lo prende al volo e, senza nemmeno ringraziare, corre verso casa.

“U stiv a fà chistu cuppin” (Lo stavi fabbricando questo mestolo ?) urla la madre. E subito inizia a versare i pomodori bollenti, a questo punto stracotti, nell'imbuto del passapomodori.

Ora, un capitolo a parte andrebbe dedicato solo a questa macchina fantascientifica. Il passapomodori, che in origine ha una manovella da girare a mano, viene modificato in mille modi. Il modo più diffuso è quello di collegare il motore di una lavatrice. Ho sentito donne urlare, perché il marito aveva smontato la lavatrice per prendere il motore... “Facimm 'e pummarol e pò ce lo monto nata vota” esclama il marito “ma che monti che nun sai mettere manco un chiodo nel muro” grida la moglie.

Insomma, nello stesso periodo dei pomodori, i negozi di elettrodomestici festeggiano il Natale.

Un altro metodo, più “agreste” è collegare il motore del motozappa. C'è anche il vantaggio che la salsa assume quel sapore leggermente affumicato, che ne fa una prelibatezza unica.

Mio zio, falegname e tuttofare, lo modificò in modo da poter collegare un trapano. Ovviamente il trapano andava sotto sforzo e ogni tanto bisognava fermarsi per farlo raffreddare.

La mia famiglia, avendo una sola lavatrice e non possedendo un motozappa, sposò l'idea di mio zio, ma con una piccola variante. Madre: “Amma accattà pure nuie nu trapano. Ma no comm a chill 'e fratm, adda essere chiù guosso, pecché nun ce putimm fermà” (Dobbiamo comprare anche noi un trapano. Ma non come quello di mio fratello. Deve essere più grande perché non ci possiamo fermare)

Infatti, c'era una tacita gara tra famiglie a chi finiva per primo tutto il procedimento.

“Noi alle 6 abbiamo già finito” diceva uno. “Ehhh... nuie 'e 5 e mezza già stevem cu 'o panin mmano” (Noi alle 5:30 già stavamo col panino in mano) replicava un altro. E così via.

Insomma mio padre, per togliersi dalle orecchie eventuali riproveri di mia madre, andò alla ferramenta e comprò il trapano più potente che avevano. Era un trapano industriale della Stayer, 700 Kw, 450 cavalli, trenta pecore e sette cammelli incorporati. Amici miei, quel trapano avrebbe potuto far girare la ruota panoramica di Sidney.

Dovete sapere che tutti i compiti “tecnologici” erano affidati a me. Quindi collegai il super-trapano al passapomodoro e vai... Non facevano in tempo a mettere i pomodori nell'imbuto che già erano passati. Io gridavo: “Mettete, presto, non deve girare a vuoto che si rompe il filtro”. E in due persone mettevano i pomodori che venivano risucchiati nell'imbuto come se fosse un vortice marino del Triangolo delle Bermuda.

Insomma, in 10 minuti avevamo passato 2 quintali di pomodori.

Un altro grosso problema, che richiedeva tempo, era la chiusura delle bottiglie con il tappo di stagno. All'epoca esistevano delle specie di piccoli cucchiai che si mettevano sul tappo e poi, con un martelletto “Tac... tac.. tac...” lavorando piano piano il tappo si chiudeva attorno alla bocca della bottiglia.

Mio zio falegname, aveva invece un tappabottiglie con il quale, per mezzo di una leva azionata a mano, si tappava la bottiglia in un colpo solo, senza perdere tempo a martellare.

Mia madre: “Oi Pè” (Giuseppe) “amma accattà pure nuie chillu cos, nun putimm perdere tiempo cu 'e martllucc !” (Dobbiamo comprare anche noi quell'attrezzo, non possiamo perdere tempo con i martellini)

Mio padre: “Marì, ma pò chi 'o sap usà”

Io: “Io lo so fare, ho già visto come funziona” esclamavo entusiasta.

E' inutile che vi dica che mio padre andò alla ferramenta e comprò il tappabottiglie più potente che avevano. Signori miei, la Ferrarelle non aveva un attrezzo simile. Io mettevo tutte le bottiglie in ordine di altezza e “Trunc.. trunc... trunc...” non facevano in tempo a passarmele che già erano tappate.

Insomma, passammo dalle 5 ore di lavorazione a sole 3 ore, con il bidone pieno di bottiglie giĂ  sul bruciatore per la cottura finale. Infatti le bottiglie piene di sugo dovevano essere bollite di nuovo per distruggere eventuali batteri e fare in modo che si conservassero senza additivi per almeno un anno e mezzo.

“Miché... Miché... u cuppin“ “Ma Vafangul !”